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Autore: Le due zie    26/08/2017    14 recensioni
Per il compleanno di André, un racconto a quattro mani, il gioco di due penne che si intreccia nei postumi di una notte in cui il vino sembra aver fatto danni. O forse no.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alain de Soisson, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bottiglie vuote e macchie sospette
 
Inarcò appena la schiena, irrigidendo le spalle fino a far tremare le braccia, e poi si volse, quasi compiendo un salto, per sistemarsi sul fianco sinistro, raccogliendo le ginocchia al petto e allungando un braccio sotto il guanciale morbido. Tornò a rilassarsi, prendendo un profondo respiro, che si spezzò lasciandole impresso nella mente e nella gola un profumo amaro e piacevole, nuovo eppure ben noto.
Attese qualche istante, corrugando la fronte e poi strizzando le palpebre sugli occhi, lasciando che la mente potesse rincorrere quel profumo, raccoglierne i lembi e riallacciarli a un qualche ricordo, ma non ebbe modo cogliere nessuno dei dettagli confusi che, lentamente, parvero venire a galla, fluttuando nella bruma densa che la stava avvolgendo in una carezza piacevole. Tornò a distendersi, allungando e gambe nude sotto il lenzuolo e abbandonandosi di nuovo a quegli attimi di pace che avvolgevano corpo e mente regalandole un inusuale benessere; inspirò ancora, inumidendosi le labbra, e le parve di rinnovare, in quel gesto, la piacevole sensazione portata dall’eco di quella sorta di profumo.
D’istinto, sollevò le ginocchia, chiudendole una contro l’altra e piegando le gambe, e venne colta di sorpresa da una sensazione insolita, in bilico tra disagio e gratificazione, ritrovandosi a inseguire il filo di quel sentire fino quasi a contrarre il ventre, trattenendo il respiro.
Allora spalancò gli occhi, puntando lo sguardo al soffitto scuro, e alle sue travi fitte, e poi scendendo a scrutare tutto attorno a sé; riconobbe immediatamente la piccola stanza da letto attigua al proprio ufficio della Caserma della Guardia Metropolitana, le pareti imbiancate a calce, ormai ingiallite dal tempo, il mobile basso e scuro con il necessario per la toeletta, con lo specchio da rasatura, l’orologio da tavolo che non si era mai premurata di far mettere in funzione e una bottiglia di vino ormai vuota; e poi, proprio di fronte alla toeletta, la sedia dalla fodera lisa, sulla quale era solita poggiare la divisa nelle rare occasioni in cui decideva di non fare rientro a palazzo, preferendo rimanere a trascorrere la notte in città.
Socchiuse lo sguardo, fissando proprio la sedia per qualche istante, concentrata a riflettere su quel dettaglio insolito, prima di sporgersi dal letto a cercare la propria uniforme; scorse la giacca ripiegata in modo accurato sulla piccola consolle accanto alla porta che conduceva al suo ufficio, mentre i pantaloni erano stati sistemati sul cavalletto insieme all’asciugamano, accanto alla toeletta. Pur nella penombra della stanza, notò immediatamente come la stoffa blu fosse segnata da un lungo alone scuro, che colava lungo una gamba in uno spaglio di macchie più minute.
Rimase immobile, assottigliando lo sguardo su quei dettagli curiosi e poi si volse di scatto a scrutare di nuovo la camera: ai piedi del comodino, quasi nascosta sotto di esso, scorse una seconda bottiglia vuota, aperta e rovesciata a terra e, poco oltre, un’altra ancora; sul bordo del catino della toeletta, abbandonato dentro ad esso, riconobbe il lembo di un asciugamano sul quale erano evidenti aloni scuri, quasi certamente macchie di sangue diluite dall’acqua, e segni bruni, forse polvere o terra.
Senza nemmeno riflettere, si volse al proprio guanciale, riconoscendo sulla stoffa candida della federa l’eco di quegli stessi segni scuri, mentre, allungato un braccio, con mano tremante prendeva ad accarezzarne le tracce.
Chiuse gli occhi e deglutì, nonostante tra le labbra avesse avvertito una improvvisa arsura; allora portò una mano alla fronte, espirando lentamente, per poi lasciarsi cadere di nuovo sul letto, cercando una sorta di conforto nel contatto con le lenzuola, affondando il capo nell’abbraccio morbido di quella stoffa e di ciò che iniziava ad evocare.
Si abbandonò al silenzio della propria stanza, controllando a fatica il proprio respiro, avvertendo che ogni soffio nascondeva un singulto e che in gola un nodo si era stretto, riallacciando tra loro i ricordi confusi della notte.
Sentì la pelle bruciare, le labbra accendersi fino quasi a scottare e le mani vibrare, mentre il calore di sguardi silenziosi e carezze morbide si faceva vivo, se pure ormai perso, o forse immaginato; si sforzò di recuperare lucidità e avvertì il corpo accendersi di una strana consapevolezza che la mente non riusciva ancora a ricomporre, mentre la nebbia perfida dell’alcool disfaceva i contorni di ciò che ricordava, o forse credeva di ricordare, in un andare e venire continuo, come di onda sulla spiaggia sabbiosa che cancella e modifica le orme sulla rena più sottile. Ingaggiò una lotta con se stessa, certa di averne un ricordo vero: strinse le dita sui palmi, mentre riusciva ancora a percepire sotto i polpastrelli la morbidezza della pelle liscia, violata eppure incredibilmente lucida, quasi fosse setosa; i suoi palmi potevano ancora riempirsi della curva solida delle spalle, delle braccia e del torace magro, sul quale i muscoli disegnavano un intreccio forte, nonostante il dolore fosse lì, sotto pelle, quasi solido sotto le sue dita incerte.
Scosse il capo e allargò le braccia sul materasso, quasi a voler avere conferma della  propria solitudine, e poi le incrociò sul petto, concedendosi quello che le parve un abbraccio e che in un istante, invece, divenne l’ultima stretta attorno ai propri sussulti, mentre le lacrime, calde e silenziose, prendevano a sciogliere gli ultimi dubbi e i più deboli ricordi, lentamente, si ricomponevano in un unico possibile passato, sfidando anche la lusinga del vino.
 
