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Autore: lady igraine    02/01/2017    3 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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À Demian


Capitolo terzo

Inconciliabile

 


Nel buio della sera le luci al neon dell’insegna dell’Edonè andavano a intermittenza lanciando riverberi azzurri, tristi e tetri, sugli alberi spogli del viale.

Era estraniante guardare il locale dall’esterno, ascoltare la musica rimbombare tra quelle mura familiari e arrivare al suo orecchio in maniera indefinita. Si era seduto sul muretto del parco della stazione, da quella posizione aveva la perfetta visuale del parcheggio quasi deserto non fosse stato per un gruppo di motorini ammassati in un angolo e qualche macchina non messa troppo bene.

Forse stavano suonando i Sex Pistols, non ne era certo ma le urla stonate di “Anarchy in the U.K” erano difficili da confondere, non bisognava saper cantare, bastava urlarla con tutto il fiato e mangiare le parole con il nervoso e la rabbia. Insieme, grida chiassose d’incitamento, risate sguaiate di chi con l’alcool ci è andato giù piuttosto pesante.

Non bastava la strada che li divideva a rendere quel baccano meno assordante, ma importava poco visto che il locale sorgeva sul viale dietro la stazione, in una zona particolarmente malfamata e frequentata solamente da quella parte di gioventù nostalgica ancora legata ad un passato vecchio di almeno un ventennio, di punk, di skinhead, di gabber.

Rilasciò una piccola nuvola di condensa e si strinse nelle spalle, per combattere il freddo di quella serata iniziata male. Le mani pendevano nel vuoto, tremavano, ma non era sicuro di non riuscire a tenerle ferme solo per i brividi. Si sentiva teso come una corda di violino e continuava a tendere le dita e a contrarle attorno al tirapugni, ancora e ancora, come per instillarsi una calma che proprio non riusciva a racimolare. I suoi amici ridevano tra di loro, chiacchierando del più e del meno con una semplicità ai suoi occhi disarmante, mentre Demian riusciva solo a restare raccolto nel proprio mutismo. L’ilarità con cui scherzavano lo turbava e scombussolava più di tutto, iniziava a nascere in lui la speranza che quella situazione si sarebbe risolta con un nulla di fatto, una spedizione punitiva a vuoto, ché lui non aveva voglia di punire nessuno, voleva solo tornarsene a casa e che la vita gli facesse meno schifo.

Eppure non finiva mai come desiderava, Dem stesso aveva iniziato ad ignorare le proprie aspettative e a seppellirle, perché lo sapeva fin troppo bene che tutto sarebbe sempre andato storto e, volente o nolente, avrebbe dovuto ingoiare i sensi di colpa ed il disagio e tutto quello che si portavano dietro.

Si convinceva ogni volta che sarebbe stata l’ultima, che avrebbe lasciato perdere Niko e tutto lo schifo che circondava quella vita, che non li avrebbe più seguiti perché lui non era questo, non poteva essere solo questo, doveva esserci di più, doveva avere un luogo vero a cui fare ritorno, non era possibile che da qualche parte non ci fosse un cazzo di posto anche per lui. Alla fine però, la verità era soverchiante più di qualunque sciocchezza di cui tentasse di convincersi, il terrore di non avere qualcuno, di non avere nulla a cui aggrapparsi, era più forte di tutto.

Lo rendeva vile, cieco e succube.

E lo faceva vergognare di se stesso, della propria pateticità.

Demian non sapeva sopportarsi, e questa era l’unica certezza nella sua vita, non sopportava di accostarsi alle persone normali. Guardò distrattamente Nicolas ed i suoi ricci tagliati corti, quell’aria crudele e il suo sorriso strano, che sembrava una piaga, una linea tagliata netta sul volto duro; guardò Davide ed il suo non rendersi mai conto di niente, una vena d’innocenza che forse era solo troppo uso di acidi, gli infiniti piercing e quei modi goffi di muoversi, la cresta biondo platino e la testa rasata ai lati. E poi c’era Andrea, che non ascoltava davvero e nascondeva parte del viso dietro ai capelli lunghi e annodati, e Teo che voleva solo litigare ed emanava la familiare aura di sprezzo e collera repressa; Alex che fungeva da cuscinetto tra il più grande e incattivito del gruppo e il più sciocco e inconsapevole.

Ironicamente proprio loro, Niko in prima linea, lo avevano accolto, raccolto quasi con il cucchiaino sulla strada dopo che era stato picchiato a sangue per l’ennesima volta tanto da non riuscire più a rialzarsi.


 «Sei forte piccoletto!» esclama uno sconosciuto accostandosi a lui.
Demian sente solo la bocca piena di sangue, a malapena riesce ad alzare gli occhi sul nuovo venuto. Non si aspetta aiuto, si prepara solo ad incassare altri colpi, ma si ritrova un ragazzo più grande accovacciato davanti a lui, a fissarlo con un sorriso sghembo inquietante.
«Te la sei cercata» gli fa notare il ragazzo, ma sembra più una presa in giro che un rimprovero.
È vero, se l’è cercata, se si può definire cercare rogne il mandare a cagare un perfetto stronzo che non ha fatto altro che sfotterlo definendolo scherzo della natura.

Non aveva potuto tacere, anche se loro erano in tre e lui un fottuto albino del cazzo troppo debole per potersi difendere in qualunque modo.

Se non voleva aiutarlo né pestarlo più di quanto fosse possibile vista la situazione perché diavolo restava lì a umiliarlo con la sua sola presenza?

«Che cazzo vuoi?» cerca di dirlo con freddezza, la voce però è spezzata e le parole biascicate.
«Mi piace il tuo carattere ragazzino, veramente.  Io sono Nicolas, ma chiamami Niko, è decisamente meno da figlio di papà!»

Questo si è fumato il cervello, è certo. Riesco a malapena a parlare, per non dire respirare, e lui mi elucubra sul suo stupido nome?

Suo malgrado, per quanto gli riesca, abbozza un sorriso, mostrando i denti sporchi di rosso.
«De…mia...n» sussurra e Niko, allargando il sorriso, gli prende la mano e gliela stringe. Poi lo aiuta ad alzarsi, passandosi il braccio di Demian sulle spalle e caricandolo quasi completamente di peso su di sé.
«Mi piace il tuo stile, davvero. Vieni con me Dem, la prossima volta vedrò di coprirti io le spalle»


Chiuse gli occhi e rilasciò, insieme al fumo della sigaretta appena accesa, l’ennesimo, pesante sospiro di resa. Aveva un debito con loro.

Aveva un debito con Nicolas.

Era sempre per quel debito che non sapeva dire di no, che si apprestava ogni volta a compiere azioni che lo rendevano indegno a se stesso, che poi lo sapeva che ci avrebbe messo giorni, forse settimane, per riuscire a guardarsi allo specchio senza disprezzarsi troppo. Poteva solo soffocare gli scrupoli e i rimorsi o non sarebbe riuscito a fare nulla, solo a causare disappunto. Li avrebbe tenuti per dopo, tutti i suoi inutili tentennamenti, li avrebbe fatti sfilare davanti agli occhi prima di andare a dormire, nel migliore dei casi li avrebbe vomitati nel primo bagno quando fosse rimasto solo.

La realtà dei fatti era che non importava minimamente come si sentisse, bastava avere l’aria giusta, l’atteggiamento disinvolto, quasi annoiato, per non deludere le aspettative di nessuno e non contrapporsi all’entusiasmo dei compagni.

Ad un tratto un ragazzo uscì discretamente dal locale e attraversò a passo svelto il parcheggio per raggiungere il parco, poco lontano da dove si erano appostati loro. Demian fu il primo a notarlo, alzò pigramente la testa, la sigaretta quasi del tutto consumata rimase mollemente sospesa fra le sue dita mentre lo seguiva con lo sguardo senza riuscire a parlare.

Aveva trattenuto il respiro per qualche istante.

Sembrava un ragazzino, una presenza molto poco significativa. Non troppo alto, magro di quella corporatura scattante e nervosa, una zazzera di capelli spettinati che la luce porosa dei lampioni gli era parso avesse colorato di biondo, ma non ne era certo, la sua vista era debole e discutibile.

