Capitolo
21
In
caduta libera
Auguste
socchiuse le palpebre sotto le lame di luce che occhieggiavano nella stanza;
lentamente, cercò di convogliare la propria attenzione su quanto si muoveva
intorno a lui, sforzandosi per quanto possibile, fra le spire di
quell’inquietudine ormai attecchita nella sua mente, di allontanare da sé la
sensazione martellante che qualcosa non andasse; che qualche oscuro, basilare,
sconosciuto tassello gli fosse stato taciuto.
Il
suo sguardo si concentrò sulla figura di Fernand, curva al capezzale di Dorian,
la mano pallida strettamente allacciata a quella dell’amico; profusa in quel
gesto, quella dolcezza fraterna che difficilmente avrebbe attribuito proprio a
lui, così misurato e trattenuto nelle sue esternazioni
d’affetto.
In
silenzio, nella discrezione che quell’angolo in disparte gli aveva fortuitamente
offerto, li aveva osservati confabulare fitto fitto, ed un’incomprensibile nota
allarmata nella voce gli aveva fatto aguzzare i sensi su quel mormorio concitato
e sconnesso del quale era riuscito a captare poco e nulla.
Poi
Raphäel aveva fatto nuovamente ingresso nella stanza, scuro in volto, e Fernand
si era affrettato a troncare la conversazione, lo sguardo palpitante di
sospettosa frustrazione fisso su di lui.
Ora
Dorian si era leggermente assopito – doveva fingere, ne era sicuro –
inconsapevole cuscinetto fra i due contendenti che, uno alla sua destra ed uno
alla sua sinistra, continuavano a scrutarsi di sottecchi con fare
ostile.
Un
quadro non poco esaustivo, considerò Auguste, nel tentativo d’ingannare le
incontrollabili riflessioni che sentiva affiorare nella sua mente, al limite del
delirio. E la mano di Fernand indugiava ancora, troppo insistente, su quella di
Dorian. Troppo a lungo. Auguste cercò d’ignorare il nodo di bruciante amarezza
che, inaspettatamente, aveva preso a tormentarlo alla bocca dello
stomaco.
D’istinto,
si schiarì voce, ricacciando indietro quell’impressione di soffocamento che, in
un’alienante reazione a catena, gli aveva indotto da principio la vista del
sangue, denso suggello di allucinanti reminiscenze e suggestioni, i cui effetti
affievolivano lentamente la presa su di lui. Detergendosi la fronte, si
costrinse a concentrare la propria attenzione su un qualche dettaglio, un
pensiero qualsiasi che non fosse l’esile contatto tra Fernand e
Dorian.
Le
dita bianche di Raphäel che scorrevano agili nell’intrico dei lunghi riccioli
bruni.
Fernand
non aveva completamente torto, rifletté: tutto in Raphäel, riscossosi dalla
sorpresa iniziale, faceva pensare ad un sadico piacere nel reggere con indefessa
ostinazione lo sguardo astioso di quello che, senza ragioni apparenti, era
divenuto il suo naturale antagonista. E non si preoccupava di alimentare così la
collera dell’altro, ogni istante di più, mentre con la mano seguitava a
giocherellare insistentemente sui propri capelli come in uno strano
rituale.
Gli
piace il controllo sugli altri; vuole tastare le mosse altrui, avere la
situazione in pugno. Ciò che a te non è mai riuscito.
Stai
diventando paranoico, Auguste, maledettamente paranoico ed ossessivo, perché ti
ostini a vedere segreti, complotti e cattive intenzioni dovunque metta piede. E
poi, magari, riesci persino a far quadrare i conti, se è vero che dieci minuti
non sono stati sufficienti né a Raphäel né a Dorian a sciorinare una versione
chiara e coerente sull’accaduto.
-
Sta meglio ora? – biascicò a mezza voce, giusto per spezzare la
tensione.
Fernand
si limitò ad annuire distrattamente.
Raphäel
intercettò il suo sguardo con espressione vagamente smarrita, come distolto
senza preavviso dalla trama di arcane congetture.
-
La febbre è calata del tutto; è strano, per com’era stanotte, ma penso che entro
domani sarà come nuovo.
-
Da quando sei diventato più esperto del medico del borgo, Raphäel? – lo pungolò
Fernand con intento esplicitamente polemico.
Raphäel
gli rivolse un sorrisetto sarcastico, le sopracciglia inarcate in un cipiglio
non troppo indulgente.
-
Da quando studio medicina – si affrettò a puntualizzare.
-
Tu? – Fernand arricciò il naso – Amico, sarei felice del tuo “salto di qualità”;
ma vedi, con i fedelissimi del duca infiltrati ovunque ed ogni aspetto della
vita in città tenuto sotto controllo capillare… Non vedo per noi grandi
prospettive. Università, accademie, corporazioni: ai loro occhi, fucine di
potenziali cospiratori da asserragliare sotto la loro supervisione. Con
rispetto, e visti gli infelici precedenti, non sono così convinto che uno come
te… – il suo sguardo scivolò rapidamente lungo la figura di Raphäel – sarebbe il
benvenuto. Senza ricchezze, intendo dire, senza nessuno che garantisca per te. A
meno di cospicue donazioni come lasciapassare, e non mi pare questo il tuo
caso.
Raphäel
fece spallucce, tradendo tuttavia l’espressione piccata.
-
Forse che gli stracci, amico mio, non precludono la passione e l’intelletto;
sarà pure che sono bravo e non mi manca l’intuito. Ad esempio, Fernand,
ultimamente ti vedo un po’… debole, emaciato. Sembreresti quasi un po’ anemico,
se l’apparenza non mi trae in inganno.
Fernand
fissò sbigottito il sorriso di cera che stirava le labbra di Raphäel. Benché
lungi dal godere della sua piena stima – e Fernand doveva riconoscerlo – Lemoine
non era un individuo meschino, capace di giocare sporco sfruttando i punti
deboli dell’avversario; ciò nonostante, la sua lapidaria sentenza tradiva in sé
una tale sicurezza, frammista ad una sorta di malcelato dispiacere, che Fernand
parve smarrirsi.
