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Autore: french_toast    11/02/2017    5 recensioni
"Non sapeva neanche come avrebbe fatto a trovare quello splendore di ragazzo in mezzo a tanta gente e se, avendolo trovato, si sarebbe interessato ad una personcina insignificante come Yuuri, ma non poteva fare a meno di sperare che qualcosa accadesse: gli sarebbe bastato scambiare qualche parola, o anche scorgere in un punto lontano l'argento dei suoi capelli e contemplarlo distante."
[Viktor x Yuuri main, accenni di Otayuri, 1890s/cinderella au]
Genere: Malinconico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Christophe Giacometti, Jean Jacques Leroy, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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PREMESSA IMPORTANTISSIMA!!
Scrivendo questa fanfiction mi sono impegnata nell'essere coerente con le usanze e i costumi del periodo storico (anche se non so se sono riuscita nel mio intento, se c'è qualcosa di sbagliato vi prego di farmelo notare DD:), fatto eccezione un piccolo particolare: in questo AU l'omofobia non è mai esistita. Ho deciso di far svolgere la trama in questa specie di universo parallelo perché sapevo che attenendomi ai dati storici effettivi non avrei mai potuto dare ai protagonisti un lieto fine (probabilmente sarebbero stati costretti a sposare qualcun'altra e poi a vedersi di nascosto, o, anche restando scapoli, a non manifestare pubblicamente il loro amore, e sono entrambe situazioni abbastanza difficili). Di conseguenza, anche le unioni civili saranno legali perché semplicemente nessuno in questo mondo idilliaco trova nulla di strano nell'avere preferenze diverse da quelle etero e nel coronare con un matrimonio una storia d'amore, indipendentemente dal sesso dei due amanti.

Inoltre, a volte ho utilizzato i vezzeggiativi russi Yura e Yurochka indicare Yuri Plisetskji, che sono forme più confidenziali ma potebbero anche risultare confusionare visto che spuntano all'interno della storia senza un adeguato contesto D:
Detto questo, buona lettura e spero che ciò che ho scritto vi piaccia! :D 

