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Autore: Voss    28/09/2017    2 recensioni
Siamo nel 1945, la fine della guerra si avvicina e nell'accerchiata Konigsberg vite, con storie da raccontare e animi sciupati dal dolore combattono o si arrendono al proprio destino. In questo contesto un vecchio soldato perso negli infiniti intrecci della vita cerca inconsciamente la sua strada negli ultimi giorni di resistenza della sua città.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Figli di Prussia

Capitolo II

 

Cantava il vento a Königsberg

 

 

5 Aprile 1945

 

Un sole splendente illuminava il porto, al largo, sul gelido mar Baltico stormi di uccelli volavano al sicuro tra le dolci correnti aeree.

Seicento anni prima, quando gli sconfitti cavalieri teutonici spostarono la loro capitale, flotte di navi avevano cominciato a fluire dal golfo della città, dirette a ovest, verso le sponde di Lubecca ad imbarcare nuovi coloni per la giovane Königsberg, sulle banchine di quel porto gli imperatori Guglielmi vararono le loro possenti navi in cerca dello scontro con le potenze straniere, sfoggiando quelle meravigliose flotte nel maestoso duello per rompere lo status quo del pianeta.

Ora di quel maestoso porto che negli anni era diventato una delle migliori basi navali della Germania, con fissi i suoi anni d'oro sotto Wilhelm II, subiva la più grande prova dal momento della sua creazione.

Le gru portuali erano state rase al suolo, così come le banchine e le navi ormeggiate ad esse, anche se alcuni tra i più fiduciosi o fanatici si aspettavano l'imminente arrivo di navi di soccorso con viveri e rinforzi.

Dal mare non giungeva niente da mesi, l'ultima nave, una nave da carico vecchio modello molto lunga classe 1922, era venuta a caricarsi di civili per poi sparire dall'orizzonte, nessuno si sarebbe mai aspettato che quella nave giunta durante 'l'offensiva d'inverno' sarebbe stata l'ultima ad approdare nel porto di Königsberg. Ultimo contatto.

 

 

La postazione antiaerea, l'ultima che la città poteva schierare per difendere il porto, era situata tra due macerie di edifici, sepolta da una rete mimetica grigia, dopo che nei giorni precedenti era stato appurato che difendere il porto dagli attacchi aerei era inutile erano state spostate ad est e a nord tutte le batterie per riusarle come cannoni anticarro, destino che sarebbe toccato anche all'ultima di li a poche ore.

 

 

Karl guardava fisso il cielo, non aveva mai visto così tanti aerei, era uno di quei momenti dove la sua scorza dura di adolescente cresciuto nella guerra e nei bombardamenti andava a mancare, uno di quei momenti dove le sue ossute gambe sembravano non riuscire a sostenerlo, mentre le sue guance apparivano scheletriche e la fame sembrava raggiungerlo in pochi secondi, diventava un semplice bambino, uno di quelli ancora troppo piccoli per la guerra, almeno, di quelli che non avevano conosciuto la Großes Deutschland.

Franz lo guardava tristemente mentre puliva il fucile, non si stupiva ne provava pietà per quella giovane vita, solo un forte senso di disperazione.

«Non vengono per noi Karl» disse ad un tratto Lotendorf in uno strano tono paterno

Il ragazzo si riprese e ritornò serio e deciso come di suo solito, quel senso di paura che gli attanagliava il cuore sarebbe rimasto solo dentro di lui, come sempre, fuori doveva ritornare ad essere il piccolo adulto che tutti conoscevano.

«Lo so, vanno a Berlino, non c'è bisogno che tu me lo ricordi»

poi prese con entrambe le mani il fucile e andò a posizionarsi sotto un balcone di una casa in rovina, imbarazzato.

 

 

Il tenente Eber uscì da uno dei vicoli e si posizionò vicino a Franz e Ulric, i due che fino a poco prima stavano guardando la limpida acqua del porto si riscossero e si girarono verso il loro ufficiale.

Il Tenente aveva una pessima cera, il suo occhio sinistro era come di norma in preda a un tic che lo faceva quasi chiudere completamente, le sue mani sciupate come le sue guance gli davano un aspetto cadaverico, la sua uniforme pareva stropicciata e sciupata.

Eber si accese a fatica una sigaretta e ne offrì una anche ai due granatieri del popolo, anche se con una certa riluttanza iniziale, poi disse

«Franz, Ulric voi avete famiglia?»

il milite più anziano, cioè Franz guardò il suo compagno che nel frattempo stava fumando fissando il cielo nuvoloso, poi riferì

«No signore, nessuno di noi due»

Il tenente lo guardò trasformando gli occhi in fessure

«Franz, tu sei di qui?» poi accorgendosi di aver posto al milite una domanda retorica, poiché tutto il battaglione proveniva dall'est della Prussia, aggiunse

«Intendo da Königsberg».

