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Autore: Adeia Di Elferas    16/12/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Tornando verso Forlì, Ottaviano preferì restare in coda e così la testa rimase a Caterina. Giacomo non si azzardava a starle al passo, perciò rimase mescolato ai soldati di scorta per quasi tutto il tragitto.

Quando rientrarono in città, ormai, la luce del giorno aveva fatto capolino e la neve iniziava a fermarsi per terra, creando una sottile coltre sotto le zampe dei cavalli. La Contessa invitò tanto il figlio, quando il marito a mettersi ai suoi fianchi, in modo da conferirle un'aria più autorevole.

Gli abitanti di Forlì, già svegli per un nuovo giorno di lavoro, smisero per un attimo di affaccendarsi e si fermarono per guardare sfilare di nuovo la loro signora coi suoi soldati.

Vederla rientrare in città senza più i francesi ala seguito era un vero sollievo per tutti quanti.

Benché fossero alleati, la presenza degli uomini di Carlo VIII aveva reso i sudditi della Contessa molto agitati. Saperli partiti – dato che la loro signora aveva fatto sapere tramite il bargello cittadino e le chiacchiere del Novacula che non sarebbe rientrata in città prima di averli visti lasciare le sue terre coi suoi occhi – risollevò parecchio lo spirito dei forlivesi, soprattutto di quelli che avevano toccato con mano la violenza dei francesi durante le agitazioni di Porta Schiavonia.

Mentre attraversavano l'arteria principale della città, Caterina notò come suo figlio Ottaviano stesse osservando il popolo con il medesimo misto di sdegno e preoccupazione che spesso aveva acceso gli occhi scuri di Girolamo.

Giacomo, invece, tenendo le pupille puntate dritto davanti a sé, cercava palesemente di non vedere la gente assiepata lungo la strada, come se ne avesse solo paura.

In effetti, a un controllo più attento, la Contessa si rese conto che molti forlivesi fissavano il Governatore Generale con occhio malevolo e qualcuno dava di gomito al vicino per sussurrargli nell'orecchio qualcosa che suscitava pronte risposte indignate.

Doveva fare qualcosa per risanare quella situazione che, presto o tardi, sarebbe diventata pericolosa per tutti. Ma come poteva fare?

Una volta alla rocca, Ottaviano consegnò in fretta il suo cavallo agli stallieri e poi sparì, probabilmente diretto alle sue stanze per riposare.

Caterina, invece, indugiò un attimo nelle stalle. Aspettò che togliessero i finimenti alla sua cavalcatura e poi fece un rapido giro tra le bestie, per controllare che tutto fosse in ordine.

Nemmeno Giacomo se n'era andato e aspettava sull'ingresso. Quando la Contessa se ne rese conto, lasciò perdere i cavalli e andò dal marito. Senza dirsi nulla, si guardarono a lungo, entrambi ripensando al loro primo vero incontro, avvenuto proprio in quella stalla.

“Puoi andare. Sarai stanco.” disse piano Caterina, alla fine.

L'uomo, un po' deluso per l'impersonalità di quella frase, soprattutto perché era immerso nei ricordi esattamente come la sua donna, chinò il capo e si allontanò senza nemmeno provare ad alimentare una conversazione.

La Contessa aspettò qualche minuto e poi camminò lentamente, attraversando con calma il cortile che quella mattina era insolitamente tranquillo. La rocca ci avrebbe messo un po' a tornare alla vita di sempre. Tutti quanti avevano passato la notte insonne e, ora che la minaccia francese sembrava lontana, si respirava già un sorprendente clima di rilassatezza.

Mentre raggiungeva la sua camera, dopo aver lasciato detto al castellano che nessuno la disturbasse almeno fino al pomeriggio, Caterina ricominciò a sentire un antico morso nel centro del petto. Era un bisogno così prepotente da risultarle quasi incomprensibile. In quei giorni aveva dovuto lottare più di una volta con quella fame disperata che l'assenza di Giacomo nelle sue notti non aveva fatto altro che acuire, fino a renderla a volte molto difficile da sopportare e impossibile da ignorare.

