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Autore: _Lady di inchiostro_    10/07/2017    5 recensioni
C’è chi dice che la nostra strada è già stata decisa, che è il destino che stabilisce quali difficoltà dobbiamo incontrare durante il cammino, o chi ci accompagnerà durante il percorso.
C’è chi dice che la nostra strada, invece, ce la costruiamo da soli, che siamo noi a decidere chi incontrare, siamo noi padroni delle nostre azioni.
Iwaizumi Hajime aveva sempre creduto nella seconda opzione. Finché non ha incontrato Oikawa Tooru. E allora si chiese se il destino non volesse farli incontrare per davvero, in qualsiasi modo possibile.
***
[Future Fic and What if?] [Tanto angst e cose belle ♥]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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[Ai miei lettori, vecchi e nuovi]



VII
~



 
[17 dicembre 2016]





«Hajime-kun, ci sei anche tu?»
Si sforzò di sorridere, mostrando appena i denti e facendo un lieve cenno col capo. Sebbene conoscesse quella donna da diverso tempo, continuava a sentirsi in imbarazzo in sua presenza. 
Gli fece segno di avvicinarsi, gesticolando. «Entra pure! Lo sai che sei sempre il benvenuto!»
Il giornalista mise un piede oltre la soglia; era un appartamentino un po’ angusto per essere abitato da tre persone, ma alla fine ci si poteva adattare. La stanza che lo accolse fu il salotto, che fungeva anche da sala da pranzo e da studio, la scrivania sulla destra piena zeppa di fogli vari. Si tolse la giacca, appendendola nell’attaccapanni là vicino, e accomodandosi su uno dei cuscini che si trovavano attorno al piccolo tavolo, al centro della stanza. Per quanto non sapesse come gestire quella donna – e dire che, per certi versi, si assomigliavano pure –, doveva ammettere che si sentiva a suo agio tra quelle quattro mura.
«Oh, ma non abbiamo niente per cena…» La voce della donna non era troppo lontana, la cucina era lì affianco, e se Hajime si sporgeva un poco indietro, poteva vederla mentre rovistava dentro il frigo. «Poco male, tanto io non ho fame…»
«Mamma!»
Voltò la testa verso l’unica persona che, fino ad allora, non aveva ancora spiccato parola. Tomoko si tolse la sua amata sciarpa, riponendola sull’attaccapanni, rivolgendo poi un sguardo di rimprovero alla madre. «Lo sai che dovresti mangiare…»
«Allora cucini qualcosa tu?» disse la donna, stampandole poi un bacio sulla guancia per corromperla.
«Ah, adesso pretendi che sia io a cucinare? Guarda che anche io sono stanca!»
«Ma io non ho ancora finito…»
«Bugiarda, l’altro ieri mi hai detto che il capitolo era già pronto!»
La madre della ragazza, nel frattempo, si era comodamente seduta sulla sua poltrona girevole, guardando la figlia con un sorriso che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque. Aveva un che di sadico e malvagio. «Ma devo pubblicare su Twitter gli spoiler fasulli… Per far impazzire i miei fan!»
Per un attimo, calò il silenzio, tanto che il rumore del clacson delle auto era udibile anche se si trovavano al nono piano.
«Sei proprio un mostro, lo sai?»
«Grazie!»
«Non era un complimento…»
Ma la donna era già tornata a suoi bozzetti fittizi, curva sulla sedia, mentre canticchiava a bocca chiusa una melodia che Hajime non conosceva. Probabilmente, qualche canzone italiana di cui non sapeva il nome, né chi fosse il cantante.
«Scusami…» disse Tomoko, facendo un piccolo inchino. «Mi spiace che tu debba sopportare sempre queste scenate…»
«Figurati!» Hajime le sorrise, e Tomoko si portò un ciuffo ribelle dietro l’orecchio. «E poi, tu e tua madre siete divertenti.»
«Spiritoso!» e nel dirlo, gli mollò un calcio sulla spalla, che lo spinse per terra. Tomoko non aveva chissà quanta forza, ma Hajime non se l’aspettava e per un po’ fece comunque male. Ovviamente, la ragazza non si scusò. «Ti va bene se prendiamo la pizza?»
«Oh sì!» esclamò la madre di Tomoko, senza sollevare lo sguardo.
«Non parlavo con te, mamma…»
«Ti rendi conto di come mi tratta, Hajime? Questa gioventù persa…»
Sembravano un duo comico, la madre che scuoteva la testa ancora bassa, la figlia che la imitava e alzava nel contempo gli occhi al cielo. Si lasciò sfuggire un sorriso.
Gli serviva. La sensazione di casa, di famiglia, gli serviva, dopo dieci lunghi giorni di vuoto, silenzio e solitudine. Dopo dieci lunghi giorni passati al chiuso, nella sua fredda e asettica casa, e non l’aveva mai sentita così estranea, un posto che non conosceva, che non si era costruito col passare degli anni.
Ne aveva bisogno, dopo dieci lunghi giorni passati a sentire la voce di Oikawa che lo chiamava da lontano, la voce rotta per via del pianto, rimbombargli nella testa.
«Allora, per te va bene?»
La voce dell’amica parve riscuoterlo dai suoi pensieri, sbattendo appena gli occhi stanchi. «Sì, per me va benissimo.»