Pericolosamente
vicino a lui, una luce sibillina in fondo alle pupille, Raphäel allungò la mano
e tastò con due dita il collo di Fernand.
Il
giovane represse un moto di fastidio.
-
Ti si legge in faccia – gli soffiò Raphäel, serafico – Il consiglio più semplice
che posso darti, Fernand, è di farti un bicchiere di vino rosso alla nostra
salute. Bello tranquillo – concluse con una pacca sulla spalla troppo affettata
per poter dirsi amichevole.
Fernand
si portò una mano alla gola, in soggezione.
Troppo
tardi. Aveva già visto quanto c’era da vedere.
-
Fernand, che hai?
Senza
che il ragazzo potesse impedirlo, Auguste gli aveva allentato il colletto fino a
scoprire la parte incriminata, radunando tutta la sua attenzione su quelle che
parevano due minuscole punture quasi cicatrizzate.
Auguste
trattenne un ansito di sollievo, sebbene quel sordo, indecifrabile sospetto,
incuneato a fondo nella sua mente, non l’avesse sciolto completamente da un
dubbio che rifiutava di prendere una forma ben distinta nella sua
testa.
-
Cos’hai fatto?
Fernand
indietreggiò, eludendo la sua presa, il volto alterato.
-
Cosa vuoi che ne sappia! L’unica cosa che mi viene in mente è che mi sia
tagliato radendomi.
- È
strano. Pensare che non l’avevo notato. A prima vista, non sembrano esattamente
dei tagli.
-
Allora non ne ho assolutamente idea – tagliò corto il ragazzo – Piuttosto –
riprese in capo a qualche secondo con rinnovata prontezza – Credo sia ora di
andare.
-
No, non così in fretta, mon
ami.
Fernand
sentì il proprio cuore saltare un battito, quando quelle brevi parole
strascicate lo raggiunsero sul limitare della porta.
-
Troppa fretta – mormorò Dorian, la voce roca ed impastata di chi, con scarso
successo, tenta a più riprese di recuperare un po’ di sonno perduto – Perché,
sai, a questo punto, e bando ai segreti idioti, sarei curioso anch’io di
conoscere la ragione di quei dannati segni sul collo che, al contrario di me,
sembrano lasciarti tanto indifferente. Sì, è successo anche a me, se ancora non
lo sapessi.
Fernand
impallidì. Prima che supposizioni di qualsiasi natura si facessero largo in lui,
volse lo sguardo in direzione di Dorian e lo fulminò con un’occhiata al
veleno.
Di’
dello svenimento e ti ammazzo!
-
Lascia perdere! – biascicò a labbra strette.
-
Che avete ancora da confabulare, voi due?
Auguste.
Ora siamo al completo.
In
silenzio, Fernand fissò Dorian con occhi imploranti. Nonostante tutto, Raphäel
non l’aveva tradito – non del tutto, perlomeno. Si era limitato a tirare il
sasso e poi sorvolare abilmente. Perché avrebbe dovuto farlo proprio
Dorian?
-
Raphäel, arriviamo al dunque. Penso che almeno tu sappia dirmi cosa… – incalzò
Auguste.
-
Te ne ho parlato, Auguste – lo interruppe Raphäel – Dorian non stava bene, la
febbre deve avergli provocato qualche mezza allucinazione. Non è un evento così
singolare.
-
Raphäel, diglielo! – lo aggredì Dorian, puntellandosi sui gomiti – Hai visto
anche tu i segni sul mio collo? Magari, se provi ad osservare meglio… – con la
mano sana, si slacciò la camicia fino al petto, lasciandola ciondolare molle
sulle spalle.
-
Che cosa, Dorian? – lo fronteggiò Raphäel con fare
esasperato.
-
Ero senza camicia – scandì Dorian con voce gelida – È praticamente impossibile
che non abbia notato la stessa cosa che ho notato io; a giudicare poi dalla…
“attenzione” con cui mi hai soppesato – un violento rossore gli crebbe
rapidamente sulle gote, contrastando con il piglio strafottente – Dubito ti sia
lasciato sfuggire qualcosa di così lampante.
Per
poco Fernand non cadde dalla sedia. Non vide l’immediata reazione di
Raphäel.
Un
intenso formicolio all’altezza del petto, come un disperato frullare di ali, si
tradusse rapidamente in una specie di sussulto seguito dal liquido, soffocante
calore di un impulso indefinito, privo di aggettivi, che in un primo momento non
riuscì a focalizzare.
Dorian!
A cosa diavolo stava alludendo? La sua voce era piombava su quell’affermazione
come un fendente; un sussurro lascivo e beffardo ed il luccichio che preannuncia
il colpo di grazia.
E
poi la rabbia, come uno schiaffo in pieno volto, a bruciare su di lui; un
inspiegabile, corrosivo rancore verso Raphäel ed i suoi occhi impertinenti,
verso Dorian e la sua espressione ambigua, e la flebile speranza che
quell’immagine fuorviante abbandonasse al più presto la sua
mente.
Dorian,
nudo. O quasi, la pelle d’avorio sottile tesa sulla delicata impalcatura di ossa
e muscoli, fremente e vulnerabile sotto il fuoco ingannevole dello sguardo di
Raphäel che, distratto, la accarezzava con occhi sfuggenti senza mai sfiorarne
le fragili trame.
C’era
qualcosa che non andava. Era tutto distante, capovolto. Nulla quadrava, tutto
cambiava. Tutto da riscrivere, il ruolo di Raphäel in primo
luogo.
Osservò
Dorian, le sterminate iridi di cielo in fondo a quelle palpebre gentili, i
capelli scomposti sulle spalle. L’amico che l’aveva protetto ed accarezzato, che
l’aveva stretto a sé quando Auguste gli aveva vomitato addosso la sua rabbia. Il
dolore bruciava ancora. Frammenti di un desiderio taciuto che, ferendolo, gli
sfuggivano come sabbia fra le dita; e quella sua parte di mondo, quel fragile,
sconosciuto nido di serenità e certezza, sconvolto, minato alle fondamenta e
spazzato via da un paio d’occhi di fredda ardesia.
