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Autore: BabaYagaIsBack    13/01/2017    2 recensioni
Re Salomone: colto, magnanimo, bello, curioso, umano.
Alchimista.
In una fredda notte, in quella che ora chiameremmo Gerusalemme, stringe tra le braccia il corpo di Levi, come se fosse il tesoro più grande che potesse mai avere. Lo stringe e giura che non lascerà alla morte, il privilegio di portarsi via l'unico e vero amico che ha. Chiama a raccolta il coraggio e tutto ciò che ha imparato sulle leggi che governano quel mondo sporcato dal sangue ed una sorta di magia e, per la prima volta, riporta in vita un uomo. Il primo di sette. Il primo tra le chimere.
Muovendosi lungo la linea del tempo, Salomone diventa padrone di quell'arte, abbandona un corpo per infilarsi in un altro e restare vivo, in eterno. E continuare a proteggere le sue fedeli creature; finchè un giorno, una delle sue morti, sembra essere l'ultima. Le chimere restano sole in un mondo di ombre che dà loro la caccia e tutto quello che possono fare, è fingersi umani, ancora. Ma se Salomone non fosse realmente morto?
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Capitolo Terzo

"I never meant to be the one who kept you from the dark
But now I know my wounds are sewn

Because of who you are
I will take this burden on and become the holy one
But remember I am human"

 

Saviour (Black Veil Brides)

 

Un tonfo anomalo riecheggiò per la sala giungendo fino alla camera da letto, attirando le attenzioni di Alexandria che, presa alla sprovvista, sobbalzò fuori dalle lenzuola con uno scatto tutt'altro che aggraziato. 
I suoi piedi toccarono il parquet prima ancora che lei potesse realmente realizzare quel movimento e, sentendo il cuore martellarle nel petto al pari di una locomotiva, si ritrovò spaesata di fronte all'inaspettato innalzamento d'adrenalina. Non le capitava più di venir colta di sorpresa a quel modo, dopotutto i tempi delle fughe e delle lotte sembravano essere un ricordo lontano, frammenti di una vita che non le apparteneva ormai da molto e, di conseguenza, i suoi sensi avevano smesso di essere reattivi come in passato. Grazie al cielo però, dove il suo corpo umano rallentava, arrivava la Chimera - così, in meno di una manciata di secondi, le sue gambe la portarono dritta in soggiorno, lì dove, armata della sé più feroce e pronta a dar battaglia a chiunque si fosse introdotto in casa propria, si permise un ringhiò gutturale.

Come ogni bestia, anche alla giovane non piaceva l'idea che qualcuno potesse invadere i suoi spazi senza prima averle chiesto il permesso e per questo, quando oltrepassò la soglia della stanza, avvertì il desiderio quasi asfissiante di difendere i propri territori; peccato che ad attenderla non vi fosse alcun malintenzionato - o quantomeno, non dichiarato.

Con le braccia colme di shoppers colorate e tra i denti un sacchettino da bar, Levi si arrestò nei pressi del tavolo da pranzo, sbattendo più e più volte le palpebre in un gesto di totale sorpresa - non doveva aver previsto di farsi scoprire così presto. 

La ferocia con cui l'istinto di Lupo si era palesato in Alexandria svanì in fretta, lasciando posto a una sorta di esasperazione.

Nel torpore del sonno doveva essersi completamente dimenticata di lui e del suo pernottamento lì, eppure, si rimproverò, avrebbe dovuto capire che si trattava del fratello dal rumore lieve dei suoi passi, una specie di strascichio simile all'avanzare dei pitoni, eppure non lo aveva fatto: perché? 
La camminata di Nakhaš era sempre stata quella più singolare tra i membri della famiglia, ma nonostante questo lei era riuscita a confonderla con quella di un umano qualunque. Che fosse passato troppo tempo dall'ultima volta che vi aveva prestato attenzione e avesse finito con lo scordarla? Che lui non sapesse più muoversi con tanta destrezza? Z'év non seppe dirselo - e la cosa non le piacque affatto. Odiava notare come il tempo, d'un tratto, avesse ripreso a scorrere persino per loro, come fossero improvvisamente tornati a essere fragili al cospetto di qualche lancetta: erano stati eterni per così tanto, abituarsi alla normalità era un processo fin troppo sfiancante.

