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Autore: TotalEclipseOfTheHeart    03/07/2017    2 recensioni
Unico Erede al Trono di Shukai - Shi, Ryujin appartiene a alla specie dei Naga, Dragoni millenari votati a difendere la razza umana dalla minaccia dei demoni.
Ormai raggiunto il suo 777° Anno di Vita, per lui è arrivato il momento di entrare ufficialmente nel mondo degli adulti, abbandonando le sue fattezze umane per diventare, finalmente, un Naga a tutti gli effetti.
Per farlo, però, deve, innanzitutto, ottenere il proprio Karisuma, l'essenza stessa del potere di un Naga.
E solo sconfiggendo 100 Oni, all'interno del Naraka, la Dimensione Demoniaca, potrà riuscirvi.
Con lui, vi sarà Hitomi, sua ancella e amica d'infanzia.
Tuttavia, Ryujin non desidera affatto prendere il suo posto tra i Naga. Ed è fermamente convinto che la guerra che vede la sua specie opporsi, per proteggere gli umani, agli Oni da migliaia di anni non possa appartenergli.
Durante questo viaggio alla ricerca di sè stesso, si troverà ad affrontare quelle paure che mai è riuscito a sconfiggere prima ... e, forse, anche qualcosa di più.
Storia partecipante al contest "Stelle d’Oriente” Indetto da Dollarbaby sul forum di EFP
Storia partecipante allo "Yin e Yang Contest" Indetto da Jadis_ sul forum di EFP
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO III – SHENLONG




Il resto del viaggio fu, con nostra somma sorpresa, totalmente differente.
Non so bene cosa fosse successo, dopo la notte passata assieme. Le continue tempeste di sabbia rossa e cocente erano svanite nel nulla, come se non vi fossero mai state. I vapori avevano smesso di incendiarmi i polmoni e la sabbia, seppure ugualmente calda, non cercava più di ustionarci la pelle e infiltrarsi in ogni singolo spazio disponibile. Certo, ci trovavamo sempre all’interno di una landa sconfinata e ardente, ma, almeno, non dovevamo più spaccarci la schiena per guadagnare anche solo un passo di vantaggio verso la nostra meta. Pareva quasi come se l’Akai Sabaku stesso, alla fine, avesse compreso come continuare con la sua muta guerra nei nostri confronti fosse praticamente inutile.
Dopotutto, sia io che Hitomi sapevamo bene quanto ciò non potesse essere molto distante dalla verità. Il potere contenuto nel corpo di un’Eletta del Tempio, sebbene non si riscontrassero casi in cui fosse stato usato per attraversare con successo il Deserto Rosso, era notoriamente in grado di guarire persino i mali apparentemente più incurabili e letali.
Tuttavia, era raro che venisse utilizzato in tal modo, visto e considerato come i Sacerdoti fossero incredibilmente protettivi verso le loro adepte, e non vedessero affatto di buon occhio chi cercava di mettere loro le mani addosso.
Effettivamente, dovetti ammettere, tra la mia decisione discretamente masochista di attraversare l’Akai Sabaku e il fatto che avevo disgraziatamente tolto l’innocenza a una delle migliori Elette del Tempio, c’erano probabilità non proprio scarse che, al mio ritorno, sarei per lo meno rinchiuso nelle mie stanze da mio padre per il resto dei miei giorni Naghici (dopo l’uscita sul Deserto delle Fregature, ho deciso di darmi alla coniazione di nuovi termini). Per il resto della mia lunga e si, forse tenderò a ripetermi, anche indubbiamente inestimabile esistenza.
Per la prima volta, non mi sentivo poi così ansioso di tornare a Shukai – Shi.
E non solo per questo motivo.
Osservai Hitomi, che procedeva silenziosa di fronte a me, la figura esile che si scontrava determinata contro i raggi cocenti del sole infernale, ma che, nonostante tutto, continuava a procedere con la stessa decisione di sempre.
Perché si … anche se avevamo rischiato entrambi di rimetterci le penne, avevo come la netta impressione che, in quei giorni, fossimo riusciti a riavvicinarci come mai saremmo stati in grado di fare sulla superficie.
Nonostante la sua contrarietà verso la mia decisione di raggiungere Orochi, Hitomi, alla fine, si era dimostrata incredibilmente forte e fermamente determinata a portare a termine quella missione al mio fianco. Indipendentemente dai rischi e dai pericoli che avremmo potuto incontrare sul nostro cammino.
Non l’avevo sentita lamentarsi neanche una volta, anzi … forse, sotto certi aspetti, aveva preso quella situazione persino meglio di quanto io avrei mai potuto essere in grado di fare. Silenziosa ma sempre sorridente, faceva tutto il possibile per farci proseguire al meglio, continuando a preparare i pasti e a procurarci cibo e scorte … anche quando, alcuni giorni dopo, e con a dire il vero un certo imbarazzo, le chiesi timidamente (ok, cancellate l’ultima parte) di insegnarmi a farlo.
Lei alzò il capo, visibilmente sorpresa, al che, ovviamente, il mio orgoglio di reale emerse subito a difendere quello sprazzo di umanità che si era fatto strada nella mia armatura perfetta, per cui mi affrettai ad aggiungere, deciso: “Non credere che lo faccia per dare una mano. Solo non sopporto dover dipendere da qualcuno che non sia me stesso … ecco …”
Lei sorrise, condiscendente.
A dire il vero, da come le sue iridi color acquamarina brillarono in quell’istante, ebbi il mezzo dubbio che non avesse creduto a nemmeno una delle mie parole.
Tuttavia, non disse nulla e, anzi, si fece da parte, spiegandomi brevemente come fare per preparare la zuppa e la carne essiccata, come ricavare l’acqua dall’umidità della notte e come intrecciare i Waraji* dalle corde di paglia. Visto che, con la calura del deserto, attraversarlo con dei normali Geta* sarebbe stato un vero suicidio, con il tacco alto e stabile solo su una superficie retta e dritta (tipo quelle che Hitomi poteva percorrere senza inciampare nel nulla, per farvi un esempio) che possedevano.
Si dimostrò una mentore incredibilmente paziente e gentile, anche quando, a dire il vero, mi trovavo a imprecare, sparando termini non molto educati contro la verdura o la carne di turno, e lei si limitava a sorride, alzando gli occhi al cielo con fare esasperato, per poi proseguire con le sue lezioni di sopravvivenza.