-
Raphäel – riprese Auguste – è
vero?
Fernand
seguì minuziosamente le mosse di Raphäel, intento a fissare soprappensiero il
volto di Dorian contorto in collerica trepidazione, soffermandosi poi su
Auguste, sul suo sguardo fermo e inflessibile che lo rendeva, ad un’occhiata
sommaria, tutto fuorché propenso ad accettare bizzarre teorie suffragate dalla
parola di un ragazzo in palese stato d’agitazione, febbricitante fino a poche
ore prima, e di uno che, messo tra due fuochi, pareva non sapere da che parte
guardare. Attese.
-
Non ricordo, Auguste, non posso confermare – Raphäel deglutì rumorosamente, a
disagio – Dorian sembrava terrorizzato da qualcosa, non lo nego; ho provato a
tranquillizzarlo, ma non sono riuscito a capire cosa l’avesse sconvolto a tal punto. Era
molto debole, ha avuto un capogiro e si è ferito con lo specchio. È tutto quello
che so.
-
Dorian, fa’ vedere! – proruppe Auguste, spazientito, trascinandosi verso di
lui.
-
Non aspettavo altro – gli soffiò il giovane con petulanza, esponendo il collo
alla vista – Ora vi convincerete che non sono un
visionario.
-
Dorian, per favore! – mormorò Fernand con un filo di voce.
-
Lascia che veda con i suoi occhi – lo interruppe Dorian, mellifluo – Se non
altro si convincerà che io la dico,
ogni tanto, la verità – lo sguardo
allucinato aleggiò a più riprese su Auguste, mentre una sfumatura astiosa gli
modellava il volto in una smorfia carica di veleno – Chi meglio di te, Auguste,
che ne sei il detentore?
Auguste
indietreggiò come percosso da una frustata, mentre un cupo strascico di dolore
calava sul suo viso, scavando un abisso di nebbia nei suoi
occhi.
Fernand
si sentiva confuso, impotente di fronte a quei tasselli privi di una propria
collocazione che gli piovevano sul capo come gocce di un temporale estivo, senza
lasciargli il tempo di trovare un riparo, di inquadrarli in un contorno
provvisorio. Non capiva. Vide Raphäel frapporsi tra i due, plausibilmente ad un
passo dalla lite, ed Auguste, rigido, limitarsi a scoccare una breve occhiata di
trasverso in direzione di Dorian, sussurrandogli con voce
piatta:
-
Dorian, non hai nulla; sarà stata la tua impressione, un sogno o chissà
cos’altro, credimi.
-
N-nulla? – il viso di Dorian divenne cinereo.
- È
tutto a posto, Dorian – Raphäel gli arruffò gentilmente i capelli, prima di
avviarsi verso la porta in un vago cenno di saluto.
Sembrava
non desiderare altro che andarsene al più presto.
-
Ma… Non è vero, non può essere, io… – Dorian sembrava stordito, la voce ridotta
ad un sussurro.
Fernand
riuscì ad infilare lo sguardo nell’incavo del collo di Dorian, esaminandolo da
ambo le parti. I forellini rossi erano spariti. O non vi erano mai
stati.
-
Te lo sarai immaginato, è così – rincarò la dose, in attesa che Raphäel e
Auguste varcassero la porta.
Dorian
restò per un istante ammutolito a fissare il vuoto. Poi, di scatto, prese a
risistemarsi la camicia con fare alterato.
-
Fernand? – gli soffiò – Vattene a fanculo anche tu!
-
Ti dico di calmarti! – gli ingiunse Fernand tra i denti, afferrandolo poco
cerimoniosamente per un braccio e costringendolo a sdraiarsi – Ne parliamo.
Aspetta soltanto che vadano via!
-
Fernand! – la voce roca di Auguste lo raggiunse dall’angusto
pianerottolo.
Raphäel
stava compunto al suo fianco, bianco e nero nella penombra incolore, e Fernand
riuscì a cogliere per un istante l’espressione stranamente sollevata sul suo
volto. Le labbra rosee gli conferivano un aspetto quasi
sensuale.
-
Cominciate pure ad andare. Io… Preferisco restare con lui.
-
Buona idea, Fernand. Già che ci sei, assicurati che se ne stia a letto e non
faccia qualche altra cazzata – soggiunse Auguste con fare irritato, accennando
brevemente col capo al riottoso occupante della stanza
attigua.
Fernand
non riuscì a far altro che tirare un sospiro di sollievo, quando la porta si fu
richiusa alle sue spalle, un gelido ammasso d’amarezza che gli s’insinuava lungo
la schiena.
Dorian
l’avrebbe spellato vivo. Se non altro, non sarebbe stato l’unico ad aver da
chiarire, rifletté, mordendosi nervosamente il labbro.
-
Spiegami che cosa diavolo ti è preso! – Dorian l’aveva raggiunto di soppiatto
nella sala d’ingresso, contro ogni raccomandazione, vestito e calzato di tutto
punto.
- E
tu cerca di filare a letto, se non vuoi che ti ci spedisca a calci – lo rimbeccò
Fernand con voce ferma, cercando di assumere su di sé una parvenza
d’autorità.
Dorian
gli rise in faccia.
-
Punto numero uno, sono in casa mia. Punto numero due, non prendo ordini da un ragazzino.
Fernand
lo fissò accigliato, incassando tacitamente la provocazione: sapeva quanto
odiasse essere definito “ragazzino”.
-
Errore. Chiamarmi “ragazzino”, ottenendo così di mandarmi in bestia, è un
privilegio speciale di cui può godere soltanto il tuo amico
Auguste.
- E
tu rispondi alla mia domanda: hai per caso deciso di coalizzarti con lui contro
di me?
Fernand
sollevò gli occhi verso il soffitto.
-
Non hai capito. Cercavo solo di evitare di mettere in piazza gli affari miei e
tuoi in loro presenza. Volevo mandare all’aria il discorso quanto prima, senza
destare sospetti, e parlarne direttamente con te.
