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Autore: Adeia Di Elferas    02/03/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Rosaria, moglie di Antonio Ghetti, si svegliò all'improvviso, quando sentì gridare la sua serva.

Suo marito le aveva permesso di avere una cameriera solo da poco. Aveva potuto permettersela grazie agli avanzamenti di grado che aveva ottenuto da quando la Contessa era a capo del governo.

Mettendosi la vestaglia, la donna uscì dalla sua camera da letto e cominciò a chiedere: “Si può sapere che sta..?”, ma la voce le morì in gola, quando si trovò di fronte una squadriglia di uomini armati, guidati dal Governatore della città, che impugnava una spada e una torcia.

In due tenevano ferma la cameriera, tappandole la bocca con le mani guantate di ferro. La poveretta piangeva in silenzio, ma non provava a liberarsi, forse troppo spaventata per farlo.

Tommaso Feo avanzò con la furia di un titano, riempiendo senza fatica l'angusto corridoio che lo separava dalla padrona di casa.

Stava a petto nudo e il suo viso era trasfigurato dall'odio. Lasciando la fiaccola a uno di quelli che lo seguivano, l'uomo alzò la spada minacciosamente e afferrò Rosaria per i capelli.

Troppo scossa da quel gesto repentino, la moglie di Gian Antonio Ghetti si vide passare la propria vita davanti agli occhi, mentre il braccio imperlato di sudore del Governatore caricava ancora di più il fendente, come se fosse deciso a reciderle la testa dal collo in quel preciso istante.

“Perché?!” gridò la donna, appena prima che Tommaso sferrasse il colpo.

La voce suonò strozzata per via dell'angolo innaturale che la gola di Rosaria aveva preso e fu quel dettaglio a far indugiare il Governatore quel tanto che bastava per permetterle di tentare il tutto e per tutto.

“Che cosa volete fare?” chiese, cercando di non soffocarsi con la saliva: “Perché mai volete uccidermi? Che cosa sarà mai successo di così grave, che io debba perdere oggi la vita per mano vostra?”

Il Governatore respirò un paio di volte pesantemente, tenendo sempre la spada alta: “Tuo marito ha ucciso mio fratello, ecco che è successo.”

Rosaria deglutì, con fatica. Sapeva che sarebbe stato in quei giorni, anche se non sapeva la data precisa. Era andata via da Forlì proprio per quello. Aveva voluto tutelarsi da eventuali disordini in città, ma non aveva pensato che il più grande pericolo stava proprio a Imola.

“E che c'entro io?!” tentò la donna, spronata solo dal desiderio di sopravvivere.

“Ho avuto ordine di uccidere te e i tuoi figli.” rispose Tommaso, guardandola in modo fisso, come se in realtà non la vedesse: “E anche tutti i vostri parenti che vivono qui. Domani mattina non dovrà più esserci nemmeno un Ghetti in grado di respirare in tutta Italia!” ringhiò.

Rosaria avrebbe voluto raddrizzare la schiena. Tirata all'indietro, col cuoio capelluto che doleva all'inverosimile per la presa salda e feroce del Governatore, faticava a respirare e sentiva gli occhi lacrimare per lo sforzo e la paura.

Tuttavia non provò a ribellarsi, certa che fosse necessario giocarsi al meglio quell'unica possibilità.

Mettendo una buona dose di genuina sorpresa, domandò: “Chi è che vi ha dato l'ordine?”

“La Contessa in persona.” fece il Feo, impassibile.

La donna strabuzzò gli occhi. Suo marito era stato convinto che la Contessa fosse la diretta mandante dell'omicidio... Perché mai ora avrebbe dovuto voler morti i congiurati che le avevano fatto il favore di togliere di mezzo Giacomo Feo?

Dato che Rosaria sembrava rimasta senza parole, Tommaso espirò con forza e si preparò a colpirla.

Vedendo tre soldati ricomparire in corridoio con i suoi figli stretti da catene pesanti, la moglie di Ghetti si ridestò e, fermando ancora una volta la mano del suo boia, gridò: “Confesserò! Ho molti nomi da fare! Non uccideteci! Posso fare molti nomi!”

Il Governatore strinse i denti e fece del suo meglio per controllare la rabbia. Caterina gli aveva scritto solo di giustiziare Rosaria e i figli di Ghetti e tutti i suoi parenti, ma poteva essere che ci fossero davvero degli altri colpevoli...