Sospirando in un ultimo tentativo di liberarsi dall'agitazione che l'aveva colta, Alex si mosse verso il fratello ancora sommerso dagli acquisti. Avvertendo l'acquolina farsi strada nella bocca, gli sfilò dai denti quello che doveva essere il suo ultimo tentativo di persuaderla ad accettare la richiesta fattale la sera prima.

Dopotutto, ne era certa, doveva essere convinto che con un cornetto caldo si potesse ottenere qualsiasi sì - e in passato, con lei, era realmente stato così.

Appena le fauci di Nakhaš furono libere le lanciò un sorriso tenero, un grazie quasi sussurrato che lei finse di non udire e che precedette l'accatasto delle borse su qualsiasi sedia libera. La sorella osservò i suoi gesti con nostalgia e curiosità, rimettendo insieme i pezzi del rocambolesco racconto che aveva accompagnato il loro rientro a casa. Da quello che le aveva sommessamente accennato, svoltando tra una via e l'altra della cittadina, Levi era partito da Praga con uno zaino capiente e qualche documento di scorta, ma alla fine era arrivato in Italia con in tasca solo il portafogli e addosso i vestiti che non cambiava ormai da due giorni; nel mentre c'era stato un piccolo battibecco con uno dei tanti seguaci del Cultus che, pur senza la testa della Chimera, era riuscito a portarsi via la sua biancheria, uno spazzolino usato e un paio di magliette prese in qualche negozio di poco conto durante il tragitto. 
Era innegabile dire che l'aggressore fosse tornato dai confratelli a mani vuote, soprattutto visto che quelle cianfrusaglie sarebbero state poco utili per arrivare a un qualsiasi scopo: l'alchimia era un'arte strana, avrebbero dovuto saperlo. Gli oggetti servivano a poco senza un corpo o un'anima a cui legarsi.

Alexandria a quel punto socchiuse gli occhi. Se si escludevano alcuni drammatici eventi, molti dei quali erano stati più una scocciatura a dire il vero, gli incontri e scontri con gli adepti di quel gruppo di folli erano stati per lo più avventure tragicomiche e l'aneddoto di Nakhaš non pareva essere da meno. 
Per quanto ci avessero provato, quei tizi non erano ancora riusciti a combinare nulla di buono - a parte uccidere Salomone, anche se persino in quel caso il loro successo si era svelato il più grande dei fallimenti: senza il Re, nessuno avrebbe scoperto i segreti della sua Ars.

La Contessa si volse, dirigendosi in cucina con il chiaro intento di preparare la colazione per entrambi. Nonostante senza le ɛvɛn i sapori fossero solo una sensazione vaga sulla lingua, non volle rinunciare a quel raro momento di compagnia; non aveva idea di quando, e se, si sarebbe ripetuta una simile circostanza, così lasciò l'ospite a tirar fuori la sfilza di vestiti che si era comprato durante quell'uscita mattutina.

«Ti va un caffè?» gli domandò una volta arrivata davanti alla credenza e prima di lanciargli uno sguardo fugace da oltre la spalla, in modo d'assicurarsi che l'avesse sentita. Nel compiere quel movimento tanto innocente, sotto alla stoffa spessa della felpa che aveva indosso, Z'év sentì i muscoli del trapezio tirare, ricordandole che lo scatto avuto poco prima non l'avrebbe perdonata. Il suo corpo ormai doleva spesso, ad ogni torsione un po' più inusuale piccole fitte le ricordavano lo scorrere inclemente del tempo, ma lei provava a non darci peso, in fin dei conti se non aveva ancora iniziato a cadere a pezzi non c'era nulla di cui preoccuparsi, no? 

