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Autore: _Lady di inchiostro_    29/03/2017    2 recensioni
Secondo quanto si dice su Sibun, chi è affetto dalla Sindrome dell’Astronauta è convinto di poter percepire il dolore di un’altra persona anche se questa è distante anni luce. Di avere le stesse malattie, di ferirsi dove si ferisce l’altro, e di poterci comunicare attraverso i sogni. Questa persona è sempre un abitante del Pianeta Terra.
~
Oikawa Tooru è un promettente pilota del pianeta Sibun, nel Sistema Trappist-1.
Da un paio di giorni, però, sogna di trovarsi in un posto bellissimo e con un’altra persona, Iwaizumi Hajime, un abitante del Pianeta Terra. Ma su Sibun, si dice che la Terra sia ostile e che la vita sia impossibile. Chiunque dica il contrario è considerato folle.
Cosa avrà intenzione di fare Oikawa?
E soprattutto, siamo proprio sicuri che sulla Terra si possa ancora vivere?
~
[Science Fic] [Soulmate AU!] [Un po’ di Interstellar, un po’ di Your Name] [Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it]
Genere: Angst, Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A quaranta anni luce di distanza'
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Iniziativa: Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it 
Numero Parole: 7617 
Prompt/Traccia: Un cielo diverso
Note aggiuntive della piratessa spaziale (?): dedico questo capitolo a Laura, la mia beta e waifu. Scusami per farti disperare..
.


 


Capitolo secondo
~

Atto primo
 


Un mese dopo...






I suoi sogni si erano fatti sempre più strani. Oikawa non faceva che chiedergli continuamente informazioni sul pianeta Terra, su come fosse un tempo e cosa ci fosse di diverso da allora. Lui, di rimando, gli chiedeva come fosse il suo pianeta, e avevano scoperto che alcune parole all'altro erano sconosciute.
A quanto pare, su Sibun, si parlava prettamente il giapponese, ma c'erano tanti abitanti che parlavano anche altre lingue. La spiegazione a tale particolarità, però, non c'era; o almeno, Oikawa non aveva badato al fatto che riuscissero a comunicare pur provenendo da pianeti differenti, del resto era convinto che Iwa-chan fosse un abitante di Sibun.
Avevano scoperto che quello non era un mare, ma un lago dall'acqua blu, come non si era mai visto su Sibun: lì, l'acqua del mare sembrava grigia. E non avevano neanche i vulcani, e a detta di Iwaizumi loro davano sempre le spalle alla sua bocca.
Avevano parlato di loro, delle vite che conducevano e di quello che facevano durante la giornata, e Hajime si era sentito veramente umano. Parlare con Oikawa lo faceva sentire umano, perché quando si svegliava la mattina doveva preoccuparsi della piantagione, di suo padre e Haruka, e cosa più importante di sopravvivere. Tooru aveva la capacità di farlo sentire normale, un ragazzo di ventitré anni qualunque e che aveva ancora una vita davanti.
Iwaizumi Hajime si era ritrovato a sperare ancora. Ma il dubbio che questo fosse solo frutto del suo inconscio continuava a serpeggiare.






Questa volta, i raggi del sole avevano una sfumatura che andava dall’arancione al rosso tenue. Oikawa gli aveva detto che gli ricordava il suo sole, che loro chiamavano Trappist-1, i cui raggi erano molto più tenui.
Era vero. La stella del Sistema Solare mandava dei raggi che bruciavano al contatto con la pelle, ora più che mai.
Era seduto sul bordo del cratere, i talloni che sbattevano contro la parete rocciosa, e Oikawa era già seduto accanto a lui.
Sorrideva, come sempre. «Ciao Iwa-chan!»
«Shittykawa» disse, usando il nomignolo che gli aveva affibbiato, e il castano s'indignò.
«Potresti chiamarmi in un'altra maniera, eh Iwa-chan?» 
«Ti ho già detto che smetterò di chiamarti in questo modo, se tu la smetterai di storpiare il mio nome.» 
Il castano aprì la bocca, richiudendola subito dopo e sbuffando.
«Allora, come sono andati gli allenamenti?» gli chiese poi.
Un ghigno si dipinse sul suo viso. «Diciamo così: tra due settimane sarò pronto per essere eletto campione.»
Iwaizumi alzò gli occhi al cielo. «Certo...»
«Tu come stai?»
Hajime spostò lentamente lo sguardo su di lui, il ghigno di prima venne sostituito da un'espressione preoccupata. «Sto bene, Oikawa, non c'è bisogno che ti preoccupi...»
«Lo sai che lo sento, Iwa-chan...»
Tooru gli aveva confessato che era in grado di sentire il dolore che provava lui, e che una cosa del genere nel suo pianeta veniva considerata una malattia. La chiamavano la Sindrome dell'Astronauta. Se avessero scoperto che ne era affetto, forse l'avrebbero rinchiuso da qualche parte e avrebbero smesso di sognarsi a vicenda.
«Sì, lo so!» sbottò. Non era certo che la cosa valesse anche per lui. Fino ad ora, Oikawa non si era ancora ferito e lui non aveva riscontrato nulla di anomalo nel suo corpo. O almeno, nulla di anomalo rispetto al solito…
«Hajime...» Sentì la carne rizzarsi di colpo. Oikawa l'aveva chiamato per nome. Da un mese a questa parte, non glielo aveva mai sentito pronunciare. «Devo dirti una cosa... Riguarda quel mio progetto...» 
Gliene parlava già da un po' di tempo, stuzzicando la sua curiosità allo stesso modo di un bambino che fa i dispetti. Adesso, però, non sembrava per niente un bambino: sembrava un giovane adulto pronto a fare un discorso serio.
Iwaizumi annuì, come a dire che lo stava ascoltando, e Oikawa prese un bel respiro prima di cominciare a parlare. «Sto costruendo una navicella.» L'altro inarcò un sopracciglio, scettico. «In realtà, sto solo rinforzando una Nave Passeggeri. Le usiamo per la gente che si sposta da Sibun ai due pianeti per le colture e le serre. Te ne ho parlato...»
«Okay, posso sapere a che ti serve? Riguarda la gara?»
«No. Riguarda te.»
Hajime spalancò gli occhi. Ora capiva, tutto aveva un senso: Oikawa non gli poneva quelle domande sul suo pianeta per colmare la sua naturale curiosità. Lui voleva...
«No» disse, alzandosi in piedi. «É fuori discussione!»
«Iwa-chan, devo solo aggiungere le ultime cose, poi potrò venire a salvar...»
«Chi, Oikawa? Chi?» urlò l'altro. «Me? Mio padre? Haruka?»
«Pensi che li lascerei sul vostro pianeta pur sapendo che sono destinati a morire?»
»É proprio questo il punto, Tooru.» L'aveva chiamato per nome anche lui. Per la prima volta. «Non hanno bisogno di false speranze...»
«Iwa-chan, io posso venirvi a prendere!» Oikawa si era alzato in piedi anche lui e gli stava urlando contro, disperato.
«No, Oikawa, non puoi!» La sua voce si affievolì. «Non puoi...»
Calò un attimo il silenzio, Oikawa che mosse cautamente un paio di passi verso di lui, con l'intenzione di prendergli il viso tra le mani e permettergli di guardarlo in faccia. Non ci riuscì, Iwaizumi parlò quasi subito.
«Io continuo a credere che tu non sia reale.» Oikawa fece quasi un balzo dopo quella affermazione. «Continuo a credere che tu sia solo il frutto della mia testa.» Lo guardò dritto negli occhi. «Non ho bisogno di essere salvato da nessuno. Se è vero che sei reale, allora dovresti pensare al tuo futuro, non a me.»
Quelle parole facevano male, erano acido corrosivo sulla sua lingua.
La notte che stava scendendo su di loro disegnò delle linee violacee e bluastre sul volto di Oikawa. Parlò con un filo di voce, gli angoli degli occhi che piano piano si inumidirono. «Sì. Forse hai ragione.»