Durante quelle ore, avemmo modo di parlare molto, più di quanto avessimo mai fatto prima.
E scoprii molti lati di lei che, in precedenza, non mi sarei mai sognato di conoscere.
Per esempio, il fatto che, da quando eravamo partiti, si era sempre portata con sé un Tanto* da combattimento, e amava passare le ore serali, quando ormai io mi ero coricato da un pezzo, ad allenarsi.
Non che mi piacesse molto, l’idea che si preparasse a un eventuale combattimento, quasi come se lei stessa dovesse trovarsi in prima linea nel momento del bisogno. Tuttavia, ammirai la sua costanza e la sua dedizione verso quel compito che le era stato affidato e, alla fine, accondiscesi a insegnarle alcune mosse di base.
In parte, perché mi sentivo ancora incredibilmente debitore, per essersi occupata di me sin dall’inizio del nostro viaggio, provvedendo da sola alle provviste e ai pasti. E in parte perché, in fondo in fondo, non potevo proprio evitare di provare un seppur lieve piacere nell’insegnarle quelle tecniche che non solo avrebbero potuto salvarle la vita, ma che erano anche, per me, motivo di vero orgoglio.
Così proseguimmo, silenti, la nostra marcia silenziosa.
Ormai, erano passati quindici giorni dalla nostra partenza e fu quando finalmente le sabbie rosse iniziarono a ritirarsi lasciando spazio a ben differenti (ma non per questo particolarmente migliori) panorami, che iniziammo a intravvedere la nostra ambita meta.

 
Fu con l’arrivo alla Kage no Heigen, la Pianura delle Nebbie in cui, da sempre, si erigeva Orochi, che il percorso avrebbe inevitabilmente finito col farsi più complicato e rischioso.
Notoriamente, il Naraka era una landa tetra e sconfinata, che si estendeva per miglia e miglia sotto il suolo terrestre ma che, di fatto, non comprendeva che due zone realmente abitate dagli Oni i quali, altrimenti, ben di rado si aggiravano per le sue terre.
Tali centri erano, innanzitutto, la Città delle Ossa, situata a Nord del Naraka e oltre l’immensa distesa del Deserto delle Fregature (il famoso Shirosa Baku, per intenderci), e poi Orochi, la capitale, che si trovava a Sud, oltre il più modesto ma senza dubbio maggiormente letale Akai Sabaku (come io stesso avevo avuto modo di constatare pochi giorni prima).
Il primo centro abitato era, essenzialmente, un’immensa metropoli, che si estendeva per miglia e miglia, tra paludi mefitiche ma chissà come comunque coltivate (anche se non credo ci tenessero il riso, lì … magari qualche pianta carnivora, ma certo non colture normali) e innumerevoli distretti minori. Per quel che avevo sentito, non era proprio un posto molto piacevole. Le casupole, in legno scuro e marcio, si alternavano tutte uguali, sporgendosi tetre su strade insozzate da fango ed escrementi, mentre nebbie perenni ne coprivano il suolo e un vento gelido spirava tra quelle vie, rendendo quasi impossibile uscire di casa. Eppure, la popolazione al suo interno sarebbe bastata, da sola, a riempire quasi tutta la superficie, tanto era numerosa e diffusa.
Il secondo, invece, era totalmente differente. Innanzitutto, non lo si poteva definire proprio una città. Orochi, sebbene ufficialmente fosse riconosciuta come la capitale, di fatto non era altro che una Fortezza Giapponese in Stile Todaiji. Normalmente, tali costruzioni, ricche di Pagode* e Jishi* che vigilavano agli ingressi dei templi, erano usate in superficie per venerare noi Naga o, in alternativa, il Culto dei Morti.
Qui, invece, fungevano da vera e propria dimora imperiale.
La fortezza si trovava su una piattaforma in legno, eretta all’interno di un modesto lago e circondata su tre lati da fitte paludi mefitiche, giungle letali e foreste oscure. Sulla parte frontale, alcuni ciottoli sormontati da delle Torii* nere come l’ebano erano l’unico sentiero che permettesse di attraversare le acque nere e putride del lago per raggiungere quindi il Sanmon* che, essenzialmente, non era altro che una porta d’ingresso che permetteva di accedere alla capitale vera e propria.
Situata nel mezzo di un’imponente cinta muraria, e costruita interamente in legno scuro, come a dire il vero anche il resto della struttura, era sormontata ai lati da alcune colonne che ne sostenevano il tetto spiovente, mentre due Jishi ne controllano l’ingresso. Diversamente che dalle statue di leone messe a guardia dell’ingresso del Palazzo di Giada, a Shukai – Shi, questi due, che, come da tradizione, possedevano uno una bocca spalancata in un ruggito e uno una bocca chiusa ma ringhiante, non erano costruiti interamente in oro ma intagliati in una pietra nera e lucente. Alti quanto tre uomini adulti, ci osservavano in silenzio, con i loro occhietti ostili, mentre superate le mura si accedeva finalmente a Orochi.
Le mura si gettavano, all’interno, in un grande e ampio portico, il cui pavimento era coperto da piastrelle in marmo color onice, mentre sul fondo si trovava la Sede Principale, ossia il Kondo* con la Sala del Trono, e a ogni angolo della struttura squadrata vi quattro Pagode di guardia, alte all’incirca una dozzina buona di piani.
Come potrete certamente avere compreso, Orochi, per quanto indubbiamente più affascinante (si fa per dire) della controparte settentrionale, non vantava nemmeno un milionesimo della sua grandezza e, a dire il vero, neanche della sua protezione.
Dopotutto, nessuno si sarebbe mai fatto venire in mente (o almeno così credevano) che potesse esistere persona tanto idiota (o geniale) da decidere di attraversare l’Akai Sabaku per raggiungere la capitale. Quindi, di fatto, coloro che la abitavano si ritenevano relativamente sicuri, e anche se alcuni plotoni di guardie non mancavano di certo, non per questo si poteva dire che la guardia del luogo avrebbe potuto essere un grande problema. Con la giusta copertura, ovviamente.
