Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ellery    07/04/2017    1 recensioni
Francia, Marzo 1942 - Un piccolo caccia della Royal Air Force viene abbattuto nella campagna francese, lungo il Fronte Occidentale. Per i due piloti non c'è alcuna speranza: catturati da una brigata tedesca, torturati per informazioni su una importante azione militare degli Alleati. Allo spietato capitano Weilman si contrappone il Maggiore Erwin Smith, altrettanto desideroso di ottenere informazioni; almen fino a che qualcosa non scatterà nella mente del giovane ufficiale, portando alla luce vecchi debiti e promesse.
Aveva cercato in tutti i modi di tenere su l’aereo, tirando al massimo la cloche, sterzando ripetutamente per non costringere il piccolo caccia allo stallo, ma era stato tutto inutile: le ali non riuscivano a catturare correttamente l’aria, trapassate come erano, mentre dal motore usciva una scia di fumo nero.
La ff, a più capitoli, si propone di partecipare alla Challenge AU indetta sul forum da Donnie TZ. Prompt: Historical AU! IIWW = seconda guerra mondiale.
Genere: Guerra, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Farlan, Church, Hanji, Zoe, Irvin, Smith
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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32. Ancora una vita
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.
 

Levi batté le palpebre, quando una goccia d’acqua gli finì sugli occhi. Una pioggia sottile e leggera era iniziata, cadendo dalle nubi cariche. Chissà se si sarebbe trasformata in temporale. Non era stagione, naturalmente, ma aveva sentito dire che in Francia capitavano spesso degli acquazzoni intensi.

Schiuse le labbra accogliendo le gocce quasi fossero una benedizione; la sete si era fatta incredibilmente intensa nell’ultima manciata di minuti. O erano passate ore? Non avrebbe saputo dirlo. Sapeva soltanto che il sapore metallico del sangue era sgradevole e troppo corposo. Aveva provato a sputare, ma senza grande successo.

Nulla di quanto aveva tentato, in effetti, era valso a qualcosa: le gambe avevano smesso completamente di reagire. Le aveva spiate con la coda dell’occhio, notandole spezzate e scomposte. Eppure non sentiva dolore. Non sentiva assolutamente nulla. Nemmeno l’umido della pioggia o la chiazza rossastra che dal bacino andava allargandosi sui calcinacci. I ciottoli gli pungevano la schiena e gli graffiavano la pelle, ma lui non percepiva nemmeno quelli. Il braccio sinistro si era incastrato sotto un vecchio travetto di ferro. Aveva cercato di sfilarlo, ma il suo corpo non aveva risposto. Solo il braccio destro era riuscito a muoversi, ma lentamente; aveva posato le dita sull’addome, comprimendo invano le ferite.

Sollevò leggermente il capo. Il formicolio al collo era quasi insopportabile, ma almeno gli permetteva di controllare le proprie condizioni. Il corpo si era sfracellato su un cumulo di vecchi detriti. Il rachide si era spaccato e la paralisi era sopraggiunta immediatamente, dal busto in giù. Forse anche i nervi del braccio sinistro erano rimasti danneggiati nella caduta. Il petto, invece, riusciva ancora a sollevarsi, ma in modo asincrono, affatto ritmico: a respiri rapidi ne seguivano altri lenti e sibilanti; il martellare del cuore gli rimbombava nelle orecchie.

Stava morendo? Sì, non aveva dubbi.

Se gli avessero chiesto di immaginare la propria morte, tuttavia, mai avrebbe pensato ad una cosa simile: solo, in uno scantinato abbandonato, circondato da rovi e piastrelle sbeccate; con la schiena e le ossa fracassate, con due proiettili in corpo ed il sangue a bagnargli costantemente le labbra tremanti.

Che cosa sentiva? Freddo. Non dolore, quello no. Era uno dei vantaggi, forse, della spina dorsale frantumata. Non coglieva più il bruciare all’addome, dove la pistola lo aveva crivellato, né il male degli arti rotti o l’affanno del respiro. Non percepiva nulla, a parte un gelo costante attraverso le proprie membra. Era una sensazione strana: era come se quel corpo riverso non gli appartenesse affatto; come fosse di qualcun altro, di uno dei tanti caduti di una guerra cieca.