La mattina dopo, Hajime si era alzato già stanco. Si sentiva fiacco, debole, molle; persino muovere le braccia per stiracchiarsi comportava uno sforzo immane per lui. Aveva passato il resto della giornata cercando di non pensare ad Oikawa, a quello che gli aveva detto, alla sua espressione sofferente, l’ultima cosa che aveva visto prima di ripiombare nella fredda e dura realtà. Quella mattina, alle prime luci dell’alba, c’era stata un’altra tempesta. Adesso, erano frequenti anche nelle zone di campagna.
La Terra non ce la faceva più, voleva farla finita. Hajime non poteva biasimarla.  
Voleva tornare ad essere quella di un tempo, ma sapeva che non era possibile, che non si poteva tornare più indietro. Gli uomini del ventunesimo secolo avevano fatto strage del pianeta, facendone quello che volevano, senza pensare alle conseguenze, senza pensare alle ripercussioni che avrebbero potuto avere gli abitanti di un secolo dopo.
C’era una parte di lui che avrebbe voluto credere a Oikawa, che ce l’avrebbe fatta sul serio, perché anche se lo conosceva da solo un mese, si sarebbe fidato di lui anche ad occhi chiusi; e poi c’era la parte razionale, quella che aveva visto fin troppo male nel mondo, quella che era sbocciata non appena sua madre era morta quando lui aveva l’età di Haruka. E quella gli diceva che Oikawa era solo il frutto delle sue speranze senza futuro.
Dopo aver lavorato con fatica al campo di riso, Hajime era rimasto tutta la giornata a casa, aiutando il padre di tanto in tanto con qualche lavoretto, nel tentativo di riparare qualche elettrodomestico, ma niente di che. Haruka venne a trovarlo nel pomeriggio.
«Salve a tutti!» esclamò la bambina tutta contenta.
«Ciao Haruka!» Fu il padre di Hajime a parlare per primo. «Come stai? Passata l’influenza?»
Era stata male nell’ultimo periodo, e da allora non si vedeva spesso in giro. A informarli delle sue condizioni era stata la madre, una ex infermiera, proprio come la signora Iwaizumi.
Haruka annuì, sorridendo.
«Che hai nel sacchetto?» parlò a quel punto Hajime, accorgendosi della busta che teneva in mano.
La bambina si avvicinò al tavolo, accomodandosi su una sedia, e tirando fuori un pacco di biscotti che pareva intatto. «Sorpresa!»
«Bambina mia, ma dove li hai presi?» domandò con stupore il signor Iwaizumi, sedendosi anche lui, imitato poi dal figlio.
«Li ho trovati!» Hajime alzò un sopracciglio. «Te lo giuro, Iwaizumi-san, non ho più rubato da allora!»
Haruka giunse le mani e strinse gli occhi, quasi ad invocare un incantesimo, nella speranza che Iwaizumi-san le credesse. Alla fine, il giovane le accarezzò la testa come solo lui sapeva fare e le fece un lieve sorriso. Aprì il pacco, e fu il primo a sacrificarsi per testare se fossero mangiabili: chissà a che epoca risalivano.
«Sono buoni, servitevi!» disse, dopo aver ingoiato il boccone.
I tre rimasero a parlottare per un po’, prima che il padre di Hajime decidesse di tornare ad occuparsi della lavatrice, lasciando i due ragazzini a chiacchierare.
«Stai bene, Iwaizumi-san?» sbottò a un certo punto Haruka, prendendo un altro biscotto.
Sentì un formicolio dietro la schiena, la voce preoccupata di Oikawa che gli rimbombava dentro il cervello, mentre il senso di colpa faceva galoppare il suo organo vitale come un cavallo impazzito. No, lui non stava bene, per niente. Forse all’apparenza sì, ma dentro stava marcendo come il nucleo terrestre. E se era vero quello che gli aveva detto quel mezzo pazzo, allora lo stava sentendo anche lui.
Anche lui si ritrovava ad essere stanco, anche lui faceva fatica a respirare, anche lui sentiva in bocca il sapore amaro del sangue.
«Sì…» rispose, pur sapendo di star mentendo spudoratamente. «Sono solo stanco…»
«Perché? Hai dormito male?» Quella consapevolezza investì completamente Haruka, che sbatté le delicate e cerulee mani sul tavolo, issandosi in piedi sulla sedia. «È successo qualcosa a Oikawa?» chiese, agitata.
Hajime le aveva raccontato dei suoi sogni, ma non avrebbe mai immaginato che ci credesse veramente, né che prendesse così tanto a cuore Oikawa. Insomma, era troppo assurdo persino per un bambino di dieci anni!
Ma non per Haruka. Lei credeva veramente nell’esistenza di Sibun, popolata da una razza che era simile – se non quasi identica – a quella umana.
Si passò una mano sugli occhi: non avrebbe voluto arrecarle un dispiacere, ma non se la sentiva di mentirle un’altra volta. «Abbiamo litigato.»
«Cosa…? E per quale motivo?» Haruka sembrava che stesse per avere una crisi di pianto.
Sospirò. «Perché vuole venire sulla Terra per portarci su Sibun.»
Ci fu un attimo di silenzio, il tempo che quella frase venisse portata via dalla brezza pomeridiana, poi Haruka fece un salto sulla sedia, rischiando di cadere. «Iwaizumi-san, è una notizia stupenda! Dobbiamo avvertire gli altri!»
Hajime scosse il capo. Avvertire gli altri…?
«Aspetta, Haruka, forse non hai capito…»
«Un mio amico ci può aiutare, è bravissimo con i computer e il suo papà lavora alla base spaziale che c’è qui vicino. Potremmo diffondere la notizia sui… uhm… com’è che si chiamano? Social qualcosa. Qualcuno è rimasto aperto, no?»
A dirla tutta, forse erano solo gli uomini più ricchi a utilizzarli, più per abitudine che per il reale senso che avevano un tempo.
«Haruka, lui non verrà qui!»
Gli occhi blu della bambina tremolarono. «Perché no? L’ha detto lui…»
«Io gli ho detto di non venire.»
Quella frase la disse tutta d’un fiato, e per un attimo la bambina parve non capire, o forse credeva di aver sentito male. Hajime, tuttavia, non abbassò lo sguardo, neanche quando lei si arrabbiò con lui.
«Perché l’hai fatto? Sei una persona cattiva, Iwaizumi-san!»
«Haruka, morirebbe in un posto così! Lui è sempre stato abituato a vivere in pace, perché deve rischiare tutto per… cosa? Tre scapestrati senza più una ragione di vita?» Era questo il suo reale motivo. Non il fatto che continuasse a sostenere che non fosse reale e che fosse tutta una finzione. Con Oikawa, aveva toccato la realtà, aveva toccato la vera essenza delle cose e come queste dovessero essere, tutte al loro posto. Era anche vero, però, che quel giovane pilota viveva non solo su un pianeta distante anni luce da loro, ma era persino un pianeta prospero. Lì, Tooru aveva la sua vita, il suo futuro, tutto; metterlo a rischio per la sua, di vita, era solo un atto di egoismo nei confronti di chi gli stava accanto. O forse, in questo caso, l’egoista era solo lui.
Non era sicuro che Haruka avesse capito la natura delle sue parole, ma continuò a parlare a oltranza, osservando la superficie in legno del tavolo. «Non gli permetterei mai di sacrificare la sua vita per me…» disse, in un sussurro.
Non sentendo alcuna risposta da parte della bambina, alzò lo sguardo, trovandola nuovamente seduta e con la testa china, il mento che toccava lo sterno. Hajime corrucciò la fronte, chiamandola, ma non arrivò alcuna risposta. Si alzò e fece il giro del tavolo, abbassandosi poi alla sua altezza.
«Haruka…?» disse, toccandole un braccio nel tentativo di riscuoterla. «Non è il caso di scherzare.»
Mai si sarebbe aspettato che quel corpicino fragile finisse tra le sue braccia, come se fosse una bambola di pezza. Sembrava avesse smesso di respirare.
«Haruka? Haruka!» disse, scuotendola appena, ma quella non rispondeva.
Hajime si lasciò andare a un’imprecazione, chiamando disperatamente suo padre e stringendosi la bambina al petto.