Dorian
annuì con espressione scettica.
-
Come ti senti ora? – incalzò Fernand.
-
Quantomeno riesco a reggermi in piedi. Meglio, rispetto a
prima.
Non
convinto, Fernand allungò la mano e gli tastò la fronte.
-
Non sei caldo. È molto strano, stando al resoconto di
Auguste.
-
Auguste esagera sempre – lo precedette Dorian con una punta
d’asprezza.
-
Concorderai però con me quanto non sia perfettamente normale che una persona che
brucia di febbre, in capo a qualche ora non solo sia fresca come una rosa, ma
sembri essersi rimessa di tutto punto.
-
Di tutto punto, non esattamente, ma concordo con te che forse non è del tutto
normale. Io… non lo so. Mi sembra d’impazzire.
Fernand
prese un respiro profondo, guadagnando tempo. Neppure lo stesso Dorian, in fin
dei conti, sembrava avere un’idea chiara.
-
Mi racconti cos’è successo?
-
Non sono stato bene. Quando mi sono svegliato, stamattina, sembrava fosse tutto
finito, e mi sono alzato per darmi una rinfrescata… Forse ho avuto una ricaduta,
ma l’unica cosa che ricordo con esattezza sono quei forellini insanguinati sul
collo, proprio com’è successo a te – Dorian si tastò istintivamente la gola, là
dove le minuscole ferite sembravano non aver lasciato alcuna traccia, e la pelle
era levigata sotto il suo tocco.
Non
contento, si osservò scrupolosamente allo specchio.
-
Poi… – proseguì – Raphäel dice che ho avuto una crisi di
nervi.
- E
lui che faceva? Dormiva? – lo pungolò Fernand, e l’assurdo sospetto che aveva
ripreso a serpeggiargli nella mente gli fece contrarre istintivamente i muscoli
del viso.
-
Stava lì e basta. Mi ha riaccompagnato a casa ed è restato con me durante la
notte. È stato gentile. Ah, prima che ricominci con le solite requisitorie, ti
annuncio che non è affatto stronzo come… “alcuni” lo
dipingono.
-
Bene – Fernand annuì nell’atto di ravviarsi distrattamente i
capelli.
Ignorò
quell’oscuro groppo di tristezza che lo tormentava con
insistenza.
-
Basta, Dorian: puoi dirlo – sbottò.
-
Dirti cosa? – Dorian sbatté le palpebre, disorientato.
Fernand
ebbe la sensazione che la terra fosse in procinto di cedere sotto i suoi piedi e
dovette fare appello a tutta la sua forza d’animo per dar voce alle torbide
supposizioni che gli si accalcavano nella mente. Sapeva di essere sul punto di
inoltrarsi per sentieri malagevoli, ma la volontà di cavarsi dal dubbio aveva
concretamente prevalso su una ragionevole reticenza. Svelata la propria
diffidenza, non gli restava in pugno neppure la manciata di secondi necessaria
ad imbastire un’alternativa compatibile con la luce equivoca che gli era
balenata negli occhi, dritta su Dorian.
-
Avete… Insomma, avete fatto l’amore, o qualcosa del genere? – sputò fuori, quasi
d’inerzia.
Era
fatta.
Un
attimo, ed una parte di lui rimpianse di aver parlato avventatamente, quando
vide Dorian avvampare in viso.
-
Oh, dannazione! Fernand, fottiti!
-
Touché! Ti ha praticamente spogliato con gli occhi, amico mio, stando almeno a
ciò che tu stesso mi hai inavvertitamente confermato – Fernand assaporò con una
venatura sadica il prepotente imbarazzo di Dorian, il retrogusto amaro della sua
stessa frustrazione incollato alle labbra.
Sarebbe
stato quasi divertente proseguire su quella scia, simulando abilmente una
disinvoltura in realtà lungi da lui.
-
Ero spogliato.
-
Peggio.
Dorian
nascose il volto fra le mani con plateale esasperazione.
-
Mio Dio, Fernand, che diavolo hai nella testa? Segatura?
-
Ti avrà toccato, baciato… – proseguì – Come immaginavo. Vi sarete
divertiti.
Idiota,
idiota, idiota! Perché vuoi farti del male a tutti i
costi?
-
Davvero pretendi una risposta? – Dorian quasi gridava, i begli occhi cerulei
deliziosamente luccicanti sul volto in fiamme – No. No! Nulla di tutto questo.
Dio, Fernand, questa è follia! Hai un’opinione assurda di Raphäel, di me… di
tutto, se davvero hai pensato a questo. Capisco da parte tua non ritenerlo un
buon rivoluzionario, ma se per ipotesi fosse andata davvero come tu dici,
tecnicamente lo stai accusando di un abuso in piena
regola.
Fernand
socchiuse le labbra, per poi costringersi definitivamente a tacere. La stanza
era divenuta all’improvviso troppo piccola intorno a lui, le pareti troppo
strette, nauseanti schermi di quell’incubo insensato in cui era caduto con tutte
e due le gambe. Sconfitto, si affrettò a distogliere lo sguardo, meditando fra
sé di non aver mai desiderato come in quel momento che le losanghe scure del
pavimento si aprissero in una voragine sotto i suoi piedi, lasciandolo
sprofondare fra le macerie. Lui, le sue folli congetture e la deviante,
irragionevole insicurezza che gli lasciava dar voce ad uno sproposito dopo
l’altro.
Bel
colpo, Fernand. Il migliore di una lunga serie. Semplicemente
patetico.
Sospirò,
ipnotizzato dalla punta delle proprie scarpe. Si stava giocando per pochi scudi
la fiducia di Dorian.
-
Io… Perdonami – azzardò.
Dorian
gli posò una mano sulla spalla. Era freddo, scostante, palesemente a
disagio.
-
Lascia stare.
-
Non intendevo appioppargli difetti secondo la mia immaginazione – insistette – È
solo che, per un attimo, ho avuto l’impressione che...