Franz si sentì debole, poi una tristezza inumana lo invase, i suoi pensieri si offuscarono, il piovoso tempo gli parve di un grigio profondo, infine la sua mente si riscosse

«Si signore, sono nato a Königsberg ma non ho famiglia, se ne sono andati via da tempo e ormai la guerra me li avrà già portati via. Ogni guerra mi porta via qualcosa, in questa ho perso i miei cari»

Eber ritornò in se, la tensione lo stava facendo diventare come uno di quei “manichini” arroganti e litigiosi, ma in fondo il vecchio non gli aveva mai fatto niente, anzi era uno dei migliori compagni di quel maledetto distaccamento che gli toccava sovraintendere da quando l'SS addetta si era suicidata, una settimana prima.

«Non importa Franz, ho bisogno di cinque uomini per minare la terza strada nord, edifici e terreno. Noi della 14° vi porteremo là. Venite tra cinque minuti al comando della 14esima» poi si rimise il fucile bene in spalla e tornò dal buio vicolo da cui era apparso.

Dopo qualche minuto l'anziano milite si sedette sul marciapiede con il fucile in braccio e Ulric si volse a guardarlo.

«Franz se posso chiederti. Cosa ti ha portato via il Grande Mattatoio?»

Franz posò il fucile, si appoggiò al muro e osservo le grigie nuvole cariche di pioggia

«La Germania».

 

 

 

 

L'Sdk 251/6 si muoveva veloce lungo il ponte gotico che separava l'isola di cemento al centro della città dal resto di quella culla teutonica. Ai lati, veloci passavano quegli antichi palazzi neoclassici che avevano significativamente lasciato un segno ottocentesco alla città, quei palazzi erano ora bucherellati da piccole esplosioni e squarciati nell'intimità dalle bombe che avevano sfondato gli sporgenti tetti.

Piccoli nidi di mitragliatrici segnavano ora i balconi di quegli edifici che offrivano nel loro sforzo di cercare di ripagare chi gli aveva creati così maestosi e affascinanti un asilo. Un asilo per i 300'000 cittadini di Prussia che erano stati evacuati a Königsberg per un ordine dello stesso Führer, che sosteneva ci sarebbero potuti essere dei combattimenti in Lituania. Quel comunicato era stato emanato quasi tre mesi prima e da quel momento Königsberg offre asilo ai profughi di tutta la Prussia dell'Est, in parte evacuati verso la Germania ma ancora presenti in quantità ingestibile in città.

I cingoli scivolavano dolcemente sulle antiche pietre della città, quando il semicingolato svoltò rapidamente in uno stretto vicolo, per poi gettarsi nel grande viale alberato che conduceva fuori dalla città, passando vicino alla lastra di marmo che segnava il punto dove sorgeva, fino al bombardamento del 1944, una statua di Guglielmo I primo imperatore di Germania.

Il semicingolato si accostò ad un grande edificio monumentale, colonne di bianco marmo si stagliavano dai capitelli intagliati, le finestre erano sbarrate ma ciononostante se si osservavano le fessure tra il legno, anche da fuori si sarebbero potuti notare i grandi lampadari.

Un panzergranatiere aprì lo sportello posteriore del mezzo invitando un suo compagno a scendere con lui, facendo poi segno di aspettare ai volkssturm.

Franz seguì i due con lo sguardo fino all'entrata dove il suo sguardo fu attirato dalla grande scritta sopra l'entrata dell'edificio “Il sapere è l'anima dell'uomo”, crepato in più punti e annerito dalla polvere. Lungo le scalinate scaffali sfondati erano circondati da libri, alcuni scaffali più grandi erano invece stati rovesciati in cima alla scalinata per fornire riparo alle guardie che ora sorvegliavano il deposito di carburante e di munizioni.

I due panzergranatieri uscirono dopo pochi minuti con una scatola di mine posizionata sopra ad un carrello per spostare i libri che portarono fino al semicingolato ancora acceso.

Il pilota urlò schnell e i due corsero più velocemente, poi aprirono di nuovo il portello posteriore e risalirono con la cassa. Ripeterono l'azione altre 5 volte, per altre cinque casse, ognuna contenente una decina di mine e varie trappole esplosive per gli edifici.