*




 
Due settimane dopo…





Era appoggiato alla parete, in attesa di entrare dentro la stanza. Suo padre era di sotto a parlare con il padre di Haruka.
Quella casa non era diversa dalla loro, una classica casa di campagna che si estendeva su un bel campo. La madre di Haruka e la sua le comprarono poco prima che la fine del mondo avesse inizio. E osava dire, per fortuna.
Guardò fuori dalla finestra che aveva di fronte, il campo praticamente lacerato dalla piaga: l’unica cosa su cui potevano contare era quella povera gallina oramai troppo vecchia e il cibo che Haruka e il padre portavano a casa. Hajime strinse le palpebre, perché il solo pensare che a dieci anni Haruka rubava e pensava al benessere della sua famiglia lo faceva andare su tutte le furie. Avrebbe dovuto divertirsi e andare a scuola, cosa che fa un qualunque bambino di dieci anni. Aveva sulle sue spalle un peso troppo grande, una responsabilità che non si addiceva alla sua età, e forse era anche per questo che si era ammalata. E adesso era chiusa nella sua stanza e stava per spirare.
La porta si aprì, e Hajime vide uscire la madre di Haruka in lacrime, i capelli e il viso stravolti. Gli lanciò appena un’occhiata, poi provò a sorridergli, incoraggiandolo ad entrare. Fece un piccolo inchino, chiudendo poi la porta alle sue spalle. Strinse la maniglia tra le mani prima di lasciarla andare, dirigendosi con lenti e pesanti passi verso il letto della bambina, il corpo nascosto sotto le coperte.
I suoi occhietti si aprirono e alla vista del ragazzo fece un lieve sorriso. «Iwaizumi-san…» mormorò, tossendo poco dopo.
Lui cercò di ricambiare il sorriso. «Non ti sforzare, Haruka.»
«Iwaizumi-san, hai visto Oikawa stanotte…?»
Le spalle di Hajime tremarono, ma lui fece finta di niente e aggiustò la frangetta della bambina, in modo da poter vedere meglio i suoi occhi. «Sì… e ti saluta.»
Per quanto non gli piacesse mentire ad Haruka, non era il caso in quel momento dirle che non sognava Oikawa da ben due settimane, da quando lei si era ammalata, gli incubi che venivano ad assalirlo ogni notte, assieme ai ricordi di sua madre malata. Era comunque un gesto tipico di Oikawa, sapeva quanto Haruka fosse una sua grandissima fan.
Si ritrovò improvvisamente desideroso di vederlo. Aveva l’impellente bisogno di dirgli quello stava succedendo, ora, in quel preciso istante.
Haruka gli sorrise, dando un altro colpo di tosse prima di parlare. «Posso chiederti un favore…?» Iwaizumi annuì. «Puoi abbracciarmi da dietro le spalle, per favore?»
Il ragazzo annuì, e in poco tempo si era già infilato sotto le coperte, scostando Haruka con cautela e appoggiandosela al petto. «Intendevi così?» disse, circondandola con un braccio.
«Sì.» Premette il viso contro la maglietta di Hajime, artigliando debolmente il tessuto tra le dita. «Iwaizumi-san, tu mi vuoi bene, vero?»
Il nodo alla gola, per un attimo, gli impedì di rispondere. Quella ragazzina era stata il suo mondo per quasi metà della sua vita. «Certo.»
«Posso chiederti di mantenere una promessa?»
«Quale?»
«Devi promettermi che andrai con Oikawa anche se io non ci sono… e che gli dirai che mi dispiace tanto…» Gli occhi blu della bambina incontrarono quelli verdi di Hajime, oramai lucidi, e lui non poté fare altro se non annuire.
La bambina sorrise, mostrando appena i denti, e le sue piccole dita si andarono a stringere a quelle della mano libera di Iwaizumi. Rimasero così per un po’, prima che lei dicesse, quasi come se si stesse addormentando: «Iwaizumi-san, sei caldo…»
Poi, il silenzio. Nessuno fiatò, nessuno parlò. Hajime perché non ne aveva il coraggio, Haruka perché…
«Haruka?» la chiamò il giovane, sentendo che la sua presa si era fatto sempre più debole, se non inesistente. «Haruka…»
Non ebbe bisogno di altre conferme. Schiuse le labbra sui capelli della bambina, chiudendo gli occhi e lasciando che due lacrime gli solcassero il viso.