Dorian
lo osservò di sguincio, dissimulando l’espressione tagliente in un sorriso
spazientito.
-
D’accordo, proviamo a semplificare un po’ tutto: il fatto che io sia affascinante non implica
necessariamente che abbiamo scopato – replicò con una punta di caustica
supponenza.
-
Ma va’ al diavolo!
-
Sei monotematico.
Fernand
distolse lo sguardo. Neppure la pressante inquietudine riguardo agli ultimi
eventi impediva a Dorian di darsi da fare a logorare la sua pazienza in una
sofisticata alchimia di affermazioni a doppia chiave di
lettura.
-
Fernand?
Dorian
era tornato serio, le iridi offuscate da una patina di gravità che a Fernand
parve quasi innaturale, dissonante sul suo viso.
-
S-si vede così tanto? – biascicò, la voce resa instabile da un singulto
soffocato.
Cosa,
Dorian?
Che
sei confuso, che temi di essere impazzito, che non riesci più a fissare
coordinate plausibili, a districare i labili confini fra ciò che è realtà e ciò
che, con ogni probabilità, potrebbe a tempo debito rivelarsi l’accidentale
reflusso di una tua fuorviante suggestione?
Che
sei caduto preda di un’angoscia indefinita, subdola, paralizzante, uno
stillicidio privo di contorni entro cui prendere forma, ma in grado di rendere
vano ogni tuo slancio vitale e di inchiodare la tua volontà in una tela dalle
trame di metallo?
Che
vorresti negare, cancellare per sempre, catalogare come un parto malato della
tua testa, l’essenza di Raphäel, la sua immagine tenacemente ancorata nella tua
mente ed ogni singola manifestazione della sua presenza radicata in te fino a
procurarti dolore? Che vorresti fuggire, mentire fino alla follia, negare a te
stesso il fatto che in lui c’è qualcosa che non riesci ad afferrare con mano,
rifiutare la possibilità che tutto questo sia in grado di farti
male.
E
non lo diresti, nessun logorante sospetto ti sconvolgerebbe la mente, se già non
fossi caduto nella tua stessa rete, se già non ti fossi inconsapevolmente
aggrappato alla mutevole corrente d’aria di un desiderio
irragionevole.
Allora
è così: ho visto giusto, dopotutto. Se fossi saggio, lo ammettesti senza girarci
intorno, perché, vedi, ho visto abbastanza: ho colto il semplice dettaglio, sono
stato tratto in inganno, ma, da qui in poi, non è stato difficile estrapolare la
sostanza. Ti aggrapperai a lui. Seguirai la scia di
Ambrosie.
Ed
io perderò uno dei pochi appigli che mi restano.
-
Va tutto bene, Dorian – mormorò con voce assorta, soppesando distrattamente una
ciocca bionda dei suoi capelli.
Non
convinci neppure te stesso, Fernand. È il dubbio che ti rende evasivo, facile
alla menzogna, ma troppo inadatto a recitare una parte
soddisfacente.
Gli
occhi di Dorian luccicarono febbrili.
-
Attento, Fernand – proruppe in una strana cantilena.
- A
cosa dovrei… Stare attento?
Dorian
spalancò gli occhi nella luce vivida che colpiva in pieno il suo volto
dall’espressione indecifrabile.
-
Tu… Mi credi? Mi credi, quando ti dico che ho visto quei segni rossi spiccare
sulla mia gola, quasi come il morso di un animale?
Fernand
lasciò scorrere le dita tremanti su di lui, fra le onde irregolari dei suoi
capelli, fino a sfiorare prudentemente il collo dal candore incontaminato. Gli
accarezzò distrattamente la nuca e lo esaminò in silenzio.
Era
bello. Un’avvenenza oggettiva, priva d’implicazioni, disegnata con pennellate
sottili di vivace immediatezza, ora pervasa di un’impronta consunta, languida,
sofferente. Era pallido come se avesse addosso la tisi, i solchi della
stanchezza marcati intorno alle orbite scure, come se le pieghe di una profonda
estenuazione gli avessero scavato i lineamenti.
-
Non hai nulla, Dorian, come avrai visto tu stesso – gli ribadì con espressione
incolore.
-
Ma io ho visto! – la voce di Dorian divenne un sibilo acuto saturo d’angoscia –
Le ho viste, quelle strane ferite, le ho toccate con queste mani, non stavo
sognando!
Fernand
deglutì, a disagio: Dorian gli aveva piantato in faccia un’occhiata bruciante,
gli occhi sgranati nelle orbite arrossate, segno che non avrebbe tollerato
obiezioni, come un ultimatum.
-
Non ho detto che stai mentendo, Dorian: non avendo visto con i miei occhi ciò
che mi hai descritto, concedimi il beneficio di mettere in conto l’eventualità
che tu stesso sia stato tratto in inganno!
Indietreggiò,
atterrito, quando vide Dorian sollevarsi di scatto. Per un attimo temette una
reazione impulsiva da parte sua.
-
Accidenti, Fernand! – lo incalzò, un sorriso tagliente appena abbozzato, in
attesa di colpire – A sentirti parlare così, giuro, per un attimo ho temuto che
Auguste avesse preso il controllo della tua mente. O ti avesse rifilato un
qualche raffinato lavaggio del cervello. Sono felice che non sia davvero così…
Se è tutto come credo, se queste sono le tue parole e non le sue. Un solo
consiglio, Fernand: non lasciarti trarre in inganno da lui e dal suo modo di
capovolgere la realtà pur di far quadrare i conti come più gli aggrada. Non dare
per scontata la sua buona fede – sussurrò, gli occhi gonfi di una gelida
frustrazione – Ha sempre cercato di mostrarsi affidabile e ragionevole; da qui,
guadagnarsi la fiducia, e poi colpire una volta al riparo. Il tuo adorato
Auguste, con ogni probabilità, starà preparando il terreno per la mia disfatta,
e presto vedrai con i tuoi occhi quali pretesti tirerà fuori pur di dipingermi
come un paranoico. Se i miei calcoli non m’ingannano, Auguste ha troppo
interesse, stavolta, a minare la mia credibilità… Per un sacco di motivi che
ora, davvero, non mi va di raccontare – s’interruppe.