Era strano essere un semplice spettatore, in quel frangente. Era come se stesse fissando la propria morte da dietro un vetro. Non poteva fare altro che guardare ed attendere, ascoltando il picchiettare leggero della pioggia, quasi fosse una insolita colonna sonora.
Lasciò faticosamente strisciare la mano destra sul gilet, raggiungendo la tasca interna. Sfilò due fogli di carta ripiegati. Doveva trovare un posto sicuro per quelli. Non poteva permettere che l’acqua ed il sangue li rovinassero ulteriormente. Qualcuno, presto o tardi, sarebbe passato di lì. Avrebbe riconosciuto il suo cadavere e si sarebbe accorto di quelle lettere malmesse. Forse le avrebbe buttate, forse le avrebbe spiate e recapitate ai reali destinatari.

Isabel doveva sapere. Aveva promesso a Farlan che le avrebbe consegnato le sue ultime parole. Ora, tuttavia, non era più sicuro di poter mantenere quel giuramento. Avrebbe lasciato la sua lettera in vista, nella speranza che Mike o Nanaba la ritrovassero e decidessero di portarla fino a Limoges.

Isabel…

Ci sarebbe rimasta male, sì, nel non vederlo tornare. Forse l’avrebbe accusato d’essere un incapace, si sarebbe arrabbiata e disperata, ma poi le sarebbe passata. Era fatta così, d’altronde: incapace di tenere il broncio per più di mezz’ora. Gli sarebbe mancata.

«Erwin»

Quel nome gli sgorgò dalla bocca involontario, incontrollato. Chissà dove era. Si era salvato? O Weilman…
Mosse debolmente il capo. Non voleva neppure pensarci. Erwin stava bene, era vivo, era… da qualche parte nella cascina; forse era tornato a combattere alla gola. Oppure…

Una mano robusta si serrò sulle sue dita, stringendole con gentilezza e calore. Mosse gli occhi, incrociando lo sguardo azzurro del maggiore.

«Sono qui» furono le sole parole che sentì.

Lo so.

Quella risposta gli morì sulle labbra, soffocata da un nuovo attacco di tosse. Sputò un fiotto rossastro, lasciandolo scivolare a terra. La voce si spense improvvisamente, impossibilitata ad abbandonare la gola.

«Ti porto io»

Vide le braccia robuste scivolare sotto le sue spalle e le ginocchia. Erwin lo strinse a sé, sollevandolo piano, delicatamente. Colse la schiena staccarsi dalle macerie e poi una fitta improvvisa percorrergli la colonna vertebrale, risalire lungo le braccia, il collo e impossessarsi della sua testa. Sbatté il capo contro il petto del tedesco, digrignando i denti e chiudendo gli occhi. Gli arti ebbero uno spasmo, mentre il respiro si faceva superficiale ed ansimante. Il bruciore lo frustò ripetutamente, correndo dai lombi sino alle braccia, irrigidendogli il collo. I piedi si mossero involontariamente, menando dei blandi calci all’aria.
Gridò, incapace di tollerare oltre quel dolore.
Si sentì riadagiare a terra.

«Mi dispiace»

Non è colpa tua. Ci hai provato, ma… non ce la faccio. Non riesco a sopportarlo. E se anche fosse, poi… che cosa farei? Non ho grandi prospettive. Passerei la vita confinato in un letto, a fissare il vuoto ogni giorno. Non potrei mangiare da solo, né bere, né lavarmi. Non potrei correre, né volare, né vedere Parigi senza essere spinto da un noioso infermiere. Cos’altro potrebbe aspettarmi? Non sono sicuro di volere tutto questo, né di volerti obbligare a subirlo. Perché, nonostante tutto, ho come la sensazione che non riusciresti ad abbandonarmi. Non sei il tipo che volta le spalle ad un compagno, lo so. Rimarresti lì, rinunciando alla tua vita per seguire la mia. Non potrei farti torto peggiore, temo. Hai bisogno d’essere libero, come ne ho bisogno io.