Ora che finalmente lo aveva visto voleva veramente solo tornarsene a casa e non saperne nulla, quello stupido era palesemente più indifeso di quanto non lo fosse stato lui stesso quel giorno, quando Niko lo aveva aiutato e persino respirare era troppo difficile.

Rimase in silenzio, in attesa.

Quasi si convinse che gli altri non ci avrebbero fatto caso, se fosse rimasto rigido come nulla fosse, ma ovviamente aveva chiesto ancora una volta troppo: Niko gli tirò una leggera gomitata al braccio ammiccando con la testa verso il nuovo venuto, con un’espressione seria e sadica che gli si inerpicò in un brivido su per ogni vertebra della schiena.

Non avrebbe potuto fermarli e quasi gli venne da ridere.

Era ridicolo, non ci avrebbe nemmeno provato, avrebbe fatto la sua parte. Spense il mozzicone della sigaretta contro il muro e scese con un leggero slancio. La colpa non era sua, era di quel ragazzino, doveva essere proprio uno sprovveduto per non averli notati in quell’oscurità indefinita. Certe cose erano semplice questione d’istinto di sopravvivenza, in un mondo che ti mangiava vivo se non ne possedevi un briciolo eri fottuto e la colpa era solo tua.

Niko fece cenno a tutti di attendere sollevando un braccio. Un’altra figura, in quel parco abbandonato che era il loro quartiere e ritrovo, si stava avvicinando al ragazzino. Doveva essere l’acquirente venuto a ritirare la sua dose. Una sottile nausea gli lasciò in bocca il sapore di bile quando realizzò davvero cosa stesse per accadere. Sembrava troppo piccolo, si chiese se anche lui a suo tempo, nei suoi disagiati quattordici anni, apparisse tanto grottesco in quelle vesti. Tutto voleva meno che essere lì, ma non era una novità. Quando si trovava in un posto, immancabilmente desiderava essere altrove, in nessun luogo si sentiva a suo agio, era dannatamente inadatto a qualunque cosa facesse. Per questo chiuse gli occhi, si concentrò sul proprio respiro e ignorò la nausea e il malessere che gli comprimevano stomaco e polmoni.
Non importa se quel moccioso è la metà di te, non importa.

Una mano si poggiò sulla sua spalla, stringendola in un gesto d’incoraggiamento «Ehi Dem, svegliati. Dobbiamo dargli il benvenuto!»

Nicolas non era del tutto malvagio, anche se poteva sembrarlo, all’apparenza. Pretendeva solo ciò che sentiva spettargli, non sapeva nemmeno lui cosa volesse, ma sapeva come ottenerlo e il metodo importava poco. Proteggeva ciò che aveva, e non era molto.
Era spietato sì, ma non malvagio.

La vita attraverso quelle iridi d’acqua sporca era difficile da comprendere, Niko non aveva la tradizionale idea di bene e male, se sentiva l’impulso di fare qualcosa, quella cosa doveva essere naturalmente giusta, e lui seguiva solo se stesso, in maniera grottesca e incurante. Demian lo aveva capito nel tempo, aveva anche condiviso quell’ideale, ma non aveva la forza di perseguirlo con la coscienza intatta, non aveva quella libertà di spirito per convivere con se stesso, dopo.
Decisamente però non gli riusciva di biasimarlo, quell’assurdo ragazzo di ventidue anni con un’esperienza di vita da far invidia ad un cinquantenne e l’entusiasmo di un bambino mentre tortura una lucertola, lo disturbava solo il fatto che i bersagli di Niko purtroppo fossero ben più grandi di un semplice animaletto raccolto in giardino.

La bocca contratta in una linea dura ed esangue, non rispose all’amico, si limitò a seguire Alex, Dave, Teo e Andrea.

«Ehi, pezzo di merda!» apostrofò Teo il ragazzino.

Questo si volse, il volto smunto corrucciato, e Dem poté vedere i suoi occhi enormi dilatarsi per lo stupore e sciogliersi in un istante in paura liquida. Era davvero biondo, con tondi occhi azzurri e tratti sottili, un po’ efebici, troppo infantili. Doveva essere straniero.

Perché un moccioso simile, un rametto secco e spigoloso fin troppo incline a spezzarsi al minimo soffio di vento, era invischiato in simili affari? Lui e i suoi stupidi amici dovevano necessariamente dare fastidio a Nicolas nel loro giocare a fare gli adulti?

«Maledizione» masticò a bassa voce, tra sé e sé, in un moto d’insofferente frustrazione. Il ragazzo nel frattempo era indietreggiato di qualche passo e stava cercando di dare un contegno alla propria espressione.

«Volete della roba?» mormorò in maniera vaga, con un accento decisamente straniero, forse slavo.
Un altro passo indietro ed incespicò nei propri piedi, gli occhi spaventati vagavano attorno, alla ricerca di una via di fuga o forse di qualche amico che fosse uscito a ripescarlo. Nessuno aveva fatto capolino dall’ingresso del locale però, era completamente solo, e forse era meglio così. Niko non si fermava davanti ad un mero numero, non aveva senso della misura, se dovevano far del male a qualcuno meglio fosse solamente uno.

I suoi compagni si erano allargati avanzando e lentamente lo avevano accerchiato, chiudendo ogni scappatoia.

Il terrore su quel volto puerile Dem lo aveva conosciuto molto bene, era stato il suo, molto tempo prima. Insieme al rammarico, a quella mano crudele che gli stringeva le viscere in una morsa dolorosa, come un’onda d’adrenalina che riscosse tutti i nervi gli montò dentro una collera cieca a meschina. Aveva subito tanto e così a lungo che era giusto, ci doveva essere una sana giustizia da qualche parte che riportasse l’equilibrio, aveva bisogno di sapere che non era l’unico ad aver dovuto sopportare l’umiliazione e quel maledetto senso d’impotenza che attanaglia solo chi non è all’altezza di potersi difendere.

E se non era la vita a dimostrargli che tutti vivevano in un maledetto pantano in cui ogni giorno si affondava un poco, allora ci avrebbe pensato da solo a tirare con sé altre persone. Anche il ragazzino sarebbe sopravvissuto, proprio come era sopravvissuto lui, e magari avrebbe imparato anche a fare meno cazzate in futuro e a difendersi.
«Non ho un cazzo adesso con me» aveva continuato quello, la voce esile tremava «State perdendo tempo»

«È un peccato che sia da solo» osservò Teo con noia «Avrei voluto giocare di più»

Alex sbuffò, sollevando appena le spalle «Meno rotture» constatò tranquillo, facendo scrocchiare le dita in un gesto intimidatorio.
Fu la risata di Niko però, il suono più agghiacciante, ché Nicolas non rideva, raschiava la gola in un ringhio quasi animalesco «Avete sbagliato a venire qui» disse gelido, con il volto sfigurato dal familiare sorriso pericoloso da attaccabrighe «Lo dirai anche ai tuoi amici, quando potrai parlare di nuovo»

Il ragazzo s’irrigidì, ora pienamente consapevole del pericolo, e si guardò ancora una volta attorno, calcolando le possibili vie di fuga. Fu naturale che i suoi occhi si posassero su di lui, Demian lo aspettava. Prima ancora che iniziasse a correre, Dem lo aveva capito, lo aveva sentito che ci avrebbe provato: aveva cercato il punto debole e l’aveva individuato, tra tutti, in lui.
Fremette d’indignazione nel rendersi conto di essere stato considerato, come sempre, il più scadente, l’anello debole. Strinse i denti e quando il biondino gli andò addosso cercando di abbatterlo con una spallata, nonostante fosse pronto quasi perse l’equilibrio, ma avendolo previsto riuscì a placcarlo tirandogli una ginocchiata nello stomaco con tutta la forza che aveva.
Voleva fargli male, punirlo per aver dubitato di lui solo per il suo aspetto diafano.

Lui non era un debole.