“Sono tanti!” ribadì la donna, quasi leggendo le perplessità inespresse di Tommaso: “Per uccidere vostro fratello ci sono voluti molti uomini e io so dirvi chi sono!”

Il Governatore, pur rodendosi il fegato, chiamò a sé due soldati e, lasciando con uno strattone i capelli di Rosaria, disse loro: “Cercate tutti gli altri Ghetti che vivono a Imola. Impiccate quelli che oppongono troppa resistenza e incarcerate gli altri. In quanto a loro – e indicò con il capo Rosaria e i suoi figli – fate in modo che vengano assicurati in catene a un cavallo ciascuno, controllati da un soldato a testa. Li portiamo immediatamente a Forlì.”

“Non sarete voi a raccogliere la mia confessione?” chiese la prigioniera, ancor più terrorizzata di quando aveva visto i soldati in casa sua.

Tommaso infilò la spada nella fodera e mormorò, appena udibile oltre i pianti dei ragazzini e le intimidazioni delle guardie: “Vi interrogherà la Contessa. Che Dio abbia pietà di voi, perché lei non ne avrà di certo.”

 

“Sì, vi dico! Sì!” la voce usciva dalle labbra martoriate e sanguinanti di Don Domenico che, per resistere al dolore, aveva preso a mordersele di continuo con una forza disumana: “È vero! Lo confesso! È stato Ghetti, quel maledetto Gian Antonio Ghetti! Che Dio lo maledica!”

Cesare Feo si teneva la manica del camicione davanti al naso per contrastare il tanfo che saliva assieme ai rivoli di fumo ogni qual volta che la Contessa premeva sul corpo del prete uno dei ferri roventi che l'aguzzino continuava a preparare con meticolosa attenzione.

A tratti, la donna aveva usato anche la viva fiamma e il risultato era stato che il corpo di Don Domenico appariva come una mappa di cuoio, bruciata, arsa e ferita.

“Mi aveva detto – continuò ansante Don Domenico, mentre Caterina gli lasciava un minuto di tregua, tenendo sempre il ferro sollevato davanti ai suoi occhi – che voi e vostro figlio volevate così!”

“Chi vi ha detto di venire qui a Forlì?” chiese la Contessa, piegandosi appena sul prigioniero.

Ci aveva messo quasi tutta la notte, ma alla fine Don Domenico, straziato dal dolore fisico e dalla paura di morire in quella cella, aveva cominciato a parlare.

“Il Cardinale Sansoni Riario!” disse subito l'uomo, reclinando il capo all'indietro.

A quella rivelazione, Caterina fece mezzo passo indietro e anche il castellano si mostrò stupito.

“State mentendo.” provò a dire la donna, credendo impossibile che anche Raffaele fosse coinvolto.

Se addirittura i maneggi per arrivare a quell'omicidio avevano coinvolto un prelato romano, significava che c'erano state lettere e messaggeri. Com'era possibile che le sue spie non avessero scoperto nulla per tempo?

“Se ho partecipato – concluse il prete – è solo perché credevo di far cosa gradita a lor signori, togliendo di mezzo quel buono a nulla di Giacomo Feo... Voi non sareste stata in grado di liberarvene per conto vostro... Vi servivano degli uomini, per una cosa del genere...”

A quelle parole, Caterina perse la testa: “Come hai potuto pensare che io mi sarei rivolta a dei pezzenti come te per risolvere una cosa simile?! Non lo sai che nelle mie terre posso disporre della vita di chiunque?! Cosa credi che mi avrebbe fermata dall'ucciderlo, se lo avessi voluto?!”

Don Domenico ammutolì, fissando con l'unico occhio che ancora si apriva la Contessa, come se quelle domande l'avessero davvero portato a nuovi ragionamenti.

Prima che il prete potesse dare una risposta, la donna si fece passare un ferro rovente e, schiacciando con forza la punta larga contro il petto del prigioniero, proseguì: “Ebbene, dopo stanotte nessuno metterà mai più in dubbio il mio potere.”

Il prete pianse e si disperò e, quando Caterina gli ordinò ancora una volta di fare tutti i nomi dei congiurati, finalmente l'uomo si preparò a confessare anche il più piccolo dettaglio.

Don Domenico fece un lungo elenco di nomi, che la Contessa ascoltò con il fuoco acceso negli occhi.