Comunque, essenzialmente, la Sede Principale era composta da un’unica grande struttura, posizionata a ridosso delle mura più meridionali, costruita su tre piani e formata da alcuni portici in legno e innumerevoli stanze. Il tetto, spiovente e sempre di quel nero che, di quel passo, mi avrebbe fatto rincretinire, era decorato da alcuni bassorilievi a forma di Oni in guerra … e Naga morti e agonizzanti (allegria!).
Il cortile era quasi totalmente deserto, fatta eccezione per un’imponente statua al centro, raffigurante un intrico molto allegro di membra e arti umani mezzi mozzati e in via di decomposizione, così intrecciati tra loro da formare un amalgama disgustoso e sgradevole di corpi e volti agonizzanti. Vecchi, donne e bambini si stringevano e si avvinghiavano gli uni agli altri, i visi stravolti da espressioni di dolore e sofferenza, a sorreggere una bandiera con l’emblema dell’Impero Oni, ossia un uomo squartato ed esposto in pubblica piazza.
Sinceramente, il loro gusto artistico mi lasciava senza parole.
Comunque, oltre a questo, poco altro.  Il cortile era per lo più deserto, fatta eccezione per qualche cornuta e deformata ancella oni che si muoveva da un lato all’altro, mentre le guardie, essenzialmente, si trovavano solo sulle Mura e sulle quattro Pagode messe a sentinella degli angoli della struttura.
Il tutto, non avrebbe compreso più di un qualche centinaio di persone, di cui solo una minima parte soldati, quindi, in pratica, eravamo abbastanza ottimisti.
La vera gatta da pelare sarebbe giunta una volta all’interno delle Stanze Reali, visto che dubitavo seriamente che un essere leggendariamente millenario come l’Imperatore Oni potesse essere un tipo semplice da sopraffare.
Comunque, giungemmo ad Orochi la sera del nostro diciassettesimo giorno di viaggio.
Ormai, avevamo superato da un pezzo l’Akai Sabaku, addentrandoci sempre di più nelle lande grigie e desolate del Kage no Heigen. La Pianura delle Nebbie (altro esempio della creatività oni in fatto di nominativi) era, essenzialmente, composta da una distesa fredda e morta di rocce scure e informi, costeggiata ogni tanto da un qualche alberello o arbusto rachitico e annerito dagli anni, contorto su sé stesso e quasi in punto di morte. Una nebbia fine e perlacea ne percorreva silenziosa il terreno, gelandoci i piedi, mentre raggiungevamo in silenzio il lago.
Avevamo già incontrato alcuni plotoni di guardia, probabilmente sentinelle messe a controllo dei confini col deserto, ma avevamo subito provveduto a nascondere a dovere le nostre fattezze, utilizzando i mantelli per coprirci e un impasto precedentemente fatto da Hitomi per far assomigliare la nostra pelle a quella spesso grigia e tumefatta dei demoni. Qualche domanda veloce, e ci avevano fatti passare senza troppi problemi.
Nulla di più semplice.
Giungemmo quindi a Orochi, e quando le guardie messe a controllo dell’ingresso ci interrogarono sul motivo della nostra venuta, spiegammo velocemente di essere due viandanti, giunti dalla Città delle Ossa per mettere i nostri servigi come menestrelli a disposizione del sovrano. Quelle si osservarono in silenzio, poi annuirono, indicandoci sbrigativamente che strada prendere per incontrarlo.
Hitomi, silenziosa, mi procedeva alle spalle, stringendo spasmodica il mio kimono, e osservandosi tesa attorno.
Sebbene infatti la nostra copertura, grazie alle tecniche di lei nel mutare i nostri tratti di base, fosse indubbiamente impeccabile, e sapessimo molto bene che nessuno avrebbe mai nemmeno remotamente osato immaginarsi di infiltrarsi in quel luogo (a maggior ragione se si trattata di un Naga lì per il Passaggio), era comunque impossibile non sentirci tesi e nervosi.
Quel posto in culo al mondo sprigionava negatività e pericolo da tutti i pori, l’aura mefitica e asfissiante che emanava era così potente da impregnare ogni cosa, e ogni passo, respiro o parola parevano farsi quasi troppo pesanti di fronte a tutto quel concentrato di malvagità allo stato puro.
Che, passo dopo passo, mano a mano che ci avvicinavamo alla Sala del Trono si faceva sempre più forte e insormontabile.
Certo, forse per Hitomi, che comunque, in quanto essere umano, non possedeva un allineamento prettamente celestiale come quello dei Naga, tutto ciò non era nemmeno così chiaramente percepibile. Ma per me, che avevo passato anni ad affinare le mie tecniche sensoriali, e appartenevo inoltre a una specie naturalmente votata alla luce, era del tutto impossibile ignorare quel peso asfissiante che continuava ad assillarmi.
Feci un profondo respiro, sperando vivamente che, nonostante tutto, fossi comunque in grado di combattere come facevo sempre. Altrimenti, se quell’aura si fosse rivelata realmente in grado di intaccare le mie capacità belliche, le probabilità di rimanere sconfitto non erano nemmeno così scarse come inizialmente avevo pensato.
Fummo quindi guidati verso la Sala del Trono e, una volta che gli ampi portoni in legno scuro si furono aperti, potemmo vedere, per la prima volta, quello era stato il motivo essenziale per cui ci eravamo spinti fin lì.
L’Imperatore Oni.

 
Ora, premetto una cosa.
Solitamente, non è che gli Oni spicchino chissà quanto per bellezza o avvenenza.
Per quel che ero riuscito a vedere, nella maggior parte dei casi si trattava di umanoidi dall’aria tutt’altro che simpatica, le cui forme sproporzionate e inquietanti nulla avevano a che vedere manco remotamente con la figura umana, figuriamoci, poi, quella celestiale e sublime di noi Naga.
Le loro pelli erano, nel migliore dei casi, coperte di pustole e squame dall’aria spessa e ruvida, gli arti totalmente privi di una seppur pallida idea di armonia e le dimensioni corporee parevano quasi un’accozzaglia confusa di membra sparse e informi.
Certo, in linea generica (mooolto generica, a dire il vero), potevano, magari nascosti sotto strati e strati di veli e tessuti, apparire vagamente umani.
Bastava tuttavia uno sguardo più attento per notare come, tra zanne giallastre, corna rachitiche e code adunche non potessero avere proprio nulla di anche solo remotamente normale. Figuriamoci poi di affascinante.