*




 
Il giorno dopo…





Suo padre gli aveva prestato una giacca nera, ma per il resto era vestito sempre allo stesso modo. Haruka era stata seppellita all’ombra di bell’albero, forse uno degli unici ad essere rimasto ancora sano e intoccato dalla piaga. Dopo quella specie di cerimonia improvvisata, senza che avesse nulla di religioso, Hajime era rimasto a osservare il paesaggio desolante che lo circondava. C’era vento, ma niente che lasciasse presagire l’arrivo di una tempesta.
Le ultime parole di Haruka gli martellavano dentro la testa fino a perforare la carne e il cranio. Lei avrebbe voluto andarsene, vedere con i suoi occhi un posto nuovo e sconosciuto, riuscire a respirare dell’aria che fosse pulita… e invece era morta sulla Terra.
Haruka ci credeva, mentre lui era ancora in vita. Forse, sarebbe stato meglio se fosse stato lui a sparire…
Tossì, guardandosi poi il palmo della mano: rosso sangue. «Merda!» masticò tra di denti.
Si chiese se fosse successo anche ad Oikawa, qualunque cosa stesse facendo. Chiuse la mano sporca di sangue a pugno, e per un attimo non era più su quel campo secco e morto, ma in quello strano mondo frutto dei ricordi suoi e di Oikawa. Il ragazzo era accanto a lui e gli stava sorridendo. Sì, se avesse avuto la possibilità di conoscerlo, probabilmente Haruka l’avrebbe adorato. Avevano entrambi lo stesso sorriso.
Si incamminò verso casa dei genitori della bambina, e dovette fare un po’ di strada per raggiungerla, le mani infilate dentro le tasche dei pantaloni. Si impose di tossire il meno possibile, lo faceva solo per necessità. Quando arrivò a destinazione, la gente non fece caso a lui. Non se l’aspettava, eppure erano venuti in molti: del resto, Haruka era conosciuta per il suo essere socievole e amichevole con tutti.
Si guardò intorno, finché il suo sguardo non ricadde su un ragazzo, il più giovane di tutti tra il gruppo di persone, vestito in maniera impeccabile. Sembrava quasi fuori posto. Era accompagnato da un uomo, forse suo padre, anche lui vestito di tutto punto.
Ricordò, all’improvviso, la discussione che lui e Haruka ebbero prima che lei si sentisse male. Parlava di un suo amico il cui padre lavorava per la Jaxa. Quella bambina aveva sempre avuto un cuore grande, la sua idea era quella di avvertire più persone possibili per poterle salvare. Hajime non sapeva se sarebbe riuscito a fare una cosa del genere, ma poteva provarci. Per lui, valeva come una seconda promessa.
Haruka gli aveva detto di vivere. E lui l’avrebbe fatto.
Non appena il ragazzo rimase solo, si diresse verso di lui per parlargli. «Tu eri amico di Haruka?»
L’altro annuì, intimorito da quella figura austera. «Tuo padre lavora per la base spaziale che sta nelle vicinanze?» Annuì ancora. «Allora devi un favore a me e Haruka…»




 
Atto secondo






Diede un altro colpo di tosse, guardandosi poi il palmo della mano: come al solito, la sua mano era sporca di sangue. Deglutì, e sentì in gola il retrogusto ferroso della sua stessa saliva, pulendosi poi la mano in tutta fretta. Nelle ultime due settimane, era peggiorato. Sua sorella se n'era persino accorta, ma ovviamente i medici avevano detto che non c'era nulla di anomalo nel suo corpo. 
Certo, non era lui a stare male. Era Iwa-chan quello che stava male.
Oikawa prese un bel respiro, muovendo le mani avanti e indietro sulle cosce. Si trovava dentro la stanza adibita per i piloti, nell’attesa dell’inizio della corsa, ogni scuderia ne aveva una.
Non doveva pensare ad Iwa-chan, non nel suo grande giorno. Doveva pensare alla sua vita. In fondo, lui voleva questo.
Qualcuno bussò alla porta, e poco dopo fece la sua comparsa sulla soglia Hoshi. «Sei pronto?» gli chiese.
Lui cercò di fare il suo solito ghigno, anche se dentro continuava a sentire dolore. E non era solo un dolore fisico. «Sono nato pronto!»
La sorella ricambiò il suo sorriso, ed entrambi si diressero fuori la stanza d'attesa, passando da un corridoio all'altro. Arrivarono alla scuderia, dove il suo team lo stava già aspettando, e non mancarono di accoglierlo con urla, fischi e qualche pacca sulla schiena. Irihata-sensei gli diede le ultime direttive, per poi aggiungere un ultimo suggerimento, con un atteggiamento paterno che veniva fuori solo in quelle occasioni. «Fai attenzione…»
Oikawa annuì, infilandosi il casco e accomodandosi dentro la navicella. «Okay, dolcezza, facciamo andare tutti in visibilio oggi!» disse, accendendo tutti i comandi necessari.
Aspettò che la saracinesca si aprisse, i motori già accessi, poi la navicella schizzò in aria, lasciando una spirale di fumo alle sue spalle. Fece un paio di giravolte, e quello fu l’unico momento, per Oikawa, in cui poté spegnere il cervello e smettere di pensare. Smettere di pensare ad Iwa-chan. La gente sugli spalti era minuscola, ma poteva riconoscere benissimo lo striscione che il suo fan club aveva fatto per lui. Si chiese, per una frazione di secondo, se ad Haruka-chan sarebbe piaciuto prenderne parte.
Si concentrò sulla pista, dandovi una veloce occhiata: era una delle più difficili, con diverse curve a gomito, ma non si lasciò intimorire. Notò che anche i suoi avversari erano usciti dalle loro scuderie e stavano controllando che tutto fosse apposto. Finiti i cinque minuti di prova, si aprì uno spiraglio nella cupola protettiva trasparente, abbastanza grande da fare entrare le navicelle, che si posizionarono sulla linea di partenza nell’ordine con cui erano arrivati nella precedente gara.
Oikawa strinse le mani attorno al volante, ingoiando un grumo amaro: aveva ancora il sapore del sangue.
No, non poteva permettersi distrazioni. Aveva faticato tutta la vita per arrivare fin lì, e i suoi due nemici di sempre gli erano proprio accanto, contro di lui, e gli avrebbe fatto mangiare la polvere. Non poteva sprecare i suoi anni di sacrifici per uno sciocco, insulso terrestre. Non poteva sprecare la sua vita per Iwa-chan. Lui non…
Il conto alla rovescia riuscì a riscuoterlo dai suoi pensieri, e appena un secondo dopo stava già correndo sulla pista.
Fu una gara all’insegna dei colpi di scena, la navicella della Karasuno e della Aoba Johsai che tentavano di superare la imbattibile navicella della Shitorizawa, ma il meglio – come sempre – venne riservato per il gran finale. Il fatidico ultimo giro.
La gente quasi si alzò in piedi quando Oikawa, con un abile mossa, riuscì a superare Ushijima, le navicelle che sbattevano tra di loro, e tramite radio poté sentire l’intera scuderia festeggiare come non mai, assieme a lui. Mancava l’ultimo tratto di strada, poteva già sentire il dolce suono della parola campione associato al suo nome. Mezz’ora dopo, vedeva già la linea del traguardo, doveva solo fare l’ultima curva e poi avrebbe ufficialmente vinto.
Girò il veicolo magistralmente, come solo lui sapeva fare, e giurò di poter sentire lo stupore della gente anche da dentro la sua navicella. Fu quando rimise il veicolo nella posizione corretta che si accorse che c’era qualcosa che non andava. Il segnale di allarme scattò improvvisamente, come se al processore fosse successo qualcosa, e Oikawa non riusciva più ad avere il controllo del veicolo.
Non riusciva neanche a parlare con il suo team, era nel panico, le mani che tremavano. Non gli era mai successa una cosa simile, pur sapendo quali fossero i rischi del mestiere.
Bastò un attimo, e la navicella si andò a schiantare per terra, proprio a pochi metri dalla linea di traguardo.
Le orecchie gli fischiarono, o forse era solo il rumore delle altre navicelle che erano giunte a destinazione. Poi, non riuscì più a distinguere alcun suono o a vedere altro, se non macchie rosso sangue. Le stesse che aveva sul suo palmo quella mattina. Le stesse che vedeva Iwa-chan ogni giorno…
«Non devo svenire…» si impose, mormorandolo tra le labbra secche come due foglie, ma le palpebre si chiudevano da sole. «Non devo svenire… Non…»
L’ultima cosa che riuscì a distinguere furono delle figure che forzavano la sua navicella. Poi, un’ultima parola spirò tra le sue labbra. «Hajime…»