Quelle parole non lasciarono mai le sue labbra esangui. Boccheggiò, mentre lo sguardo scivolava sul viso familiare. Ne studiò i tratti un’ultima volta, assaporando i contorni marcati contornati dai capelli colore del grano; si perse ancora nelle iridi azzurre, tanto profonde da sfumare nel blu a tratti. Era come se il cielo ed il mare si fossero fusi in quello sguardo, creando un miscuglio placido ed affascinante. Aveva solcato il cielo per tutta una vita e sorvolato il mare troppe volte; mai, però, avrebbe scommesso di poterli rivedere in un giorno di pioggia, nello sguardo malinconico di un amico ormai arreso.

Le sue dita cercarono nuovamente le lettere e le tesero lentamente verso il tedesco. Sorrise debolmente quando le loro mani si sfiorarono, quando la sua cute pallida percepì una scintilla di breve calore.

Per te. E per Farlan. Promettimi che la consegnerai, Erwin. Provaci, almeno. Portala ad Isabel e… l’altra tienila. Non farla leggere a nessuno, mai. Né a Mike, né a Nanaba, né ai tuoi figli quando ne avrai. Sarà il nostro segreto, l’ultimo di questa spericolata avventura. Decidi tu cosa farne, poi… se bruciarla, se nasconderla in un cassetto, se metterla nel raccoglitore della tua corrispondenza. Anche se.. so che la conserverai, come si conserva il regalo di una persona cara. La conserverai e la leggerai nelle giornate di pioggia, proprio come questa. Sai, non mi dispiace, in fondo, la pioggia perché… quando pioverà, ti ricorderai di me.

Colse un cenno d’assenso. Erwin gli aveva letto nel pensiero? No, ma senza dubbio aveva capito. Lo vide piegare le lettere con cura e nasconderle nella giacca.

«Quando l’hai scritta?»

Che uomo patetico sei, Erwin. Pensi che ti risponderò? Sto affogando nel mio stesso sangue e nel dolore. Sai che non lo farò, ma ti ostini a chiacchierare, come se niente fosse. Credi che ritarderai il mio momento, così? Sì, ne sei sicuro. Eppure... è inevitabile; lo sappiamo entrambi. Non puoi salvarmi, non questa volta.

«Quando l’hai…?»

Ti vedo. Stai piangendo. Ti sforzi di non darlo a vedere ed approfitti dell’acquazzone, ma… lo sguardo ti tradisce. La tua anima è a pezzi. So a cosa stai pensando. Ad un modo per portarmi via di qua. Non ci riuscirai. Questa volta, la tua mente geniale uscirà distrutta. Non funzionerà nessuno dei piani a cui stai pensando. Sai, a volte… non è così male arrendersi. Non c’è nulla di sbagliato. A volte, non puoi farne a meno: lotti con tutte le tue forze, ma queste non sono sufficienti; e allora, cosa ti rimane, se non l’amaro sapore della disfatta? Nulla, ma… la sconfitta avrebbe un sapore meno acre se imparassimo ogni tanto ad accettarla.

Vuoi davvero saperlo? Quando l’ho scritta? Beh… ti ricordi quella mattina in cui ti sei alzato presto? Quando mi hai lasciato la tua giacca. Mi sono svegliato di nuovo, dopo che te n’eri andato. Qualcosa, nella mia testa, mi ha suggerito di scriverti. Forse, sapevo già che sarebbe finita così.  Non volevo andarmene di nascosto, come un’ombra vigliacca che non ha più il coraggio di affrontare la vita; volevo lasciarti qualcosa che potesse ricordarti di me e che ti parlasse a nome mio.

Un singulto improvviso spezzò quei pensieri. Il respiro si fece ancora più superficiale, mentre le dita della destra si allungavano verso il vuoto. Gli occhi si rovesciarono per una manciata di secondi, prima di tornare vividi a scorrere sulla figura del maggiore. Come era surreale vederlo chino sul proprio corpo. La gamba ferita stesa di lato, gonfia per l’emostasi; la gemella piegata sotto al bacino, le spalle curve e le mani intente a stringere la sua. Era diverso, Erwin, in quegli istanti: non era più il rigido servitore di una implacabile Germania; non era un fuggiasco e neppure l’invidiabile mente brillante; non era nient’altro che un uomo con troppi fantasmi sulla coscienza.

Mi dispiace tanto.