Non era la prima volta che Tomoko lo invitava a casa sua: era capitato che gli fosse stato assegnato qualche articolo in comune, e di solito alternavano gli appuntamenti per decidere la scaletta a casa dell’uno o dell’altro. Qualche volta, però, Tomoko l’aveva invitato semplicemente per passare la serata in compagnia, sebbene sua madre fosse sempre tra i piedi. Non dava fastidio, di solito era una donna piuttosto taciturna, ma quando si trattava di Hajime sembrava che facesse di tutto per metterlo a disagio. Il ragazzo sapeva che non lo faceva di proposito, forse aveva soltanto una naturale simpatia nei suoi confronti. Era Tomoko che si esasperava.
Il padre della ragazza, invece, non sempre era presente in casa, molto spesso preparava la sua prossima collezione d’abiti. Era uno stilista di poco conto, non troppo conosciuto in Giappone, ma che aveva comunque la sua porzione di fama.
E anche quella sera, l’uomo aveva troppo da fare per poter riuscire a cenare con loro, per cui si ritrovarono ad essere soltanto in tre seduti attorno a quel piccolo tavolo.
La cena era stata piuttosto piacevole, anche se a tenere viva la conversazione erano state le due donne, che non la finivano di punzecchiarsi a vicenda, la più grande che parlava svogliatamente di come stesse procedendo il manga, apprestandosi poi a chiedere ad Hajime come andassero a lui le cose. 
In realtà, non aveva saputo rispondere bene a quella domanda. A lavoro le cose andavano come sempre, i suoi articoli continuavano ad essere tra i più letti della rivista, e con sua figlia era tutto normale.
Solo… era stanco. Si sentiva sempre stanco, stanco di mettere il muso fuori di casa, a meno che non fosse per necessità, stanco di sentire la gente, stanco di stare con la gente. C’erano volte in cui desiderava ardentemente che tutto sparisse e rimanesse solo lui; cambiava idea solo quando gli appariva sullo schermo del portatile Akane che sorrideva tutta contenta.
Tomoko aveva dovuto trascinarlo fuori a forza, convincendolo a distrarsi un po’, invece di rimanere a crogiolarsi sul suo divano. Certo, non l’aveva portato chissà dove, ma sapeva che la compagnia di sua madre sarebbe stata comunque utile.
Avevano da poco finito di cenare, e Hajime si era offerto di aiutare l’amica a lavare i piatti, visto che sua madre si era completamente scordata di scrostare la padella che aveva usato quella mattina per cucinarsi una frittata. La ragazza stava lavando un piatto, Hajime accanto a lei che nel frattempo asciugava, quando parlò, dandosi della stupida un secondo dopo.
«Non hai più sentito Oikawa… vero?»
Il ragazzo la guardò con la coda dell’occhio, e lei lasciò la spugna a galleggiare sull’acqua piena zeppa di schiuma. Non rispose, rimanendo col piatto sollevato a mezz’aria, immobile. Ovviamente, Tomoko sapeva quello che era successo tra lui e il setter, aveva dovuto raccontarglielo quando aveva capito che c’era qualcosa che non andava, che non era normale che lui sviasse il discorso quando si parlava del castano.
Non sapeva tutto però, e come avrebbe potuto raccontarglielo? Come avrebbe potuto confessargli che il setter della Delegazione Nazionale Giapponese si era innamorato di lui? Come poteva dirgli di aver baciato un uomo?
Tomoko poteva aiutarlo come meglio le riusciva, ma non sempre era detto che funzionasse. La situazione era più intricata del previsto, come una rete da pesca intrecciata su se stessa, e lui si sentiva come un pesce che era stato catturato da quella stessa rete. Troppe cose correvano dentro la sua testa, e si sentiva combattuto tra la voglia di ricontattare Tooru e la voglia di lasciar tutto alle spalle e tornare a guardare avanti.
La verità era che, qualsiasi scelta avrebbe preso, sarebbe stata comunque sbagliata.
Anche il solo atto di respirare, anche il suo essere ancora vivo e con i piedi per terra lo faceva sentire sbagliato.
Non aveva la forza di fare niente, neanche di distrarsi. Perché, quando ci provava, gli tornava lo stesso in mente il volto straziato dal pianto di Oikawa, sentiva ancora le sue urla dietro le spalle, dentro le orecchie, nei timpani.
«HAJIME!»
«No» disse, atono, riponendo poi il piatto assieme agli altri e tenendo lo sguardo basso.
La ragazza lo osservò, un ciuffo rossastro che le dondolava davanti al viso, l’elastico per capelli che non riusciva più a tenere fermi quei capelli. Iwaizumi non l’aveva mai vista così seria in vita sua, e la sentì mandare giù un grumo di saliva, mentre anche lei tornava a dedicarsi ai piatti sporchi. «Almeno hai provato a contattarlo?»
Hajime non sapeva come sentirsi a tal proposito. Voleva contattarlo? 
Alzò le spalle. «Non penso che concluderei qualcosa…»
Era convinto su questo. Anche volendolo, anche se desiderava sul serio cercarlo, cosa avrebbe ottenuto?
Nulla. E se lo meritava dopo il modo in cui l’aveva trattato.
Oikawa Tooru non era stata una persona qualunque. Era petulante, fastidioso, invadente, non stava mai zitto, si lamentava peggio di sua figlia quando aveva undici mesi… ma non era stata un persona qualunque. Era stata la sua persona qualunque. Era stato colui che gli aveva fatto provare cose che credeva di non riuscire a provare mai, cose che non aveva sentito mai, neanche nella sua breve adolescenza, nella sua insignificante esistenza. Ed era anche per questa ragione che si sentiva in quel modo, perché lui gli aveva esplicitamente detto che non era così. Che per lui era stato un passatempo.
Eppure, no, non sentiva per Oikawa quello che sentiva lui. La sola idea che potesse provare per lui un sentimento così forte lo faceva indietreggiare. Voleva bene a Tooru, era serio quando gliel’aveva detto quella sera… ma non in quel senso. Scombussolare la propria vita solo per dei bei sentimenti era da folli. E lui non era innamorato di Oikawa.
Tomoko decise di non continuare la discussione, annuendo distrattamente, e tra i due calò il silenzio. Un silenzio che fu rotto solo dall’urlo di stupore della madre della ragazza, e che fece girare entrambi, scioccati. Aveva concluso da poco i suoi bozzetti e, dopo averli postati sui social, si era messa a fare zapping tra un canale e l’altro, fino a quando non era incappata in un talk show dove a parlare erano due graziose ragazze, la pelle diafana e i capelli color pece. Era un programma che aveva riscosso un grande successo nell’ultimo periodo, grazie ai vari gossip che sfornavano quasi ogni giorno, e anche quella sera – da come le due presentatrici parlottavano tra di loro – sembrava che ci fosse qualche novità interessante.
«Mi dispiace così tanto per lei…» mormorò la donna tra sé e sé, voltandosi poi verso la figlia.
«Chiara, ci hai fatto prendere un colpo!» disse l’altra, chiamando la madre per nome.
Lei non parve ascoltarla. «Tuo padre la conosceva, sai? Una volta aveva posato con un suo abito…»
Nessuno dei due aveva prestato attenzione alla notizia, men che meno Hajime. E quando alzò lo sguardo, le immagini che correvano veloci, sentì lo stomaco salirgli lungo la gola, per poi scendere ad altissima velocità in basso, ai piedi; come se fosse stato sospeso nel vuoto fino ad allora e, adesso, stesse cadendo improvvisamente, il terreno che si avvicinava sempre di più.
«Stavano così bene assieme…»
Avvertì gli occhi di Tomoko su di sé, ma non ricambiò lo sguardo, troppo impegnato a sentire quello che dicevano quelle due oche in televisione, la testa che pulsava.
Erano riusciti a tenerlo segreto per tutto quel tempo – ed era per questo che non ne sapeva niente –, fino a quando lei non aveva vuotato il sacco, confessando che era stato lui a lasciarla.
Oikawa e Eiko si erano lasciati. Quello che più temeva, alla fine si era avverato. Lui era davvero un folle, lui era davvero disposto a scombussolare la sua vita per un sentimento che non era ricambiato. A lui importava essere solo sincero. Qualcuno avrebbe detto che era stato un bastardo a lasciarla così, senza un motivo preciso; ma il motivo c’era, ed era proprio Hajime stesso.
Oikawa aveva fatto la cosa giusta. Alla fine, aveva capito che anche altra gente sarebbe stata coinvolta in quella storia, che quelle persone a lui care avevano dei sentimenti, e che bisognava lasciarle fuori.
Iwaizumi ritornò bruscamente alla realtà solo quando il piatto che teneva in mano si infranse contro il pavimento.