*




 
Mezz’ora prima





Quella mattina, Iwaizumi si era recato alla base spaziale di Kagoshima assieme a Jun, l’amico di Haruka, il cui padre era stato un ingegnere aerospaziale di grande fama. Le basi spaziali della Jaxa, come anche quelle della Nasa, oramai, non avevano più senso di esistere. Al suo interno vi erano ancora persone che lavoravano a chissà quali progetti, nel tentativo di salvare l’umanità.
Un tempo, avrebbe solo detto che si trattava di una banda di illusi, gente che non voleva arrendersi all’apparenza. Ma aveva da poco seppellito la sua amica più cara – no, per essere più precisi, la sua piccola sorellina – che credeva ancora nella bontà umana e nella possibilità di un salvataggio. Ora, avrebbe contato fino a dieci prima di insultare a sproposito.
Non fu un problema entrare: il ragazzino gli aveva fornito un pass, e tutti all’interno della stazione sembravano conoscerlo. C’era ancora un prototipo di una qualche navicella esposto fuori e lasciato dimenticato, e Hajime poté accorgersi della presenza di diversi uomini in camice e non, all’interno dell’area. Passarono da un corridoio a un altro, e per lui sembravano tutti uguali, tutti pieni di gente che ancora credeva nella scienza, nella fisica, nella matematica e nelle enormi risorse che queste tre materie, riunite assieme, potevano dare.
Jun lo portò dentro una stanza piena di computer, e alcuni di questi parevano abbastanza datati e fuori uso. Gli disse di non preoccuparsi, che usava di nascosto quella stanza dimenticata da tutti per poter hackerare i computer dei vecchi e sporchi ricchi. Hajime sapeva che era una cosa abbastanza illegale, ma del resto la giustizia era andata a farsi fottere quando Haruka era morta, perciò non aveva più importanza. Aveva parlato con Jun di quelle che erano le sue intenzioni, e se all’inizio gli aveva dato del pazzo, quando aveva sentito che questa era stata l’ultima richiesta della sua amica, si era ritrovato a tentennare.
Aveva dovuto forzare un po’ la mano, ma alla fine aveva accettato.
Passarono ben due ore nel tentavo di hackerare i social network rimasti aperti: gli unici erano Facebook e Twitter, e fu facile entrare e diffondere la notizia dell’arrivo di una navicella proveniente da un altro pianeta. Haruka avrebbe voluto questo, che la gente si salvasse.
Doveva soltanto pregare che si vedesse con Oikawa, quella notte, per potergli dare il via e dargli le direttive su dove si trovasse la base di Kagoshima. E, magari, chiedergli scusa…
«Siamo sicuri che Haruka volesse questo?» chiese Jun, soddisfatto di essere riuscito a evadere i sistemi di controllo – oramai scarsissimi – di quei due pilastri di Internet, rimanendo comunque scettico.
Jun non era un cattivo ragazzo, faceva quello che poteva per sopravvivere e per rompere la solita monotonia. In quel caso, entrare nel mondo digitale come hacker lo divertiva. La colpa non era sua, aveva solo diciassette anni. Nemmeno alla sua età Hajime aveva dei progetti per il futuro. Nessuno sarebbe dovuto diventare così, un guscio vuoto che aspettava solo la morte.
Annuì, determinatissimo, e il ragazzo alzò le spalle, ammirando per un’ultima volta la sua opera. In quel momento, però, qualcuno irruppe nella stanza. «Jun!»
Entrambi si girarono, e parevano due ladri che erano stati colti sul luogo del misfatto, Jun ancora seduto sulla sedia girevole. Hajime riconobbe subito l’uomo che gli stava di fronte: era il padre di Jun, anche lui vestito con un camice bianco, il pass che gli penzolava dal collo. «Ti avevo già avvertito di smetterla di fare l’hacker!»
«Ma io…»
«Niente scuse!» e nel dirlo, prese il figlio per l’orecchio facendolo alzare e trascinandolo fuori. «Questa è l’ultima volta!»
Non si era neanche accorto della sua presenza, e per un attimo rimase a fissare la scena, sbalordito. Capì quello che stava succedendo solo quando vide che l’uomo portava via il figlio lungo tutto il corridoio. «Aspetti un attimo!»
L’altro si girò, tenendo ancora il ragazzo per l’orecchio. «E lei chi diavolo sarebbe?»
«Iwaizumi Hajime, signore.»
«È un amico di Haruka, papà» continuò il ragazzo, contorcendosi per il dolore.
«Ho chiesto io a Jun di farmi da hacker, lui non c’entra…»
L’uomo lasciò la presa, indignato e più infuriato di prima. «Ma che bravo, un modello esemplare! Allora mi devo aspettare che la prossima volta chiederà a mio figlio di uccidere un uomo?»
«Non era mia intenzione…» Hajime avrebbe voluto replicare a quella domanda senza senso, ma si sentì improvvisamente più debole di prima, la testa che gli girava e la vista che si faceva offuscata.
«Bene, allora sparisca, prima che io chiami la sicurezza…!»
Poi, non sentì più niente, sebbene avesse padre e figlio a pochi passi. Si sentiva come se fosse sotto l’acqua e stesse affogando, non era neanche in grado di sentire la sua stessa voce. Non riuscì a muovere un passo, nemmeno quando l’uomo tornò a urlargli contro, probabilmente intimandogli di andarsene.
Riuscì a captare solo la voce preoccupata di Jun, e scorse un’espressione di puro terrore nei loro sguardi. «Iwaizumi-kun… che le succede?»
«Mio dio…»
Qualcosa di denso e caldo cominciò a colare dalla sua fronte, e Hajime si toccò la parte sinistra per capire che cosa fosse. E capì anche perché quei due lo stavano fissando come se fosse sotto l’effetto di una qualche stregoneria.
Stava sanguinando. Aveva cominciato a sanguinare senza alcun motivo.
«Oikawa…» sussurrò immediatamente.
Gli era successo qualcosa. Qualcosa di grave.
Non ebbe il tempo di preoccuparsene, perché pochi secondi dopo aveva già perso i sensi.