Levi non rispose, troppo occupato a rimirare i propri acquisti, e lei non si premurò di chiederglielo ancora. Appoggiando i cornetti ancora caldi sul davanzale della cucina, prese a tirar fuori moka, tazzine e macinato per mettersi poi ad assemblare con sapienza ogni cosa.

Svitò la ferraglia, poi ne riempì il fondo con l'acqua. Aggiunse un pezzo e poi il caffè, ma prima che potesse accendere il fornello una voce fin troppo vicina la fece sussultare, bloccandole il cuore in gola.
«Ti va di darmi una risposta?» 
Andando a sbattere contro una delle tante ante dell'arredo, e mugolando sommessamente per la botta, Alex strinse forte le mani sulla moka, in modo da evitarsi di perderne la presa e fare un disastro rovesciando tutto. 
Ancora una volta suo fratello l'aveva colta di sorpresa, ma ciò che più di tutto la stupì fu l'espressione confusa che gli vide apparire in volto subito dopo. Le sue pupille, già di per sé strette, si fecero ancora più sottili e le labbra vagamente violacee si schiusero appena.

Aveva provato dolore e lui se ne era accorto. 

Peccato che le Chimere non provassero male per botte di così poco conto; per ferirle serviva altro. La sofferenza fisica per loro era una sensazione rara, poche cose potevano davvero fargliela provare. Il marchio di Salomone, l'alchimia, l'argento e le ferite gravi erano ciò di cui avevano certezza - tutto il resto invece veniva avvertito come un pizzicotto: alle volte era fastidioso, altre meno. Eppure quel mugolio era parso a entrambi molto più umano, di quanto avrebbe dovuto.

Levi allungò una mano verso di lei, ma prima che potesse raggiungerla Z'év si scansò: «Non è nulla, mi è venuto istintivo».
«Non dovresti più averli, certi istinti» le fece notare e lei si trovò nuovamente costretta a voltargli le spalle. Suo fratello non doveva in alcun modo scoprire quanto debole la sua carne stesse diventando, la sua era la pietà che meno desiderava.
«Abitudine, akh. Ti ricordo che è dalla notte dei tempi che ci fingiamo umani» tagliò corto rimettendosi a preparare il caffè. Mentire, ovviare e fingere che non ci fosse nulla di diverso dal solito era l'unica alternativa rimastale per vivere dignitosamente quella vita - Nakhaš non doveva impedirle di avere almeno quello.

«Allora,» Levi sembrò crederle, o forse comprese che insistere fosse inutile, perciò tornò alla carica: «vieni con me?»

Durante le poche ore di sonno che era riuscita ad avere, la Contessa Vàradi si era ritrovata a sognare - e quindi rivivere - la tragedia avvenuta ventisei anni prima. Aveva percorso a ritroso il medesimo incubo che per troppo tempo l'aveva ossessionata, ma a differenza di ogni altra volta, quella notte, al collo del suo Signore aveva visto la targhetta che il fratello le aveva dato e a scandire il tempo c'era stata la sua voce.

E' vivo.

Salomone è ancora qui.
Vieni con me.

Quelle parole avevano assunto la connotazione di un mantra e ora, pensandoci, Alexandria riusciva a sentirle un po' più reali. E se ci fosse stata davvero una possibilità? Se in qualche modo il loro Re fosse davvero riuscito a sopravvivere?

Ma allora perché non li aveva cercati?

Si morse il labbro. Non aveva alcuna risposta a cui aggrapparsi, men che meno tutta quella situazione le pareva avere un senso - eppure, proprio perché non vi era alcuna logica che lei potesse comprendere, un fondo di verità poteva esserci.
Salomone aveva sempre avuto una visione lungimirante del futuro, probabilmente data dai secoli di vita, ma la sua mente negli anni era anche diventata un labirinto invalicabile di nozioni, pensieri e ricordi alle volte confusi, come per tutti loro; ad ogni trasmutazione, così come dopo qualsiasi cambio di corpo, sia le Chimere sia il Re avevano dovuto dire addio a piccoli pezzi di memoria, ritrovandosi alle volte persi all'interno della loro stessa testa.