 
~



 
[26 dicembre 2016]





Fissò per l’ennesima volta il suo orologio da polso, rendendosi conto di averlo fatto appena venti secondi prima. Sbuffò, la gamba sinistra che tremolava, mentre una serie di persone attorno a lui aspettavano anche loro l’arrivo di un familiare o conoscente.
L’aereo era atterrato già da un paio di minuti, ma dei passeggeri non vi era neanche l’ombra. Qualche bambino gli sgusciarono accanto, mentre giocavano allegramente tra di loro, e Hajime non poté fare a meno di sorridere. C’era una bella sensazione, al reparto arrivi, la sensazione di chi non vede l’ora di tornare a casa e riabbracciare chi era stato via per tanto, troppo tempo.
Le volte in cui aveva preso l’aereo si potevano contare sulle punta delle dita, tuttavia era la prima volta che provava quella sensazione, ed era la prima volta che si trovava dalla parte di chi attendeva con ansia, trepidante, di vedere le porte scorrevoli aprirsi, la persona agognata che si dirigeva verso l’uscita tutta sorridente.
Spostò lo sguardo sul tabellone digitale, che segnava che il volo da Osaka era da poco atterrato, chiedendosi per quale ragione stessero perdendo tutto quel tempo, e per un attimo sentì il panico salirgli lungo l’esofago. Fortunatamente, le porte si aprirono poco dopo, e i primi passeggeri iniziarono a riversarsi in quel ampissimo, quanto piccolo in quel momento, luogo. Alcuni dovevano essere rappresentanti di chissà quale compagnia, perché sfrecciarono via, diretti probabilmente verso la zona dei pullman e dei taxi; molti, però, si ricongiunsero con le loro famiglie, alcune ragazze che abbracciarono strette la loro mamma, sovrastandola, altri che salutarono i propri amici con vigorose pacche sulle spalle e urletti vari.
La persona che aspettava Hajime, però, arrivò quando già la maggior parte della gente era scesa dall’aereo. Era accompagnata da un simpatica hostess vestita di verde, la mano tenuta da quella più grossa della donna, e i suoi occhi vagavano curiosi tra la gente, alla ricerca di qualcuno. I suoi lunghi capelli neri erano legati in una treccia a mo’ di cestino, i pantaloni leggermente stropicciati sulle ginocchia e lo zainetto sistemato per bene sulle spalle.
Si accorse di lui quando già si era messo in ginocchio, una gamba posata interamente per terra, e il suo viso si illuminò di colpo. Hajime, intanto, non la smetteva di sorridere. Chiese all’hostess se poteva andare, e all’affermazione di quest’ultima non ci pensò due volte a correre verso di lui. Due secondi dopo, le sue braccia la stavano stringendo, i capelli che gli solleticavano la punta del naso, e Hajime dovette respirare un paio di volte prima di rendersi conto che quello era il suo profumo e che lei era veramente lì, che le sue braccia gli stavano circondando veramente il collo.
«Mi sei mancato tanto, papà!» la sentì dire, e la sua presa aumentò di poco.
«Anche tu, Akane… Anche tu…» disse, con voce un po’ roca.
Rimasero in quel modo per un po’, prima che l’hostess si avvicinasse, consegnando la piccola valigia e assicurandosi che fosse tutto nella norma. Fu quando si allontanò che padre e figlia ripresero a parlare, e Hajime non poté non notare un particolare.
«Sbaglio, o sei diventata più alta?» Dalle videochiamate, molti cambiamenti non si notavano bene.
La bambina annuì vigorosamente. «Sì, di cinque centimetri!» e glielo fece vedere con la mano.
«Beh, almeno sappiamo che anche l’altezza l’hai presa da me» disse, alzando le spalle e abbottonando la giacca alla figlia, che non poté non ridere dopo la battuta in questione.
Stava per prendere la bambina per mano, l’altra occupata dalla valigia, quando quest’ultima ammise, con un po’ di titubanza: «Mi sarebbe piaciuto se tu mi avessi portato sulle spalle…»
Hajime la guardò, impassibile, un piccolo sorriso velato da una sfumatura malinconica stampato sul volto. L’ultima volta che l’aveva vista era stato per il suo compleanno, e ricordava di avere la paura boia che lei non si ricordasse per niente di lui, di chi fosse realmente: in fondo, aveva appena tre anni quando Minori si era trasferita ad Osaka. Eppure, quella che adesso era la sua ex moglie aveva fatto di tutto per tenere viva la memoria della figlia, e quando Hajime se l’era ritrovata davanti, appena un anno fa, la bambina l’aveva indicato e aveva chiesto alla madre se fosse veramente il suo papà. Poi, si era diretta verso di lui, correndo, e Hajime ricordava che non c’era stata cosa più bella di tenerla in braccio. Era leggerissima, e rideva contro la sua spalla, mentre i suoi occhi avevano cominciato a pizzicare.
La bambina tenne lo sguardo basso per tutto il tempo, non accorgendosi che suo padre si era abbassato alla sua altezza, dandole la possibilità di aggrapparsi sulle sue spalle.
«Solo per questa volta, okay?» le intimò, non riuscendo però ad essere duro con lei.
«Okay!» esclamò, sorreggendosi per bene, mentre una mano del giornalista era impegnata a trascinare il trolley.
Iwaizumi sapeva che, probabilmente, non glielo avrebbe richiesto un’altra volta, era solo un piccolo sfizio che voleva soddisfare dopo tanto tempo che non si vedevano. E, del resto, neanche a lui dispiaceva sentire il calore del suo corpicino contro la sua schiena.