Ora, malgrado fosse stremata dall'interminabile notte appena passata, quel fuoco la stava divorando e cominciava a credere che non sarebbe riuscita a resistere più.

Di tutte le debolezze, vista la sua storia passata, non credeva di poter avere proprio quella.

E invece sembrava che i vizi – non solo le virtù – degli Sforza pulsassero in lei con una forza inaudita.

La tentazione era forte, il desiderio era tanto prorompente da oscurare ogni altra sensazione, ma non voleva cedere. Sapeva che se si fosse arresa così facilmente, Giacomo non l'avrebbe avuta vinta solo quella volta, ma sempre.

Ricacciando con immensa difficoltà tutto quello che l'animava nel fondo della sua anima, Caterina si risolse a non assecondare le necessità della sua natura.

Appena fu davanti alla porta della sua stanza, però, avvertì un fruscìo alle sue spalle e quando si voltò vide Giacomo, appoggiato alla parete, che l'attendeva, come aveva fatto decine e decine di volte quando, anni prima, la loro storia era solo all'inizio.

Quella vista fu troppo e Caterina, vinta dalla stanchezza e dalla tensione accumulate quella notte, lo afferrò per il lembo del giaccotto imbottito e lo trascinò in stanza.

“Allora vuol dire che mi hai perdonato?” chiese Giacomo, senza fiato, mentre la sua donna chiudeva la porta a chiave.

“No.” mise in chiaro Caterina, cominciando a spogliarlo: “È che da sola non mi basto più.”

 

Avvisata del ritorno della sua signora, la cameriera personale della Contessa andò alla camera che la sua signora occupava da quando aveva lasciato il Paradiso, per aiutarla a svestirsi e indossare gli abiti da riposo, ma trovò la porta chiusa.

Perplessa, tentò altre due volte d'aprire, ma dovette arrendersi all'evidenza. Stava per voltare i tacchi, quando un rumore oltre la porta attirò la sua attenzione. Si fece allerta e accostò l'orecchio al legno.

I suoni inconfondibili che sentì le tolsero ogni dubbio.

Tornandosene sui suoi passi, la donna si domandò cosa mai fosse successo quella notte per riavvicinare tanto la sua signora al suo marito segreto. Sempre che nella stanza con la Contessa ci fosse davvero il Governatore Generale...

 

La neve continuava a cadere leggera, raggelando la città e le campagne circostante, mentre nella camera della Contessa si era accumulato un piacevole tepore.

Caterina, tanto assonnata da stentare a tenere ancora gli occhi aperti, teneva il marito stretto a sé come se avesse paura di vederlo scappare.

Era sfinita, ma finalmente la sete che la bruciava era stata in parte placata e i suoi sensi avevano ritrovato la pace che cercavano da giorni.

Giacomo non riusciva ancora a credere di essere riuscito a riavere la moglie dopo oltre un mese.

Un mese di tormenti che a lui era sembrato un secolo.

Neppure adesso, che l'aveva su di sé, calda e accogliente, i capelli sparsi sul suo petto e il respiro leggero sulla spalla, poteva persuadersi di avercela fatta.

“Sarai Barone di Francia.” sussurrò Caterina, la voce sottile, tipica di quando si sta per scivolare nel sonno.

“Come?” chiese Giacomo, certo di aver capito male.

Le mani lisce della Contessa lo accarezzarono leggermente, mentre ribadiva: “Dovevamo scegliere tra questo e una condotta militare. Così sarai Barone di Francia.”

Capendo che in quel plurale c'entrava anche Tommaso, Giacomo provò a dire: “Perché non avete chiesto il mio parere?”

“Perché, tu che avresti scelto?” chiese Caterina, con una nota di impazienza.