Cosa le impediva, quindi, di assecondare quella follia? Cosa la teneva ancora ancorata lì, in quel trilocale dalle pareti pallide e perennemente in disordine? Dopotutto se il Sovrano d'Israele fosse realmente stato vivo, come Nakhaš supponeva che fosse, si sarebbe potuta liberare dal peso di una colpa che da anni si portava appresso: quella di aver condannato tutti loro. 

Cosa la frenava, dunque? Tanta paura.

Sì, perché seppur nei suoi quasi tre secoli di vita Alexandria Vàradi avesse visto cose inimmaginabili e compiuto azioni indicibili, temeva l'ignoto che aveva di fronte ai propri occhi e quei dubbi annichilanti a cui non sapeva se avrebbe mai trovato risposta. Non desiderava affatto alimentare con speranze fittizie un cuore già di per sé malandante e l'idea di perdere nuovamente qualcosa, o qualcuno di infinitamente importante, la privava del fiato.

Per alcuni istanti le sue mani smisero di avvitare la moka, sfidando la forza di volontà sempre più vacillante. Reprimere l'istinto di voltarsi in direzione dell'altra stanza divenne una battaglia impari contro il suo corpo, eppure provò a farsi forza in tutti i modi - anche se era innegabile il fatto che il nome sulla targhetta rubata la stesse chiamando a gran voce. 
Eppure... eppure quello non era altro che un nome vuoto, un conglomerato di lettere che non avrebbe dovuto suscitarle alcun desiderio, ma lo faceva, ogni ora un po' di più. 

E se fosse stato solo un pessimo scherzo della mente? Magari i sensi di colpa stavano dando vita ad allucinazioni incontrollate e, forse, persino Levi ne era stato, così come era anche in quel momento, vittima. Dopotutto chi, tra le Chimere, poteva realmente dire che le loro menti non fossero state contaminate dall'Ars?

«Akh... » la voce di Z'év uscì come un sussurro e lei si ritrovò ad abbandonare definitivamente l'idea di avvitare la ferraglia che teneva tra le dita. 
Non aveva alcuna idea di cosa fosse giusto fare, non sapeva se dar fiducia alla Chimera più antica del mondo o cedere ai dubbi, però era conscia di non poterlo trattenere lì, anche se lo desiderava con un'inspiegabile intensità. Levi le era mancato, così come ogni giorno sentiva vuoto quell'angolo di mondo in cui si era rintanata. La sua mishpakhá aveva creato un buco incolmabile al centro del suo petto e persino dopo quasi tre decenni la rivoleva con sé. 

Alex socchiuse le palpebre, ricacciando indietro quei pensieri e le lacrime che sentiva bruciarle gli occhi. Doveva lasciare andare Nakhaš, doveva permettergli di inseguire quella speranza prima che anche per lui fosse troppo tardi, quindi provò a mettere insieme le parole migliori per proseguire la discussione. 
Appena quel pensiero prese forma nella sua testa però, una carezza diaccia le si andò ad appoggiare sulla nuca. 
Sentì le dita di lui infilarsi con premura, forse addirittura cautela tra le ciocche color cenere e un brivido le corse irrefrenabile lungo la schiena, facendola sussultare. Le volte in cui suo fratello si era concesso gesti di tale intimità avrebbe potuto contarli su una mano, eppure, nonostante la rarità, li aveva sempre trovati rilassanti, appaganti.