-
Stupendo, Dorian! In queste condizioni, a chi dovrei
credere?
Dorian
gli rivolse un gesto vago con la mano, come a voler allontanare da sé qualche
dettaglio di scarsa importanza. Sembrava stanco.
-
Fa’ finta di non aver sentito l’ultima parte. Ora come ora, per me Auguste può
andarsene bellamente a farsi fottere. Sappi soltanto che non è sincero come
vuole far credere. Non con me.
Fernand
sospirò, stremato: d’un tratto, era come venuto a gravargli sulle spalle il
desiderio insopprimibile di un istante di normalità, senza discorsi fumosi e
assurde congetture a tormentargli il sonno e la veglia. Un altro segreto ancora,
un’altra teoria stravagante come goccia finale, ne era sicuro, e si sarebbe
abbattuto al suolo in preda ad un collasso.
-
Basta così, Dorian! – lo supplicò – Io non ci capisco più nulla. È… è assurdo,
con te che continui a trascurare dettagli che non ti fanno comodo e a propinarmi
frammenti sconnessi. Cambiamo discorso, per favore; non ti obbligo a rivelarmi
qualcosa che non vuoi, ma finiamola qui.
-
Come desideri tu – Dorian non pareva troppo dispiaciuto – Volevo solo che almeno
tu mi credessi.
-
Non ho mai dubitato un solo momento che tu dica il vero. Il problema è stabilire
fino a che punto fossi lucido in quel momento.
Dorian
scosse mestamente il capo, rassegnato.
Sapeva
come la pensava: quello era un discorso che avrebbe visto volentieri e con
maggior immedesimazione sulla bocca di Auguste, non su di lui. Auguste che,
senza mezzi termini, Dorian doveva ritenere poco più che un intrigante, e al
quale non doveva riserbare una miglior considerazione di quella che lui nutriva
nei riguardi di Raphäel Lemoine. Dorian e Auguste erano in pericolosa rotta di
collisione, e lui non riusciva a comprendere le reciproche implicazioni.
Nessuno, a dire il vero, si era preoccupato che lui
capisse.
Dorian
era troppo confuso, centellinava gelosamente le informazioni, sorvolando su
tutto ciò che desiderava tenere per sé; Auguste troppo ermetico, inquadrato in
prospettive troppo discordi l’una dall’altra, di volta in volta, a seconda di
colui che parlava.
Dorian
si lasciò andare ad un accorato sospiro, le braccia mollemente incrociate come
uno scolaretto svogliato, le spalle curve sotto il peso di un alienante
abbandono.
Lo
vide radunarsi i capelli dietro la nuca in un gesto nervoso – e si rese conto
che sarebbe stato in grado di ripercorrere fedelmente ognuno di quei singoli
gesti, basandosi unicamente sulla propria memoria. Gli occhi erano velati di un
cupo sconforto, le dita affusolate annaspavano incerte fra i riccioli scomposti.
Un
incontenibile, doloroso riverbero di dolcezza gli accelerò il battito, recando
con sé un familiare calore all’altezza del petto, mentre scorreva con lo sguardo
sul broncio tipicamente infantile che campeggiava sulle labbra sottili di
Dorian, in antitesi con l’espressione troppo dura su quei contorni levigati,
troppo vecchia su quegli occhi dalla fredda, giovanile bellezza; troppo grave su
quei laghi dalla luce mutevole.
E
il sorriso rassegnato che si aprì sul suo volto, la triste consapevolezza nei
suoi occhi, fu sufficiente per un attimo ad arrestargli il sangue nel suo
circolo forsennato, scavando un baratro d’angoscia davanti a lui. Gli occhi
erano lucidi, frementi in quel pallido sprazzo d’ombra, ma Dorian non piangeva,
le mascelle contratte nel rifiuto sdegnoso della manifestazione stessa del suo
dolore, fiero rigetto di ogni accessoria sublimazione. Una realtà, il guizzo di
un miraggio dal quale lui, Fernand, per il momento era
escluso.
-
Dorian…
Il
suo viso era caldo, la pelle sottile sotto il suo tocco; i capelli che
ricadevano disordinatamente sulle spalle gli insinuarono fra le dita la
sensazione di soffice seta. Chiuse gli occhi. Anche la sua bocca avrebbe
mantenuto intatto il suo tepore, l’intrinseca possibilità di regalargli
l’illusione dell’oblio. E, forse, nel dischiudere le labbra sulle sue,
catturandole in una fluida carezza, sarebbe riuscito persino a sentirlo un po’
più suo.
Avvertì
il suo respiro sfiorargli il viso; istintivamente, socchiuse le palpebre nella
luce viva che lo colpiva di lato, proiettando un ricamo di luminescenze rosso
acceso dinnanzi ai suoi occhi. Ammiccò nervosamente, scacciando la sensazione
che l’aveva fastidiosamente distolto dal suo intento.
Le
ciglia di Dorian scintillavano debolmente in controluce, i contorni così vicini
da apparirgli sfocati. Lo accarezzò attraverso la camicia. Era bello tenerlo
stretto ancora una volta, affondare il volto nell’incavo fra collo e spalla,
sentire i suoi capelli sfiorargli il viso, le labbra fremere sotto le sue,
malgrado non fosse riuscito a ricacciare in un remoto cantuccio della sua mente
quella spiacevole sensazione di distanza, di barriere
invisibili.
Non
era come con Auguste. Auguste era desiderio taciuto, bruciante, acuto; era una
stilettata in pieno petto nel suo irrealizzabile, utopistico appagamento; era
fumo in faccia dal profumo cui non poteva rinunciare, era la sistematica
negazione di ogni certezza. E faceva male.
Dorian
era stato per lui quanto di più simile vi fosse ad un nido accogliente, ad una
colonna in grado, seppure in mancanza di supporti accessori, di tenere in piedi
la sua esistenza. Era l’unica fonte di luce rimastagli, così fragile e delicata,
e lui non l’avrebbe perduta.