Aprì gli occhi di scatto. Si trovava dentro una stanza vuota, le pareti e il pavimento dipinti di nero. A stento, sulla superficie traslucida, Hajime riusciva a vedere il proprio riflesso.
Non conosceva quel posto, e di certo non era stato uno scenario dei suoi ultimi incubi. Aveva la guancia a terra e non riusciva a muoversi, gli doleva tutto. Perché sentiva dolore in tutte le sue membra? Perché i suoi arti sembravano fatti di granito?
«Dove sono…?» si chiese, provando a rigirarsi, e un dolore lancinante lo percosse tutto, al punto da farlo urlare.
Ci provò più volte, mordendo il labbro inferiore per impedirsi di urlare, e un attimo dopo fu a pancia sotto, riuscendo avere una visuale migliore di quello che aveva davanti. Vide un corpo, disteso anche questo per terra, lontano diversi metri da lui. Sembrava morto.
Si accorse solo allora di due cose, o per meglio dire, di due colori che risaltavano in quella stanza nera: il primo colore di cui si accorse fu il rosso sangue della pozza che stava attorno al cranio del corpo, e che colava dalla sua fronte; il secondo colore di cui si accorse fu il marrone chiaro degli occhi del giovane. Solo una persona, per Hajime, aveva gli occhi color cioccolato.
«Oikawa…» mormorò.
Gli occhi del giovane parevano vitrei, spenti, ed erano spalancati. Iwaizumi aveva già sentito la sensazione che stava provando in quel momento, era la sensazione di una vita che stava per andarsene, di un corpo che stava lasciando il suo calore. E lui l’aveva sentita nelle dita di Haruka strette alle sue.
«No, cazzo» imprecò, muovendosi poi a carponi, nel disperato tentativo di avvicinarsi a lui, ma ogni movimento gli procurava delle fitte simili a lance che si conficcavano nella carne.
«Oikawa, vedi di svegliarti!» gli urlò da lontano, senza smettere di muoversi. «Giuro che se muori, verrò personalmente a cercarti nell’aldilà per prenderti a calci in culo!»
Nessuna risposta, nessun movimento. Sentiva la vita del giovane pilota che, piano piano, gli scivolava addosso.
No. Non di nuovo.
«Tooru, non posso perdere anche te!» urlò ancora, e sentì uno spiacevole nodo alla bocca dello stomaco. «Tooru!»
Stava per arrendersi, questa volta sul serio, quando vide le palpebre di Oikawa muoversi. Sbatterono un paio di volte, come se Oikawa stesse giocando e fosse tutta una finzione, un gioco che aveva del macabro. Mosse appena la testa, muovendola in alto in modo da poterlo vedere.
«Iwa-chan» mormorò, e il ragazzo in questione si lasciò sfuggire un sorriso.






*




Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide furono delle macchie che si muovevano, tutte di colore diverso. In una riconobbe un volto che si chinava su di lui, e poi sentì una voce, ovattata, che urlava.
La sua vista riacquistò i suoi naturali contorni dopo un po’ tempo, quando delle infermiere cominciarono a visitarlo, puntandogli una luce sugli occhi. In seguito, riconobbe la sua famiglia: sua madre e sua sorella erano in lacrime, suo padre era alle loro spalle e gli sorrideva.
Era in ospedale. L'avevano portato in ospedale dopo l'incidente. Gli parlavano, ma Oikawa non riusciva a dire nulla, non riusciva a rispondere, si sentiva ancora troppo frastornato. La testa era pesante e i suoi arti non rispondevano ai comandi.
Perché non riusciva a muoversi?
Parlò solo quando sua sorella rimase da sola all'interno della stanza, dopo che un’infermiera aveva portato via i suoi genitori. «Hoshi...»
«Bentornato tra noi!» gli disse, tirando su col naso e producendo una risata nervosa.
«Che cosa è successo...?» chiese, biascicando. Aveva la bocca colma di saliva. Poteva al massimo girare la testa, ma sentiva comunque un dolore lancinante.
«Hai avuto un incidente. Ti hanno dovuto mettere il Siero.»
«Il Siero...» Ci mise un po' per metabolizzare quello che sua sorella gli aveva detto, poi i suoi occhi si spalancarono improvvisamente. «Quindi sono...»
«No, Oikawa, tranquillo!» disse, posandogli una mano sulla guancia. «Sei a rischio, ma i medici sono fiduciosi!»
Il Siero era uno stimolatore inventato proprio per i casi di paralisi improvvisa, dovuta a spiacevoli incidenti come quello. Veniva iniettato nella parte paralizzata, e aveva lo scopo di stimolare appunto gli impulsi nervosi. Se la terapia riusciva, allora la persona aveva ottime probabilità di ricominciare a muoversi. In quel caso, il punto colpito era la colonna vertebrale, quindi i medici dovevano averglielo iniettato nella zona lombare.
«Se non ti avessero tirato fuori subito, probabilmente non saresti neanche qui...»
Su questo, Oikawa non era poi tanto sicuro. L'immagine di Iwa-chan che strisciava verso di lui, un sorriso di sollievo sul volto, gli apparve improvvisamente davanti. Il suo cuore mancò di qualche battito.
Aveva sentito la sua voce, aveva sentito che lo chiamava. Gli aveva detto che aveva bisogno di lui.
Iwa-chan... non l'aveva dimenticato. 
Produsse un verso frustato per via del dolore. «Chi mi ha tirato fuori...?»
«I tuoi avversari.» Oikawa la guardò, stupito. «Si sono resi conto del tuo incidente solo quando avevano già tagliato il traguardo. Se non l’avessi visto con i miei occhi, non ci avrei mai creduto. Nel modo di frenare, Kageyama ha persino distrutto la sua navicella. Sono corsi subito verso la tua e l’hanno forzata.»
«Immagino che dovrò ringraziarli...» Alzò gli occhi al cielo. «Chi ha vinto la gara?»
«Il tuo kohai» disse Hoshi, incrociando le braccia.
«Cazzo...»
«Ti dispiace essere stato battuto dal tuo allievo?»
«Non è il mio allievo!» sbottò, sentendo poi dolore alla base del collo. «E comunque, non è solo per questo...»
«E allora per cosa?»
«Perché non ho potuto vedere la faccia di Ushijima dopo che è stato sconfitto.»
Ci fu un attimo di silenzio, poi sua sorella scoppiò a ridere, e lui sorrise vedendola nuovamente contenta. «Sei sempre il solito!»
Continuò a sorridere, abbandonandosi poi sul cuscino e sentendo l'impellente bisogno di chiudere gli occhi.
«Ti lascio riposare...» gli disse Hoshi, uscendo poi dalla stanza.
Oikawa produsse un respiro basso, i muscoli intorpiditi. 
Se una parte di lui, quella governata dal suo orgoglio, si sentiva sconfitta per aver perso un'occasione come quella, dall'altra smaniava per rivedere Iwa-chan, fregandosene del resto.
Era vivo solo grazie a lui, non c'era altra spiegazione.
Sentì le palpebre pesanti, ma si addormentò solo quando sulla stanza calò il buio, il Siero che cominciava già a fare effetto.