Da oltre il capo lo udì schiarirsi la gola: «Non ho nulla da darti, in cambio...»  
Z'èv si strinse nelle spalle, d'un tratto avvertendo il vacillare delle proprie certezze farsi sempre più intenso, tanto da diventare uno scossone che, era certa, le avrebbe fatte crollare. 
«Tutto quello che puoi fare è donare tu, a me, fiducia. Lo so che è difficile, che ci sono migliaia di motivi per mandarmi a quel paese e vivere la vita che non hai mai potuto avere. Lo so, credimi» le dita di lui sfiorarono appena il collo della ragazza, scivolarono giù lungo la pelle per poggiarsi poi sulla schiena: «Però io, Levi Nakhaš, figlio di Yoel e Generale del Re, ti sto implorando di venire con me. Alex...» fu impossibile, per l'udito fine del Lupo, non notare la titubanza che d'improvviso aveva invaso il tono del fratello, una punta lieve di timore che non si concedeva mai; non doveva essere facile, per il grande Generale dell'esercito d'Israele, implorare qualcuno.

In quel silenzio però, nella fatica e nelle incertezze di lui, la Contessa ebbe modo di mettere fine a quel supplizio agrodolce: «Okay» soffiò, prima di stringere i denti sulla lingua. Non ce la faceva più a combattere le sue richieste, il suo desiderio di averla con sé in un'ultima - e possibilmente distruttiva - avventura: «Okay, Levi... ti seguirò. Però se questo... tizio non fosse Salomone, ti prego di non trascinarmi altrove. È l'ultima vita che abbiamo, non mi va di sprecarla a rincorrere fantasmi». Il cuore le martellava nel petto, mentre il brivido che le era piacevolmente corso lungo la schiena pochi istanti prima diede forma a una pelle d'oca incontrollata. Aveva ceduto, ma dubitava ancora fosse la scelta più saggia, viste le condizioni del suo corpo.
Levi a quel punto scostò la mano e lei si sentì privata di qualcosa, forse della forza con cui, infine, aveva acconsentito. 
«Kamuvan, akhotOra posso avere il mio caffè?»



 

 

Medio oriente, notte dei tempi

Levi sentì un dolore quasi lancinante squarciare la pace in cui era sprofondato, lì dove il freddo e una spessa cortina nera lo avevano avvolto al pari delle braccia delle sue amanti occasionali. Si sentì bruciare, arso da fiamme che non poteva vedere ma solo percepire, così provò a gridare, senza però ottenere alcun risultato. La gola era secca, tanto che le sue urla furono afone. La sua trachea non era altro che un fiume in secca, un deserto privo di oasi. 
Si dimenò in quella sofferenza cercando di capire cosa stesse succedendo intorno e dentro di lui, ma non riuscì a vedere nulla, solo il nero più assoluto, una cortina impossibile da dissipare. Gli sembrò di essere dormiente, le palpebre calate e incollate tra loro, eppure era certo di non esserlo: una sofferenza simile a quella che stava provando avrebbe resuscitato persino i morti. 

Che fosse allora finito nella terra dei diavoli? Come?

Lui, che era stato un servo fedele, un ebreo che si era battuto oltre che per il proprio sovrano per l'unico Dio in cui gli avevano imposto di credere, come poteva essere finito in quell'inferno?
Era forse una punizione per le molteplici vittime che aveva mietuto sul campo di battaglia nei suoi quindici anni di servizio all'interno dell'esercito di Re Davide e poi di Salomone? Non capiva. Non trovava alcuna spiegazione che potesse placare i suoi dubbi.

Levi iniziò a toccarsi il corpo: dapprima le gambe, tese nello spasmo di quelle atroci sensazioni e poi il torace, lì dove sentiva scaturire le fiamme che lo stavano lentamente bruciando. La pelle sotto alle dita parve essere fragile come un guscio vuoto e temette che a furia di tastare potesse aprirsi le carni, trovandosi l'interno privo di organi. 
A quel pensiero smise di toccare e subito un brivido freddo gli corse lungo la schiena, ma nemmeno la paura fu sufficiente per placare l'orribile sensazione del sole addosso - dentro persino! - che con la sua maestosità provava ad annientarlo e rinsecchirlo come una salma abbandonata tra le dune. Sabbia alla sabbia, ma in quel buio non vi era nulla di paragonabile al suo amato deserto.