 

 

 

 

La strada era grigia, Eber teneva il suo schmeisser tra le mani coperte dai guanti da combattimento, altri sei suoi compagni erano appostati lungo la linea di macerie al centro della strada e nel lato sinistro, appostato dietro una facciata crollata, l'Sdk era spento e i soldati addetti al mezzo osservavano attraverso il binocolo ogni singolo movimento sul fondo della strada.

I cinque volkssturm erano divisi in due gruppi,due dovevano togliere l'antica pietra della strada, poi il quinto membro esonerato dai lavori piazzava la mina e i paletti sotterranei, in modo che la pietra posta sopra non toccasse il ferro esplosivo, a quel punto si rimetteva la pietra che, piegata dal peso di un mezzo o anche di una persona affondava leggermente toccando inevitabilmente l'esplosivo in attesa.

Una cornacchia si posò leggermente su una ringhiera di un balcone, l'aria era calma e lontano si sentivano cannoni tuonare, il sibilo del vento del nord raggelava l'animo dei militi al lavoro, in tempi di pace era piacevole da sentire mentre faceva parlare gli alberi delle grandi foreste di Prussia, ottimo compagno di lettori in cerca di pace nel paradiso dei laghi a est di Königsberg. Sempre pronto a rinfrescare e a battere sui muri e sulle finestre, come un innamorato che lancia romanticamente sassi alla finestra dell'amata. Ma in tempi di guerra il vento del nord era la rovina dei poveri e dei malati, e poiché la Germania era ogni giorno più stanca e malata il numero di questi aumentava a dismisura.

In quella giornata il vento era frenetico, batteva sulla vecchia insegna della drogheria, facendola scricchiolare nel silenzio del tardo pomeriggio di quella giornata di guerra.

«Ulric, quante mine rimangono?» Franz si era appoggiato al piccone e glielo diceva con la fronte imperlata di sudore.

«Due» il grosso tedesco guardò un attimo l'ultima scatola di mine per confermare.

 

In principio nessuno si accorse di nulla. Fu Verlen, un ex-gebirgsjäger dell'impero, disertore di due guerre e condannato a morte tre volte scampato per il sangue blu della sua famiglia tutte quante, ad accorgersi del leggero tremolio dei sassolini sulla strada, dalla sua lunga e incolta barba bianca, dall'oscillare delle sue mani e dai suoi occhi spenti ebbero tutti l'idea che stesse per impazzire, poi si ricordarono chi fosse e della sua Croce di Ferro di Prima classe, conferitagli precedentemente al '17, anno della prima diserzione.

Fermarono improvvisamente i lavori e si misero a guardare dritti verso il fondo della strada, verso il confine della Germania.

Verlen ancora una volta si accorse prima degli altri cosa stava succedendo e si mise a correre verso la barriera dei panzergranatieri alle loro spalle, gli altri invece sgranarono ancora per trenta secondi buoni gli occhi fissando il vuoto.

Ulric emise un'imprecazione non ben distinta, poi si alzò con il piccone in mano e così fecero gli altri tre.

Dal fondo della strada una quarantina di soldati correvano disperatamente verso di loro, erano almeno a duecento metri ma la strada era dritta e si riusciva a vedere perfettamente, dietro ai soldati stava avanzando verso di loro in retromarcia un Panzerkampfwagen V 'Panther'.

Il cannone del panther prese fuoco per un secondo e nell'aria scoppiò un sibilo che terminò in una lontana esplosione che fece comunque piegare due delle volksstrurm, Franz e Ulric invece rimasero ritti a osservare, meno colpiti perché abituati al violento tuono del cannone.

La folla avanzava e alle loro spalle si sentì una serie di scoppi molto profondi e lontani, il cielo si riempi di sibili, simili a quelli del panther ma molto diversi nella profondità, artiglieria da 152 millimetri.

Dalla fine della strada in fondo alla via si videro chiaramente i grossi cingoli e poi interamente anche la parte frontale di uno Iosif Stalin, allora anche il piccolo gruppo si mise lentamente a retrocedere.

 

«Passatemi il comando di divisione! Dannazione voglio parlare con Ofel Grap della 267esima Granatieri! Questa strada era segnata come chiusa! Mi sente? Le ho detto che la strada doveva essere segnata come chiusa! Sa cosa vuol dire? Stop, Alt, Geschlossene Straße! La loro direttiva di ritirata non era per di qua!»

Il volto di Eber era paonazzo, aveva perso il fiato e stava sudando.

Poi si sentì un altro tuono, più vicino questa volta, il panther aveva aperto di nuovo il fuoco.