Hajime si svegliò mentre lo stavano trasportando nella sua stanza, suo padre e quello di Jun che lo reggevano. Per poco non fece perdere l’equilibrio a entrambi, il suo corpo che sussultò di colpo, come se si fosse svegliato da un incubo. Non che quello che avesse visto fosse tanto diverso da un incubo, ma almeno aveva la sicurezza che Oikawa fosse ancora vivo.
Lo sentiva. Per qualche strano motivo, sentiva che era ancora vivo.
Suo padre fu così sollevato di vederlo sveglio, e percorsero gli ultimi gradini che conducevano alla sua stanza con più cautela possibile, senza muoverlo troppo. Quei piccoli movimenti che facevano i due uomini, gli procuravano dolore in tutto il corpo. Lo posarono sul suo letto, chiedendogli se si sentisse meglio, e lui credeva che lo stessero prendendo in giro: era chiaro che non stesse per niente bene.
Jun arrivò poco dopo con la madre di Haruka, l’unica persona con un minimo di competenza in campo medico. Purtroppo, però, la donna non seppe dirgli che cosa avesse. Il lato da cui aveva cominciato a sanguinare era intatto, non presentava alcun segno di taglio o contusione; quello che non sapeva spiegarsi era quella improvvisa paralisi, all’apparenza pareva che non avesse nulla. Hajime sperò con tutto se stesso che non si accorgesse dei sintomi della sua vera malattia, quella che l’aveva colpito per davvero, ma per fortuna la donna non disse nulla. Forse aveva avuto un presentimento, tuttavia aveva ritenuto che non era il momento adatto per parlarne, e comunque non aveva a che fare con la sua paralisi.
L’unica possibilità era che fosse successo qualcosa ad Oikawa, ma ovviamente loro non potevano saperlo.
Gli aveva spiegato che il dolore svanisce quando la persona sente l’altro morire, di conseguenza se fosse morto per davvero a quest’ora non sarebbe paralizzato a letto.
La mamma di Haruka rassicurò suo padre, dicendogli di aspettare e vedere come procedeva la situazione, parlandogli come se lui fosse in coma e non capisse quello che stessero dicendo: sì, beh, era confortante essere trattato come un malato terminale!
Jun e suo padre se ne andarono poco dopo, l’uomo che non la smetteva di scusarsi per i suoi modi bruschi, e Iwaizumi gli disse che non c’era alcun rancore, che era tutto okay. L’aveva visto sanguinare e poi svenire davanti ai suoi occhi, era normale che gli fosse preso un colpo.
Sospirò, la sua stanza adesso totalmente avvolta dal buio, se non per la piccola lampadina tascabile che suo padre aveva puntato verso il tetto, a mo’ di lume per il comodino. Cercò di guardare fuori – il collo era l’unica cosa che riuscisse a muovere bene – scorgendo solo le enormi nuvole che coprivano il cielo stellato. Buttò la testa indietro, sul cuscino, producendo un altro sospiro frustato.
Se era ridotto così, la colpa era solo di Oikawa. E mentre si chiedeva che cosa diavolo potesse essergli successo, i suoi occhi si chiusero da soli e il respiro si fece più pesante.