Cesare Feo, alle sue spalle, la fissava preoccupato, chiedendosi fin dove si sarebbe spinta.

Alla morte di Girolamo Riario aveva agito semplicemente come una vedova che applicava la legge per non farsi spodestare dai dissidenti, mentre quella volta il castellano vedeva solo una donna resa cieca dal furore per la morte dell'uomo che amava.

Ogni volta che il prete tentennava, Caterina lo colpiva di nuovo con un ferro e Cesare Feo rabbrividiva. Era una vera tigre selvatica. Una leonessa impossibile da domare, una belva feroce che si tuffava nel sangue di quelli che le avevano fatto il più grande dei torti, godendone e beandosene.

“E comunque...” terminò Don Domenico, quasi senza fiato, ogni muscolo teso nello spasimo del dolore, la pelle tesa, come pronta a spaccarsi in mille pezzi: “Vostro figlio Ottaviano lo voleva davvero.”

“Che intendete?” chiese la Contessa che, malgrado tutto, ancora si sforzava di non capire.

L'effetto dell'oppio stava lentamente svanendo e Caterina si aggrappava a quell'ultima nube di incoscienza che però le parole del prete stavano dissolvendo.

“Che lui c'era sempre, quando si doveva decidere – rispose Don Domenico, mentre la sua bocca si incurvava appena in quello che poteva sembrare un sorriso di soddisfazione – non se l'è inventato Ghetti, che il Conte fosse d'accordo. Vostro figlio avrebbe ucciso il vostro amante con le sue stesse mani, se solo non fosse un codardo...”

La Contessa si mosse rapida in avanti e sferrò uno schiaffo tanto forte alla guancia del prete, già ferita dai ferri della tortura, che Don Domenico svenne subito per il male.

Guardando il corpo esangue del prigioniero, Caterina lo credette morto e provò un profondo senso di vuoto, che non si attenuò nemmeno quando vide il torace del prete alzarsi e abbassarsi lentamente.

Non era morto, ma poco ci mancava.

“Fate in modo che si riprenda.” ordinò la donna, lasciando il ferro che stringeva in pugno all'aguzzino e asciugandosi il sudore della fronte col dorso della mano: “Quando verrà giustiziato, domani, voglio che sia cosciente.”

E detto ciò, lasciò la sala.

Cesare Feo fece un cenno ai due soldati che avevano assistito alla tortura e ribadì: “Fate come ha detto.”, ma non ebbe il cuore di restare ancora in quella cella un minuto di più.

 

Ottaviano non resisteva più a vedere suo fratello piegato in ginocchio, le mani giunte che nascondevano il volto, immerso in preghiera e scosso dai tremiti del pianto.

“Smettila!” gridò, teso come la corda di un arco.

Cesare non lo sentì nemmeno, continuando a dondolare su se stesso, le labbra appena mosse dalle parole latine con cui chiedeva perdono a Dio per quello che aveva fatto.

Il Conte stava per impazzire. Ancora nessuno era arrivato a bussare alla porta di Paolo Denti, ma era sicuro che prima o poi le guardie sarebbero giunte anche lì.

A quel punto lui e Cesare avrebbero scoperto che sorte li attendeva.

I casi potevano essere principalmente due. O la loro signora madre aveva avuto le prove schiaccianti della loro colpevolezza, e a quel punto i soldati li avrebbero per certo presi di peso e portati alla rocca dove sarebbero morti prima dell'alba; oppure la Contessa aveva deciso di non agire per il momento contro di loro, oppure di ostinava a non credere alla loro colpevolezza, e in tal caso nessuno avrebbe osato far loro nulla, per lo meno nell'immediato.

Sentendo delle urla molto concitate provenire dalla strada, Ottaviano si fiondò alla finestra e sbirciò attraverso le imposte serrate.

Era ancora piena notte e l'unica luce era quella delle tante torce che invadevano la città, eppure al Conte quell'incerto barlume bastò per riconoscere le persone portate via dai soldati di sua madre.

Si trattava dei due figli di Filippo Delle Selle, di Giacomo Delle Selle e dei due figli di lui, di cui uno ancora indossava gli abiti da canonico del Duomo.

Come mai Filippo non fosse tra loro, Ottaviano non voleva saperlo. La cosa più probabile, era che fosse già morto.