Voleva vendicarsi, ché in quegli occhi spaventati non riusciva a vederci la disperazione, non più, vi leggeva unicamente sprezzo, l’arroganza di mille volti, di tutte le persone che lo avevano sopraffatto sempre nella sua vita solo perché avevano colto la sua fragilità, la grettezza di chi non gli aveva mai mostrato un briciolo di pietà, gli occhi di tutti coloro che l’avevano fatto sentire un lebbroso, sbagliato, inadeguato.

Impotente.

Che lo avevano considerato o avvicinato soltanto per ricordargli che non valeva niente.
Il ragazzo boccheggiò sulla sua spalla per un attimo, la bocca spalancata in un moto di stupore e dolore, poi cadde a peso morto su di lui e Demian lo lasciò scivolare a terra, pietrificato dall’improvvisa consapevolezza.

Fu Alex ad afferrare il ragazzino per la giacca, impedendogli di abbattersi al suolo, lo strattonò bruscamente allontanandolo da lui.

E Demian lo guardò immobile, inaspettatamente stanco, come svuotato. Perché era successo di nuovo, il suo orgoglio era stato troppo spesso ferito ed ora non riusciva a controllarlo, si sentiva spinto a reagire come se ogni gesto fosse un insulto alla propria persona. Ed ora era già pentito, avrebbe dovuto permettergli di scappare, lo sapeva fin troppo bene.

Teo gli concesse un sorriso feroce e stranamente compiaciuto «Bel colpo», gli disse in un raro apprezzamento, prima di caricare il braccio e colpire il ragazzo in pieno stomaco. Ne seguì un lamento raccapricciante da animale ferito, un singulto che non aveva voce.

Demian chiuse gli occhi piano, poi li strinse, strinse i pugni, prese fiato. Non fece nulla, non avrebbe potuto nemmeno volendo, rimase come paralizzato davanti agli amici che a turno si divertivano a massacrare un indifeso. Rimase fermo per un tempo che gli parve infinito, e non c’era lui, solo i suoni e il senso di colpa, e quel “Perché non l’hai lasciato andare? Lo sapevi come sarebbe finita, lo sai sempre”.

I gemiti erano ormai sfumati in un mormorio leggero, non gli vedeva il volto perché era letteralmente sopraffatto dai suoi compagni, nessuno di loro conosceva la compassione, forse come lui ne avevano ricevuta troppo poca nella loro penosa esistenza, per poterne provare.

Al diavolo cosa avrebbe pensato quel bastardo di Teo, avresti dovuto farlo scappare.

Dovresti fermarli.

Eppure le mani avevano ripreso a tremare troppo, non ci sarebbe riuscito, e non per paura di loro, quello mai. Se si fosse messo contro Niko conosceva bene quali sarebbero state le conseguenze, piuttosto prevedibili tra le altre cose, ma le avrebbe sopportate, non sarebbe stato nulla di diverso dal passato. Dopo però, che ne sarebbe stato di lui?

Aveva già perso a sufficienza, la vita gli aveva chiesto sempre troppo e Dem aveva già pagato abbastanza, non era giusto rinunciare ancora per uno sconosciuto che non l’avrebbe nemmeno ringraziato.

Come prevedibile, Teo non gli permise di restarsene con le mani in mano «Ehi scherzo della natura, non ti prendi la tua parte? O hai paura di sporcare le tue manine bianche?» lo richiamò ad un tratto, dopo essersi reso conto che non aveva fatto nemmeno un passo.

Era una sfida quella, Teo lo riteneva uno smidollato, aveva imparato ad accettare, pur con insofferenza, la sua presenza solo per Nicolas, ma non poteva sopportarlo ed il sentimento di sprezzo era reciproco. Gli altri ragazzi no, loro lo rispettavano, ma Teo era il più grande, il più violento e decisamente il più figlio di puttana tra tutti, quello che ci andava sempre troppo pesante qualunque cosa facesse e che avrebbe voluto prendere il suo faccino e spiaccicarlo al muro fin dal primo giorno in cui si erano incontrati.

Alex stava tenendo il ragazzo da dietro, ormai ne sosteneva quasi interamente il peso, quel corpo piccolo e gracile era spezzato, ogni respiro un rantolo disumano di dolore, il volto una maschera viola e pulsante rigata di lacrime e sangue. Non c’era più l’azzurro limpido delle sue iridi strafottenti e intimorite, gli occhi erano gonfi e pesti. Aveva perso qualche dente, probabilmente aveva qualche costola rotta visto la contrazione del viso ogni volta che provava ad incamerare aria, e Dem si chiese come facesse ad essere ancora cosciente.

«Allora, ti decidi a tirarti insieme?» insisté Teo, provocatorio.

«Lui non è un vigliacco» ribatté Niko con astio, forse per difenderlo, Demian aveva l’impressione che Nicolas si sentisse oltraggiato ogni volta che Matteo lo accusava perché, in qualche modo, con quell’atteggiamento metteva in dubbio una sua scelta, come a dirgli che aveva sbagliato a permettergli di unirsi al loro gruppo.

E Niko non sbagliava. Infatti si volse verso di lui e annuì, come a incoraggiarlo a far finire rapidamente la situazione a far rimangiare a Teo il proprio commento. Dave e Alex lo osservavano con la medesima sicurezza, erano convinti che non li avrebbe delusi, e Dem riusciva solo a pensare che, davvero, avrebbe preferito non dover dimostrare nulla a nessuno, non voleva farlo.

Avrebbe voluto essere a casa, magari abbracciato a Sarah, a leggerle qualche storia, a stringere la sua manina sottile da bestiolina.

Sistemò il tirapugni, distese le dita, le strinse intorno agli anelli di metallo, in un gesto abituale.

Avrebbe voluto che maman fosse nella sua stanza per prendersi cura di lei, avrebbe voluto fare i compiti e andare a scuola la mattina, l’indomani.

Alzò il braccio sinistro e caricò il colpo, veloce, senza esitazioni.

Non doveva pensare, non si sarebbe perdonato più tardi, nella sua solitudine.

All’impatto sentì la mandibola del ragazzo rompersi, la pelle lacerarsi. Il biondino lasciò andare un ultimo urlo straziato, il suono abbandonò le sue labbra insieme ad un fiotto di sangue, poi la testa gli ricadde inerme sul petto, come una bambola rotta. Finalmente il dolore gli aveva permesso di svenire, le lacrime però non smisero di bagnargli le guance gonfie e segnate. Un’immagine grottesca e angosciante così eccessiva da sembrare finta. Alex liberò il corpo martoriato del ragazzino che senza forze cadde a terra indifeso, ricoperto di sangue in un tale stato che sarebbe potuto tranquillamente apparire morto, e Niko soddisfatto gli strinse la spalla e gli sorrise con orgoglio «Sei un grandissimo bastardo, questo si che è un pugno come si deve! Che dici Teo, hai finito di rompere il cazzo per oggi?»
Il più grande scrollò le spalle, disinteressato.

«È meglio andarcene» fece notare Davide, allarmato. Aveva notato un movimento nel parcheggio, gli occhi di Dem corsero all’ingresso dell’Edonè, alcuni ragazzi stavano uscendo, forse a controllare perché il loro amico tardasse tanto. Teo diede un ultimo calcio al corpo inerme prima di avviarsi, e Demian e gli altri lo seguirono, lanciandosi in una corsa divertita, come avessero compiuto un’innocua marachella e fossero riusciti a sfuggire ad un rimprovero.

«Ignora quello stronzo, io lo so che non sei il tipo che si tira indietro» gli disse ancora Niko per incoraggiarlo. Aveva un modo assurdo, tutto personale, di cercare di infondere sicurezza. Doveva essersi convinto che gli importasse qualcosa delle parole di Teo e del suo veleno gratuito, ma a Demian quel loro concetto di “non tirarsi indietro” era del tutto estraneo e avrebbe riso di quella rassicurazione, se non si fosse sentito feccia. Non gliene importava niente, pensava solo all’articolazione che cedeva sotto il suo pugno, al dolore in quei lamenti, alla maschera tragica calcata sul volto di un ragazzo che sembrava più piccolo di lui.