Insomma, per farla breve, da che mondo e mondo gli Oni erano, e sarebbero sempre stati, una specie tanto malvagia quando sgradevole a vedersi. O almeno credevamo … prima di raggiungere la Sala del Trono.
Ci trovammo in un ampio salone, il pavimento, in legno scuro e lucido, era connesso al soffitto da alcune imponenti colonne in onice nera, sulle quali alcune non molto rassicuranti fiaccole dalle fiammelle verde smeraldo gettavano luci vaghe e surreali in quell’ambiente che, per il resto, non era che scarsamente illuminato.
Accostate alle pareti, vi erano innumerevoli vetrine in cristallo, contenenti vasi antichi e pregiati, ma dalle parvenze così malefiche e dai decori così crudi da non rassicurare affatto sulla loro natura maligna. C’erano anche alcune porta armi, sorreggenti innumerevoli katane dal taglio seghettato e letale, oltre che collezioni molto incoraggianti di teschi scuri e ghignanti.
Verso il fondo della sala, vi era, infine, quello che doveva essere l’alloggio dell’Imperatore, separato, almeno inizialmente, dal resto della stanza grazie a un velo semitrasparente in seta nera. Di fronte a esso, si trovavano innumerevoli candele in cera scura, decorate con forme in oro, che diffondevano un vago sentore d’incenso nella stanza e le cui fiammelle verde acceso illuminavano a malapena quel luogo altrimenti buio e freddo come la morte stessa.
Tuttavia, dovetti riconoscere (seppure a mio malgrado), che quel posto (letalità a parte) non era nemmeno così male.
Certo, la bellezza che lo contraddistingueva non aveva assolutamente NULLA che vedere con quella pacata, serafica e pacifica di Shukai – Shi ma, a modo suo, anche quel posto sapeva incutere un’autentica ammirazione in coloro che lo vedevano.
Era, sotto ogni aspetto, l’essenza stessa della definizione di “Sublime”.
Un fascino macabro e oscuro, lo stesso di quando si osserva un abisso eterno e senza fine, e si è consapevoli di come, in fondo al proprio cuore, oltre al terrore vi sia comunque anche una lieve scintilla di curiosità. Mentre un richiamo oscuro e ancestrale ci spinge, seppure inconsapevolmente, a desiderare di scandagliarne i terribili segreti, fino a diventarne parte noi stessi.
Cosa si celerà mai in fondo a esso?
Avrà mai fine?
Ecco, quel luogo, seppure in modo differente, ne condivideva lo stesso fascino.
Immerso nella sua aura oscura ed eterna, era proprio in virtù della sua macabra bellezza che era totalmente impossibile non esserne attratti.
Sussultammo mentre, con un tonfo sordo, le porte alle nostre spalle si chiudevano. Mi voltai appena, mentre vedevo gli occhi da cerbiatta di lei iniziare a tremolare in preda al terrore, tuttavia, non so come, trovai la forza di sorriderle.
Mi guardai attorno, assottigliando appena gli occhi nel notare come, stranamente, nemmeno all’interno vi fossero guardie.
La cosa non mi piaceva … nel migliore dei casi, poteva essere a causa di una loro qualche imbecillità latente ancora ignota (ma non ci speravo molto, altrimenti la guerra sarebbe finita da un pezzo), nel peggiore, o perché quel tipo era troppo forte per essere anche solo sfiorato o perché volevano metterci in trappola.
Eppure, le sorrisi, sfiorandole la mano e assicurandomi che mi restasse alle spalle, mentre una voce suadente ci accoglieva, dicendo: “Noto con piacere che la mia dimora è di vostro gradimento.”, spostai lo sguardo verso il velo, unica barriera che, ancora, ci impediva di vedere con chiarezza con chi stessimo parlando.
Sorrisi, cercando di piantarmi in faccia l’espressione più leccaculo che potesse venirmi in mente, per poi esibirmi in un profondo (e se posso dire la mia anche incredibilmente sofferto) inchino, e dire, con aria volutamente altisonante: “Vostra Immensità …”, sogghignai, mentre un ben altro (meno lusinghiero) aggettivo mi veniva in mente, “… la ringraziamo per averci accolto nella vostra illustre dimora.
Il mio nome è Ichigo …”, balle, “… e sono giunto qui con la mia compagna così da sperare che la nostra arte di cantori possa essere di vostro gradimento …”, altre balle, “… quindi, sarebbe per noi un vero onore suonare per voi.”, balla finale. O almeno in parte, visto che si, gliele avrei suonate di sicuro, ma non proprio nel senso che si sarebbe immaginato lui.
Una risata divertita ci sorprese, mentre le tende si scostavano e, con nostro immenso stupore, di trovammo di fronte a una creatura che, giuro, di Oniaco (non so se si possa dire o meno ma pazienza) non aveva proprio un bel niente. In effetti, non aveva nulla nemmeno di Imperatore, visto che, per essere sincero, non fosse stato per la voce indubbiamente maschile lo avrei scambiato facilmente per una donna.
Comunque, il punto è che, essenzialmente, non ci saremmo mai aspettati di poterci trovare di fronte a una creatura così … così … beh, va bene, io sono figo (e fin qui non ci piove) però anche lui non era così male. Diciamo che, se non fosse stato un fottuto Oni del ca***, allora avrei anche potuto farmelo stare simpatico.
Osservammo, visibilmente scettici, quei lineamenti quasi femminei, la carnagione candida e delicata, gli occhi dal taglio fine e nobile oltre che la fronte alta e spaziosa. Le iridi, erano due ametiste profonde e lucenti, i capelli, neri come l’inchiostro, gli cadevano in una morbida coda fino ai fianchi, così sottili da parere quasi quelli di una fanciulla.
Unico segno della sua origine demoniaca erano, essenzialmente, due imponenti corna da ariete, anch’esse scure come onici e decorate da innumerevoli anelli in oro, oltre che un terzo occhio posizionato, verticalmente, sulla fronte.
Per il resto, avrebbe comodamente potuto farsi passare per un dio in terra.