Fernand
sentì la presa sulle labbra venir meno, la sua bocca incresparsi debolmente in
una sorta di sorriso, le mani strette su di lui all’attaccatura del bacino.
Gemette.
-
Dorian? Dorian, io… – la voce fuggì dalle sue labbra come un mormorio
indistinto.
Dorian
lo baciò con impaziente voluttà, la nostalgia del distacco impressa nel contatto
fulmineo.
-
…Credo di dover andare.
-
Vai via di già? – ora giocherellava sui merletti della sua camicia,
riassettandola distrattamente.
Fernand
si sfiorò istintivamente le labbra arrossate. Si strinse nelle
spalle.
-
Gliel’ho promesso. Sono da te appena possibile. Tu non…?
Dorian
lo precedette, scrollando svogliatamente il capo in segno di
dissenso.
-
Non credo che Auguste mi voglia in mezzo alle scatole.
-
Era soltanto preoccupato per te.
-
Mah, fa lo stesso – Dorian gli rivolse un gesto annoiato con la mano, come a
voler scivolare su una questione non troppo rilevante.
-
Che fai, ora? – Fernand raccattò il proprio soprabito e se lo sistemò sulle
spalle con studiata lentezza.
Non
si sentiva tranquillo al pensiero di lasciarlo solo.
-
Ne approfitto per darmi una sistemata come si conviene. Tu, piuttosto, tieni a
mente quel che ti ho detto – gli ingiunse Dorian,
sibillino.
Che
non siamo più al sicuro? Che Auguste si rigira intorno al dito mignolo le nostre
insicurezze, o chissà quali altre fantasiose teorie.
La
paura, Dorian, non è la carta giusta per barcamenarsi agevolmente fra le trame
di ciò che non si arriva a comprendere. E tu hai tradotto tutto nel dubbio, da
ogni prospettiva.
Fernand
barcollò nella penombra lungo la scalinata irregolare della vecchia abitazione,
sfiorando con dita incerte la parete ruvida, in cerca di potenziali appigli. Si
volse indietro, verso Dorian immobile sulla porta. Non sorrideva
più.
* *
*
Il
campanile a vela svettava bianco contro il chiarore malato del cielo, la piccola
chiesa era per lui una visione sfocata in fondo allo stretto vialetto ricoperto
di ghiaia, incastonata nel proliferare indiscriminato di pericolanti edifici gli
uni a ridosso degli altri nel quartiere ovest della città, le mura severe che
incombevano al di là delle fronde degli alberi.
L’acciottolato
irregolare aveva reso precari i suoi passi, tanto che Auguste dovette più e più
volte ricercare un appiglio provvidenziale su Raphäel. Accecato dalle gocce di
sudore che gli scivolavano prepotenti fra le ciglia, gli occhi che bruciavano,
si liberò del proprio cappello. Non ne avrebbe avuto bisogno. Immobile, lasciò
vagare il proprio sguardo lungo il percorso serpentino di quel viottolo
periferico ormai in stato d’abbandono, sui lunghi fili d’erba che spuntavano
impertinenti fra i ciottoli, e poi su, lungo il nastro di cielo che emergeva a
stento, stretto fra gli alti cornicioni e l’angustiante distanza che divideva i
due opposti lati della via.
Annaspando
in un ovattato tumulto di sensazioni, la paura del vuoto annegata nel gelo di un
disperato, viscerale impulso di difesa, Auguste si sforzò di allontanare il
proprio sguardo dalla mano affilata di Raphäel che indugiava sulla sua spalla in
un gesto intrinsecamente rassicurante, come a voler captare la sua tristezza e
convogliarla in un indolore, rasserenante fluire di
ricordi.
Auguste
era certo che in un altro momento, con ogni probabilità, non avrebbe esitato a
confermare la fiducia riposta su quel ragazzo né si sarebbe lasciato sfuggire
l’eventualità di scandagliare l’uomo Raphäel dietro la figura sfuggente di
Raphäel Lemoine il rivoluzionario. Se solo Fernand non gli avesse insinuato un
dubbio così assillante, e se lo stesso Raphäel non fosse divenuto così
inspiegabilmente fumoso dinnanzi a domande precise, messo alle strette di fronte
al delirio di Dorian.
Sarebbe
forse stato altrettanto piacevole approfondire la sua conoscenza in altra sede,
si ritrovò a domandarsi, la sua attenzione strettamente allacciata all’eloquio
allettante di Raphäel, tanto da dissipare in lui, per un istante, il pensiero di
Lucien. E di Fernand.
“La
cappa immacolata del buon rivoluzionario non credo resterà incontaminata ancora
a lungo, seguitando a fare di Raphäel, agli occhi di tutti, la persona di cui
potersi fidare a scatola chiusa”.
Attento,
Auguste.
Perché,
Fernand, perché ti ostini a non voler guardare alla realtà che sta dinnanzi ai
tuoi occhi, preferendo accanirti sull’esile filo di spiegazioni alternative che
qualche labirintico recesso della tua mente non vuole
abbandonare?
Il
vero Raphäel è quello che vedi dinnanzi a te, e l’ho sempre saputo: non esiste
discrimine fra la persona generosa, capace di ascoltare e di prendersi a cuore
le difficoltà di chi gli sta accanto, ed il rivoluzionario di ghiaccio dalla
volontà indefessa e dagli oscuri propositi. E non vi è nulla da temere in tutto
ciò.
Auguste
strinse le palpebre come insopportabilmente ferito dai raggi del sole; vacillò,
quando il pensiero di Fernand e Dorian lampeggiò nella sua mente in tutta la sua
devastante chiarezza, le loro dita che si sfioravano, i segreti ed i progetti
che li univano a doppio filo, chiusi fra quelle quattro mura soltanto per loro, gli
sguardi complici, l’ansia febbrile di pianificare quelle che sarebbero state le
loro mosse successive, di condividere una realtà.