Quello che aveva fatto ora non era diverso da ciò che aveva subito, era diventato un carnefice che aveva ancora l’ardire di sentirsi la vittima, e si odiava. Almeno una cosa, una sola doveva farla, o non sarebbe più riuscito a guardare negli occhi la sua petite peste senza sentirsi indegno. Prese il cellulare e compose rapidamente il numero

«Serve un’ambulanza»

 

 

Si muoveva nell’oscurità come fosse lui stesso inconsistente e potesse dissolversi, ed era quella l’impressione, voleva dissolversi. Non aveva acceso la luce ed il silenzio assordante premeva come una coperta asfissiante sul suo corpo, ne appesantiva i movimenti. Raggiunse la porta socchiusa della camera di maman, guardò attraverso lo spiraglio alla ricerca di una sagoma familiare che non avrebbe ritrovato, Jenevieve era ancora in ospedale e se lei era ricoverata Demian poteva solo aspettarla. Aspettare che lei tornasse era il mantra della sua esistenza, come l’attesa davanti a quella porta.

Lalami, goffa a causa del sonno e delle grosse zampine che scivolavano sulle piastrelle, gli si avvicinò per mordicchiargli il fondo dei jeans. Era brillo e aveva mal di testa, non aveva voglia di giocare. Si chinò, le lasciò una tenera quanto rude carezza sul testone, poi entrò in camera di sua madre. Si stese sul letto matrimoniale che profumava di lei e del sandalo che spargeva nella stanza per togliere l’opprimente odore da malata, come lo definiva maman, mise il cuscino in posizione verticale e vi si aggrappò con forza, affondandovi il volto.

La odiava, quella donna, prendersi cura di lei era l’unica ragione che riempisse le sue giornate, quando veniva ricoverata si sentiva sperso, non sapeva che fare, si lasciava trasportare.

Viveva perché lei tornasse ancora a casa.

La bombola dell’ossigeno era ancora accanto al materasso.

Presto

Se lo ripeteva come un mantra.

Solo qualche giorno e poi basta silenzio

 

 

***
 
 Pioveva a catinelle quella mattina, gocce di pioggia implacabili e grandi come chicchi d’uva gli frustavano il volto e senza un ombrello, nel ripercorrere a testa china la distanza tra il parcheggio sul retro dell’edificio e l’ingresso della scuola, si ritrovò con la felpa completamente fradicia ed i capelli candidi appiccicati alla fronte.

Rassegnato alzò gli occhi stanchi sulla struttura, cercando di metterla a fuoco, di mettere a fuoco i ragazzi, gli insegnanti, le persone che si affrettavano come lui, solo ombre nella sua visione debole, figure dai tratti indefiniti, sfocate forse anche da quell’atmosfera umida di acqua e nebbia leggera. Era più di una settimana che non partecipava alle lezioni, maman non era stata bene, gli era parsa più affaticata del solito. Le cure le causavano frequenti attacchi di debolezza e Demian non sapeva cosa fare di diverso per aiutarla a sentirsi meglio. Aveva potuto solo girarle costantemente attorno, soffocarla di attenzioni, farle mangiare tutti quegli stupidi cibi sani che non servivano a niente, ed infatti non era cambiato nulla, non serviva mai.

L’aveva vista stare sempre peggio e non aveva potuto fare assolutamente niente, e non riusciva a rassegnarsi a quell’impotenza che gli mangiava l’anima, sentiva solo che doveva impegnarsi di più, avrebbe dovuto essere più concreto e, quando fosse tornata a casa, avrebbe trovato un modo per esserlo.

Non era certo che gli insegnanti lo avrebbe giustificato ancora a lungo, molti stavano diventando insofferenti e non perdevano occasione di far pesare il proprio disappunto. Alcuni non li aveva mai nemmeno visti, col nuovo anno erano cambiati e con le sue assenze non sapeva neanche che faccia avessero, ma era solo questione di priorità, se lo ripeteva continuamente: degli estranei non sarebbero mai stati la sua priorità.
S’infilò velocemente le cuffiette del lettore CD mentre saliva i gradini, lasciando che i Blur nascondessero le voci dei ragazzi appostati come avvoltoi sulla porta a fumarsi una sigaretta prima della campanella. Era il modo più semplice per estraniarsi, la musica, lui avrebbe fumato dopo, preferiva nascondersi nelle scale antincendio durante l’orario di lezione perché era l’unico modo che aveva trovato di non imbattersi in qualcuno, preferiva essere solo per rilassarsi. Gli estranei lo agitavano più di quanto non fosse disposto ad ammettere, odiava ritrovarsi circondato di persone, il disagio lo attanagliava e non sapeva dove guardare, cosa fare, come muovere le mani.

E si odiava, ché quel malessere nasceva dagli sguardi, non riusciva ad accettare come lo fissavano tutti, neanche fosse un fenomeno da baraccone o un raro animale in via d’estinzione, e allora si biasimava per essere tanto debole.

Ma erano troppo pesanti, quegli sguardi, perché potesse fingere di non vederli, e gli restava solo la musica come muro, anche se di prima mattina non la sopportava, aveva tremendamente sonno. Non c’era incentivo migliore delle cuffie per tenere gli altri a distanza, e in più davano l’impressione che fosse impegnato in altro che non elucubrare sulle sue assillanti fobie. Non voleva dare l’idea di essere spaventato, preferiva essere isolato grazie alla sua aria sprezzante e spavalda, ma in verità lo sapeva che non aveva davvero bisogno di quei sotterfugi per restare solo: già il suo aspetto metteva le persone a disagio. Gli parlavano come avessero davanti un paraplegico, con l’imbarazzo tipico di chi non sa dove guardare per non dare l’impressione di fissare troppo a lungo e in modo sfacciato. Se poi aggiungeva a questo anche la sua fama da spacciatore, teppista, drogato legato a pessime compagnie, lo stereotipo di persona da evitare se non si volevano problemi, dal carattere instabile in grado di spaccare la faccia a qualcuno per una parola sbagliata e più volte portato in caserma per rissa e spaccio, beh, diventava facile capire che non avrebbe avuto noie, e ci arrivava anche da solo, ma non lo accettava. Non aveva certo un curriculum invidiabile alle sue spalle, eppure non riusciva a trattenere un sorriso sardonico davanti all’ipocrisia delle persone che lo circondavano. Frequentava una scuola d’arte, e lì le droghe si sprecavano, difficilmente aveva visto studenti “trovare” l’ispirazione senza fumarsi almeno una canna.

Scrollò la testa, a scacciare un pensiero fastidioso.

Era meglio così, doveva essere meglio. Se avevano paura di lui lo lasciavano solo e non era costretto a dare spiegazioni di alcun tipo a nessuno. Essere soli, nel suo caso, poteva essere solo un vantaggio e l’unica cosa sensata, c’erano verità di cui preferiva decisamente non parlare.
Quella mattina aveva dato un’occhiata indolente all’orario e aveva scoperto che alla prima ora lo aspettava italiano, ma non aveva idea né di dove fossero arrivati con il programma né chi fosse il nuovo insegnante. Ne provava un leggero dispiacere, amava leggere ed era fondamentalmente quello che faceva durante le lezioni, per trascorrere il tempo. A casa era sempre troppo nervoso e troppo impegnato a prendersi cura di maman per poter trovare la tranquillità di aprire un libro, invece la scuola, per quanto paradossale, era una specie di angolo di  paradiso, di quiete totale e assoluta dove se gli venivano rivolte due parole era un evento  fuori dalla norma, quasi un miracolo.
Entrò nella sua aula, la 2C, e andò dritto verso il suo banco, nell’angolo in fondo vicino alla finestra.
Lasciò cadere la borsa a terra, con atteggiamento insofferente, e fece scorrere rapidamente lo sguardo sulla nuova classe prima di posarlo sul paesaggio fuori dalla finestra. Aveva fatto in tempo, con quella rapida analisi, a vedere capannelli di ragazzi che borbottavano fissandolo in tralice. Di alcuni di loro ricordava il nome, di altri solo il viso, ma aveva frequentato così poco dall’inizio dell’anno da non aver legato praticamente con nessuno dei nuovi compagni.
Si ritrovava nuovamente in seconda perché la situazione di Jenevieve si era definitivamente aggravata l’anno precedente e lui aveva scelto di vivere più tempo in camera di sua madre che seduto ad uno stupido banco ad ascoltare stupide persone.

