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Autore: xdennx    31/03/2017    1 recensioni
Denise Harris che ha vissuto fino ai suoi diciassette anni a Detroit, negli USA, in un clima di pericolo e criminalità che però a lei piace, viene costretta a trasferirsi a Londra, in un quartiere di Westminster dal padre che insegue il suo amore: una modella conosciuta per caso in un bar sull'8 Mile. La ragazza con strane ossessioni verrà catapultata in un universo così uguale ma così diverso da quello che conosce lei, facendo nuove conoscenze e facendo sbocciare amicizie e amori insani, pericolosi e che potrebbero portarla alla pazzia...
Genere: Demenziale, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non conosco nulla di questa città e sono ugualmente a gingillarmi per le strade. Odio sentirmi così spaesata. Il flusso di macchine di una strada principale, almeno credo lo sia,  è continuo e imperioso, di rado si blocca per far passare i pedoni e poi riprende, come una sequenza di lunghe folate di vento ad intervalli regolari. Mi ricorda abbastanza l'8 Mile di Detroit solo che qui, chi cammina ai lati della strada, sono uomini e donne in carriera: gli uomini in giacca e cravatta intonata che calzano mocassini o scarpe lucide da cerimonia, le ultime conferiscono all'outfit uno stile sobrio, elegante, ma tremendamente noioso. Le donne, invece, calzano, per la maggiore, scarpe con un tacchetto di si e no cinque centimetri nere, indossano gonne di colori poco appariscenti mentre il pezzo sopra varia dalle varie aziende o uffici per cui lavorano, ma sono comunque monotone.

Al semaforo si è formata una piccola folla di persone che aspetta lo scattare del verde, c'è chi controlla ossessivamente il cellulare, chi parla al telefono e chi semplicemente aspetta. Tra questo ammasso di noia, spicca una persona vestita interamente di rosso vivo, compreso il cappellino, sicuramente un ragazzo. 
Invece che stare in piedi ad osservare ciò che mi circonda, decido di sedermi e di cominciare a riflettere sul da farsi: non cederò mai al cambiamento a cui vogliono sottopormi quei due babbei. Rido mentalmente per l'uso della parola 'babbei' e non posso evitare di sentirmi un po' stupida per il fatto che sia scambiando opinioni con me stessa.

Nessuno mi degna di uno sguardo qui, eppure pensavo di spiccare particolarmente per il mio abbigliamento: un paio di jeans bucati e rattoppati anche dove non ce n'era bisogno, una maglietta a mezze maniche nera con l'occhio degli Illuminati verdognolo e un paio di sneaker malridotte ai piedi. 
A quest'ora le ragazze saranno tutte a fare shopping, mi ritrovo a pensare.

Questo quartiere mi da sui nervi, vedo un gruppetto di donne vestite di tutto punto sbucare da una perpendicolare alla strada principale. Ridacchiano tra di loro e anche da lontano posso notare le loro borse di firme prestigiose e il loro atteggiamento altezzoso nel modo di camminare. Dal canto mio, seduta su questa panchina che non si addice per niente alla regalità dell'intero quartiere, mi sento fuori posto come mai nella mia vita. Sono stata catapultata in un mondo che non è mio, che non mi appartiene e che, nonostante gli agi sognati da una vita, mi ritrovo ad odiare profondamente. E tra me e me, proprio su quella panchina rovinata dal tempo, giuro che non sarei mai cambiata per volere degli altri. L'esempio di Zayn è il più sbagliato in assoluto.

Estraggo il telefono dalla tasca osservando le piccole ammaccature che vi sono agli angoli e ai lati. Senza quasi accorgermene sto chiamando l'unica persona che conosco che ha davvero a che fare con questo posto. Nate.

«Nate Vance, chi parla?» risponde nel solito modo che usa con i numeri sconosciuti o con chi odia, deduco che debba aver risposto senza leggere il mio nome sul display.

«Sono io.» Sembra quasi di sentirlo sorridere al di là della cornetta. Mi chiede come è andato il viaggio è come è il posto. Gli descrivo a grandi linee la casa e il quartiere, che dopo averci riflettuto identifica con il nome di Westminster. Fa alcuni commenti sorpresi per poi confermare la mia ipotesi: un quartiere di ricconi.

Ride di me, rammentandomi che l'ultima volta che ci siamo visti, gli avevo detto che mi sarei trasferita a Brixton. Se fosse qui si sarebbe già preso un pugno in faccia.

«È proprio qui che entri in ballo tu, Vance.» Sospiro. «Come ci arrivo?»