 
***

La vita di Yuuri in casa Giacometti era come avvolta in una nebbia di tedio: non poteva lamentarsi dei suoi parenti acquisiti, né dei loro gusti nel mangiare e nel vestire, né del modo in cui veniva trattato, perché semplicemente non ne aveva motivo. Eppure, non c'era momento in cui non desiderasse trovarsi altrove. Christophe aveva deciso di continuare a ospitarlo in casa dopo essere diventato vedovo per la seconda volta e Yuuri sapeva che, dato che non era suo figlio naturale, avrebbe anche potuto abbandonarlo a sé stesso nei sobborghi di Parigi; gli era grato di non averlo ripudiato, ma quella decisione, per quanto magnanima, non attenuava la sua tristezza.
Da quando era morta sua madre, ogni cosa aveva perso attrattiva: le passeggiate nei verdeggianti giardini del Lussemburgo, i dolcetti della boulangerie vicino casa, la musica del fonografo e le nuvole rosee del tramonto erano come ingrigiti e confusi nella sua memoria e lui era sempre meno desideroso di uscire dalla sua stanza, dove passava già intere nottate a rigirarsi nel letto senza trovare pace.
 Il lutto non era stato qualcosa che aveva assimilato subito, anzi, sembrava non riuscire ancora a realizzarlo pienamente, e i ricordi degli ultimi mesi con sua madre bruciavano ancora vividi nella sua mente. Non era stato come con suo padre; allora era troppo piccolo per poter restare notte e giorno al capezzale di un malato. Adesso invece aveva assistito a tutto: le lacrime, le urla di dolore, il sangue vermiglio nei fazzoletti su cui lei tossiva, lo strazio di vederla spegnersi giorno dopo giorno. La memoria di una sera in particolare lo perseguitava: lei aveva avvicinato la mano tremante alla sua guancia e lo aveva accarezzato lentamente, con un'indicibile dolcezza negli occhi. Poi gli aveva fatto cenno di avvicinarsi e lui aveva obbedito in silenzio, standole né troppo vicino, per non contrarre la tubercolosi, né troppo lontano, volendo sentirla bene.
"Sii forte", gli aveva detto, con un filo di voce incredibilmente roca, inceppandosi ad ogni sillaba. Sapeva che tra pochi giorni non sarebbe stata completamente in grado di parlare, e i suoi occhi si inumidivano al solo pensiero, ma lei continuava a sorridergli contenta come se non stesse succedendo nulla. Aveva fatto passare un'ultima volta la mano tremante tra i capelli di suo figlio e poi si era girata dall'altra parte per riposare.
A volte la malinconia si manifestava in forme più lievi, come quando vedeva qualcosa che gli ricordava lei. I fiori di magnolia, ad esempio, o i suoi rossetti ancora intatti nella camera da letto di Christophe; allora stava qualche minuto in quieta contemplazione e poi andava a parlarne con Yuri, il suo fratellastro. Yuri capiva come si sentisse, perché anche lui e Jean-Jacqués avevano perso la madre anni fa, ma il piccoletto, a differenza del fratello, sembrava esserle ancora particolarmente legato.
 Yuuri ricordava ancora quando aveva iniziato a frequentare la casa di Christophe e il ragazzino non gli aveva risparmiato commenti crudeli e frecciatine non troppo velate: lo prendeva in giro per i suoi occhi a mandorla, non perdeva neanche un minuto per ridicolizzare la sua cultura e la sua lingua, gli diceva incessantemente che avrebbe fatto meglio a restarsene in Giappone - alla resa dei conti, sull'ultimo punto non aveva neanche torto. Ovviamente Yura veniva spesso ripreso dai parenti, anche se Jean-Jacqués aveva provato più volte a giustificare il comportamento del fratello: diceva che non riusciva a sopportare il pensiero che Christophe amasse qualcuno aldifuori di sua madre e che avrebbe dovuto perdonarlo, perché era ancora giovane e impulsivo. Yuuri provava ad ignorarlo, ma le sue parole avevano comunque un certo peso, e ne pativa.
 Quando la salute di sua madre era peggiorata, però, le cose cambiarono. Yura lo cercava quasi ogni pomeriggio e gli parlava fino a quando non si fosse sentito un po' meglio, gli portava da mangiare e da bere quando si barricava in camera e perdeva cognizione delle ore che passava solo e a digiuno. Gli diceva poi, con un che di sprezzante, di non essere uno smidollato e di non piangere, perché per lui la vita sarebbe continuata comunque e avrebbe dovuto continuarla per lei, e lei non avrebbe mai voluto vederlo piangere a causa sua. A questa dichiarazioni Yuuri una volta aveva risposto con altre, abbondanti lacrime e Yura, non sapendo cosa fare e sicuramente non aspettandosi una reazione del genere, aveva iniziato a dare in escandescenze e aveva lasciato all'improvviso la camera imprecando sottovoce.
