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Autore: Adeia Di Elferas    30/09/2017    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Mancavano solo tre giorni al Martedì Grasso, qualcuno in più al Carnevale ambrosiano, eppure Milano era immersa in un'atmosfera funerea che pervadeva così profondamente ogni angolo della città da convincere anche i meno sensibili a non tenere le consuete feste sfarzose e allegre, tanto che si sembrava già in piena Quaresima.

Era sabato e Ludovico era alla chiesa di Santa Maria delle Grazie. In quel giorno della settimana, aveva deciso, avrebbe sempre mangiato lì, in una stanzetta scurita da drappi neri che aveva fatto preparare appositamente per lui. A quel modo, gli pareva di essere più vicino a Beatrice, sepolta non molto lontana da lui.

Aveva deciso che quella saletta sarebbe stata dedicata a Santa Beatrice, così come la cappella meridionale a forma di esedra che avrebbe fatto presto allestire per ampliare la chiesa.

Quando il prete gli aveva detto a quale Santa Beatrice si stesse riferendo di preciso, il Moro aveva agitato le manone per aria e aveva risposto, sgraziato: “Quella che vi pare a voi, prete pedante che non siete altro!”

E dunque stava rimuginando tra sé, davanti a un misero piatto di verdura, insipido e scialbo, così com'era ormai la sua vita. Stava pensando che forse sarebbe stato bello far costruire anche una cappella dedicata a un San Ludovico, nella parte nord della chiesa. A quel modo, lui e sua moglie, almeno figurativamente, sarebbero stati per sempre congiunti.

Stava mangiando in piedi, come ormai faceva sempre e, essendo del tutto solo, si permise anche di mescolare la zuppa con qualche lacrima.

Quella notte era stato negli appartamenti di Lucrezia Crivelli, in cerca di conforto. La donna aveva smesso di chiedergli favori per il fratello e aveva dimostrato per lui un affetto sincero che aveva sorpreso molto il Duca.

La donna aveva passato la notte a sussurrargli parole di sostegno e lo aveva stretto forte a sé tutte le volte che lui era scoppiato a piangere.

Lucrezia, ormai, era grossa di circa otto mesi e la sua età abbastanza avanzata sembrava renderla un po' insofferente alla sua condizione, tuttavia non si lamentò nemmeno una volta per la notte insonne, anzi, quando il Moro la lasciò, al mattino, ancora con gli occhi gonfi e la gola in fiamme, la Crivelli gli sussurrò, accorata: “Torna quando vuoi. Io sono qui per te.”

Appoggiandosi un momento con le mani al tavolino a cui stava appoggiato il suo misero piatto di minestrone, Ludovico chiuse un istante gli occhi, cercando di rievocare l'immagine di Beatrice.

Lasciando il resto del suo pasto a raffreddarsi, uscì dalla saletta e andò al coro absidale, dov'era sepolta sua moglie.

Con lentezza si inginocchiò davanti alla tomba, giunse le mani e cominciò a pregare.

Sapeva che Beatrice aveva commesso tanti peccati, in vita, e lui l'aveva sempre appoggiata, anche quando la credeva in torto. Ora stava cercando di usare la sua vita come mezzo per riscattare l'anima della donna che aveva amato.

Faceva celebrare Messe a ogni ora in ogni angolo del Ducato, versava ingenti oboli alla Chiesa e pregava tutte le volte che poteva, ma non gli sembrava abbastanza.

Ragionando a fondo, ignorando lo stomaco che si ribellava al poco cibo ingerito, Ludovico trovò nell'elenco dei peccati della moglie quella che a suo parere era stata la colpa più grande di Beatrice.

Quando tornò al palazzo di Porta Giovia fece subito convocare Bartolomeo Calco nel suo studio.

“Mi avete fatto chiamare?” si annunciò il cancelliere, con un inchino molto profondo.

Il Moro guardò con approvazione l'espressione mesta di Calco e i suoi abiti scuri, a lutto, e poi si schiarì la voce e disse, in fretta: “Voglio liberare Isabella d'Aragona e i suoi figli. Predisponete per la loro scarcerazione. Verranno qui a Milano. Resterà a Pavia solo il figlio maschio, ma non più rinchiuso nella torre. Gli dovranno essere riconosciuti i suoi diritti come mio consanguineo, dunque verrà finalmente trattato come il nobile che è.”

Bartolomeo credette di aver capito male, tanto che, con difficoltà, balbettò: “Li... Liberarli?”

Ludovico lo fulminò con lo sguardo: “Siete sordo?!”

“No, no, ma mi chiedevo se, dopo quello che è successo in tutti questi anni, fosse la cosa giusta da...” provò a dire il cancelliere.