Cercò di gridare ancora una volta, chiamando Salomone e sperando che almeno lui potesse sentirlo, ma nulla, solo il silenzio riecheggiò nelle orecchie.
Dove sono?, si chiese, sentendo lacrime di paura scendere lungo le guance. Anch'elle, che avrebbero dovuto dare almeno un lieve sollievo, parvero ruscelli bollenti sulla pelle già martoriata e, inesorabilmente, il Generale pensò che presto gli avrebbero corroso la cute, incidendo canali fatti di carne viva. Qualcuno mi aiuti, pregò, senza però ottenere risultato.
Perché non riusciva a svegliarsi da un simile incubo? Che lo stessero squartando vivo nella vita al di là delle palpebre chiuse? Perché dovevano essere per forza chiuse, non vi era mai stato al mondo un nero così denso come quello del sonno, nemmeno la notte, che dalla finestra della sua stanza era sempre stata puntellata di stelle, tante da mozzare il fiato anche all'uomo più insensibile - e le lacrime scesero ancor più copiose a quel pensiero.

Nei suoi ultimi venti inverni, Levi non ricordava di aver mai pianto a quel modo. Sì, era accaduto quando ancora era bambino, ma una volta iniziati gli addestramenti marziali quel lusso era stato bandito dai suoi occhi dorati - nessun soldato doveva farsi vedere fragile, men che meno poteva permetterselo un uomo della sua importanza. In quel momento però gli fu impossibile trattenersi, l'ignoto e l'inferno erano i suoi timori più grandi.

E così si ritrovò a pregare che tutto cessasse, che qualcuno corresse in suo soccorso, ma nessuno si presentò. Avrebbe sofferto all'infinito, dibattendosi come una tigre in gabbia e poi, semplicemente, sarebbe perito in quell'agonia senza fine. Vi erano forse alternative?

In risposta a quella silenziosa domanda il dolore parve iniziare a scemare. Che l'incubo stesse volgendo al termine? Ma no, diamine! Non poteva essere un banale cattivo sogno, quello che aveva provato era vero come la sua stessa esistenza o le else delle spade che brandiva quotidianamente. Era una sofferenza tangibile. 

Provò a inspirare, ma non percepì l'aria entrare nei polmoni, solo vuoto. Titubò. Cosa stava accadendo? Che fosse già morto e in attesa del giudizio divino?

Un suono leggero lo fece distrarre.

Levi scosse la testa, tastò lo spazio intorno a sé allargando le braccia e cercando qualcosa che non avrebbe saputo ben identificare. Un altro suono, questa volta più vicino e nitido, lo raggelò. Era stato un sibilo, ne era certo, e quei versi potevano essere prodotti solo da una cosa: serpenti. Ma come potevano esserci dei rettili nell'aldilà? No, ciò che stava udendo dovevano essere  solo delle allucinazioni uditive. Magari la sera precedente aveva esagerato con i festeggiamenti, forse aveva fumato più oppio del dovuto e mandato in confusione la mente... sì, era certamente per quel motivo che stava avendo simili visioni, non potevano esserci altre spiegazioni. Quello che stava vivendo doveva essere frutto della droga e nulla di ciò che stava provando era vero, nemmeno quell'atroce dolore che infine lo stava abbandonando. Si stava semplicemente auto suggestionando. 

O forse no?

La follia iniziò a prendersi gioco di lui, sbeffeggiando la ragione. Ogni volta che si convinceva che fosse solo un sogno, la coscienza gli gridava l'opposto e viceversa, in un circolo vizioso ansia.