Avevano passato assieme una giornata piuttosto ordinaria, senza troppi colpi di scena, e ad entrambi andava bene così. L’importante era stare assieme, non importava se seduti al tavolo di un bar a fare colazione o se sul divano di casa. Ad Akane bastava stare con suo padre, poterlo vedere veramente, sentirlo veramente e toccarlo veramente. E per Hajime era esattamente lo stesso.
La bambina non aveva fatto altro che parlare per tutto il tempo, esaltandosi nel raccontare anche il più piccolo dei particolari, passando dal descrivere i suoi compagni di classe, a come erano belle le decorazioni di Natale a Osaka. L’aveva ascoltata, intervenendo di tanto in tanto, e aveva sorriso per tutto il tempo. E quando la bambina gli aveva chiesto se lui avesse qualcosa da raccontare, si era limitato ad alzare le spalle e a dirle che la sua vita era sempre la stessa, che il lavoro era sempre lo stesso, e che non c’erano chissà quali novità.
Non voleva che si intristisse con quella storia. Oltretutto, non era proprio sicuro di volergliela raccontare, il solo pensiero lo faceva rabbrividire, la bocca dello stomaco che si chiudeva all’improvviso. No, non voleva decisamente riportare a galla i suoi problemi in quel momento. Non voleva riportare a galla le immagine del solito Natale passato da sua zia, delle notizie su Oikawa che continuavano a comparire in televisione, della sua intervista fatta per la vigilia; del suo sorriso imbarazzato, un sorriso forzato e falso come non si era mai visto. Hajime non voleva ricordare il silenzio della sua casa, interrotto solo dal rumore sordo della sua mente che continuava a macinare un pensiero dopo l’altro, spegnendosi poi con “click” dinanzi a quel sorriso, così lontano da quello che conosceva realmente.
Era felice in quel momento, come non lo era da molto tempo. Tutto il resto, era secondario.
Avevano da poco finito di cenare, e Hajime aveva appena riposto i piatti dentro la credenza, mentre Akane  guardava la televisione, dondolando a tempo di musica, seguendo la melodia di un anime che era finito da poco. Si sedette accanto a lei, con l’intento di lasciarla in pace a guardare i cartoni, aprendo il suo portatile e posizionandolo sopra le cosce. Aprì la scaletta che si era preparato per il prossimo articolo, seguita a ruota dalla serie di informazioni che aveva raccolto in quell’ultimo periodo: per fortuna, gli era rimasta la buona volontà, quella gli serviva per lavorare.
Stava per cominciare a scrivere, quando la vocina di Akane arrivò alle sue orecchie. «Papà, sei triste?»
Hajime sbatté le palpebre, perplesso. «No, perché dovrei esserlo?»
La vera domanda era un’altra: come aveva fatto Akane ad accorgersene? Eppure aveva fatto di tutto per mascherarlo!
La bambina infossò appena il collo. «Non lo so… E’ solo che non sei felice come lo sei sempre…»
Gli occhi verdi del giornalista – ora dilatati – si rispecchiarono completamente in quelli dello stesso colore della figlia. Solitamente, sono i genitori a preoccuparsi per i figli; quello che non sanno, però, è che anche i figli si preoccupano per loro. È un rapporto reciproco, e se c’è qualcosa che non va se ne accorgono subito. Forse Hajime era stato bravo a nasconderlo, forse Akane non conosceva suo padre alla perfezione, ma lo sentiva dentro che c’era qualcosa di diverso dall’uomo che di solito le parlava via Skype. Non era la stessa persona, il suo tono di voce era piatto quando parlava, sembrava perdersi, come se la sua mente stesse vagando in alto mare. E la sensazione che aveva provato nel sentirlo, le faceva dolere il cuore.
Iwaizumi richiuse il portatile, posandolo poi sul tavolino basso là difronte, e avvicinandosi a sua figlia, che adesso teneva lo sguardo basso. Le posò delicatamente una mano sopra la testa, e la sentì sobbalzare, come se aspettasse che succedesse qualcosa da un momento all’altro.
«Ho fatto qualcosa di brutto? È colpa mia?» chiese allora, la voce leggermente incrinata. E quando alzò lo sguardo, gli occhi lucidi, non si ritrovò davanti il volto di poco prima. Si ritrovò davanti il solito volto sorridente che vedeva tutte le sere da uno schermo.
Hajime appoggiò appena la fronte contro quella della figlia, guardandola negli occhi. «E che cosa avresti fatto, sentiamo!»
La bambina parve pensarci su. «Ecco… non ti ho portato un pensierino per Natale…»
Sorrise, dandole poi un bacio sulla fronte. «Non ne ho bisogno, tranquilla.» Non avrebbe mai ammesso ad alta voce che averla a casa sua era un regalo più che sufficiente.
Akane, però, non sembrava del tutto convinta dell’affermazione del padre, continuando a guardarlo con le pupille che tremolavano, il labbro inferiore leggermente sporto in fuori. Quell’espressione, per un attimo, gli ricordò Oikawa, ma cercò di scacciare immediatamente il pensiero. Si stropicciò gli occhi: doveva trovare un modo per rassicurare Akane che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che era solo stanco per via del lavoro; ma sapeva che sua figlia era fin troppo perspicace per cascarci, l’unica soluzione era dirle la verità… senza scendere troppo nei particolari.
«Ho litigato con una persona di recente…» mormorò, tentando di far apparire l’intera faccenda come un qualcosa di poco conto, eppure Hajime si sentì piombare nuovamente in una casa fredda e vuota. Come se Akane non fosse lì, seduta accanto a lui.
La bambina si incupì di colpo, e Hajime si apprestò subito a tranquillizzarla. «Non è nulla di grave, eravamo solo in disaccordo su una cosa…»
Aveva semplificato fin troppo la sua discussione con Tooru. Non erano in disaccordo su una cosa qualunque, perché altrimenti avrebbero smesso di frequentarsi già parecchio tempo addietro: quel ragazzo aveva degli aspetti totalmente diversi dai suoi, a cominciare dai suoi discutibili gusti in fatto di film. No, avevano discusso per qualcosa di decisamente più grande e complicato. E uno dei motivi per cui avevano litigato gli stava seduta davanti, la testa leggermente inclinata.
L’espressione di Akane si era rilassata rispetto a prima, e adesso guardava Hajime con le palpebre che sbattevano irrefrenabilmente. «Ma tu sei dispiaciuto… vero, papà?»
Sussultò sul posto, un brivido freddo che lo percosse a partire dalla spina dorsale, diradandosi poi in tutto corpo, la carne che si rizzava di colpo. Fece di tutto per non perdersi a fissare il vuoto e per non far spaventare sua figlia, mentre le immagini di Oikawa gli passavano davanti: da quando si erano conosciuti, fino all’ultima volta in cui l’aveva visto. Da quando era scoppiato a ridere al ristorante, a quando si erano messi a ridere al parco, alla sua faccia sconvolta quando l’aveva costretto a terra, disteso sotto di lui. A quando gli aveva detto che era innamorato di lui e l’aveva baciato. A quando si era messo a piangere in quel modo per strada, tra milioni di persone che potevano riconoscerlo.
«Non hai mai avuto la sensazione che qualcosa mancasse nella tua vita?»
La sensazione di vuoto, Iwaizumi la provava da sempre; però, da quando Oikawa era entrato nella sua vita, così, con prepotenza, qualcosa era cambiato, ed era anche uno dei motivi per cui aveva continuato a vederlo nonostante all’inizio gli stesse bellamente sulle balle. Per questo era stato giornate intere ad arrovellarsi nel tentativo di trovare una soluzione, indeciso se contattarlo o meno. Hajime non voleva gettarlo via così. Si sbagliava: Oikawa Tooru non era stato la sua persona qualunque. Tooru era molto più, per lui. Solo che non sapeva come descriverlo.
Rispose alla figlia annuendo appena, e il volto della bambina si illuminò in un piccolo sorriso. «Lo sapevo, perché altrimenti non saresti così triste» disse, mascherando una punta di vittoria per aver indovinato e facendosi più vicina. «Hai provato a chiedere scusa?»
Hajime non sapeva se ridere per quella domanda così ingenua, o sospirare affranto. «È complicato… Non credo funzionerebbe…»
«Perché no?» Spostò lo sguardo sulla figlia, che gli sorrideva. «Se sei veramente pentito, perché non dovrebbe funzionare?»
Il suo corpo, fino ad allora teso, si rilassò di colpo, una sensazione calda all’altezza del petto. Osservò sua figlia, ogni minimo dettaglio, dai capelli sciolti, alla ruga che le si formava quando aggrottava le sopracciglia. Era lei che lo stava inducendo a fare un passo avanti verso Tooru. Una delle tante giustificazioni che aveva usato contro di lui per indurlo a odiarlo.
«Le maestre ci dicono sempre che, se siamo veramente dispiaciuti, scusarsi è la cosa migliore. Perché non provi a spiegare quello che è successo? Magari fate la pace!»
Erano delle parole fin troppo mature per una bambina di quell’età, ma in fondo Hajime era conscio che Akane era straordinaria in tutti i sensi. Non avrebbe mai pensato, però, che potesse essere in grado di dirgli una cosa del genere: nella sua ingenuità, l’aveva illuminato su quello che doveva fare realmente, senza troppi giri di parole e ripensamenti. Doveva scusarsi. Doveva spiegare a Tooru il perché della sua reazione. Doveva fargli sapere che non ce l’aveva a morte con lui, che aveva reagito in quel modo solo perché era giusto che lui lo dimenticasse, per il suo bene.
Restava il problema su come e quando avrebbe dovuto contattarlo, ma a quello ci avrebbe pensato da sé; magari, l’avrebbe contattato dopo che Akane sarebbe tornata a casa e lui sarebbe rimasto di nuovo solo.
Hajime, però, non sapeva che il destino si stava divertendo ancora un po’ a giocare con lui, trascinandolo come una bambola di pezza.
Quella sera, dunque, si limitò solo a dare un bacio sulla guancia ad Akane, e a sussurrarle a voce bassa un: «Grazie.»