Non trovò altro da aggiungere. Se soltanto avesse potuto parlare un’ultima volta. Forse avrebbe potuto dire ad Erwin tutto quello che pensava e che, sfortunatamente, non era riuscito a mettere nella lettera. Avrebbe potuto alleviare i suoi peccati, gridargli che non era colpa sua, che era più di un semplice uomo dall’anima troppo sudicia. Era un amico, una persona gentile e coraggiosa, a cui avrebbe volentieri affidato la propria vita. In fondo, però… non era esattamente quanto stava facendo? Si abbandonò ancora una volta alla stretta delle calde mani.

Gli occhi, tuttavia, scivolarono istintivamente alla cintura, fissando avidamente il calcio della rivoltella. La Webley giaceva appesa e quasi dimenticata. Non servì chiedersi perché Erwin l’avesse raccolta. Sperò soltanto che vi fosse ancora un colpo nel tamburo.
 

***
 

Erwin seguì gli occhi grigi ancora una volta. Scosse lentamente il capo quando li vide posarsi sulla Webley.

«No» sussurrò, consapevole di quanto fosse inutile quel rifiuto.

Si stava aggrappando a speranze inesistenti. Non aveva il potere di salvarlo, non questa volta. Il corpo dell’aviatore era irrimediabilmente danneggiato. Se anche fosse sopravvissuto,  a che destino lo avrebbe consegnato? Una vita costretto in un letto di ospedale, passata ad osservare il cielo, irraggiungibile attraverso i vetri opachi. Era questo che voleva per Levi? Ciondolò la testa. Non vi era altra soluzione, ma si rifiutava di elaborarla interamente. Quel pensiero gli era insopportabile. Di quanto sangue ancora avrebbe dovuto macchiarsi?

C’è ancora una vita che devo prendere. Poi ti lascerò in pace.

Quella frase gli rimbombò nella mentre, mentre la scena sfumava cauta davanti al suo sguardo. Il corpo di Levi si confuse con la pioggia e con lo sfondo scuro, mentre dalla polvere sorgeva una nera figura. Una vecchia amica.

«Lui no» sussurrò, quasi la visione potesse sentirlo.

Mi occorre.

«Perché? Ne hai già presi tanti quest’oggi. Lasciamelo, ti prego»

Non farà differenza, lo sai? Presto o tardi, sarà comunque mio. Come lo sarai tu e come lo saranno tutti.

«Lo so. Non voglio che sia oggi. Vattene e lasciami in pace»

Non puoi impedirmelo. Nessuno di voi può. Prendo ciò che desidero, senza chiedere il permesso. Quando voglio, come voglio. Non sei in grado di fermarmi. Mi hai servito bene ed a lungo. Ti chiedo solo quest’ultima vita. Poi sarai libero.

Scosse il capo, serrando maggiormente le mani su quelle dell’inglese. Colse un debole lamento, a cui non diede seguito:
«Non sono il tuo schiavo»

Sì che lo sei. Tu come molti altri. Gli esseri umani sono così volubili e fragili. Siete semplici da ingannare. A volte, vi ponete spontaneamente al mio servizio, che sia per una giusta causa oppure per un capriccio. Uccidente con troppa leggerezza. È per questo che vi ho scelti: impulsivi o riflessivi, astuti oppure infidi. Il mio lavoro non è semplice; alle volte, lo confesso, è un po’ ripetitivo. Per questo mi servo di voi: siete una sorpresa continua; spesso penso che non possiate superare gli orrori commessi, ma poi mi ricredo, ogni volta. Possedete una vena sadica difficile da estirpare. Non guardarmi come se non lo sapessi. Sei uno dei miei migliori strumenti.

«No, io…»

Guarda che cosa hai fatto. Ancora una volta, hai costruito un piano geniale e letale. Ancora una volta, non mi hai deluso. Sai quante vite hai mietuto, oggi? Sai quante, nel corso degli anni? Ricordi mai quelle vedove a cui hai strappato i mariti? Le madri che non riabbracceranno i loro figli? Sì, te ne preoccupi; ma, nonostante questo, non riesci a fermarti. Distruggere è la cosa che ti viene meglio; eppure, ultimamente, sembra che tu non riesca più a portarne il peso. Te ne sei accorto, vero? Il prezzo è troppo alto e non sai come gestirlo. Alcuni si lasciano scivolare addosso tutto; non pensano a quello che fanno, ma tirano avanti nella più completa indifferenza. Tu, però, non sei così. È per questo che ti ho scelto. Non me ne faccio nulla di uno stupido che uccide come se nulla fosse: prima o poi, commetterà un errore sciocco e diverrà mio a sua volta. No… Preferisco le persone come te: quelle consapevoli, quelle che cercano di sfuggirmi, ma che ricadono sempre negli stessi errori. Riflettere sui propri peccati è spiacevole, ma anche produttivo: ti sforzi di non ricascarci, ma… presto o tardi, tornerai a sbagliare.