Tornando a guardare la stanza, illuminata da una decina di candele che Denti aveva messo a disposizione con riluttanza, il Conte rivalutò l'atteggiamento di Cesare.

Forse pregare era davvero l'unica cosa che restava loro da fare.

Peccato che lui non ne fosse in grado.

“Prega anche per me, fratello.” disse piano, mentre nelle orecchie sentiva le grida di Giacomo Delle Selle che si proclamava innocente.

 

“Ha voluto un prete per confessarsi e per ricevere l'olio dei morenti.” disse il castellano a Caterina, quando la raggiunse nelle sue stanze alla rocca.

La Contessa sentiva la testa pulsare per la stanchezza. Avrebbe voluto prendere di nuovo il suo intruglio, per calmare i nervi, ma non ne aveva ancora avuto il tempo.

“Comico, no? È un prete lui stesso, eppure per andare al Creatore ripulito ne serve ugualmente uno anche a lui.” commentò la Contessa, cinica: “Comunque non dovevate permetterglielo. Era bene che scontasse la sua pena anche all'inferno.”

Cesare Feo, che era rimasto molto traumatizzato dall'interrogatorio a cui aveva assistito, pur essendo lo zio della vittima di Don Domenico, sussurrò, mosso da pura pietà: “Con quello che ha patito, era il minimo che potessi concedergli.”

“Come credete.” ribatté Caterina: “Appena Mongardini sarà tornato qui a Ravaldino con qualche prigioniero, ditegli di venire qui. Devo spiegargli cosa fare con questo inutile prete...”

Cesare Feo chinò il capo e trovò il coraggio di chiedere: “Hanno portato alla rocca il figlio di Gian Antonio Ghetti che ancora stava qui a Forlì a casa della sua balia, che lo sta allattando. Cosa volete che ne sia di lui?”

La Contessa strinse i pugni e fu sul punto di concedere uno slancio di umanità almeno per quello che doveva essere poco più che un neonato.

Poi, però, si ricordò di due cose fondamentali.

La prima l'aveva imparata sia dalla storia della sua famiglia, sia da quella del Magnifico. Ovvero: ogni erede di un giustiziato lasciato in vita sarebbe primo o poi diventato un problema.

La seconda fu dettata solo dalla voragine che le si era aperta laddove prima stava il suo cuore. Pur se Gian Antonio Ghetti era purtroppo già morto, e non per mano sua, voleva che soffrisse almeno quanto stava soffrendo lei.

Se lui non poteva più soffrire, avrebbero sofferto i suoi parenti.

Così, rabbrividendo alle sue stesse parole, Caterina ordinò: “Uccidetelo.”

Il castellano trattenne il fiato e, scuotendo il capo, disse ugualmente: “Come desiderate.”

 

Non era ancora l'alba quando un editto scritto per volere della Contessa venne letto in piazza.

Gli araldi della Sforza si fecero annunciare con le trombe e in un lampo la buona parte dei cittadini di Forlì – eccezion fatta per quelli che stavano subendo in quel mentre le perquisizioni da parte dell'esercito – si riversò davanti al palazzo dei Riario per sentire che avesse da comunicare la loro signora.

La confusione di quella notte necessitava regole e Caterina lo aveva finalmente capito. Con quel primo editto voleva mettere in chiaro una cosa su tutte: non avrebbe avuto nessun riguardo nemmeno per quelli che si fossero trovati accidentalmente dalla parte dei congiurati.

“Per ordine della Contessa – gridavano a ripetizione gli annunciatori – chiunque si trova a nascondere in casa propria uno degli assassini del Barone Feo, sarà messo alla forca non appena scoperto, a meno che non denunci il suddetto assassino prima di subire perquisizione!”

Andrea Bernardi, che si era ripreso a fatica dalle prime ore di quella sciagurata notte d'agosto, era in prima fila mentre venivano ripetute queste parole.

Aveva visto più di una persona portata via dai soldati e temeva quello che sarebbe accaduto di lì in avanti.

Conosceva abbastanza bene la Contessa per capire che non si sarebbe fermata davanti a nulla, quella volta.

Quando gli araldi ripiegarono le pergamene su cui stavano leggendo e se ne andarono, lasciando che la città ripiombasse nel caos, il Novacula si incamminò mesto verso la sua bottega.

Si sentiva in colpa, tremendamente in colpa.