Il vestiario era composto, in sintesi, da un ampio Yukata viola acceso, con intarsi dorati che si avvolgevano lungo tutto il suo corpo, a raffigurare scene di caccia in cui demoni dalle fattezze informi uccidevano e scannavano umani indifesi. Le maniche erano ampie e voluminose, sotto di esse, potemmo intravvedere delle mani delicate e curate, cariche di anelli in oro e bracciali di gemme e pietre preziose. L’Obi, sempre in oro e che sorreggeva il tutto, era avvolto stretto sulla vita sottile, ad accentuarne ulteriormente le forme decisamente poco virili mentre, depositata al suo fianco, una naginata nera risplendeva letale sotto la luce soffusa delle candele.
Lo guardammo, visibilmente perplessi, mentre quello sorrideva, con fare tutt’altro che rassicurante.
Mi sentii gelare il sangue nelle vene notando come, in modo a dire il vero nemmeno troppo celato, i suoi occhi si trovarono a percorrere, con un’aria di apprezzamento che da parte di una donna non mi sarebbe dispiaciuta, ma che con lui non poteva non farmi venire la nausea, il mio fisico solido e allenato. Soffermandosi forse un po’ troppo a lungo le cosiddette zone meridionali.
Sentii Hitomi arrossire, abbassando il capo.
Evidentemente, nemmeno a lei doveva essere sfuggito tale dettaglio.
Tuttavia, col cavolo che gli avrei permesso di fare i propri porci comodi, quindi sorrisi, prendendola per mano e portandomela ancora più vicina. In parte, per rassicurarla (come se ce ne fosse bisogno, non ci pensavo nemmeno a farmi mettere sotto da un dannato ermafrodito), e in parte per chiarire, indirettamente, come fossi già impegnato (almeno in teoria).
L’altro sorrise, divertito, per poi constatare, con un tono che, sin dall’inizio, mi fece letteralmente immobilizzare dal terrore: “Vostro zio aveva perfettamente ragione. Siete proprio come vi aveva descritto: sfrontato, sciocco ma anche incredibilmente affascinante … sfortunatamente per voi, mio giovane RYUJIN, temo che non potrò godere molto della vostra indubbiamente gradevole compagnia. Perché la vostra permanenza nel Naraka finisce ora.”, sorrise, alzandosi pigramente in piedi.
Mi bloccai, fissandolo senza realmente capire.
Osservai interdetto Hitomi, ma anche lei pareva non comprendere di cosa stesse parlando, ed era sconvolta almeno quanto me.
Lo osservai, scettico e diffidente, quasi a carpire dove stesse la menzogna. Eppure, mentre scrutavo quelle iridi color ametista, fu con mio immenso dolore che non riuscii a scorgervi nemmeno una più pallida scintilla d’inganno.
Deglutii, scoppiando a ridere.
Per la verità, il suono che ne uscì fu fin troppo forzato, segno indelebile del nervosismo che, subdolo e letale, si stava facendo strada nel mio animo: “Quello che state dicendo è totalmente assurdo, Shenlong non avrebbe avuto alcun motivo per entrare in contatto con voi.”
L’altro sorrise, e per poco non avrei voluto staccargli la testa a morsi, nel vedere il tono quasi compassionevole con cui mi aveva guardato.
“Principe Ryujin, la vostra ingenuità mi sorprende. E si che, in tutti questi anni, avreste ormai dovuto comprendere come vostro zio disprezzi la vita a cui voi Naga siete costretti … dopotutto, non avete condiviso lo stesso modo di vedere le cose, in questi anni?”, sorrise, riprendendo, con tono laconicamente triste, “Una specie così splendida e magnifica, che avrebbe dovuto essere destinata a regnare sui mortali, e invece si trova a doverli servire, proteggendoli come cani da guardia! Non ditemi che non lo avete mai pensato, anche se per un solo istante, da quando avete vissuto al Palazzo di Giada.”
Tremai, incapace di credere a quelle parole. Era vero, avevo sempre saputo del disprezzo che mio zio aveva per la vita di corte, e per la situazione in cui ci trovavamo, ma mai, nemmeno per un istante, avrei potuto immaginare che potesse ordire una trama simile. Contro la sua famiglia, contro la sua specie e contro l’umanità intera.
Lui era sempre stato, per me, l’ancora di salvezza, l’unico cenno di comprensione in quel mondo altrimenti monotono e distante, il solo in grado di comprendere i miei pensieri e desideri. Aveva rappresentato tutto ciò a cui ambivo e che desideravo essere, era stato un amico, un mentore e un padre, laddove Tianlong aveva fallito più volte. E la fiducia, cieca e assoluta, che avevo sempre avuto nei suoi confronti m’impediva anche solo di IMMAGINARE che potesse tradirmi in quel modo. Non dopo tutte le ore passate assieme, non dopo tutti gli sguardi complici, i viaggi compiuti, le giornate passate a chiedergli delle sue avventure.
Era stato, laddove tutti gli altri avevano fallito, il solo in grado di comprendere il mio disagio. Il solo che, seppure silenziosamente, sapesse cosa mi passava per la testa, e condividesse i miei stessi pensieri e preoccupazioni.
Mi morsi il labbro, mentre lo sguardo indeciso di Hitomi si posava sul mio.
Era vero … io avevo sempre considerato gli esseri umani come niente di più e niente di meno che delle creature deboli e inferiori. Non l’avevo mai nascosto e, anzi, non perdevo certo occasione per far sapere al mondo come la pensassi ma … ma …
La guardai, terrorizzato mentre, per la prima volta, un’ombra di dubbio si faceva strada in quelle iridi color acquamarina. Come poteva veramente credere che avrei mai potuto appoggiare un tradimento simile? Che desiderassi realmente solo e soltanto la distruzione della sua specie? Che li disprezzassi a tal punto?
Mi morsi il labbro, guardandola supplice, consapevole di come, in tutti quegli anni, non le avessi mai realmente dato modo di pensare il contrario.
L’avevo sempre maltrattata e denigrata, continuando a rimproverarla ogni giorno che passava, vessandola in ogni modo possibile e immaginabile. E standomi a fianco, aveva potuto vedere bene come, con gli altri suoi simili, non fossi certo più gentile.
Mi voltai a osservare l’Imperatore, furioso, sbottando in preda a un’ira a stento trattenuta: “Q-questo … non è affatto vero! Non avrei mai potuto desiderare la distruzione della razza umana, né mi sarei mai sognato di tradire in questo modo la mia specie!”