Fernand
non aveva dimenticato chi poteva considerare amico, a chi poter palesare le
proprie incertezze, e lui era rimasto fuori senza appello, occasionale
intruso.
Era
stato un imprudente abbaglio, da parte sua.
Stai
andando a seppellire Lucien, e neppure in certi frangenti il tuo cuore è immune
dal pensiero ossessivo di te stesso, dall’angoscia ammorbante e terribilmente
egoistica che l’idea della solitudine continua a provocare in
te.
Scosse
il capo, cercando d’ingannare la propria mente scorrendo con lo sguardo sulla
gente che sostava sul sagrato della chiesa. Raphäel pareva completamente assorto
su un qualche punto lontano e impreciso dinnanzi a sé, le braccia incrociate sul
petto in una posa indolente. Il caldo e la mancanza di riposo durante la notte
sembravano averlo sfiancato, eppure non erano del tutto vani i suoi sforzi nel
dissimulare l’incipiente stanchezza. Inconsciamente, Auguste si ritrovò ad
imitarne l’atteggiamento.
-
Arrivano – gli sussurrò Raphäel, assorto, accennando impercettibilmente alla
piccola processione che si era formata dinnanzi a loro – Strano non riesca a
individuare Ambrosie.
-
Temo le prenderà un colpo nel vedermi qui. Non sono sicuro che Fernand si sia
dato una gran pena per informare gli altri del cessato allarme – ribatté Auguste
con una punta d’acidità.
Raphäel
lo perforò con lo sguardo.
-
Credo che i convenevoli con Dorian lo impegneranno più del
dovuto.
Auguste
distolse il viso: Raphäel aveva tanti pregi, ma fra questi non doveva
propriamente rientrare il buon senso di sorvolare su considerazioni
spiacevoli.
-
Ecco tua moglie.
Auguste
socchiuse le labbra nell’atto quasi meccanico di correggere quell’improprio
“moglie” con qualche termine che meglio rendesse l’idea, ma qualcosa trattenne
ogni sua esternazione sul nascere. Perfino Raphäel ammutolì vistosamente, il
volto più pallido di quanto non fosse di consueto.
Emilie,
impronta familiare e sbiadita confusa nella moltitudine, una fugace apparizione
nel lento andirivieni di ombre e figure che si muovevano dinnanzi ai suoi occhi
con enfatica gravità. Ipocriti.
E
lei. Un’andatura da regina, il velo
scuro che frusciava al suo passaggio, adombrando il viso
altero.
Che
diavolo ci fa?
Auguste
seguì rapito quell’incedere sinuoso, quell’apparizione discreta, fino a quando
la sua figura non fu inghiottita nella penombra della chiesa, in un denso viavai
di stoffe scure e di occhi ignari dall’artificiosa parvenza
contrita.
Emilie.
Al suo fianco, un giovane sconosciuto dai tratti nordici la scortava
compito.
Auguste
avvertì come di riflesso una fitta bruciante, priva di strascichi emozionali,
attraversargli il cuore ormai assuefatto, insensibile ad ogni caparbia
sollecitazione, la gola arida, il freddo nelle ossa. Remoto, distante, come un
sogno dai contorni sfumati che lascia dietro di sé un indecifrabile vuoto nel
petto al risveglio.
Lui
l’aveva compreso da subito, e quello non era altro che il prevedibile rovescio,
ideale risposta alla sua perenne assenza.
Auguste
fu distolto soltanto dalle dita di Raphäel che gli si chiusero sul polso.
Sembrava impressionato.
-
Ch… chi era quel…? – riuscì a proferire con voce stentata.
Raphäel
socchiuse gli occhi finché le iridi sottili non si ridussero a specchi
d’intellegibile oscurità nella fessura delle palpebre. Scosse il
capo.
-
Non ho idea. È un forestiero, mi pare si chiami Etienne Giroud, ma non so
nient’altro, solo che è in città da poco tempo.
Auguste
si sentì girare la testa in una vertiginosa alternanza di collera e
indifferenza. Scrollò le spalle.
-
Auguste, io… – gli occhi di Raphäel scintillarono umidi.
Sentì
la sua stretta farsi irruente sul polso e si costrinse a sorridere, senza poter
impedire alla propria mente d’inerpicarsi altrove.
Ma
Raphäel non era Lucien: così bello e gentile, fragile solo nell’apparenza, ma
non era Lucien, come non lo era Fernand – così esasperante e sfuggente – e non
lo era neppure Emilie.
Etienne
Giroud o come diavolo si chiamava. Sembrava giovane. Improvvisamente, Auguste
sentì i suoi ventinove anni gravargli sul petto come un macigno insopportabile,
come se qualcosa d’indefinito gli stesse sfilando via la vita fra le mani, ogni
istante più inarrestabile.
Vissuto,
vecchio persino per Emilie che, quasi come naturale decorso della loro parabola
discendente, aveva finito per trattare con lui né più né meno di come avrebbe
fatto con un fratello più giovane di sei anni.
Bugiardo,
contraddittorio, fedifrago, cospiratore, criminale. E
vecchio.
Buono
soltanto a celare dietro un fragile velo tutto ciò che lo riguarda, escluso il
suo nome di battesimo, nonché a servirsi di te per mascherare agli occhi di
tutti, te compresa, l’amore per un altro uomo.
Non
potevi trovare di meglio, Emilie.
Inspiegabilmente,
Auguste sentì il principio di una risata isterica solleticargli la gola.
Annaspando, abbandonò con uno strattone il braccio di Raphäel e raggiunse un
angolo solitario del viottolo deserto, un lembo del mantello a contenere il
debole sussulto di quell’accesso di risa senza senso.
Pensò
a Lou. A quel legittimo dolore, cristallizzato sotto la sua pelle, che egli si
sforzava di alimentare con enfasi ossessiva, indugiando fra le pieghe più
profonde del proprio animo; a quell’unica angolatura emotiva capace di farlo
sentire vivo, ancorché vulnerabile.
Ed
era soltanto l’inizio. L’inizio della sua rovina.
Ritornò
composto sui propri passi.