Ovviamente gli insegnanti non glielo avevano perdonato.

Quello era probabilmente l’ultimo anno che avrebbero trascorso insieme, lui e sua madre, ma aveva scoperto che la pietà aveva un limite, limite oltre il quale, stupidamente, gli insegnanti si sentivano presi in giro. Avevano deciso di dargli contro, come se la sua fosse pigrizia. Come se il suo mondo ruotasse intorno a loro e prenderli in giro fosse la ragione del suo esistere, quando per lui loro non erano altro che ombre.
Ed ora si sentiva osservato e avrebbe voluto solo chinare la testa.

Lo capiva, la classe doveva essere parecchio incuriosita da lui, quelle attenzioni però non erano reciproche, non erano niente di speciale, non avevano nulla che potesse minimamente interessarlo. Schiuse le labbra per accogliere un’altra boccata d’ossigeno, e continuò a perdersi oltre la finestra, lontano, dove era più facile non accorgersi di nulla. Quando s’innervosiva, cercava di concentrarsi sui dettagli, lo aiutava. Come quasi ogni edificio di inizio novecento, giusto perché la struttura della sua scuola non stava cadendo a pezzi, le finestre erano celate da un’inferriata di ferro battuto a ricami floreali, che faceva tanto carcere e celava parzialmente il cielo grigio quanto la strada, e su quei ricami decise di focalizzare la sua attenzione.

Non sentiva il rumore della pioggia, ma gli sembrava di poterne percepire la carezza, la morbidezza dell’acqua sul viso. Quell’odore di umido quando le gocce s’incontravano con il calore dell’asfalto Dem avrebbe potuto respirarlo ad occhi chiusi senza mai stancarsene, se ne sentiva riempito e si sentiva svuotato di ogni sentimento. Lo tranquillizzava e inebriava di una strana e calda esaltazione, forse lo lasciava semplicemente sereno. Era come lui, silenziosa, ovattata di malinconia, abbracciava tutto ed ingrigiva il mondo, lo velava di una tenue tristezza che non lo faceva sentire solo, adombrava ogni cosa con il fascino della decadenza.

La voce timida di una ragazza lo riportò alla realtà e gli ricordò che si trovava in classe. Non era in ospedale con maman.

«Ciao Demian»

Distrattamente la squadrò, si sforzò di riconoscerla o almeno di cogliere un brandello di familiarità, ma non ebbe successo. In realtà stava pensando ancora ad altro, cercava gli sbuffi d’acqua sulla strada con la coda dell’occhio, pensava a sua madre, non gli pareva nemmeno di avere davanti quella sconosciuta.

Non era brutta, ma non era neanche bella. Una ragazza nella media, piccola di statura come una bambina, forse troppo morbida per potersi permettere di fasciarsi in jeans tanto stretti e con troppo trucco sugli occhi castani. Senza sarebbe stato meglio, sarebbe parsa più pulita e innocente, come faceva pensare quel fisico indifeso. I capelli neri e mossi le arrivavano fino alle spalle, era impacciata da morire, dava l’impressione di non sapere cosa fare mentre si torceva le mani, le labbra troppo sottili tese in una linea d’ansia.

Involontariamente inarcò un sopracciglio.

«Sono Giulia» disse lei, notando la sua perplessità.

Si sarebbe staccata le dita, se avesse continuato a tormentarsi le mani con tanto nervosismo.

Non era tanto il suo nome a lasciarlo dubbioso, quanto la situazione nel complesso. Nessuno gli rivolgeva mai spontaneamente la parola se non per provocarlo, gli unici rapporti che aveva avuto con delle ragazze erano più o meno sempre dello stesso stampo: lui era bello, strano, “diverso” nella vera accezione della parola, e quelle erano nel migliore dei casi delle sciocche che facevano scommesse su chi sarebbe stata la prima che riusciva a farlo capitolare, per aggiungere alla propria personale lista dei “ragazzi che si erano fatte” anche un malato; nel peggiore dei casi, idiote che volevano solo il cattivo ragazzo di turno e si erano convinte che lui lo fosse per eccellenza.

Praticamente era abbordato solo da soggetti discutibili e per principio non se ne filava nemmeno una.
Giulia però non sembrava appartenere a nessuna delle solite categorie, era questo a spiazzarlo. Era carina, aveva un sorriso timido e gli occhi bassi per l’imbarazzo.

Cosa diavolo voleva da lui?

In che modo avrebbe dovuto mandarla via?
«Sei stato malato?» tentò ancora Giulia, con un coraggio che lo sguardo sfuggente tradiva. Eppure sembrava davvero decisa a parlare con lui e, quasi a seguire un copione, volse lo sguardo verso due ragazze, due sue amiche, che le sorridevano e sghignazzavano come due emerite idiote.

D’improvviso capì cosa stesse succedendo ed insieme al fastidio subentrò la familiare fitta di umiliazione. Era una sfida riuscire a catturare il suo interesse, lei non doveva essere diversa. Lo vedeva sulle sue, sgarbato, il classico cattivo ragazzo tenebroso che andava redento, con dei problemi irrisolvibili che risvegliavano in lei lo stupido istinto da crocerossina latente in quasi ogni ragazza.
Fece una smorfia di fastidio.
«Sono sempre malato, è difficile guarire quando ci nasci» 

Le guance di Giulia s’imporporarono di vistoso imbarazzo e le sue labbra sottili s’inclinarono verso il basso, in una sfumatura di delusione che non le riuscì di celare. Non si sentì in colpa, odiava quel tipo di attenzioni, non l’avrebbe di certo intenerito con della pietà.

«Ti servono degli appunti?» sussurrò lei ancora, in un ultimo, disperato sforzo di comunicare, sbatacchiando le palpebre neanche le fosse entrato un moscerino nell’occhio, sperando di essere ammaliante forse, Dem non lo capì. Pensò solo che fosse ridicola e che si stava stancando, gli unici sguardi da cucciola desiderosa d’affetto che riuscivano a renderlo arrendevole e a conquistarlo erano quelli della sua Sarah, magari Lalami, perché era un’indifesa palla di pelo crema troppo tenera per resistere, tutto il resto era noia, imitazioni per nulla convincenti.

«Ti sembra che mi interessi?» la freddò senza frenare l’insofferenza nella voce, prima di voltarsi e tornare a osservare la pioggia sottile e scrosciante come aghi fuori dalla finestra. Sperava davvero che Giulia cogliesse l’antifona e si facesse da parte, già quelle poche parole cavate a forza lo avevano drenato.

Con la coda dell’occhio notò la piccola bocca della ragazza aprirsi in un cerchio di perfetto sconcerto e indignazione, era impallidita all’improvviso, le mani avevano smesso di stritolarsi vicendevolmente.

«Sei… sei proprio maleducato!» sbottò sulla difensiva, mordendosi l’inesistente labbro inferiore. Dem non trattenne un sorriso beffardo e sollevò un poco le spalle, in un gesto di studiata noncuranza. Giulia sospirò e gli diede la schiena, pronta finalmente ad andarsene, gli occhi avevano perso in un battito di ciglio quel guizzo da innamorata persa.

Proprio vero amore, valutò sollevando le iridi chiare al soffitto.

«Ehi»

La compagna fece scattare il volto verso di lui, illuminata da un barlume di speranza che gli fece storcere il naso. Pensava davvero che potesse chiederle scusa?

«Non truccarti al buio la mattina. Non ti riesce» l’apostrofò con un ghigno di scherno, prima di rimettersi le cuffiette con un gesto rapido e preventivo, per non udire la risposta inveita o il borbottare scocciato delle amiche impiccione. E infatti si accorse con crescente insofferenza che la sua antipatica e gratuita osservazione aveva attirato l’attenzione degli altri compagni di classe, che ora confabulavano guardandolo in tralice senza nemmeno tentare di dissimulare la propria curiosità.