 
~



 
[28 dicembre 2016]





In quei giorni, la neve non aveva fatto altro che scendere incessantemente, e adesso le strade ne erano ricoperte. Camminava, guardandosi attorno di tanto in tanto, senza una meta ben precisa, l’atmosfera di festa dipinta sui volti di tutti. Le insegne a tema natalizio erano ancora rimaste, e ogni tanto si ritrovava ad osservarle senza particolare interesse.
Affondò metà viso nella sciarpa allacciata per bene al collo, le mani che tentavano di cercare un po’ di calore dentro le tasche del suo cappotto nero. Lui, di solito, amava questo periodo dell’anno, in cui tutti si animano per cercare il regalo giusto, per preparare l’albero di Natale e il vestito adatto per l’ultimo dell’anno. Quest’anno, però, Oikawa non aveva proprio voglia di festeggiare. Se sperava che le cose migliorassero, si sbagliava di grosso.
Eiko, dapprima, aveva pensato che lui le stesse tirando un qualche scherzo esilarante dopo la sua confessione, ma poi la sua espressione non era cambiata, e lei era diventata bianca come un lenzuolo. Poi, aveva cominciato a urlare, la cena che aveva preparato che era finita sul pavimento, mentre lo insultava in ogni maniera possibile.
«Vuoi buttare quattro anni di relazione, per cosa? Per una cotta del cazzo?» gli aveva detto, procedendo poi a utilizzare tutti gli insulti che aveva in repertorio sulla sua presunta omosessualità.
Era furiosa. Oikawa non l’aveva mai vista così.
Il giorno dopo, aveva già fatto le valige e se n’era andata via, e lui non la biasimava per questo. Non la biasimava neanche per quello che gli aveva detto, in fondo Oikawa sapeva di essere in torto marcio. Aveva passato con lei quattro anni della sua vita, e lui aveva gettato tutto al vento per… per Iwa-chan. E per quanto fosse dispiaciuto per Eiko, per quanto bruciassero ancora le parole di Hajime, lui non riusciva a pentirsi della sua decisione.
Era stato meglio così. Per lei, per tutti. Forse, all’inizio l’avrebbe odiato, ma poi avrebbe trovato qualcuno che l’avrebbe trattata decisamente meglio, come voleva essere trattata lei. Lui non era più in grado di accontentarla già da parecchio tempo.
«Ho vissuto più con mia moglie che con te!»
Quelle parole continuavano a tornargli in mente fino a tormentarlo, tra poco anche nel sonno. Si svegliava la mattina e trovava un lato del letto vuoto, e due secondi dopo era rannicchiato contro le coperte, stringendo la federa del cuscino intoccato tra le dita: perché desiderava ardentemente che ci fosse lui disteso accanto?
Forse i ragazzi avevano ragione, doveva cominciare a dimenticarlo. Iwa-chan l’aveva già fatto di sicuro. Doveva andare avanti, altrimenti si sarebbe distrutto lentamente, sia a livello professionale, sia a livello psicologico.
Fu la prima volta, da quando aveva messo piede fuori casa, che osservò per bene dove si stesse dirigendo. Si era solo limitato a guardare la gente, nel caso riconoscesse qualche giornalista ficcanaso: dopo che Eiko aveva sganciato la bomba – anzi, aveva tenuto la bocca chiuso per troppo tempo –, era stato circondato dalla stampa per giornate intere. Aveva cercato di spiegare come stavano le cose continuando a sorridere come sempre, eppure gli veniva difficile parlare, come se fosse stato ferito e stesse perdendo le forze, e no, non riusciva a chiamare più aiuto.
Adesso, però, aveva alzato lo sguardo in alto, dal solito grigio dell’asfalto, dalle sue scarpe, per guardare dove fosse finito e se non si fosse perso in qualche punto sperduto di Tokyo.
Si rese conto, con orrore, che conosceva benissimo quella zona, che anche se gli alberi erano ricoperti di neve sapeva benissimo a quale parco appartenevano, e le voci lontane di bambini che ridevano gli diedero la conferma, mentre lui si metteva ritto sul posto, rabbrividendo. Intravide i piloni grigi, e per un attimo si rivide lì seduto, con Iwa-chan accanto, a ridere, come se fosse un esterno e stesse assistendo alla scena in quell’esatto momento.
Si morse l’interno della guancia, maledicendosi da solo. Non doveva essere lì. Se voleva dimenticarlo, allora non doveva stare lì. 
Aveva appena girato i tacchi, quando una voce calda sovrastò le altre, facendolo fermare sul posto. «Akane, aspetta, non si fa così!»
Doveva lasciar perdere, scuotere la testa, e tornare sui suoi passi; di questo ne era conscio. Eppure, bastò che quel timbro di voce arrivasse alle sue orecchie perché lui lo riconoscesse. Aveva la stessa sfumatura di quando gli aveva detto che gli voleva bene.
Bastò una frazione di secondo, e si ritrovò davanti l’entrata del parco. Sgranò lo sguardo, il respiro che si fece improvvisamente pesante.
Iwa-chan era lì. L’aveva intravisto subito, seduto sui talloni davanti a una bambina che Oikawa non conosceva, probabilmente sua figlia. La piccola stava palleggiando, anche se dopo tre tentativi riusciti la palla le finiva sempre in testa. Rimase a fissarlo: aveva le labbra piegate in un morbido sorriso e gli occhi che quasi brillavano. Quella bambina sortiva in lui un effetto che il setter non si sapeva spiegare, e per un attimo sentì che la gelosia gli stava mangiando gli organi.
Ma non aveva motivo di essere geloso. E non aveva motivo di avercela con quella bambina.
Cercò di respirare come meglio poteva, il fiato che usciva in piccole nuvolette bianche. Adesso, per uno sfortunato caso, la palla era finita sopra la testa di Hajime, e la bambina si mise subito a ridere; lui fece il finto offeso e cominciò a farle il solletico.
«Papà, smettila!» disse la bambina, districandosi tra quelle dita.
«Solo se mi chiedi scusa!»
Iwa-chan parlava come sempre. Iwa-chan sorrideva. Iwa-chan stava bene.
Oikawa lo realizzò in quel preciso istante. Realizzò che l’aveva dimenticato proprio in quel momento, vedendolo con sua figlia. Ingoiò un grumo di saliva che aveva lo stesso sapore delle lacrime, le gambe che non si muovevano.
E il panico cominciò a salire, veloce, sempre più veloce, quando vide Hajime girarsi verso la sua direzione. Forse si sentiva osservato, o forse lo fece per puro caso. Questo non si può sapere con certezza.
Sta di fatto che gli occhi verdi di Hajime incontrarono quelli color cioccolato di Tooru.