Franz raggiunse le posizioni dei granatieri insieme alle altre tre volkssturm con una certa facilità visto che sapevano dove fossero le mine, Verlen era già dentro l'Sdk e stava tremando anche se si sforzava di mantenere un comportamento rigido.

I panzergranatieri cominciarono a gesticolare con le braccia per indicare che la strada era chiusa, ma la piccola folla sembrava correre verso la salvezza e in pochi rallentarono.

Una sonora esplosione rimbombò per tutta la strada e il cadavere di un soldato sbalzò in aria di qualche metro prima di ricadere rovinosamente sulla strada, ad un altro toccò la stessa sorte, poi un sergente si fermò finalmente conscio della situazione e rapidamente diede aria ai polmoni che soffiando nel piccolo fischietto fecero rallentare e poi fermare la maggior parte dei soldati in corsa, mentre gli altri vennero interrotti nella loro folle corsa dai compagni già ricomposti dall'anziano sergente che aveva preso l'iniziativa.

I soldati si riunirono attorno al loro comandante che in breve gli spiegò la situazione, ad un tratto i panzergranatieri udirono un Achtung proveniente dal gruppo di soldati, seguito da un dietrofront.

 

I soldati si misero su una sorta di linea sull'attenti, per lo più erano giovani reclute anche se fra loro vi erano anziani militi che avevano visto Leningrado e Mosca, o anche Stalingrado.

Imbracciarono il fucile o lo schmeisser, a seconda del loro grado e scattarono rannicchiandosi dietro a rovine sulla destra e sulla sinistra della strada, mentre alcuni si sdraiarono al centro di essa, trenta armi guardavano la strada davanti a loro, la stessa direzione in cui guardavano anche il piccolo gruppo di artefici del campo minato.

Il panther indietreggiò quasi fino al gruppo di soldati, poi si udì un tremendo boato seguito da un raccapricciante rumore di metallo piegato. La torretta del panther si aprì e ne uscì il comandante del carro, seguito dal cannoniere, poi uscì solo una violenta fiammata e da ogni feritoia del mezzo uscì altrettanto fuoco, come dal motore posteriore.

I due si misero a correre, bloccati da due soldati.

«Voi siete completamente folli! Non ho intenzione di farmi maciullare da Ivan, Scheiße, se devo morire lo farò velocemente!»

Così i due carristi si misero a correre, seguiti da una quindicina di fanti prima appostati, che decisero di rischiare.

Fu una macedonia di carne e membra, seguite da una coltre di fumo che si diradò qualche minuto dopo, lasciando intravedere al piccolo gruppo al sicuro il furioso combattimento tra le truppe rosse e il piccolo gruppo di fanti rimasti oltre il campo. Alla baionetta, al coltello, a pugni e con le unghie combatterono gli ultimi fanti della 267esima, per l'ultima volta.

 

 

Il semicingolato lasciò la carneficina prima della sua fine. L'assedio di Königsberg era finito.

 

 

 

 

 

 

 

Io non conosco partiti: conosco soltanto dei tedeschi.”

 

Wilhelm II di Germania

 

 

All'Imboccatura della seconda strada Nord, una colonna di fanti superava le ormai inerti barricate e le carcasse dei carri armati sepolti sotto le macerie o piantati sottoterra. Il fumo si alzava lento dal centro della città coprendo il sole morente, la testa di ponte era fissata, il giorno seguente avrebbe rappresentato il primo giorno dell'Assalto a Königsberg.

 

Karensky scese dal t-34-85 e avanzò verso la tenda da campo della ormai distrutta 267esima divisione di fanteria, il suo sguardo era sereno e in mano stringeva il fidato binocolo.

 

«Capitano!» Fece un soldato mettendosi sull'attenti

«Alfiere Greknovinsk, mi esponga la situazione»

«Gruppo di difesa tedesco annientato, abbiamo alcuni feriti e dei carri danneggiati, questo era il loro ufficiale di grado più alto» il sottoufficiale indico il magro e rassegnato Ofel Grap che sedeva sciupato alla piccola sedia da campo, la faccia sporca di sangue e annerita gli cadeva sulla spalla destra.

Karensky guardò stupito l'ufficiale tedesco «Greknovinsk la ringrazio, mi lasci solo con il tedesco» il soldato alzò il pugno nel tipico saluto e subito usci portandosi dietro i due soldati prima alle spalle del tedesco.

 

Karensky si tolse i guanti e posò il binocolo, poi si sedette con molta calma, sapeva già come sarebbe finito quel colloquio, c'era un ordine preciso riguardo ai prigionieri di un certo grado.