Le amiche della sua personale adescatrice la presero a braccetto, gli riservarono un’occhiata rovente e la condussero al suo banco come due oche impettite.

Adelina e Guendalina Blabla, avrebbe detto Sarah, e pensare al commentino pungente che la bimba avrebbe fatto migliorò un poco il suo umore e gli strappò una breve ma profondamente divertita risatina. Scosse il capo e si passò una mano fra i capelli, inclinando la testa all’indietro per contemplare il soffitto costellato di macchie di umidità. Con fantasia poteva provare a vederci qualche immagine astratta, in quei contorni, il tempo stava scorrendo a rilento e iniziava a disperare per quegli interminabili minuti che non avevano intenzione di esaurirsi. Fortunatamente, al suono della campanella l’insegnante fece subito capolino dalla porta e, come un operoso e poco pensante sciame d’api, tutti gli studenti scivolarono rumorosamente nei propri posti.

Non si meravigliò nel constatare che il banco accanto al suo fosse, ironicamente, vuoto. Era curioso di sapere chi usufruisse del suo posto durante le numerose giornate di assenza che caratterizzavano la sua carriera scolastica, perché sicuramente qualcuno c’era. Forse, i due ragazzi dall’aria scanzonata della seconda fila, che avevano il classico atteggiamento da piccoli bulli, il ragazzo pigro del centro che sembrava sul punto di addormentarsi; o qualche ragazza desiderosa di un posto dove poter spettegolare non vista. Non che per Dem fosse un problema, era una legge non scritta che veniva rispettata puntualmente, quando frequentava le lezioni quel posto era suo, nessuno si era mai permesso di ridire sulla questione.

Doveva però esserci un assente, visto che accanto a lui non si era presentato ancora nessuno. Appoggiò indolente la guancia sulla mano, per non doversi sforzare nemmeno di dover tenere la testa sollevata, e seguì il professore con gli occhi mentre iniziava a fare l’appello. Faceva parte della nuova guardia, Demian non lo conosceva, ma era giovane e dall’aria un poco impacciata, c’era qualcosa di goffo nel tentativo autoritario del suo tono, nella rigidezza della sua postura. Sembrava un bersaglio, non un insegnante.

«Lemaire Demian»

«Presente» rispose automaticamente, e l’uomo s’interruppe subito, con evidente stupore.

«Lemaire, finalmente posso vederti. Sono sorpreso di scoprire che esisti. Incominciava a girare la voce che tu fossi una leggenda metropolitana» lo punzecchiò, facendo ridacchiare alcuni ragazzi più per condiscendenza che per vero divertimento.
«Lo sono» osservò pacatamente, facendo accigliare il professore.

Era giovane, sulla trentina al massimo, un accenno di barba incolta, altezza media e fisico da studioso letterato, sopracciglia folte arricciate in disagio.

Accennò un colpo di tosse per dissimulare la perplessità «Le voci sulla tua sfacciataggine erano vere più che una leggenda. Comunque spero che a casa ora vada tutto bene e che tu possa ricominciare a frequentare le lezioni come si deve»

Perse un battito davanti a quelle parole, il sangue smise semplicemente di fluire e Demian si ritrovò allibito a labbra schiuse, un foglio bianco al posto dei pensieri coerenti. Non poteva crederci, lo aveva detto davvero, quell’uomo inetto e incompetente aveva fatto un simile commento in classe, davanti a tutti. La conferma che quell’uscita non fosse frutto del suo pensiero gliela diedero le voci dei compagni di classe che avevano seguito l’affermazione levandosi in un brusio sommesso.

Le prime file si erano voltate, i ragazzi lo guardavano di sottecchi, alcune ragazze tenevano le mani sulla bocca per coprire i commenti che si stavano bisbigliando.

Assottigliò gli occhi dal taglio obliquo in una linea crudele e ostile: «Non è morto ancora nessuno» sputò con ironia incattivita «Ma ovviamente è solo questione di tempo»

Lo disse solo per far sentire l’insegnante sbagliato e fuori luogo, perché doveva imparare, doveva mordersi la lingua e imparare a stare zitto, non doveva permettersi di far conoscere a perfetti sconosciuti la sua situazione. La sola idea di essere sulla bocca di tutti per qualcosa di reale, qualcosa che l’avrebbe reso ancora più pietoso e patetico, lo faceva impazzire.

Calò un silenzio imbarazzato che lo riempì di sprezzante soddisfazione. Si appoggiò con inerzia allo schienale della sedia, incrociò le braccia al petto e squadrò il professore con un sopracciglio alzato in un atto di sfida.

Arrogati ancora il diritto di accennare alla mia famiglia, ti sfido a provarci.

L’uomo abbassò il capo e si passò una mano dietro al collo «Mi dispiace molto» si limitò a mormorare «Io sono il professor Morelli. Sei rimasto piuttosto indietro, al cambio dell’ora mettiti d’accordo con i tuoi compagni e fatti passare gli appunti»

Il professore deglutì a fatica e distolse lo sguardo, evidentemente turbato, aprì il libro di testo e iniziò a sciorinargli gli argomenti della lezione precedente, argomenti che Demian purtroppo già conosceva grazie all’anno passato. Si stavano concentrando sull’analisi del testo e della poesia, erano ancora fermi alle prime figure retoriche e, quel giorno, era previsto “Pianto Antico” di Carducci. Sollevò gli occhi al soffitto e sbuffò rumorosamente.

Era prevedibile, studiavano sempre le stesse cose, mai un sussulto di originalità. Più che imparare, a volte aveva l’impressione di essere semplicemente indottrinato, studiavano a pappagallo di generazione in generazione le medesime cose e solo quando erano diventati un’infinità di piccoli identici cloni erano liberi di uscire. La scuola non era diversa da un allevamento di polli e poi, fuori, lo avrebbe aspettato il macello. Perché arrischiarsi nel creare pensieri diversi, quando si poteva essere tragicamente banali e identici?

Il diverso non piaceva davvero a nessuno, lo doveva accettare e basta, faceva solo storcere le bocche, causava solo ribrezzo, distanza, sospetto.

Istintivamente allungò il braccio per recuperare la borsa abbandonata a terra. Vi frugò dentro e ne estrasse un libro dalla copertina rigida di finta pelle, il titolo inciso con un elegante corsivo dorato riflesse vivacemente il colore della luce artificiale dell’aula.

“Lès misèrables”.

Lo accarezzò pazientemente per qualche istante, rapito dal titolo, dalla delicatezza di quei suoni. Ovviamente, la copia era in lingua originale, la sua vera lingua, più di quanto lo sarebbe mai stato l’italiano, ed era paradossale. Lui in Italia c’era nato e cresciuto, eppure riusciva a guardarlo ancora come un paese straniero, il luogo natio di suo padre. Forse era questo ad estraniarlo, Demian con l’uomo che li aveva abbandonati che Sarah era appena nata non voleva averci nulla a che fare, condividere il suo sangue lo allontanava da se stesso, non era mai riuscito ad accettare di avere qualcosa in comune con lui. L’Italia era il paese dell’uomo che non aveva più rivisto, che era scappato senza nemmeno salutarlo e che, ora che maman era ammalata e morente, non si faceva carico dei due figli capitati per errore in gioventù, si limitava solo a mandare un sostanzioso mantenimento per tenerli lontani dalla sua vita perfetta.

Era il paese dell’altra donna.
Non ci riusciva proprio, a sentirsi parte di qualcosa di più grande, si sentiva solo estraneo in terra straniera e quando usava l’italiano gli sembrava di avvicinarsi a quell’uomo, di creare punti in comune che non desiderava. La Francia era sempre stata la sua unica, vera casa, la sua patria. Lì era nata maman, l’unica ad avergli dato un nome e un cognome, e solo lì aveva, anche se dispersa, ancora una famiglia pronta ad accoglierlo e che a volte gli mancava come l’ossigeno. Quando sua madre era una ragazzina, i nonni per lavoro si erano trasferiti in Italia, e quando qualche anno dopo avevano deciso di ritornare nella loro amata Francia, solo Jenevieve e Claire erano rimaste. La zia aveva conosciuto il suo futuro marito, maman si era illusa che una persona squallida sarebbe stata la sua famiglia, ecco perché si ritrovava lontano da zio Jean, da nonna Marie, da Isabeau e tutti i numerosi cugini.