Nate si dilunga spiegandomi le varie strade da prendere per arrivarci in macchina. Disconnetto il cervello mentre parla del tragitto in macchina, dovrebbe sapere meglio di me che qui non ho alcuna patente di guida. Quelle poche volte che ho guidato negli Stati Uniti, si teneva la destra e vedere queste macchine che sfrecciano tenendo la sinistra per me è impressionante, sicuramente mi confonderei a guidare una di queste macchine dato che sono abituata a cambiare con la destra e a tenere il volante con la sinistra. Ma adesso poco importa dato che mi manca ancora un anno per prendere la patente qui.

Riconnetto il cervello al discorso di Nate quando sento la parola "metropolitana" che è indubbiamente l'unico modo per raggiungere quel paese. Mi dice che linea prendere, un po' mi stupisco per il fatto che sappia a memoria la linea e gli orari ma non gli chiedo nulla. Ascolto attentamente le indicazioni e annuisco al vuoto pur sapendo che non può vedermi.

Mentre passano davanti a me, colgo alcuni spezzoni di conversazione di un gruppo di ragazze. Sento la loro pronuncia impeccabile dell'inglese e mi ricordo dei commenti negativi di Logan sugli inglesi.

«Gli inglesi sono la peggior specie di madrelingua. Quando sono andato in Inghilterra erano davvero stronzi!- e beveva un sorso -Sono americano, naturalmente ho il mio accento molto marcato, ma si capisce quando parlo. Cercavo di parlare con il commesso e faceva finta di non capire cosa dicevo!  Santo Dio che cafone!»

Ridevamo tanto e non ci facevamo molto caso, esagerava sempre. Adesso che ho sentito parlare queste ragazze mi rendo conto che il nostro inglese è su tutto un altro livello dal loro. Il nostro è più amichevole, ma allo stesso tempo cattivo. Il loro è un inglese d'élite; sobrio e sofisticato e quasi regale, devo dire di non aver afferrato tutto quello che dicevano.

Mi ricorda tanto la differenza della monta a cavallo: gli inglesi con le divise e il caschetto e gli stivali di marca e il frustino, andatura composta e altezzosa; noi americani vestiti come ci pare e piace, un cappello sulla testa e gli speroni alle scarpe (o gli stivali texani, classici da cowboys) e la postura scomposta, come persone che cavalcano per divertirsi, e non per dimostrare qualcosa.

Sento Nate che mi chiama attraverso l'apparecchio al mio orecchio e mi risveglio da i pensieri sui cavalli e sulla diversità tra la monta inglese e quella americana. Gli rispondo facendogli il riassunto veloce del numero della linea e l'orario a cui parte e a cui torna.

Cammino verso la stazione metropolitana più vicina, sempre indicatami da Nate per telefono e osservo la mappa del Sud-Inghilterra affiancata agli orari delle diverse linee. Nate mi ha parlato della linea 16C che passa da Victoria Underground (dove mi trovo ora) alle 3.25 PM e arriva alla Brixton Station Road alle 4.05 PM. Ce n'è una che passa anche prima, devo vedere gli orari scolastici dato che non posso proprio evitare di andare a scuola a diciassette anni.

L'inizio dell'anno scolastico mi mette in soggezione, molto devo dire. Diciamo che non ho grandi aspettative a proposito della popolazione media dell'istituto che frequenterò (e sarebbe davvero carino avere anche solo la vaga idea di qual'è). A Detroit erano tutti come me, o perlomeno non c'era nessuno che spiccasse tra la popolazione scolastica per il denaro. Qui, invece, temo che siano tutti dei ricconi vestiti di tutto punto, che ti squadrano dalla testa ai piedi con tutti i pregiudizi di questo mondo.

Sono ben consapevole del fatto che questo ceto alto della società chiama quelli in basso feccia, ma per noi, la feccia sono proprio loro. Chissà se qualcuno di quelli che abitano in queste case lussuose sa cosa significa svegliarsi la mattina trovandosi degli uomini che girano per casa in cerca di qualcosa da portare via. Poi si lamentano se qualcuno li vuole far fuori, bah.

Decido di fare qualcosa della mia vita e comincio con l'alzarmi dalla panchina. Mi avvio verso una delle due estremità della strada, suppongo potrebbe tornarmi utile sapere almeno in quale strada vivo. Alla fine della strada, su un cartello con una freccia che indica la strada, trovo scritto "Terminus Pl". Il flusso incessante di macchine di tutti i tipi da un lato mi tranquillizza, mentre dall'altro mi irrita. L'inversione di marcia delle macchine mi provoca una specie di conflitto interiore che però cerco di reprimere: ho cose più importanti a cui pensare. 