Si erano avvicinati quasi in contemporanea, Iwaizumi dicendo alla figlia che si allontanava per un attimo, Oikawa limitandosi a superare i piloni. Si erano salutati appena, stando l’uno accanto all’altro, con almeno dieci centimetri di distanza.
Erano rimasti in silenzio per tutto il tempo, come se avessero sentito il necessario bisogno di avvicinarsi all’altro, senza però riuscire a spicciare parola. Alla fine, fu Oikawa a rompere il ghiaccio.
«Tua figlia…?» disse, indicando la bambina con un lieve cenno del capo.
Il giornalista lo guardò con la cosa dell’occhio, metà viso coperto dalla sciarpa blu, gli occhiali che gli scivolavano sul naso lucido. Spostò lo sguardo verso sua figlia, che faceva andare avanti e indietro l’altalena, imbacuccata in quel cappotto troppo ingombrante per lei, i capelli nerissimi raccolti in due codine.
«Sì, è venuta a trovarmi per le vacanze di Natale…» rispose. 
Oikawa annuì, e il silenzio calò ancora tra loro due. Passarono un paio di minuti, in cui riecheggiava solo il chiacchiericcio delle mamme che parlavano tra di loro, le urla dei bambini, la canzone che Akane stava canticchiando, coinvolgendo altre bambine che giocavano con lei. Probabilmente era la sigla di quell’anime che di solito guardava la sera, tutta entusiasta.
Il sorriso che piano piano si era formato sul suo viso morì non appena sentì la voce del setter arrivargli alle orecchie: «Come hai passato le feste?»
Era tentato di non rispondere. Era tentato di girarsi e urlargli in faccia, un’altra volta, perché lui non doveva essere lì. Non doveva essere in quel maledetto parco, avrebbe dovuto andarsene non appena l’avesse visto. E invece era lì. Ci stava provando, di nuovo. Stava di nuovo provando a farsi del male. Hajime avrebbe voluto intimarlo di smetterla, prenderlo a ceffoni, perché lo sapeva che Oikawa aveva sofferto per quella sera, la sua espressione ne era la prova. 
Alla fine, si disse che non era il caso di farlo stare male ulteriormente. Akane aveva ragione: se lui era veramente dispiaciuto per quello che era successo, avrebbe dovuto trovare un modo per spiegargli quali erano le sue ragione, ora che era lucido, ora che non era sopraffatto dalla rabbia. 
Alzò appena le spalle. «Sono stato da mia zia. Akane è venuta a trovarmi dopo Natale… Ha espresso il desiderio di passare l’ultimo dell’anno con me, per non lasciarmi solo. Sua madre l’ha accontentata.»
Tooru fece un lieve sorriso. «È un pensiero dolce.»
«Già!» Ancora silenzio. Hajime strinse le dita tra il tessuto della giacca. «Tu? Sei stato con Eiko-san?»
Fu allora che, con un movimento lento, Oikawa si girò verso di lui, con uno sguardo severo. Odiava quando Iwa-chan lo prendeva per uno stupido. Era un giornalista sportivo, si interessava sia delle partite, sia delle figure degli atleti, della loro vita privata, di come questa potesse ritorcersi sulla loro carriera e sulla loro professione. 
Ne avevano parlato per settimane su ogni rete televisiva, com’era possibile che lui non lo sapesse?
«Ci siamo lasciati…»
«Ah…»
«Lo stesso giorno della nostra discussione…»
Ecco, lo immaginava. Gli ritornò in mente il rumore del piatto che si infrangeva sul pavimento della cucina di Tomoko, i suoi occhi che – frenetici – osservavano le immagini della coppia perfetta che si era appena frantumata. E per colpa sua. 
Hajime credeva di impazzire. C’era una parte di lui che voleva che le cose tornassero come erano sempre state, ognuna a loro posto; e poi c’era quella parte che, no, non voleva che lui e Tooru tornassero ad essere dei perfetti sconosciuti, anche se questo comportava la sofferenza di Eiko… e Akane. 
Si sentiva un mostro quando pensava queste cose. Non meritava veramente di essere padre di una creatura come Akane. 
Trattenne la bile che sentiva salire lungo la gola, mentre Oikawa continuava a parlare. «Sono andato a casa di Ushijima-chan, dopo che abbiamo parlato… C’erano anche Bokuto e Kuroo…»
«Immagino che adesso mi detestino…» disse, lasciandosi sfuggire un verso che presagiva una risata nervosa. 
«Un po’…»
«Come l’hanno presa…? Insomma, il fatto che tu sia…»
Stavolta fu il turno di Oikawa di alzare le spalle, liberando la faccia dalla sciarpa. «Mi hanno confessato di avere dei sospetti. Ero troppo espansivo nei tuoi confronti, con Eiko ero troppo rigido… E Boku-chan mi ha confessato che per lui formeremmo una bella coppia!»
«Quel tipo non ha peli sulla lingua!»
«Mi ha detto che ti farà cambiare idea a suon di pugni!»
E poi, eccola. La risata di Tooru, contagiosa come sempre e che ad Hajime era mancata terribilmente, in quelle grigie giornate di fine dicembre. Rise anche lui, senza volerlo, lasciandosi trascinare da quel suono cristallino e che, nonostante il dolore, nonostante Tooru stesse morendo dentro, non era cambiato affatto. 
Era in momenti come questi che Hajime si pentiva delle sue parole. Poi, sentiva sua figlia che urlava, lontano, e la realtà tornava a gravargli improvvisamente addosso, ricordandogli che le cose non potevano stare come lui voleva. 
Girò la testa con uno scatto, e la vide assieme ad altri bambini mentre lanciava palle di neve, l’altalena adesso abbandonata.
«Ushijima e Kuroo, invece, mi hanno detto di starti lontano…»
Tooru si era accorto del repentino cambio d’umore di Iwa-chan, come se si fosse messo improvvisamente sull’attenti, un allarme che risuonava dentro la sua testa e che aveva il rumore delle urla di gioia di sua figlia. Si perse un attimo ad osservare la linea dura della sua mascella, il verde dei suoi occhi puntato sul cappottino rosa della bambina, prima che si puntassero su di lui, seri. 