Mentre in Italia, beh, erano solo figli illegittimi e indesiderati, lui e la sua Sarah, i nonni paterni nemmeno li avevano mai voluti conoscere, odiavano Jen troppo a fondo per poterli considerare loro nipoti. Se ci rifletteva, si sentiva patetico, per questo non voleva mai pensarci e non voleva che qualcuno sapesse. Nella sua vita aveva sempre detto che suo padre era morto, era meno penoso che ammettere di essere stato rifiutato fin dalla nascita.

Aprì il libro nel punto segnato dalla foto che aveva incastrato tra le pagine qualche giorno prima. L’istantanea scivolò sul banco, mostrando il volto angelico e radioso della sua bellissima sorellina, tenera di una bellezza da bambolina di porcellana, una fragilità disarmante in quel corpicino minuto e pieno di vita. Si soffermò sulle lentiggini poco definite dallo scatto e sui suoi occhioni di ridente caramello, e ne provò un familiare e straziante dolore, un senso di mancanza che sapeva come di uno strappo improvviso e infelice nell’anima. Avrebbe voluto trascorrere con lei ogni minuto di ogni giorno, voleva ricordarle sempre che non erano soli, che lei lo avrebbe sempre avuto in un modo o nell’altro, ma avrebbe mentito anche a se stesso. Sarah era la sua vera famiglia, l’unica che gli restasse, e gli faceva così male guardarla e starle accanto che non ci riusciva, per quanto lo volesse. Averla e perderla sarebbe stato troppo, non riusciva a reggere il pensiero della sua assenza.

«Lemaire» lo richiamò il professore.

Aveva il libro in mano e un’espressione molto seccata contraeva i suoi occhi piccoli in fessure rugose e sottili «Potresti trovare la lezione interessante se ascoltassi. Potresti spiegarci perché il poeta sceglie queste immagini per raccontarci il suo lutto?»

Demian arricciò le labbra in un sorriso ferino e beffardo. Non aveva il libro di testo e di certo non gli serviva, “Pianto Antico” era, appunto, una poesia che alle medie veniva fatta imparare a memoria oltre ad essere chiara e desolante in modo struggente.

«La parafrasi in certi casi è superflua, certe cose non hanno bisogno di essere spiegate, si spiegano da sole» ribatté tranquillamente, con un’alzata delle iridi chiare alle luci al neon del soffitto.

«Sottolinea l’ovvio per i comuni mortali» insisté piccato il professore, e a lui venne solo da sorridere. Non era una punizione, era un gioco. Gli erano sempre piaciute le poesie, aveva passato interi pomeriggi con maman a leggerne per poi discuterne per ore, era dolce come solo un’abitudine poteva esserlo.

Era un amore viscerale per le parole che Jenevieve aveva trasmesso a lui e a Sarah fin dall’infanzia, le parole di altri per trovare un senso ed una voce alla sua anima che sapeva solo dimenarsi e contorcersi e urlare senza articolare suoni. Ed era questo, ciò di cui parlava Carducci, il suo singolo sentimento diventava comune, esprimeva una sofferenza che Dem non sarebbe mai riuscito a pronunciare.

«Parla del dolore, il dolore di ciò che è perduto e che non si può riavere» si ritrovò a mormorare. Le dita accarezzavano piano la superficie liscia della foto come se potessero attraversarla ed arrivare a sua sorella e sfiorarla con la medesima dolcezza «Ci sta dicendo che la natura non muore mai, non per davvero. Che se una foglia cade in autunno rinascerà sempre a primavera. Ma per l’uomo non è così e non c’è nessuna fede che salvi… quando perdiamo qualcuno lo perdiamo per sempre, la morte è solo assenza e fa male come morirne. L’autore ha perso suo figlio, il mondo attorno a lui potrà anche rinascere e il tempo continuare a scorrere ma questa realtà non può cambiare… ed è una sorte contro natura, quella umana, che non segue un vero corso, perché un padre non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio»
Un pesante silenzio gli fece eco, Demian sollevò lo sguardo dalla foto per posarlo sulle file di persone sedute davanti a lui, quasi tutte intente a farsi i propri affari o almeno a fingere di farli. Alcuni suoi compagni, con cautela intimorita, lo studiavano, coprendosi la bocca con la mano per cercare di celare i mormorii di commenti inadeguati. C’era pena in quegli occhi, compassione, una pietà annichilente che lo spinse a mordersi l’interno della guancia per soffocare la morsa di disagio. Giulia era completamente girata, rivolta verso di lui in modo quasi sfacciato, non esitava a mostrargli che lo stava fissando ed anzi, sembrava proprio intenzionata ad intercettare il suo sguardo, forse per leggervi quelle parole che non avrebbe mai pronunciato.
Era davvero dispiaciuta, c’era qualcosa di profondamente innocente e buono in lei e per questo non riusciva ad odiarla, nonostante gli fosse tragicamente facile pensarla un’insopportabile impicciona. Chinò il capo ancora sulla foto, sull’incredibile sorriso a trentadue denti della sua petite peste, sui capelli castano dorati che le incorniciavano il volto in una massa arruffata mentre mangiava il gelato, con la guancia sporca di panna montata e gli occhi strizzati in mezzelune di brillante sole. Lo salutava con la mano libera, era seduta su uno scivolo rosso del parco giochi ed era radiosa quel giorno, lo ricordava, l’avevano scattata l’estate appena trascorsa, zio Jean aveva portato Jenevieve all’aperto e Sarah si era divertita moltissimo.
Il dolore di Carducci forse Demian poteva capirlo davvero, perdere Sarah significava per se stesso divenire un ramo secco e morto incapace di sperare in una nuova primavera, come se il sole venisse spento all’improvviso ed il modo scivolasse nel buio di un’esistenza vuota e apatica.

«Interessante» borbottò Morelli con meraviglia, prima di annuire per poi puntare l’attenzione su qualcun altro e proseguire l’analisi del testo.
 
***

 

Aveva approfittato subito del cambio dell’ora per uscire a fumare, si era accomodato, quasi sdraiato, sui gradini delle scale antincendio, con la schiena appoggiata al muro e la testa reclinata all’indietro, a guardare il soffitto senza vederlo davvero, una gamba piegata sosteneva il suo braccio, l’altra restava mollemente distesa, come priva di forze. Piovigginava ancora, acqua leggera come polvere sottile. Demian ne era incantato, si smarriva in quelle linee fini che fendevano l’aria e allora una malinconia prepotente gli pesava nel petto come un nodo che andava stringendosi, e quel malessere era tanto familiare, struggente, da portare con sé un po’ di serenità che forse era, in realtà, solo una rassegnazione impotente.

Il cellulare vibrò nella tasca dei jeans facendolo sussultare e strappandolo dal suo sogno estatico. Lo tolse lentamente, provava sempre un moto di orrore quando quell’aggeggio reclamava la sua attenzione, un permeante senso di ansia nel vedere chi l’avesse cercato. Quando leggeva il nome di Claire gli tremavano ogni volta le mani, poteva significare che Sarah era stata male, troppe volte si era dovuto precipitare dalla bimba, troppe volte il terrore l’aveva paralizzato e aveva pensato che doveva finire tutto, che non ce la faceva a sopportare quel panico.

Per Demian ormai le chiamate di Claire significano sempre e solo che Sarah aveva bisogno di lui e si odiava e si vergognava anche con se stesso nell’ammettere che detestava leggere il nome di Claire su quel dannato display, soffriva troppo e non riusciva a sopportarlo.

 

Zia Claire

 

Buongiorno Dami, sei a scuola?

oggi dopo pranzo andrò a trovare Jen, devo farle sapere qualcosa?