Quello sorrise, bonario, per poi rispondere, perfettamente pacato: “Davvero? Non hai mai desiderato poterli vedere svanire, cosicchè non fossi costretto a prendere il tuo posto come Imperatore, passando la tua esistenza a difendere una guerra non tua? Hai mai sperato che se fossero svaniti nel nulla, senza lasciare traccia, tu saresti stato finalmente libero? Ti sei mai chiesto, anche se solo per un minimo istante, come sarebbe stata la tua esistenza senza di loro?”
Mi bloccai, incapace di rispondere.
Perché si, in cuor mio, lo avevo desiderato.
Forse non in modo conscio, forse non con l’intento di esternare tale mio pensiero … ma lo avevo fatto.
E mi sentivo un verme per questo.
Strinsi i denti, furioso, deglutendo a forza quel senso di colpa che mi vessava l’animo e proseguendo, cercando, con mio immenso sforzo, di ignorare gli occhi, ormai colmi di lacrime, di Hitomi, che mi fissavano alle mie spalle: “Che cosa avete fatto?!? Cosa vi ha detto mio zio, e perché siete in combutta con lui?”
Quello sospirò, con aria quasi annoiata, per poi riprendere, perfettamente tranquillo: “Vedete giovane principe, è proprio grazie questa vostra incredibile ingenuità se, per tutti questi anni, io e il vostro stimatissimo consanguineo siamo sempre riusciti a nascondervi tanto bene le sue intenzioni. Davvero mi fate una domanda simile? Eppure, ormai dovreste averlo compreso … come, ormai, voi siete l’unico ostacolo che ancora possa impedire a vostro zio di salire sul trono di Shukai – Shi.”, sorrise, osservandomi divertito, per poi sfiorare annoiato la propria arma.
Strinsi i denti, indietreggiando di riflesso e portando la mano sull’impugnatura di Yoosenmaru, pronto a sfoderarla non appena se ne fosse presentata la necessità. Costrinsi Hitomi a mettersi dietro di me, proteggendola col mio corpo, e determinato a sacrificare anche la mia stessa vita per salvare la sua sebbene, per tutto quel tempo, gli occhi pieni di dolore e d’incertezza di lei avessero continuato a perforarmi dolorosi la schiena.
Osservai silenzioso il demone, ascoltando in silenzio quelle parole e stupendomi ancor di più nel constatare come, in realtà, tale tradimento non fosse stato affatto frutto di recenti congetture, come avevo inizialmente pensato, ma un qualcosa di maturato consapevolmente negli anni.
“Quindi … voi conoscete mio zio. E per quale motivo dovreste desiderare di aiutarlo? Mettere un altro sul trono di Shukai – Shi non vi darà alcun vantaggio.”, lo osservai, mentre quello sorrideva, serafico, e una pessima sensazione si faceva strada dentro di me, mentre azzardavo, “A meno che … no, non vi credo. È totalmente assurdo, nemmeno lui si spingerebbe così oltre.”
Quello scoppiò a ridere, divertito: “Ebbene, ci siete arrivato, dunque? Si … vostro zio ha fatto un accordo con me. La vostra testa, in cambio della totale libertà sugli umani. Una volta salito al trono, metterà finalmente fine a questa vostra patetica guerra, e nessun Naga sarà più costretto a perire per una causa non sua.
Voi sarete liberi, e finalmente Ayumu sarà nostra! Non è magnifico? Finalmente, tutti i vostri sogni si potranno avverare. Non è forse questo quello che volevate? La fine di un conflitto che, nei millenni, non ha fatto altro che corroderci da ambo le parti? Vostro zio ha compreso in fretta cosa fosse meglio per la propria specie, e, diversamente che da quello sciocco pacifista di vostro padre, ha preso una decisione che nessun altro al posto suo avrebbe avuto il coraggio di prendere. Grazie a lui, nessun Naga dovrà più morire invano e noi, d’altra parte, potremmo finalmente riprenderci quella terra che avrebbe dovuto essere nostra sin dall’inizio!”
Lo osservai, totalmente scioccato, per poi sbottare, incapace di trattenermi: “Si, e in base a quale diritto immaginario, eh? Ayumu non appartiene a nessuno … né ai Naga, né agli umani e nemmeno agli Oni. Solo a coloro che desiderano amarla a difenderla, e sono disposti a sacrificare la vita per farlo. E visto come avete ridotto le vostre stesse terre, non dubito certo che potreste mai nemmeno remotamente adempiere a un compito simile! Non vi permetterò di distruggere la mia patria, potete anche chiamare tutti i soldati che volete, io vi staccherò la testa, e la riporterò a mio zio, come segno di ciò che accade a coloro che minacciano gli esseri umani di fronte a me!”
Quello scoppiò a ridere, divertito, mentre, lentamente, si spogliava del kimono, rimanendo con solo delle brache in seta e una rosario al collo. Sorrise, impugnando assorto la propria arma, e osservandomi silenzioso, prima di dire, perfettamente tranquillo: “Non angustiatevi troppo, giovane principe. Non mi priverei mai del piacere di dilaniarvi le carni con le mie stesse mani e, d’altronde, le mia guardie danno bene come non ami essere interrotto quando faccio AFFARI con delle personalità importanti.
Io basto e avanzo per tenervi a bada, Erede di Tianlong e, anzi, spero per voi che siate preparato. C’è un motivo se, finora, nessuno è mai riuscito anche solo a scalfirmi, e anche se dal vostro sguardo ironico posso dedurre facilmente il biasimo causato dal mio aspetto, vi posso altresì assicurare che troverete in me un osso molto ostico da affrontare.”
Assottigliai gli occhi, per poi sorridere, impavido, ed estrarre Yoosenmaru.
Guardai appena Hitomi, sussurrandole: “Stai indietro … questa cosa non deve riguardarti.”
Mi osservò, ancora indecisa.
Potevo chiaramente percepire come, dopo le infide (ma brutalmente veritiere) parole di lui nemmeno lei fosse più realmente sicura su cosa pensare al mio riguardo.