Parlando un buon tedesco domandò «Buongiorno, spero che i fanti dell'internazionale non abbiano esagerato con la persuasione, in ogni caso le porgo le mie scuse.»

Grap mosse la testa. Era un uomo sui cinquant'anni con una corta chioma marrone, occhi verdi, calzava perfettamente nella sua uniforme grigia, l'espressione triste e depressa era la cosa che i soldati conoscevano di più, l'ufficiale soffriva di depressione cronica fin da giovane.

«La ringrazio ufficiale rosso, non li posso biasimare, dopotutto è il prezzo della sconfitta. Anzi, quello deve ancora arrivare.»

Karensky accennò ad un sorriso poi offri una sigaretta all'ufficiale, che si appoggiò al tavolo tirandosi leggermente avanti

«So come funziona questo gioco, hai la divisa diversa dalla mia ma il procedimento è sempre uguale. Non la voglio giudicare, la prego solo di avere pietà, dei civili e della città.»

Karensky sorrise di nuovo «Io le ho solo chiesto se vuole fumare»

Grap cadde di nuovo sulla sedia, poi accettò la proposta dell'ufficiale nemico.

«Lei dove ha combattuto?» domandò a quel punto Karensky

«Polonia, Francia, poi Stalingrado, Kursk»

Karensky questa volta sorrise per lungo tempo, maliziosamente

«Lei è uno di quei porci che ha massacrato, trucidato, assassinato intere città e poi mi viene a implorare “pietà” per la sua di città, per la sua gente? Crede di meritarsi la mia pietà? Crede che a Stalingrado la situazione per noi fosse diversa?»

Karensky era balzato in piedi e aveva sbattuto i pugni sul tavolo facendo traballare, la luce da campo era stata accesa da pochi minuti eppure la mancanza di olio l'aveva fatta spegnere, ora traballava sopra le loro teste come un lampadario durante un terremoto.

Grap sospirò guardando il mantello della strada sotto la tenda

«Non ho mai conosciuto mio nonno, so che era un soldato, mio padre però mi raccontò molto di lui. Era un grande soldato, fedele servitore di Bismarck.

Sconfisse la Francia, marciò verso Parigi e infine si fermò alle porte di quella grande città, molto più grande di Stalingrado.

Devi sapere che a quel tempo la città si era rivoltata contro i padroni e contro la guerra, mio nonno era la quando successe, era accampato fuori città quando nella notte i francesi entrarono a Parigi e massacrarono i comunardi in nome dell'ordine e dello stato.

Non ho toccato un solo civile a Stalingrado, ne a Charkow, ne a Kiev, nemmeno a Minsk, in quasi 6 anni di guerra non ho mai toccato i civili. La Guerra si è già presa molte vite, si è presa le loro terre. Io non sono un assassino. Sono un soldato.»

Grap si alzò, dai suoi occhi scrosciarono lacrime amare, lui che da sempre aveva odiato l'uomo e la guerra, che avrebbe voluto studiare e scrivere poesie. Quello stesso Ofel Grap che era nato nel momento più cupo per l'intera Germania, quell'uomo che aveva affrontato a testa alta la vita ed era stato battuto, sempre cupo non aveva mai odiato suo padre per averlo costretto alla vita militare, ne i suoi camerati per averlo picchiato e umiliato perché non degno di essere un soldato. Nemmeno sua madre che si era trasferita in Spagna tre anni dopo la sua nascita lasciandolo solo, dimenticandolo per sempre. Lui non aveva mai odiato la vita, ne aveva solo abbastanza del mondo.

Ofel Grap, dall'alto dei suoi 180 centimetri, dei suoi baffi sciupati e poco curati si era messo sull'attenti. Le lacrime gli macchiavano l'uniforme, i ricordi lo assalivano ma lui gli respingeva, conscio affrontava ora anche la morte.

«Risparmi quel che rimane della mia camerata, della mia città, del mio paese, salvaguardi come può la mia cara Prussia, oh soldato venuto dall'est in cerca di vendetta, un giorno capirai che il sangue non è la risposta ai mali del mondo. Solo l'amore dei popoli per la propria terra e per i propri cari può salvarci dalla distruzione della guerra, delle armi e del terrore della libertà fin troppo libera. Io muoio con la mia patria nel cuore.»

Karensky era cupo e si guardava la mano, come se la sua vita fosse in bilico su di essa. Passarono alcuni minuti di silenzio.

Infine si sentì uno sparo.

 

   
 
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