Ora che faccio? Torno a casa? Continuo a gironzolare per il quartiere?

Non ho alcuna voglia di giocare a 'Guarda male quella vestita stramba' con questa gente, ma non ho nemmeno voglia di andare a casa di Gigi e dover suonare per entrare. Sbuffo e, controvoglia, torno sui miei passi fino a raggiungere l'abitazione. Si appoggio al muretto, osservo per qualche attimo la facciata principale prima di premere l'indice sulla scritta 'Gigi Hadid, Harold Hadid'. Vedo qualcuno affacciarsi alla vetrata e sento il cancello schioccare ad indicare che si è aperto. Mi giro velocemente verso la strada, gli getto uno sguardo veloce e appoggio la mano sul cancello piccolo, spingendolo e aprendolo per poi richiuderlo dopo essere passata. 

Cammino il più lentamente possibile facendo un lento giro attorno alla grande piscina prima di raggiungere la porta principale. La porta è stata aperta ma non c'è nessuno ad aspettarmici dietro, meglio. Cerco la cucina che non è difficile da trovare e apro il frigorifero estraendone una bottiglia d'acqua piena. Arrivata in cima alle scale del piano superiore sento Gigi chiamarmi, con quella sua voce che a me pare irritante, forse sono di parte.

«Denise! Stasera Harold ti accompagna in centro a Londra per fartela visitare!» esclama sembrando estasiata dall'idea che passi un po' di tempo con il figlio. Sbuffo appena annuendo abbastanza vigorosamente da farmi vedere anche girata di spalle poi proseguo verso camera mia.

«Che cazzo ci fai tu in camera mia?» Alzo la voce mettendo particolare enfasi alla parola mia. Cosa vuole questo sconosciuto? «Calmati, sono venuto qui perché mi ha obbligato mia madre. Mi chiuderebbe qui a chiave pur di farmi socializzare con te.» risponde con la sua strana voce nasale. Sembra che si sia truccato, magari è gay.

Sfilo la pistola e me la rigiro tra le mani. «Se ti chiudesse a chiave con me non dureresti molto tempo. Ma okay.» Porto lo sguardo su di lui che non sembra affatto turbato dalla presenza dell'arma. «Stasera tu non mi porterai da nessuna parte.» puntualizzo buttandomi sul piccolo pouf nero che prima non avevo notato, forse per disattenzione, forse per il colore monocromatico dell'intera stanza.

«Tranquilla che non fremo dalla voglia di uscire con te.» Si alza dal letto ed esce dalla camera senza salutare. Sarà una lunga convivenza.

Non esco da camera mia fino a che la madre di Harold mi chiama per la cena. Sbuffo piano in camera mia e scendo dirigendomi alla sala da pranzo che avevo intravisto in primo pomeriggio. Harold è già seduto sul lato destro del tavolo: il gel ha perso un po' la tenuta facendo cadere il ciuffo sulla fronte. Suppongo mi debba sedere di fianco a lui visto che è apparecchiato.

Perché stare fianco a fianco quando si può stare ai poli opposti della tavola e avere più spazio. Sbuffo mentre mi avvicino, afferro il piatto e le posate e le sposto a capotavola. Vi appoggio vicino anche il bicchiere e il tovagliolo.

Mi siedo sgraziatamente sulla sedia di legno di mogano e mi guardo intorno, sentendo però lo sguardo fisso del cretino alla mia destra su di me.

La stanza ha le pareti bordeaux decorato agli angoli con ricci d'oro. Il pavimento è un parquet non troppo scuro. I mobili sono di mogano come le sedie e immagino anche il tavolo nonostante sia coperto dalla tovaglia beige e dorata, intonata perfettamente allo stile della stanza. Sulle cassettiere vi sono delle cianfrusaglie come vasi (naturalmente abbinati ai colori base delle pareti) oltre ad alcune foto di famiglia. Gigi è una bella donna, peccato per l'intelletto mancante.

«Noi siamo abituati a mangiare ai lati.» dice mio padre, sento che nella sua voce c'è una punta di rimprovero, non che mi interessi.

Prendo un respiro per non rispondergli male. «Dato che a casa nostra possiamo sederci dove cazzo ci pare, non me ne frega.» Tentativo fallito miseramente. «E non ne ho voglia di stare appiccicata a lui quando posso avere tutto lo spazio che voglio qui.»

«È questa casa tua.» mi riprende Zayn. Maledetto lui e quella donna con cui si è messo. Non rispondo, avendo già in mente un modo per farglielo pesare di più, sempre che gliene freghi qualcosa.