Poi improvvisamente una flebile luce, uno squarcio sopra alla sua testa, illuminò una parte di quel nero. Levi dovette stringere le palpebre per non essere ferito e, quando dopo alcuni istanti all'apparenza brevissimi, le aprì nuovamente, prese a  guardarsi attorno con circospezione. Il suo sguardo saettò da un lato all'altro dell'ambiente in cui si trovava, ma nemmeno stavolta riuscì a scorgere qualcosa. Vi era ancora, e solo, la spessa cortina in cui era stato per tutto quel tempo, però riuscì a comprendere di essere sdraiato su un'enorme lastra nera. Non era né fredda come la pietra, né calda come il deserto, ma piuttosto qualcosa d'indefinito a cui provò a dare un nome, cercando nei ricordi qualcosa che potesse vagamente assomigliargli. Che razza di materiale poteva essere? 
Puntellando i gomiti per potersi sollevare e vedere meglio, provò a trascinarsi per quello spazio, ma presto si rese conto di non essere più in grado di compiere alcun movimento. Era paralizzato, incollato, fuso con quel pavimento dall'origine sconosciuta.

Ancora una volta la voce non uscì dalla gola; nessun'imprecazione, grida o altro, solo il silenzio tornato a regnare intorno al corpo come un tiranno senza coscienza. 
Levi digrignò i denti, bestemmiando contro il Dio che tanto si era sforzato di amare, in modo da essere graziato con la sua misericordia - una dote che Re Davide, prima e più di Salomone, gli aveva affibbiato durante ogni discorso pubblico dall'alto del pulpito che vegliava sulle teste del popolo; un ammasso di gente che ora, a quel Generale disperato, pareva essere pieno di pecore timorose. Quella gente si era appesa alle labbra di un Sovrano-profeta credendo che vi fosse una vita migliore ad attenderli dopo la morte e, per questo, non avrebbe temuto di lottare per una causa per cui, forse, era inutile battersi - perché se quello era il tanto decantato Paradiso, c'era poco in cui sperare.

Bastardo era stato quel Re a illudere lui e qualsiasi altro uomo che non avrebbe provato dolore nella crociata per il Signore dei Cieli.

Guardami Davide, chiamò Levi puntando lo sguardo verso lo squarcio sopra di lui.

Guarda il tuo Generale venir punito per i tuoi peccati, per una fede vacillante.
Stava delirando, eppure non smise.
Ti pare giusto farmi questo? Ti pare corretto tentare di uccidermi in questo terribile sogno?

Per alcuni istanti attese una risposta, ma nessuna voce sembrò placare la sua rabbia o dare una spiegazione a tutto ciò che stava provando.
Era quindi un incubo, un'allucinazione, la morte o altro? Cosa?

 

Intorno a lui riecheggiò un nuovo sibilo, questa volta più ravvicinato e nitido dei precedenti, poi un peso, lì nei pressi dell'ombelico, fece ammutolire la sua rabbia.
Il ragazzo sbarrò gli occhi e alzando la testa giusto quel tanto per riuscire a vedere da cosa fosse generata quella sensazione, si sentì venir meno. Sulla sua pelle abbronzata e segnata da piccole cicatrici pallide, un pitone nero se ne stava placidamente aggrovigliato su se stesso, compiendo ogni tanto piccoli movimenti in direzione di un foro che, d'un tratto, Levi si accorse squarciargli il pettorale destro. 

Il terrore lo colpì con una forza inimmaginabile, bloccandogli il cuore in gola.

Il serpente prese a muoversi, il Generale lo sentiva strisciare viscidamente su di sé scavandogli l'addome e poi il torace, creando conche lungo la carne, i muscoli e le ossa. Il suo andamento era simile a una danza minacciosa e, per la prima volta, Levi si rese conto di odiare quella creatura. Nonostante il suo migliore amico ne avesse allevati a decine, vi andasse in giro indossandoli come ornamenti, improvvisamente se ne sentì terrorizzato - e più avanzava, più quella sensazione si faceva intensa.