L'uomo non rispose, vergognandosi improvvisamente delle propria codardia. Al suo posto, ne era certo, sua moglie avrebbe preferito partire per il fronte, piuttosto che prendersi un titolo nobiliare tanto inutile quanto vago.

“Appunto.” sussurrò la Contessa, interpretando bene il silenzio del marito.

Si accomodò un momento, per essere ancora più vicina a lui e sospirò: “Quindi adesso stai zitto e dormi.”

Mentre la donna scivolava silenziosamente nel sonno sordo di chi ha avuto una giornata lunghissima, Giacomo le passò delicatamente le dita tra i lunghi capelli e solo dopo un po' riuscì ad assopirsi.

 

Quel 23 novembre, a Firenze, Savonarola stava dando il meglio di sé in una predica che stava scuotendo molte anime.

Il soggetto delle parole frementi del domenicano era Giovanni Pico della Mirandola, morto ormai da giorni, ma ancora vivo tanto nella memoria della città, quanto nelle lacrime di Girolamo Benivieni, i cui servi avevano già dovuto far fronte a due suoi tentativi di suicidio, debitamente nascosti, per evitare accuse gravi da parte di Santa Madre Chiesa.

Si trattava di un elogio funebre, ma per certi versi quello di Savonarola sembrava un capo d'accusa esposto in un tribunale.

Di Pico ricordò l'intelligenza e la buona volontà, ma anche i suoi peccati, veri o presunti che fossero, e parve che i secondi oscurassero in tutto e per tutto le prime.

“Ho avuto una rivelazione.” disse a un certo punto il domenicano, facendo un attimo di silenzio per far sì che il pubblico accalcato nella chiesa si chiedesse con angoscia a cosa si riferisse.

Da quando i francesi avevano fatto il loro ingresso in città, patrocinando in modo forzoso il nuovo governo dei Popolani, il frate non aveva fatto altro che ricordare a tutti come il re di Francia fosse il Grande Riformatore, il Salvatore della Chiesa. Dunque fu legittimo per tutti pensare che anche quella rivelazione riguardasse il francese, benché fosse nel mezzo di un elogio funebre per un altro.

E invece il protagonista del vaticinio era proprio Pico della Mirandola.

“Dio, nella sua grandezza, mi ha permesso di vedere ove si trova adesso l'anima del nostro fratello Pico!” tuonò Savonarola e subito esclamazioni di sorpresa si sparsero per la chiesa, e anche fuori, dove alcuni strilloni passavano le parole gridate dal domenicano, affinché tutta Firenze sentisse.

“Egli è in Purgatorio, a espiare i suoi peccati. La sua anima non è perduta, ma le sue colpe sono grandi. Preghiamo per il nostro fratello nella fede, affinché Dio nella sua misericordia possa al fine perdonarlo e permettergli di accedere alla sua luce perpetua!” scandì Savonarola, i cui occhi rapaci indugiarono nelle prime file, fino a trovare Benivieni che, a discapito di ogni prudenza, era accorso a quell'elogio e se ne stava curvo e in lacrime.

“Non ha peccato da solo – continuò il frate, concentrandosi sull'amante del defunto Pico, come ad accusarlo apertamente – ma ora da solo sta scontando il prezzo dei suoi errori! E patirà le condanne del Purgatorio fino a che Dio non deciderà di salvarlo e di farlo ascendere con gli altri salvi al Paradiso!”

Girolamo Benivieni si sentì accoltellato alle spalle, da quelle frasi. Era come dire che era solo colpa sua se il suo unico amore era stato condannato a scontare una pena tremenda.

Uno sguardo attorno a sé, però, fece rinsavire l'uomo, che si accorse di quanti lo osservavano incuriositi. Si era ripromesso di mantenere un profilo rispettabile, per far sì che il sacrificio di Pico non fosse vano e così avrebbe fatto.