Abbassò la testa, ed era la prima volta che si ritrovava in difficoltà a sostenere il suo sguardo. Eppure, l’aveva fatto un milione di volte. «Ad essere sincero, volevo fare così, ma… sono venuto qui. I miei piedi si sono mossi da soli, e poi hanno deciso di fare i capricci quando ti ho visto giocare con tua figlia… Volevo andarmene, eppure non riuscivo a muovermi. È stupido?»
Iwaizumi incurvò le labbra verso l’alto. «Francamente, mi sono abituato alle tue stupidaggini…»
Erano l’uno di fronte all’altro, proprio come l’ultima sera in cui si erano visti, solo che stavolta non aleggiava alcun sentimento negativo nell’aria. Solo tanta tristezza. 
«Tu cosa vuoi?» sbottò Hajime. Tooru sbatté le palpebre, confuso. «Tu hai ascoltato quello che ti hanno detto loro, ma tu cosa vuoi fare?»
Rise, e stavolta il suono fu diverso, come quello di un violino scordato, niente di più doloroso per i timpani. O per la bocca dello stomaco, perché quel tono fu per Hajime come un pugno ricevuto da Oikawa stesso. E, detto tra noi, se lo meritava. Anche solo per la domanda scomoda che gli aveva posto. 
«Lo sai cosa voglio…» disse, cacciando in gola un grumo di saliva. «Ma non è quello che vuoi tu…»
Iwaizumi lo osservò con aria grave mentre cercava di trattenere le lacrime, si perse in quegli occhi color cioccolato lucidi e che adesso stavano dietro un paio di lenti fasulle. Poi, fu il suo turno di spostare lo sguardo su sua figlia, e Hajime ne rimase sorpreso, rimase sorpreso di vedere i lineamenti del suo viso ammorbidirsi.
Non la odiava. Non la conosceva, ma dopo quanto era successo era normale che questo accadesse. Invece, la stava guardando con curiosità, la stava studiando. Oikawa non era nuovo a questo tipo d’atteggiamento, squadrava la gente come a volerne svelare i difetti più assurdi; con Akane, però, non lo stava facendo. Era come se stesse cercando, disperatamente, qualcosa che la richiamasse a lui, come se avesse bisogno di una conferma che era giusto così, che Iwa-chan aveva le sue motivazioni per non volerlo più vedere. 
«Ci ho provato… ad odiarti» ammise, senza scostare lo sguardo. «Non ci sono riuscito...»
Un altro sorriso velato di tristezza fece la sua comparsa sul suo viso, e Hajime sentiva la rabbia cominciare a ribollire, aveva il sentore che se la sarebbe presa con lui proprio perché era lì, proprio perché non aveva fatto abbastanza per odiarlo, proprio perché continuava ad amarlo. 
«Ho pensato parecchio a quello che mi hai detto quella sera… Avevi ragione, non ho pensato a quello che potessi provare tu, di certo non te l’aspettavi!» Abbozzò una risata, ma continuava ad essere un suono stridulo nei timpani di Hajime. «E ho pensato che forse tutto questo si poteva evitare… e che avrei potuto continuare a vederti…»
Il fischio del vento arrivò improvvisamente, Hajme lo percepì mentre si abbatteva su di loro, mentre guardava le ciocche castane di Tooru scompigliarsi, nascondendo disperatamente le prime lacrime che gli inumidivano gli angoli degli occhi. 
«Tu vuoi continuare a vedermi?» Il setter alzò di scatto la testa, gli occhi ora completamente dilatati, lasciando che qualche lacrima sfuggisse al suo controllo. «Vuoi continuare a vedermi nonostante tutto?»
Quella domanda la pronunciò con la lingua attaccata al palato dalla saliva. Si pentì subito di averlo fatto: insomma, non voleva farlo soffrire, e adesso gli chiedeva questo? Era ovvio che volesse continuare a vederlo, Oikawa Tooru era un libro aperto per lui! Per quanto potesse cercare di negarlo – e non lo biasimava per questo – era chiaro come il sole, anche se Hajime sperava con tutto se stesso che si dimenticasse di lui e continuasse con la sua vita, con la sua futura carriera olimpionica. 
E poi, c’era qualcosa che riaffiorava in lui, qualcosa che gli diceva che voleva cenare ancora una volta con Oikawa, che gli diceva che voleva accompagnarlo al cinema, che gli diceva che si sarebbe divertito volentieri a picchiarlo un’altra volta.
«Sì, anche se è profondamente sbagliato…»
«Bene, perché se non sbaglio, mi avevi chiesto di accompagnarti al cinema…»
Oikawa non ci poteva credere. Alcuni avrebbe preso Iwa-chan per un insensibile, uno che gioca solo con i sentimenti degli altri, ma non lui. Era per questo che glielo aveva chiesto, perché non avrebbe mai fatto niente che andasse contro la sua volontà. Stava mettendo in primo piano quello che voleva lui, non il suo bene personale e della sua famiglia, di sua figlia, ma il suo. Quello di Oikawa.
Probabilmente, si sarebbe fatto del male. Sentiva già dolore dopo aver ammesso che non riusciva a non pensarlo, che avrebbe continuato a passare volentieri tutto il tempo disponibile con lui. Così, stando accanto a una persona che sapeva di non poter avere… 
Iwa-chan era troppo importante. Era quel pezzo di puzzle che aveva perso. Era l’unico che riusciva a far sparire la sensazione di vuoto. 
«Ti contatto io… okay?» gli disse, e Tooru era quasi tentato di mettersi lì a piangere, ma non riuscì a fare nulla, scioccato com’era. 
Osservò la giacca verde acqua di Hajime, le sue spalle larghe, mentre quest’ultimo prendeva un bel respiro e gli -occhi di sua figlia si posavano su di loro, leggermente perplessi. 
«Tooru,» lo richiamò, e quest’ultimo sentì un brivido caldo scendergli lungo la nuca. «Non ti pentire di quello che hai fatto. Mai.»