Quando si sollevò dal letto, la luce già filtrava arrogante tra le tende scure che schermavano la finestra affacciata sul cortile.
Alzandosi, raggiunse l’apertura, scostando appena le tende per scrutare oltre vetro; il sole era basso sulla città e la Caserma sembrava essere animata appena dai movimenti che seguono il risveglio: nel grande cortile, due soldati stavano raggiungendo con passo lento l’armeria nel corpo che chiudeva a occidente la corte; sul lato opposto, un altro soldato di ritorno dalla latrina, stava attraversando la piazza, per dirigersi verso i gradini dell’accesso al dormitorio comune; presso il varco aperto sulla via, un capannello in uniforme blu chiacchierava gesticolando con fare vivace.
Lasciò rapida la finestra, consapevole che fosse tempo di prepararsi alla propria giornata da Comandante, pronta a rivestire l’uniforme e con essa l’armatura di apparenze che ormai da tempo pesavano sulla sua vita in modo opprimente. Frugò nel cassetto della toeletta, sollevando lo sguardo al soffitti e soffiando uno sbuffo di ringraziamento alla solerzia della nonna che, preoccupata che potesse mai averne necessità, l’aveva convinta a lasciare in caserma almeno un cambio pulito per la propria uniforme. Si guardò attorno, cercando le fasce, ma senza successo; tornò al letto, quasi stizzita, sollevando le lenzuola fino a sfilarle da sotto il materasso, senza altro risultato, e poi si chinò a terra, cercando fin sotto il giaciglio, per poi rialzarsi, accigliata. Scosse il capo e infilò i pantaloni, sbuffando, rimandando a più tardi la risoluzione del problema e considerando come, probabilmente, nonostante non fossero parte del più classico dei necessaire da Comandante, anche le fasce avrebbero dovuto essere aggiunte al cambio pulito da tenere in Caserma. Con gesti esperti, annodò al collo lo jabot e indossò la giacca sopra la camicia, senza curarsi d’altro; allora lo sguardo tornò al catino da toeletta e all’asciugamano macchiato di sangue che ancora vi era appoggiato e il suo respiro rimase spezzato, mentre anche quel ricordo prendeva forma nella sua memoria provata dalla notte. Indugiò sugli aloni scuri, accarezzandoli con lo sguardo per alcuni istanti, e poi portò una mano al petto, chiudendovi le dita come a cercare la lunga striscia di stoffa che ora sapeva dove fosse finita. Rimase sospesa, nel tentativo di ripercorrere anche quegli istanti … fino a quando un rumore ovattato, oltre l’uscio, non la riscosse; allora spalancò il battente, dirigendosi verso l’ufficio, decisa ad affrontare il mondo e i propri spettri, quasi che il momento di lasciare quella stanza fosse divenuto impossibile da rimandare oltre.
Richiuse il battente dietro le proprie spalle e sollevò il capo, per rimanere impietrita, rendendosi conto di non essere sola.
Dischiuse le labbra, ma fu incapace di proferire parola; corrugò la fronte e non poté che fissare lo sguardo sull’uomo in blu che occupava per intero il divanetto posto accanto alla porta che conduceva al corridoio della Caserma. Venne colpita dai suoi capelli scuri e lucidi, dalle sue spalle larghe, dall’apparente tranquillità con cui pareva giocare con il coltello che teneva tra le dita, facendo scivolare la lama sul palmo, per poi bloccarlo in una stretta ferma.
Al suo ingresso, l’uomo sollevò lo sguardo dalle proprie mani, per lasciarlo scivolare lentamente su tutta la lunghezza dell’ufficio, fino a raggiungerla, laddove si era bloccata, e poi mostrarle un’espressione ambigua, le sopracciglia sollevate sugli occhi e un sorriso sghembo a piegare le labbra. Non le disse nulla, forse in attesa che lei si riprendesse dall’empasse in cui era caduta, e si limitò ad osservarla, sornione.
Allora, lei cercò di recuperare il massimo del proprio contegno e raddrizzò la schiena, corrugando appena la fronte, nello sforzo di aggiungere anche quell’ultimo tassello a tutti quelli che, faticosamente, aveva creduto di ricostruire; si schiarì la gola, deglutendo a forza, per poi chiamarlo, faticando quasi ad emettere suoni.
- A … Alain? –
   
 
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