Si asciugò con difficoltà le lacrime e raddrizzò la schiena.

Avevano detto che Pico era morto per una 'malattie di Venere', di quelle nuove, arrivate da oltre il mare quando il genovese Colombo aveva osato portare i barbari e le loro pesti in Europa.

Girolamo non vi aveva creduto nemmeno per un istante. Il giorno prima il suo Pico stava bene e il giorno dopo era morente, preda di atroci dolori e quasi privo di coscienza.

Forse era azzardato pensarlo, ma a Benivieni sembrava un morte molto simile a quella che aveva colpito un mese prima il loro amico Poliziano. Anche per lui, però, si era parlato di misteriose malattie esotiche, di certo frutto della sua vita disordinata.

Mentre Savonarola ancora proseguiva con le sue dure accuse, Girolamo si allentò il colletto della giacca imbottita e si chiese se anche lui sarebbe stato a breve trovato riverso nel suo letto, sporco di vomito e schiuma, ucciso da un qualche sconosciuto male 'da selvaggio'.

 

“Forse dovrei scriverle.” disse Ludovico, misurando a grandi passi il salone, le mani dietro la schiena e la zazzerra di capelli castani che ricadeva in avanti a nascondergli il viso.

“E a che servirebbe?” chiese Beatrice, una mano sul ventre già prominente e un'altra sulla scrivania del cancelliere Calco: “Tanto lo saprà già. La morte di un Duca non passa inosservata.”

Il Moro alzò le spalle: “Lo so, lo so... Ma...”

“Ma, cosa?” La Duchessa di Milano era impaziente: “Suo marito è l'Imperatore, e l'Imperatore è stato avvisato in via ufficiale non appena Gian Galeazzo è morto e tu hai preso il suo posto. È ovvio che Bianca Maria sa già tutto.”

“È solo che...” Ludovico smise di camminare avanti e indietro, bloccandosi all'altezza della finestra: “Insomma, è passato più di un mese... Era suo fratello... Credo che sarebbe segno di buona educazione almeno scriverle due righe di condoglianze.”

Beatrice, che trovava quelle remore del marito quasi infantili, sbuffò e concluse: “Se proprio è una cosa a cui tieni, allora fallo.”

Il Moro annuì tra sé e decise che quello stesso pomeriggio avrebbe preparato un biglietto per sua nipote. Era fondamentale tenere un buon rapporto con l'Impero. Non aveva ancora capito quanto e se Bianca Maria e l'Imperatore avessero legato, ma era certo che una gentilezza – anche se in ritardo e un po' ipocrita – alla moglie avrebbe fatto piacere a Massimiliano.

Beatrice guardava il Duca di Milano con circospezione. Se si era dimostrata tanto ostile a quell'idea di Ludovico non era perché non fosse d'accordo, anzi, trovava che il marito avesse aspettato decisamente troppo a scrivere alla nipote.

Il suo atteggiamento era da imputarsi unicamente ai sospetti che aveva cominciato ad avere qualche giorno addietro.

Da quando Lucrezia Crivelli era nel novero delle sue dame di compagnia, Ludovico aveva cominciato a provare uno strano interesse nell'andare nella stanza di Beatrice negli orari più stravaganti, come se sperasse di trovarla circondata proprio dalle sue damigelle.

Il modo in cui il Moro guardava la Crivelli ricordava troppo quello in cui aveva guardato in passato la Gallerani e la Duchessa non riusciva a sopportarlo.

“Piuttosto – fece di punto in bianco il Duca, piantandosi i pugni sui fianchi e accigliandosi – non sei ancora andata a far visita a tua cugina Isabella.”

“E non ho intenzione di farlo.” ribatté prontamente Beatrice: “Tra me e Isabella non è mai corso buon sangue e non credo che la morte di suo marito possa aver migliorato le cose. E poi c'è già andata mia sorella, a trovarla. Un'Este su due basta e avanza. Senza contare che è un'Aragona e, se te ne fossi già dimenticato, noi siamo in guerra contro suo padre.”