Sospirai, chiudendo appena gli occhi, prima di voltarmi e alzarle il mento, osservando assorto quelle iridi imperlate di lacrime, così dannatamente magnifiche e struggenti da farmi stringere il cuore nel petto, di fronte alla consapevolezza di averla ferita in quel modo orribile e crudele. Sorrisi, tristemente, consapevole di come, dopo tutto ciò che avevo fatto, non meritassi certo il suo perdono, o la sua comprensione: “Hitomi … guardami, ti prego.”, alzò il capo, fissandomi spaurita, tremava e, in fondo al cuore, non potevo certo biasimarla per questo, “Lo so. Ti ho delusa, non sono mai stato un padrone, o un compagno, che si potesse definire responsabile. Ti ho biasimata, per le tue origini mortali e per la natura debole della specie a cui appartieni, e per questo non sono mai stato capace di dare, a te o ad altri, il reale valore che meritate.”, mi morsi il labbro, deglutendo appena, per poi riprendere, la gola che quasi mi doleva nel pronunciare quel fiume di parole che, in tutto quel tempo, non avevo mai avuto il coraggio di dire, “E me ne pento. Me ne pento amaramente, perché so di averti ferita e sfruttata, nonostante la tua dedizione, nonostante il tuo coraggio e nonostante la tua gentilezza. Io sono stato cieco, e non potrò mai perdonarmi per questo.
È vero”, ammisi, abbassando il capo colpevole, “Io ho sempre pensato, in fondo al cuore, che non valesse realmente la pena di proteggervi. Ho biasimato il mio stesso fratello per essersi unito a un’umana, rinnegato mio padre per il suo amore verso di voi e abbandonato te, che mi eri sempre rimasta fedele, per le tue origini. Vi credevo una razza debole e inferiore, perché non possedevate la nostra stessa forza, la nostra durata vitale o i nostri poteri. Ma, mentre attraversavamo assieme il Naraka, ho visto in te qualcosa che prima non ero mai riuscito a vedere, una forza unica e differente che per anni ha permesso alla tua specie di rialzarsi, sempre e comunque, anche di fronte alle difficoltà apparentemente più insormontabili. Forse, non sarete come noi, ma possedete, senza ombra di dubbio, una grandissimo potenziale che, spero, potrò un giorno vedere trasformarsi in qualcosa di nuovo e unico, in grado di cambiare il mondo.”, le sorrisi, mentre vedevo quei bellissimi occhi da cerbiatta sgranarsi, e le lacrime smettere di imperlarle le gote candide e perfette.
“Ryu …”, si limitò a dire, mentre le sfioravo leggermente, e con una dolcezza quasi reverenziale, le labbra. Sorrisi, accarezzandole il viso, consapevole di come, se avessi fallito, avrei potuto non rivederla mai più: “Tranquilla, nessuno ti farà del male. Finché avrò vita, non permetterò che gli esseri umani possano soffrire. Ho già fallito troppe volte, commesso troppi errori e perso troppe persone care … ora che finalmente posso comprendere le motivazioni di mio padre, voglio poter reggere a dovere quel compito che mi è stato affidato.”
Mi voltai, mentre i miei occhi penetravano, incandescenti, quelli color ametista dell’Imperatore Oni, e lui sorrideva, impugnando la propria arma.
Si schioccò il collo, dicendo: “Molto bene, ora che hai avuto il tempo per dare il tuo ultimo addio alla tua SCHIAVA, direi che è meglio non perdere altro tempo. Ti presento Seshamaru, la mia naginata … tramite lei, ho tolto la testa a così tanti Naga da perderne il conto. Spero sarai felice di entrare presto nella mia collezione.”
Sbuffai, ironico, osservando quell’arma in silenzio.
L’asta, costruita in un solido legno color onice, era fornita di un’impugnatura in oro, mentre la lama, lunga quasi un terzo dell’arma stessa, era forgiata in un lucente metallo nero come l’inchiostro liquido, e decorata da alcuni intagli dorati, raffiguranti geroglifici e simboli propiziatori per colui che aveva il dovere di brandirla. Presso il punto che congiungeva la lama all’asta, un semplice drappo nero ne decorava le forme, mentre la lama seghettata (fatta più per tranciare che per tagliare) brillava ostile sotto la luce soffusa delle candele.
Sfoderai rapido la mia Yoosenmaru, e, per la prima volta da quando l’avevo ricevuta in dono, quel peso che di solito mi accompagnava nel brandirla parve come dissolversi.
Questa volta, SAPEVO, dentro di me, che stavo facendo la cosa giusta. Che avrei lottato per una causa per cui valeva realmente la pena di combattere, e che finalmente avrei potuto proteggere coloro che amavo e che stimavo.
Strinsi i denti, ostile, alle parole di lui, sbottando: “Mettiamo bene in chiaro una cosa, razza di demonietto ermafrodito e senza palle, Hitomi NON E’ la mia schiava! Chiaro? È una carissima amica …”, la sentii arrossire, dietro di me, anche se, per essere sincero, iniziavo realmente a dubitare di quelle parole, ma non osavo ancora sperare che potesse essere di più, “… e una mia fedele ancella. E tu … sei un’uom … ehm … un tizio morto!”
Gli occhi di quello si raggelarono mentre, prima ancora che potesse trovare di che protestare, mi slanciavo in avanti, pronto a colpire.

 
Non mi ci volle molto per comprendere come, se per tutti quegli anni non era mai stato ucciso, ci dovesse essere necessariamente un buon motivo dietro.
E infatti un motivo c’era.
A dispetto del fisico effeminato e ben più esile del mio, quel tipo possedeva una potenza a dir poco impressionante, oltre che dei riflessi e un’agilità ben superiori anche a quelli di un Naga adulto ed esperto.
Si muoveva con una grazia che, altrimenti, avrei creduto impossibile all’interno di uno scontro come quello, ma non per questo le sue movenze erano meno precise, o letali.
Si spostava, colpiva e parava con un precisione e una puntualità estreme, senza smuoversi nemmeno di un millimetro di fronte alla mia carica affiatata e senza nemmeno curarsi troppo di rispondere ai miei continui assalti. Si limitava a evitare, tranquillo e pacato, oltre che con un sorrisino decisamente molto irritante in viso, tutti i miei colpi, giocando con me come il gatto fa col topo, e col chiaro intento di stancarmi e farmi arrivare al limite.
Così da potermi infliggere il colpo di grazie senza troppe difficoltà.
Ovviamente, se credeva sul serio che glielo avrei permesso, allora si sbagliava di grosso.