Il filo, adesso, si era allentato giusto un po’, ma faceva ancora male, stringeva. Iwaizumi aveva deciso di fare un passo indietro, nel disperato tentativo di incontrare Oikawa a metà strada. Ma lui rimaneva sempre il giocattolo preferito dal destino, era colui che veniva sballottato di qua e di là.
E mentre ragionava sulla sua mossa, il destino si chiese se tale decisione fosse stata un bene o un male.




 
[Right from the start
You were a thief
You stole my heart
And I your willing victim]


 
Delucidazioni:
SONO TORNATA!
Perdonate la mia lunga assenza, ma per chi mi seguisse su Twitter, sa benissimo che ho avuto un periodo abbastanza brutto e pesante, dovuto anche agli esami della maledetta sessione estiva. Ma adesso sono ufficialmente libera, quindi conto di tornare ad aggiornare più spesso ;)
Per la vostra gioia o per vostra sfortuna, questo sta a voi deciderlo :’D
Dunque, che dire di questo capitolo?
CHE AKANE E’ PREZIOSA, VI PREGO PROTEGGETELA!  ♥ (??)
No, sul serio, dopo la mazzata di feels che vi ho dato l’altra volta, e dopo che vi avevo lasciato con questi due che hanno litigato, dovevo darvi un po’ di dolcezza, no? E vi giuro, io amo quella bambina, è tipo la copia di Iwa-chan, ed è bellissima e purissima! ♥ 
Per quanto riguarda la madre di Tomoko, vi avevo già detto che era basata sulle fattezze di mia sorella, che desidera poter disegnare un fumetto tutto suo – e sì, lei sarebbe capace di postare degli spoiler fasulli su Twitter, è fin troppo sadica. Le due donne, a volte, parlano in italiano tra di loro, e la figlia spesso la chiama per nome – che poi è lo stesso di mia sorella lol
Altro? Per adesso no.
Nel prossimo capitolo dovrebbe esserci molto più fluff, ma non vi assicuro nulla :’)
La frase che dice Akane al padre, sul fatto che dovrebbe scusarsi con Oikawa è tratta da un altro anime, Special A: guardatelo, è molto carino; la canzone è Just Give Me a Reasons, e per adesso riscopro canzoni e le utilizzo per scrivere, io boh…
Infine, ringrazio tutti coloro che seguono questa storia, a chi è appena arrivato, a chi sclera con me e a chi mi ha lasciato delle recensioni. Davvero, grazie, siete la mia gioia! ♥
Alla prossima [e vi assicuro che stavolta sarà presto!]
_Lady di inchiostro_ 
 
  
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