Aveva avuto il sentore che stesse per capitare qualcosa di terribile, eppure non aveva fatto nulla per mettere seriamente in guardia la sua signora.

Tirando su col naso, lo storiografo arrivò alla sua barberia e non si diede pena di serrare la porta.

Sarebbero arrivati pure da lui e, anche se non avessero trovato nulla o nessuno di sospetto, avrebbero comunque messo tutto sottosopra. Tanto valeva aspettarli senza serrature chiuse, lavorando alle cronache cittadine.

Sedendosi tranquillo alla sua scrivania nel retrobottega, Bernardi intinse la penna nell'inchiostro e cercò un modo per difendere fin da subito la memoria di Giacomo Feo. Intuiva, da bravo storico, come la vendetta della Contessa l'avrebbe messa in ombra. Che almeno i posteri capissero il perché del suo gesto.

Per prima cosa, voleva sfatare la diceria per cui il defunto Barone avesse intessuto una storia con la Contessa solo per guadagno. Così, dopo averci ragionato, trovò il modo che a lui parve più congeniale per descrivere il loro amore.

'Era, insomma, un amore domestico, nato dalla vicinanza, dalla consuetudine, scusato, scusabile o almeno spiegabile – scrisse – con la bellezza e con la virtù del giovanetto e col temperamento ardente e pur onesto di Caterina'.

 

“Mi avete chiamato, mia signora.” fece Mongardini, presentandosi alla porta di Caterina.

L'uomo era ben piazzato, dalla mascella squadrata e con occhi piccoli e scuri. La Contessa lo conosceva come un soldato feroce, ma fedele, ed era certa che facesse al caso suo.

“Chi avete portato alla rocca?” chiese la donna, avvicinandosi.

L'uomo, tenendo il mezzo elmo sotto al braccio, elencò: “Giacomo Delle Selle, i suoi figli, i figli di Filippo Delle Selle e il figlio più piccolo di Gian Antonio Ghetti.”

“Il bambino è già stato ucciso?” chiese Caterina che, nei minuti trascorsi in solitudine, si era resa conto della mostruosità del suo ordine.

Mongardini gonfiò il petto, ma quando parlò non lo fece con orgoglio, tutt'altro: “L'ho decapitato io personalmente.”

La Contessa soffiò, mentre il tremito che era stato temporaneamente placato dall'oppio le riprendeva le mani.

Aveva passato il segno, ormai era chiaro anche a lei. Non poteva più tornare indietro. Da quel momento in poi, avrebbe potuto fare qualunque cosa, tanto il peggio lo aveva già fatto. La sua anima era marchiata per sempre.

E allora cosa la frenava dal dare l'ordine a Mongardini di cercare Ottaviano e fargli fare la stessa fine che era toccata al piccolo di Ghetti?

“Voglio che vi occupiate di Don Domenico.” disse la Contessa, ricacciando nel fondo della sua anima l'idea appena abbozzata di giustiziare il suo primogenito: “Voglio saperlo morto il prima possibile, ma fate in modo che soffra.”

Mongardini, sollevando un po' il labbro superiore che lasciò intravedere denti bianchi, ma irregolari, si esibì in un profondo inchino e chiese: “C'è altro che posso fare?”

“Per ora basta così. Quando il prete sarà morto, tornate da me, vi darò altri ordini.” lo congedò Caterina.

L'uomo scattò sull'attenti e si infilò di nuovo l'elmo, pronto a raggiungere le carceri e prelevare Don Domenico da Bagnacavallo.

Rimasta sola, la Contessa sentì la gola secca. Si rese conto di avere sete, ma la fame non la sfiorava, benché avesse lo stomaco vuoto da molte ore.

Andò filata nelle cucine, trovandole straordinariamente deserte. Bevve quasi un'intera caraffa di vino e la vomitò pressoché subito, preda di conati e contrazioni terribili.

Riprovò con un'altra caraffa e quella volta riuscì a tenere in corpo tutto quanto.

Tenendosi la pancia dolorante, ripercorse in fretta la strada verso la sua spelonca da strega e prese una nuova dose della sua pozione, per calmarsi. Se avesse continuato così a lungo, lo sapeva, avrebbe perso davvero la testa e a salute.

Ormai, però, non le importava più. Voleva vendicarsi e basta. Quello che sarebbe accaduto dopo non le importava.

Se anche un dopo non ci fosse stato, non le sarebbe importato.

 
   
 
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