Gigi ci fa i piatti: ha cucinato una roba strana che non riesco a capire cos'è. Riesco a distinguere solo della carne tagliata a dadini. È più che palese che non ha cucinato mio padre, avrebbe fatto qualcosa di meglio di questa pozione torbida.

Sbuffo silenziosamente prima di assaggiare quella schifezza e il sapore si addice perfettamente alla presentazione. Zayn invece si complimenta con Gigi per il cibo.

Per mia fortuna Gigi mette in tavola anche del pane e subito mi affretto a prenderne due fette, almeno per non rimanere senza mangiare

Gigi mi chiede se mi piace il cibo che ha preparato. Prima di risponderle addento la fetta di pane masticando lentamente. «Fa schifo.» dico senza giri di parole. Lei fa una faccia leggermente offesa mentre Zayn mi richiama sgridandomi.

Prendo le fette di pane, mi alzo e faccio per andarmene, ma mi fermo di fianco a Zayn abbassandomi per avvicinare la bocca al suo orecchio. «Questa non è casa mia.» sputo con quanto più veleno possibile che spero lui abbia colto. Come speravo sono riuscita a dirlo abbastanza ad alta  voce da farmi sentire anche dagli altri due.

Lancio un'occhiata ad entrambi e poi me ne vado salendo nella camera riservata per me, non è camera mia.

Scelgo una maglietta nera a maniche corte con la scritta "LET ME BE WHO I AM" e un paio di skinny neri, rotti sulle cosce e sulle ginocchia. Vi abbino un paio di scarpe nere alte e un giubbotto di pelle nera.

Una volta scesa incito Harry a muoversi, lui sembra stranito dal fatto che voglia andare fuori con lui. Nonostante questo si alza senza fare troppe domande, si infila un giubbotto di pelle, prende un mazzo di chiavi e avverte Gigi e Zayn di non aspettarci svegli.

A quanto vedo, Gigi si fida ciecamente del figlio, tanto quanto mio padre non farà mai con me. Non lo potrà venire a sapere che in realtà io e Harry non siamo stati insieme stasera a meno che quest'ultimo non faccia la spia, il che lo trovo improbabile per due motivi molto semplici: primo, se dice qualcosa lo faccio fuori, secondo, sembra che abbia concordato con me sul fatto che non ci stiamo molto simpatici a vicenda.

Usciamo di casa e, dopo esserci chiusi la porta alle spalle, ci incamminiamo verso la strana facendo il giro della piscina.

Io e il ragazzo camminiamo in silenzio fino alla strada principale dove il traffico non è diminuito dal pomeriggio. Non dovrebbe stupirmi ciò, dato che vivevo sull'8 Mile, comunque non posso fare a meno di vederla come una cosa pressoché incredibile.

Ci fermiamo al semaforo, confondendoci nella folla che aspetta di attraversare.

«All'una e mezza qui.» Mi afferra il braccio, lo allunga verso di sé e, in piccolo, scrive con una penna uscita da non so dove il suo numero di cellulare sul dorso della mia mano. Trattengo l'istinto di ritirare la mano, irritata dal suo tingermi la pelle. «In caso ti perdessi, questo è il numero. Se proprio non riuscissi a trovarti, cosa pressoché impossibile, mandami la tua posizione su WhatsApp, immagino che anche voi americani usiate questa applicazione messaggistica.»

Si crede davvero simpatico. Gli faccio una smorfia, mi volto e mi incammino verso la metropolitana.

Arrivata, mi fermo ad osservare la linea indicatami da Nate, consultando anche gli orari. Noto con piacere che un treno della linea passa tra cinque minuti, mi affretto giù per le scale e corro alla macchinetta che rilascia i biglietti. In poco tempo arrivo al binario nel quale arriva la mia metro.

Non c'è molta gente a causa della tarda ora. Ci sono donne e uomini trasandati mentre altri vestiti eleganti. Non vedo giovani, a parte due ragazzi appoggiati alla colonna che tengono stretta tra le labbra una sigaretta. Non so dove mettermi per aspettare il treno che, comunque, dovrebbe arrivare tra poco. Opto per stare in piedi.

Pochi minuti dopo un treno si avvicina scorrendo adagio sui binari per poi fermarsi davanti a noi. Mi affretto a salire e a prendere posto. Mi dispiace un po' non poter vedere il paesaggio, ma di farmi il viaggio in autobus proprio non ne ho voglia.

Infilo le cuffie nelle orecchie e le collego al cellulare, lasciandomi cullare dalla voce di Gary Jules che canta di un mondo triste e matto, proprio come quello in cui mi sento.

   
 
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