Ah, Sarah ha chiesto quando potrà vederti di nuovo

 

2/10/2001

 

9:08
 

Avrebbe dovuto regalare un cellulare a sua sorella, almeno avrebbero potuto sentirsi ogni volta lei lo desiderasse senza passare prima dalla zia, si sarebbe risparmiato un paio d’infarti.

Ridacchiò piano, sarebbe mancato solo un suo infarto per chiudere il cerchio paradossale che era la sua vita.

 

Demian
Di a maman che arriverò sul tardo pomeriggio e cenerò con lei e a Sarah che passo a prenderla verso le tre

2/10/2001
9:13
 
Zia Claire

 

Ok, ma non pensare che non mi sia accorta che non mi hai detto se sei a scuola.

Ci vediamo presto tesoro. Abbi cura di te, ti voglio bene
2/10/2001
9.15

 

Non smise di sorridere, anche se si sentiva un poco triste e in colpa.

Sentirsi chiamare “tesoro” lo turbava, di certo un tesoro non lo era ma probabilmente la zia non voleva ammetterlo. Schiacciò il mozzicone della sigaretta contro il gradino e si decise a rientrare in classe. La lezione era già iniziata da almeno dieci minuti, perciò non si sorprese di trovare la porta dell’aula chiusa ed il professore in piedi davanti alla lavagna. Ciò che lo lasciò perplesso abbastanza da fargli perdere qualche secondo davanti all’ingresso, fu ritrovare il banco accanto al suo improvvisamente occupato da una figura sufficientemente minuscola da apparire insignificante. Un ragazzo mingherlino e dall’aria sfigata, con grandi occhiali a fondo di bottiglia, si dimenava sulla sedia neanche fosse posseduto per cercare d’intravvedere l’esercizio alla lavagna.

«Lemaire» lo apostrofò subito il professor Albani, uno dei pochi insegnanti che gli fosse familiare, visto che aveva già avuto il piacere d’intrattenere rapporti complicati con lui l’anno precedente «Quanto tempo»

«Buongiorno prof. Sentito già la mia mancanza? Sono passate solo un paio di settimane» Demian gli sorrise con eccessiva arroganza, per provocarlo. Era consapevole che la sua noncuranza era la causa principale dell’indispettirsi dei professori nei suoi confronti, ma lui stesso era sempre stato profondamente scocciato dalle stupide e inappropriate frecciate dei docenti e non era mai riuscito a nasconderlo.
«Va’ al posto» sibilò astioso Albani «E aspetta l’intervallo prima di andare a fumare»
Annuì, sollevato di aver scampato l’alterco almeno per una volta, e si diresse pacatamente al suo posto. Non gli sfuggì il nervosismo del ragazzino del banco accanto al suo mentre lo studiava come un alieno, così come non poté non notare tre ragazzi voltarsi verso lo sfigato con un ghigno meschino e derisorio. Folgorato, comprese che probabilmente lo avevano costretto a sedersi accanto a lui, quello non doveva essere il posto abituale del mingherlino.

Pensavano seriamente che l’avrebbe picchiato, maltrattato o comunque praticato su quel ragazzino una qualsiasi forma di violenza?

La sua fama in quella scuola doveva essere precipitata ulteriormente, perciò si morse l’interno della guancia e decise d’ignorare il nuovo vicino per riprendere con la sua lettura della mattinata, giusto per non dare adito a strane idee di bullismo psicologico o verbale.

Aveva preso l’abitudine, quando trovava qualche frase che lo colpiva particolarmente, di sottolineare il brano con la matita per trascriverlo successivamente, una volta arrivato a casa, su un qualunque spazio disponibile della superficie di legno con cui aveva ricoperto una parete di camera sua, in un vero e proprio collage di frasi sconnesse. Erano i suoi promemoria, i suoi mantra di vita, forse solo un tentativo di sostituire le classiche parole, i consigli, che avrebbe dovuto dirgli un adulto serio e presente quando fosse rientrato a casa. Le conosceva tutte a memoria, gli erano familiari e gli davano l’impressione che ci fosse qualcuno ad aspettarlo, anche se si trattava di un personaggio immaginario di un qualche racconto stravecchio di secoli.

 

“Tutti gli uomini sono fatti della stessa argilla; nessuna differenza, almeno quaggiù, nella predestinazione; la medesima ombra prima, la medesima carne durante, la medesima cenere dopo”

 

Tastò il banco alla ricerca di una matita, senza distogliere gli occhi dalle pagine, e non si ricordò subito di aver dimenticato l’astuccio, quel giorno.

Imprecò sottovoce e rimase a fissare truce le lettere che gli danzavano davanti, incerto su come segnarsi la pagina senza rovinarla. Non voleva correre il rischio di scordarsi la citazione e sapeva che, matematicamente, di lì a qualche ora avrebbe dimenticato dove ritrovarla, quando il timido ragazzino accanto a lui, notando il suo improvviso nervosismo, gli porse titubante una matita.

«Ti serve?»

Demian arricciò le labbra, quasi risentito.

È evidente che mi serve, che domanda idiota.

Avrebbe voluto dirlo ad alta voce, ed invece rimase zitto e cercò di non guardarlo. Non poteva prenderla e basta, quella stupida matita, sarebbe stato scortese, e tuttavia non voleva nemmeno parlargli, non voleva correre il rischio di aprire una porta che desse il via ad un dialogo imbarazzante.

Si morse la guancia e fissò le pagine con finta ostinazione, studiando con la coda dell’occhio l’intimidito compagno che non aveva ancora guardato in faccia. Il ragazzo con cui non voleva parlare, con un’espressione tra il sollevato e il rassegnato, appoggiò la matita nella sua parte di bancata, abbozzò con l’angolo della bocca un sorrisino contrito e tornò a concentrarsi sul suo esercizio.

Demian ne rimase spiazzato. Esitò un istante, il tempo che quello strano individuo senza nome ci mise per tornare a seguire la lezione, poi afferrò di soppiatto la matita e sottolineò con decisione il paragrafo. Si sentì immediatamente meglio, ma non era certo fosse solo per essere riuscito a soddisfare le proprie fissazioni.
Non l'avrebbe ringraziato, era sottinteso che fosse grato, non c’era bisogno di parole. Squadrò ancora quel profilo spigoloso e indeciso e ne sorrise, si sorprese nel provare una sorta di simpatia per quel piccolo secchione.
 
                                                                

ANGOLO AUTRICE

 

 

BUON ANNO A TUTTI!

E buon compleanno a me! XD

 

 

Pensare di scrivere due righe tra Natale e Capodanno è sempre utopia, ma io ci ho provo lo stesso perché sono tenace e non mollo!

Ieri sera, per festeggiare il mio genetliaco, sono andata al cinema, e siccome non sono una persona, ma l’incarnazione di uno spazio pubblicitario per le cose che amo, vi inviterò ad andare a vedere il nuovo Star Wars per la quale mi sto ancora rotolando per terra.

Anche solo per gli ultimi tre secondi, bisogna vederlo, dico sul serio, non supererò facilmente il coccolone che ho provato per quell’unica inquadratura che sa di omaggio ed è tristissima (se siete fan della saga capirete, se non lo siete che cosa state aspettando? XD).

 

Concentrandoci invece sul capitolo, con questo abbiamo più o meno vagliato gli aspetti principali della vita del nostro Dami, ovvero la famiglia, gli amici ed ora la scuola.

È parecchio complessato, lo so, ma proprio per questo è per me tremendamente adorabile. Non ho granché da dire, vorrei sentire cosa avete da dire voi, mi piacerebbe davvero moltissimo, fatevi avanti senza timore!

Vi incentiverò con la banale scusa che il mio compleanno è appena passato per ammorbidire il vostro cuoricino e magari spingervi a sprecare due minuti per me.

Sarebbe un gesto molto carino!

 

In caso non funzionasse, tanti auguri! Il prossimo capitolo è anch’esso già pronto e dovrebbe arrivare settimana prossima insieme ad un nuovo personaggio che spero vi piaccia!

 

Ps: quando dico che ascolta i Blur, in realtà nella mia testa sono molto più specifica, ascolta Song 2, uno dei brani rock più famosi di sempre, giusto per non essere un poco banale XD

 

 

  
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