Non si trovavano sul cratere del vulcano, questa volta si trovavano distesi sulla ghiaia, appoggiati ad una roccia grigia come il ferro, spalla contro spalla. Davanti a loro, a pochi metri, potevano godere delle acque del lago che si infrangevano contro le rocce, i loro flutti che producevano un rumore calmo e quasi ipnotico.
Hajime si accorse della presenza di Oikawa al suo fianco poco dopo, quando cercò di alzarsi in piedi, ma non ci riuscì; anzi, era riuscito a muovere un braccio, era già una gran cosa.
Quindi quello che avevano nel mondo reale si ripercuoteva anche nei sogni? Buono a sapersi.
«Iwa-chan…» Spostò lo sguardo su Oikawa, gli occhi che erano diventate due pozze d’acqua, e sembrava un povero cucciolo bastonato.
«Non mi guardare così, è per colpa tua se sono ridotto così!» disse, brusco. Non l’avrebbe ammesso mai, ma era felice di vederlo vivo.
«Ho avuto un incidente, rischiavo di morire!» pigolò l’altro.
«Che incidente?» Assottigliò lo sguardo prima di parlare ancora. «C’entra la gara?»
Bastò uno sguardo di Oikawa per capire. «Rischio di rimanere paralizzato… Ma a quanto pare, riesco a muovere le braccia adesso, per cui non dovrei avere problemi!»
Avrebbe voluto chiedergli maggiori spiegazioni, cosa diavolo significasse che era a rischio paralisi, ma non ebbe il tempo: il castano fu distratto dall’acqua cristallina del lago. «Allora è così l’acqua sulla Terra?»
Hajime fu un po’ colto alla sprovvista, spostando poi lo sguardo sulla scia biancastra che lasciava l’acqua sulle sponde. «Sì… era così…»
Non se la sentiva di spostare lo sguardo su Oikawa, però sapeva che lo stava guardando. Se l’avesse fatto, sarebbe crollato, lì, in quel preciso istante. Quelle settimane, quei giorni, erano state le più intense della sua vita. E la sola idea che avrebbe potuto perdere anche quel cretino, lo…
«Una volta mio padre mi portò a pescare proprio qui» disse, e un piccolo sorriso fece capolino sulle sue labbra. «Avevo sette anni, ma già allora seppi con certezza che odiavo pescare!» Fece una risata, per poi rabbuiarsi subito dopo. «Adesso, però, ci tornerei…»
Prese un bel respiro, lasciando fluire il filo dei suoi pensieri, quello che aveva sempre pensato e che non aveva mai potuto esternare. «Non dico di essere stato un naturalista convinto, anzi, a volte odiavo la gente che seccava con queste storie… Eppure, adesso, non posso fare a meno di chiedermi se le cose non sarebbero andate meglio se io ci avessi prestato più attenzione...»
«Iwa-chan, non dipende solo da te…»
«Lo so…»
Alzò lo sguardo verso il cielo, e fu lieto di trovarlo limpido, le prime stelle che cominciavano a popolarlo. Sembrava suddiviso tra una striscia scura e una rosata e giallo chiaro. Non riconosceva nessuna di quelle costellazioni.
«Sono le costellazioni che vedo dal mio pianeta» disse Oikawa, quasi come se gli avesse letto nel pensiero.
Iwaizumi sentì il petto stretto in una morsa. L’ultima volta che era riuscito a vedere le stelle era stato tanti e tanti anni fa. Le aveva osservate con una persona che non riusciva a dormire per via della sua paura del buio.
«Ad Haruka sarebbero piaciute…»
Oikawa non fece caso a quello che disse Iwa-chan, in un primo momento; poi, captò qualcosa, come se la frase stonasse e fosse stata pronunciata con un qualche errore grammaticale. Ma lui non aveva sbagliato, non aveva usato il tempo passato per sbaglio, l’aveva fatto di proposito.
Voltò la testa di scatto verso di lui, sentendo solo dopo il nervo pulsare per il dolore, ma cercò di non badarci troppo. Lo sguardo ora basso di Hajime valse come spiegazione sufficiente. Aveva gli occhi lucidi.
Deglutì un boccone amaro. «Quando?»
«Due giorni fa…»
Calò il silenzio per un po’, e Tooru poté sentire gli angoli degli occhi che cominciavano a pizzicare: anche se non conosceva quella bambina, sapeva quanto Iwa-chan le volesse bene, e grazie ai suoi racconti aveva finito per affezionarcisi anche lui.
«Mi dispiace… Se avessi saputo… Forse avrei fatto di tutto per venire prima…»
«Tooru» Il castano spostò lo sguardo su di lui, ed era serio, gli occhi ancora coperti da una patina lucida. «Sono io che ti ho detto di rinunciare a tutto, la colpa non è tua.»
«Sì, ma…»
«L’unico motivo per cui non mi sono lasciato morire, Tooru, è che ho promesso ad Haruka di venire con te.» Gli occhi color cioccolato dell’altro si spalancarono ancora di più, e un respiro gutturale uscì dalla sua gola. Non sapeva che cosa dire. «E quando ti ho visto ridotto in quel modo… Mi sono reso conto che sei l’unica cosa che mi è rimasta, e non potevo perdere anche te.»
Una lacrima, non sapeva bene se di gioia o di dolore, solcò il viso del giovane pilota, le labbra tremolanti che cercavano di incurvarsi in un piccolo sorriso. Hajime fece una risata nervosa, la nuca che sbatteva contro la dura roccia.
«Mi sento così patetico a dirti queste cose…»
Nessuno disse niente, semplicemente Oikawa si fece più vicino a lui. Fu difficile, perché sentiva delle scariche elettriche lungo tutto il corpo, eppure non si diede per vinto. Respirò a fatica, il viso di Iwa-chan era pochi centimetri. Si fissarono per un tempo infinito, le punte dei loro nasi che si sfioravano, fronte contro fronte. Non seppero chi fu a fare la prima mossa, e alla fine non aveva poi tanta importanza.
Fu un bacio un po’ scomposto, poiché non riuscivano a reggersi in piedi nella dovuta maniera, ma sentirono comunque il sapore delle labbra dell’altro sulle proprie.
«Comincia a far buio…» disse Hajime, dopo che si staccarono per riprendere fiato, ancora fronte contro fronte.
«Abbiamo ancora un po’ di tempo…» Oikawa riprese a baciarlo subito dopo, con più foga, infischiandosene del dolore che avvertiva alla spina dorsale.
L’altro si staccò, spostandosi per baciarlo sotto il mento, arrivando poi al collo. Il castano produsse un mugugno di piacere, e un attimo dopo le sue labbra erano di nuovo su quelle di Iwaizumi. Si resero conto di non avere più tempo, quando una luce blu calò sui loro volti.
«Oikawa» gli disse, facendo un ghigno. «Comincia a preparare la navicella.»
L’altro ricambiò. «Contaci!»






Domande? 
Perché questo prompt? Per la questione del cielo che vede Iwaizumi in sogno. Non è lo stesso cielo che vede dal Pianeta Terra, inoltre ha un significato particolare: Haruka, se avesse avuto la possibilità di andare su Sibun, avrebbe amato quelle costellazioni…
Perché la bambina? In realtà, questa domanda è stata la mia beta a pormela. E la verità è che non lo so. Su Interstellar avviene una morte, ma come al solito io ho reso la cosa ancora più tragica del previsto. Credetemi, ho pianto persino io mentre scrivevo quella scena… Nella mia testa, Haruka doveva essere affetta da leucemia già da diverso tempo, ma non mi sono informata nella giusta maniera sui sintomi, perciò non me la sono sentita di specificarlo. In conclusione: no, non volevo uccidere Haruka, ma rimango un’autrice abbastanza sadica e masochista…
Come mai sentono dolore ma non hanno nulla? È un po’ diverso dalle classiche storie Soulmate dove ad uno dei due spuntano lividi o graffi dove li ha l’altro. Le ferite compaiono, sì, ma spariscono subito dopo. Per quanto riguarda il resto, beh, Iwa-chan in teoria non è paralizzato, ma sente lo stesso dolore; e Oikawa sputa sangue, sì, ma lui sta benissimo. Avvertono solo il dolore dell’altro, tutto qui;
Che cosa è il Siero? Una cosa che mi è uscita così, di punto in bianco. Con un incidente del genere, era normale che Oikawa succedesse qualcosa. Ma siccome non me la sentivo di rendere le cose ancora più tragiche di quanto già non fossero, ho deciso di dare vita a questa strana sostanza (che nella mia testa è sull’arancione) che se iniettata nella zona paralizzata può stimolare gli impulsi nervosi. Chiedo scusa a tutti gli studenti di medicina per le barbarie che ho scritto, in ogni caso xD
Qualche riferimento? La Jaxa sarebbe la Nasa giapponese; la base di Kagoshima, invece, esiste davvero, e siccome volevo essere il più accurata possibile, Hajime e la sua famiglia si sono trasferiti lì. Ho ripreso l’ambientazione di campagna del film Interstellar e anche di Your Name, perciò ho immaginato che Kagoshima fosse circondata da un sacco di verde, lontano dalla città.
Che dire, ringrazio chiunque stia seguendo questa storia, e mando un bacio grosso grosso alla mia beta! <3 
Fatemi sapere cosa ne pensate della caratterizzazione dei personaggi. Ci si vede al prossimo capitolo, spero di riuscire a pubblicarlo a breve ;)
Per qualsiasi informazione mi trovate su: l’uccellino che cinguetta (?)
_Lady di inchiostro_
 
  
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