«Perché scegli sempre me? Ogni volta che cerco di riscattarmi, ogni volta che voglio fuggire, torni ad usarmi come se fossi uno stupido burattino. Eppure… vi sono moltissimi uomini di cui potresti servirti. Perché, allora, continui a tormentarmi?»

È un’ottima domanda. Immagino che in casa tua vi siano molti coltelli. Tutti validi, ma uno soltanto è il tuo preferito. Forse, è quello che taglia meglio la carne o che mantiene il filo più a lungo. Capisci? È così anche per me. Sei il mio prediletto, non puoi farci niente.

«Che cosa vuoi ancora? Non ti ho già dato abbastanza?»

Una mano ossuta scivolò sul corpo dell’aviatore. Ne accarezzò le spalle, le braccia, correndo lungo la gola ed il mento. Si ritrasse e, poco dopo, premette con forza sui fori dei proiettili. Il petto si sollevò ancora una volta in uno spasmo.

Voglio lui.

«No»

Lo avrò comunque. Non puoi fermarmi. A te viene data una sola scelta: il “come”. È un grande regalo, quello che ti sto facendo. Lo porterò via. Sta a te decidere… in quanto tempo? Lo lascerai affogare nel suo sangue? Oppure lo grazierai? Ti è rimasto un solo colpo, ma è più che sufficiente per il compito che devi assolvere.

«Non posso»

Non sono sempre una maledizione, Erwin.

La figura svanì, mentre l’ambiente circostante tornava rapidamente a fuoco. Incrociò nuovamente le pareti diroccate dello scantinato, le scale sconnesse e la ringhiera pericolante. La gamba ferita, che pulsava fastidiosamente sotto la stretta cintura. Il cumulo di macerie vecchio di anni, i vetri infranti ed i rovi che stavano assediando i muri scrostati. Accanto a sé, il pilota a cui ancora teneva la mano.

«Perdonami» disse solo, allontanando la destra per raggiungere la Webley. Chiuse gli occhi, senza trovare il coraggio di fissare l’Inglese.

Caricò l’arma con movimenti meccanici; ruotò il tamburo ed abbassò il cane, poggiando l’indice sul grilletto. Avvicinò la canna alla tempia del compagno, mentre la mancina stringeva ancora le sue dita. Trattenne il respiro, rialzando lo sguardo e fissando il volto pallido: appariva sereno, quasi rincuorato. Sulle labbra esangui era apparso un tenue sorriso; le iridi sembravano colme di sollievo e speranza.

Levi chiuse gli occhi un istante dopo, mentre sulla bocca si disegnava un semplice:
«Grazie»

Erwin premette il grilletto, spingendolo a fondo.

L’ultimo sparo rimbombò lungo le pareti dello scantinato, prima di disperdersi nell’aria; il silenzio tornò a regnare, interrotto soltanto dall’insistente cadere della pioggia.

 
 

Angolino: aggiorno in fretta ^^ Questo capitolo è stato uno scoglio terribile da superare. Ho fatto fatica - molta - sia nel concepirlo che nello stenderlo. Fino all'ultimo, sono rimasta indecisa sulla fine di Levi, ma.. in fondo, credo vada bene così. Non ho molto da aggiungere. In realtà, questa ff doveva terminare millemila capitoli fa e con un lieto fine... evidentemente, le cose non sempre vanno per il verso giusto.
Come avrete intuito, però, la fine si avvicina (per fortuna, direte voi XD).
Un grazie infinito a Silvia e Serene per aver letto questo capitolo in anteprima, per i consigli ed il supporto che mi hanno sempre dimostrato.
Non vi porterò via altro tempo. Vi ringrazio infinitamente per aver letto fin qui ^^
Se avere pareri o suggerimenti, mandatemeli pure.
Un abbraccio

E'ry
 
  
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