Ludovico sbuffò: “Quando fai così proprio non ti capisco.”

Beatrice stava per ribattere in qualche modo, magari aggiungendo alle sue ragioni il fatto che aveva troppi impegni a corte – in tal caso avrebbe anche ricordato al marito come la loro corte fosse diventata degna di tal nome solo grazie a lei che, sfruttando le conoscenze di suo padre, aveva chiamato a Milano alcuni tra i più importanti artisti e letterati d'Italia – ma proprio in quel momento il cancelliere Calco aveva fatto ritorno.

“Allora?” chiese il Moro, avvicinandosi a lui con una certa ansia.

Calco incrociò le braccia sul petto e confermò: “Pare proprio che Carlo si sia portato a Siena. Si è ricongiunto coi suoi generali che stavano nelle terre di vostra nipote Caterina e ora non gli resta che puntare a Roma.”

“E il papa?” chiese Beatrice, ma Ludovico la mise a tacere con un cenno della mano, ripetendo, però, la stessa domanda che aveva appena fatto lei, seppur con parole diverse: “E quel diavolo di un Borja?”

Scottata da quel gesto privo di ogni rispetto, la Duchessa strinse le labbra e, afferrando la turchesca per sollevarne un po' la lunga gonna a tubo, uscì dal salone a passo di marcia, ignorata tanto dal cancelliere, quando dal Duca, che le dedicò appena un'occhiata di disappunto.

Calco respirò a fondo e poi concluse: “Le nostre spie non hanno ancora fatto sapere nulla. Per ora sappiamo solo che ha cercato di contrattare la liberazione della sua amante e che vostro fratello, il Cardinale Ascanio, è ancora nelle prigioni di Castel Sant'Angelo.”

“Cane d'uno spagnolo...” borbottò tra sé Ludovico.

 

Il re di Francia aveva appena preparato i documenti necessari a dichiarare il cavaliere Giacomo Feo di Forlì suo Barone. Aveva consegnato tutto a Don Giuliano di Ligny, che avrebbe avuto il compito delicato di passare le carte a un messaggero affidabile, sceglierne la scorta armata e ordinargli di portare il tutto alla Contessa Sforza Riario.

Galeazzo Sanseverino, che già aveva argomentato la sua richiesta al re più volte, senza mai ottenere una vera risposta, si fece avanti quando fu il suo turno ed espose le grandi occasioni che la liberazione di Giulia e Girolama Farnese, assieme con Adriana Mila, avrebbe portato con sé.

Carlo ascoltò attentamente. Ora che l'invasione di Roma era prossima, il roboante re di Francia aveva riscoperto tutto l'interesse di un tempo per il papa e quello che lo riguardava.

Senza porre altro indugio, come se fosse sempre stato d'accordo con quella linea d'azione, il giovane monarca firmò un ordine scritto da far consegnare a Yves d'Alègre, affinché restituisse i suoi ostaggi al Santo Padre.

Galeazzo ringraziò Carlo VIII con una decina di inchini e raggiunse il suo padiglione quasi di corsa.

Prese il necessario per scrivere e si mise subito all'opera.

Dopo aver spiegato brevemente quello che aveva detto e fatto per convincere Carlo, aggiunse: 'il re mi rispose benignamente che non solo voleva che fossero liberate ma che prima di sera avrebbe mandato un suo uomo di conto per accompagnarle a Roma'.

Appena siglò il messaggio, fece partire una staffetta rapida, affinché giungesse a Roma prima della liberata Giulia Farnese. Con quella mosse sperava di poter tirare il papa dalla sua e quindi dalla parte del re di Francia.

A quel modo, la guerra sarebbe stata vinta senza nemmeno sparare un colpo di cannone alla Santa Cattedra di Pietro.

   
 
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