Arrivato al centro del suo petto, il pitone alzò il capo. La sua lingua biforcuta usciva a intervalli regolari dalla bocca schiusa, dando l'impressione che si stesse leccando le labbra prima di avventarsi sulla preda.

Il giovane provò a dimenarsi, a scrollarlo via dal proprio petto, ma ogni tentativo risultò inutile. Non si muoveva, men che meno faceva il rettile.

Sarebbe stato mangiato? Sarebbe stata quella la sua fine?
E come a volergli rispondere, la bestia spalancò le fauci, tanto da creare infondo alla propria gola un buco nero di cui non si sarebbe mai potuta vedere la fine. Levi d'istinto tentò di chiudere gli occhi, ma le palpebre non vollero ubbidirgli e così, certo di morire prima di paura e poi a causa di quel mostro, lo vide calarsi dentro al buco nel suo torace, trafiggendolo come una lama.

Nakhaš cacciò un urlo, svegliandosi di soprassalto da un incubo durato troppo a lungo. Aveva il cuore che palpitava all'impazzata nel petto, il corpo imperlato di quello che sembrava sudore e i muscoli erano tesi nello spasmo di una paura ancora viva. Si sentiva stremato, così come il terrore lo avvertiva ancora appiccicato addosso al pari di una patina viscosa. Era stato il sogno peggiore dei suoi ventisette anni, quello che più di tutti avrebbe pregato di dimenticare e, prendendosi il viso tra le mani, sperò che fosse solo un effetto collaterale dell'oppio.
Passandosi le dita ingioiellate sulla fronte e poi tra i capelli, avvertì una strana sensazione, come se il proprio sudore si fosse fatto più denso e, allontanando i palmi per capirne il motivo, si rese conto che ciò che aveva creduto essere un'innocente traspirazione era in realtà sangue.

Sì, sangue.

Levi sgranò gli occhi, incapace di comprendere, poi, mosso da un orrore che non avrebbe mai creduto potergli appartenere, volse lo sguardo intorno al proprio corpo, scoprendone enormi chiazze su tutto il pavimento. Ancora una volta provò a fuggire, ma a fermarlo stavolta, al posto di una lastra scura, vi furono le braccia di Salomone. 

Sconvolto si dimenò come un animale in gabbia, colpì senza logica tutto ciò che rientrava nel suo campo d'azione e, quando infine riuscì a divincolarsi, provò a fuggire. I suoi piedi sbatterono con violenza sul pavimento lercio, cercando di mettere quanta più distanza possibile tra sé e lo sfacelo di quella stanza, ma alla fine, distratto dalla foga, finì con l'incappare in qualcosa di pesante, caldo e al contempo morbido. Il Generale inciampò, ruzzolando a terra senza nemmeno rendersene conto. Con la parte bassa del corpo si ritrovò a schiacciare la stessa cosa che aveva bloccato la sua corsa verso l'uscita di quelle stanze e, involontariamente, mentre il mento gli sbatteva a terra, si ritrovò a imprecare - però non avvertì alcun dolore. Il suo era stato più un insulto verso il fato, che nei confronti della ferita che si sarebbe dovuto procurare. 
Confuso, ma più di tutto agitato, si affrettò a staccare il viso dalla pietra facendo leva sulle mani insozzate di sangue e, appena si voltò per vedere cosa gli avesse impedito di fuggire, scongiurando silenziosamente che non si trattasse dell'immenso pitone nero di pochi istanti prima, deglutì. 
Ciò che vide fu ben peggiore di quella bestia. 
Sotto le sue gambe nude, il corpo di Tamar se ne stava immobile. La gola era stata recisa come quella di un animale e gli occhi, vacui e lattiginosi, erano rivolti nella sua direzione. Lo fissavano e mutamente lo accusavano di qualcosa che nemmeno lui si seppe spiegare. 

Che diamine era successo durante il suo sonno?


 

Mishpakhá: famiglia

Kamuvan: certo/certamente

 
   
 
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