Nonostante fosse un ottimo guerriero, e i miei attacchi continuassero ad andare a vuoto, la situazione non era nemmeno così precaria. Seppure a fatica, anch’io riuscivo a reggere ai suoi assalti, e grazie alla determinazione che avevo acquisito, ero tutt’altro di che disposto a perdere … anzi, da quando avevo iniziato ad apprendere l’arte della spada, potevo dire con assoluta certezza che mai, come allora, raggiunsi simili livelli di forza.
La consapevolezza di trovarmi con le spalle al muro, e il sapere che tutta l’umanità si appoggiava ora sulle mie spalle, mi spinsero a dare il massimo di me stesso, superando di gran lunga quelle che sarebbero state le mie naturali capacità e facendomi procedere spedito, rialzandomi sempre e comunque.
Lo scontro procedeva spedito, senza esclusione di colpi.
Io, spinto dall’ardore e dalle determinazione, cercavo in tutti i modi possibili di penetrare nella difesa del mio avversario ma, purtroppo, l’arma a medio raggio di cui disponeva mi metteva in una naturale posizione di svantaggio. La naginata è un’arma ad asta, contro cui, notoriamente, una comune katana può ben poco, vista la possibilità di tenere lontano l’avversario e controllare il gioco senza problemi … e se non potevo avvicinarmi troppo, ferirlo sarebbe stato ancora più complicato.
Lu, d’altro canto, come potei notare col proseguire dell’incontro, pareva iniziare a infastidirsi sempre di più. Era riuscito a farmi un paio di graffi, ma ogni volta che cercava di prendere in mano la situazione, mi spingevo con le spalle al muro, verso quella zona della sala in cui la sua arma a medio raggio avrebbe avuto maggiori difficoltà a essere maneggiata facilmente. E allora ritornava alla sua posizione di base, osservandomi sempre più irritato da quel naturale fervore che gli impediva di darmi il colpo di grazia.
Tuttavia, ero ben consapevole come, di quel passo, avrei finito immancabilmente con l’essere ucciso.
Il braccio sinistro era già stato ferito, e sebbene il graffio non fosse eccessivamente profondo, trattandosi della mia mano portante fui costretto a continuare a combattere con la destra, cosa che rese immancabilmente più impacciati i miei movimenti. Inoltre, era riuscito anche a farmi un taglio alla gamba, anche questo lieve ma comunque doloroso e in grado di rallentarmi non poco, e quello che avevo sulla fronte mi offuscava la vista, col sangue che gocciolava fastidioso sull’occhio sinistro. Potevo anche muovermi, ma era chiaro che, così continuando, avrei seriamente rischiato di rimanere ucciso.
Fu allora che mi venne l’illuminazione.
Non potendo avvicinarmi troppo al mio avversario, mi condussi con le spalle contro una delle colonne in onice nera, così da dargli l’impressione di avermi messo con le spalle al muro.
Quando questo si slanciò in avanti, mi scansai di lato, lasciando che la lama di Seshamaru penetrasse nella colonna, restando bloccata, giusto il tempo per afferrare una delle torce ivi appese e scagliarla con precisione contro il mio avversario.
L’Imparatore Oni fu costretto a indietreggiare, lasciando l’arma conficcata nella colonna, ma finendo comunque con l’essere ustionato dalle ceneri e dai lapilli verde smeraldo provocati dalla torcia, che si conficcarono letali negli occhi, facendoli sfrigolare in modo decisamente sinistro mentre, con un grido di agonia, si portava le mani al viso, accasciandosi a terra dal dolore.
Mi fermai, annaspando stremato, e portandomi istintivo una mano alla gamba, che, a dispetto della ferita lieve, continuava a sanguinare, e in modo anche abbastanza insistente e fastidioso.
Lo osservai, avvicinandomi a lui lentamente, e osservando disgustato quell’essere prima così arrogante e pieno di sé.
Il volto, ridotto ormai a un ammasso scuro e fumante, era totalmente deturpato. Le fiamme avevano scavato la carne senza pietà, fondendola senza fermarsi e bruciando in larga parte anche la chioma prima magnifica, per poi procedere letali lungo tutto il busto.
Ormai, non rimaneva che l’ombra della figura bellissima che era un tempo.
Fissai, serio, quella creatura ormai sconfitta, al che dissi: “E’ finita. Siete stato sconfitto.”
Quello mi fissò, le orbite vuote che mi sondavano l’animo, quindi sorrise. In mezzo a quella pozza di sangue nero e rappreso, sentii quasi il cuore gelarmisi nel petto, mentre la risata roca e disperata di lui riecheggiava nella stanza, mentre rispondeva, in preda al delirio: “Certamente, uccidimi pure, giovane principe. Ma non uscirete MAI di qui. Pensavi veramente che fossi così sciocco da non avere un piano di riserva? Le Porte del Naraka sono sigillate, puoi anche ammazzarmi, ma per quanto potente possa mai essere il tuo Karisuma, non tornerai mai a Shukai – Shi e, con la tua scomparsa, alla fine la razza umana sarà comunque condannata!”
Mi bloccai, fissandolo, incapace di credere a quelle parole.
Digrignai i denti, mentre l’ira prendeva possesso del mio animo.
Lo osservai, carico di disprezzo poi, senza attendere oltre, conficcai Yoosenmaru nel suo cuore.




Note dell'Autrice:
Ebbene, ecco a voi il nuovo capitolo.
Sorpresi?
Può darsi, spero tuttavia che, con questo colpo di scena finale, la vostra curiosità non si esaurisca e possiate godervi appieno anche il prossimo, e temo ultimo, capitolo della storia.
Durante questa breve parte, abbiamo fatto molte scoperte. Ryujin e Hitomi hanno finalmente iniziato a riallacciare quel legame che pensavano ormai perso, sono giunti a Orochi e qui hanno fatto la spiacevole scoperta sulla reale natura di Shenlong. E, ovviamente, sono giunte anche le scazzottate, col nostro carissimo Imperatore Oni ... che diciamocelo, è proprio un figo da paura (anche se probabilmente Ryu non sarebbe d'accordo).
Quindi che dire ... passo subito alla pubblicazione del prossimo capitolo.
Prima, però, un breve ringraziamento a EragonForever, per le sue generosissime recensioni, e per tutti coloro che hanno amato questa storia e continuano a seguirla. 
Detto questo, alla prossima!

Teoth
   
 
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