Era un modo strano di volergli bene, ma in fondo lo apprezzava.
A volte Yura gli raccontava di sua madre. Diceva che aveva gli occhi grandi e luminosi e lunghi capelli neri che amava accarezzare quando lei lo teneva in braccio. Diceva anche che veniva dalla Russia e aveva la pelle candida e morbida come la neve, e che la sua lingua era come una melodia arcana e, quando la parlava, lui non poteva fare a meno di ascoltarla estasiato. Aveva imparato ad essere fluente in russo per lei, e gli piaceva intrattenere conversazioni con vecchi nobili emigrati e cantare tristissime nenie quando pensava che nessuno lo stesse ascoltando.
Yura però riusciva a capirlo per determinati aspetti e non per altri. Quando gli diceva che aveva bisogno di condividere un senso di cultura con qualcuno, ad esempio, o che la solitudine lo stava consumando, il ragazzo aggrottava le sopracciglia bionde e lo guardava come se avesse detto un'eresia.
《Ma ci siamo noi》biascicava,《perché mai dovresti sentirti solo?》
A Yuuri mancava poter parlare liberamente di quella cerchia di cose che ormai appartenevano a lui e a lui soltanto, essendo probabilmente l'unico giapponese rimasto in tutta l'île de France (o forse addirittura nell'intera nazione). La fredda e sporca Parigi gli sembrava di giorno in giorno più estranea e vagheggiava di tornare a casa; sognava spesso di calpestare scalzo il bagnasciuga di Hasetsu, di percorrere di fretta gli interminabili gradini che portavano al tempio, a volte anche soltanto di sentire il suo idioma parlato da qualcuno all'infuori di lui. Ripensava ai pomeriggi d'estate passati a giocare nel boschetto dietro casa sua, con il sole che filtrava tra le foglie e il turchese del mare che si intravedeva all'orizzonte. Quelle immagini, vivide ma distanti, lo riempivano d'angoscia, se contrapposte alla sua attuale situazione, e ogni giorno continuava a vivere - o meglio, vegetare - in uno strano e nebuloso oblio. Non vedeva una via di fuga nel suo passato, ma gli piaceva cullarvisi per lenire il suo dolore. Si alienava dalla realtà, negava strenuamente la morte di sua madre e viveva interi giorni e intere notti in quel mondo che non conosceva inizio e fine, che non conosceva pace.
Quella volta, mentre rimurginava come di consueto, una realizzazione lo colpì all'improvviso: non doveva per forza restare in Francia. Poteva anche prendere il primo battello e tornare a casa così, su due piedi, se ne avesse avuto voglia. Gli brillarono gli occhi e iniziò a preparare i bagagli.
Nei giorni che seguirono andò a ritirare un'ingente somma dalla banca e la nascose prima in tasca, poi sotto il materasso, poi ne cucì una parte all'interno della sua finanziera.
Controllò gli orari di partenza dei treni notturni, e trovò una corriera disposta ad accompagnarlo alla stazione nel cuore della notte.
Al momento della fuga, però, le sue mani tremavano dalla paura, i sensi di colpa lo intorpidivano e lo immobilizzavano. Avrebbe dovuto lasciare qualcosa, una piccola lettera, forse, un foglietto stropicciato sul capezzale del suo letto per spiegare quantomeno i motivi di quel gesto estremo, ma non riusciva a prendere in mano una penna. In ogni caso, non pensava avrebbero capito. Accese, per tranquillizzarsi, un incenso all'altare dei suoi genitori e si inginocchiò per meditare, cosa che faceva spesso prima di qualche azione azzardata, come per chiedere ad entrambi perdono in anticipo. Poi prese il bagaglio e scese le scale con passo leggero, senza fare rumore, scrutando il cielo denso e plumbeo da fuori la finestra, notando, un po' nascosto dalle fronde degli alberi, il cocchio che lo aspettava in fondo alla strada.
Una volta entrato nella carrozza si sistemò sui freddi sedili di pelle e porse al cocchiere quanto pattuito, sussurrandogli di dirigersi alla Gare di Saint-Lazare. Nell'emozione generale non si rese conto che il cocchiere era in realtà il suo patrigno, che lo guardava greve attraverso il pertugio. Ci mise un po' per realizzare che il suo tentativo di fuga era stato sventato, e non oppose resistenza quando Christophe lo riportò a casa strattonandolo per il braccio, lasciando che, nel rientrare, gli sguardi dei servitori ancora svegli indugiassero su di lui con il dovuto disprezzo. A stento trattenne i singhiozzi quando Yurochka si aggiunse al coro degli spettatori, scrutandolo, se possibile, schifato e angosciato allo stesso tempo.
Di quella notte, poi, non si sarebbe ricordato nient'altro che delle lacrime roventi che gli fendevano il viso e le sue promesse di non ripetere mai più un gesto del genere.


 
   
 
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