“Il Duca sono io! Io prendo le decisioni! Voi vedete di eseguire gli ordini, o troverò presto chi prenda il vostro posto!” sbottò il Moro, in uno dei suoi sbalzi d'umore – sempre più frequenti nell'ultima settimana – e poi si alzò e lasciò Calco da solo a chiedersi che cosa mai avesse fatto cambiare idea al suo signore in modo tanto repentino.

 

“Una festa per Carnevale?” chiese Caterina, guardando di traverso Giovanni.

L'uomo si era appena coricato accanto a lei, porgendole il volume che racchiudeva le poesie di Petrarca e aveva provato ad accennare a quell'idea che gli era venuta quel mattino.

Era già sabato sera, dunque organizzare un banchetto in grande stile entro martedì era fuori discussione, ma per trovare qualche musico e un po' di invitati, forse si era ancora in tempo.

“Questa città mi sembra disperatamente alla ricerca di un po' di svago – spiegò il Medici, sistemandosi sotto le coperte e cingendo con un braccio le spalle della Tigre – se si saprà che tu festeggi, anche altri lo faranno, e per qualche tempo ci sarà un clima più disteso.”

La verità nuda e cruda, però, era un'altra. Il Popolano non aveva proposto una festa solo per il bene dello Stato della Contessa, ma perché era lui, quello che si sentiva in vena di fare baldoria.

Quello che lui e Caterina stavano passando gli pareva un momento di perfetta grazia. Tra loro si era subito instaurata una familiarità invidiabile e svegliarsi assieme ogni mattina pareva a entrambi già una cosa più che naturale.

Giovanni non avrebbe mai creduto di provare un simile amore per qualcuno e pensare che forse la Tigre provava lo stesso per lui bastava a inebriarlo come se avesse bevuto un fiasco intero di vino molto forte. Temeva il momento in cui qualcosa o qualcuno avrebbe potuto rompere quell'idillio, per cui voleva festeggiare, finché poteva.

“Da quando è morto Giacomo, non abbiamo dato molte feste, qui alla rocca.” fece notare Caterina, ripensando alle rarissime occasioni in cui, per altro con il fiorentino già alla sua corte, aveva permesso che si tenessero dei banchetti.

“Se non te la senti, non importa.” tagliò corto il Medici, con calma, iniziando a sfogliare il volume che la donna teneva tra le mani, cercandole la poesia che voleva farle rileggere per commentarla insieme.

“Sono solo un po' tesa, ecco perché non ho voglia di fare feste.” buttò lì la Sforza, fermando le belle mani di Giovanni che stavano girando le pagine a gran velocità, tradendo un po' la sua delusione: “Però forse hai ragione tu... Potrebbe essere una buona occasione, per la città.”

Il Popolano si permise di essere ottimista e, intrecciando le sue dita a quelle di Caterina, la guardò un momento e poi la baciò.

La Contessa richiuse la raccolta di poesie e posò la mano libera sul collo dell'uomo che le stava accanto, poi sulla spalla, per allontanarlo un po' da sé: “Forse, se martedì ci sarà un banchetto, domani ci converrebbe andare a cacciare qualcosa...” sussurrò, con un tono che a Giovanni piacque molto: “Alla Casina hanno portato anche un po' di provviste nuove, quindi non avremmo problemi a fermarci anche per la notte, se dovessimo fare tardi...”

“Eh, sì – convenne l'uomo, sorridendo e tornando a baciarla, prima sulle labbra e poi sul mento e sulla gola – credo che si dovrà proprio...”

Era ormai piena notte, quando Caterina, dopo un incubo neanche troppo cruento, si svegliò di soprassalto, madida di sudore.

Nel buio, Giovanni, che era palesemente rimasto sveglio per tutto il tempo a fissare le ombre che il camino proiettava sul soffitto, le permise volentieri di aggrapparsi a lui e le massaggiò lentamente la schiena per rassicurarla.

“Cos'è che ti rende tesa?” chiese l'uomo, in un sussurro appena udibile, mentre la Leonessa stava per riassopirsi.

Caterina premette con forza il viso contro la pelle calda del petto di Giovanni e tentennò qualche minuto, tanto che il fiorentino si era convinto che lei non avrebbe mai dato una risposta.

Invece, spianando le proprie perplessità, alla fine la Tigre disse: “Questo martedì Achille Tiberti terrà un ballo, nel suo podere nel cesenate.”

Giovanni le diede un rapido bacio sulla testa, immergendo il volto nei suoi capelli biondi striati di bianco e chiese, senza capire: “E perché questo ti mette ansia?”

“Perché è il primo passo per la guerra che voglio scatenare contro Pandolfo Malatesta.” rispose la donna, atona.

Istintivamente il Popolano si scostò un po', in modo da poterla guardare meglio, benché l'illuminazione quasi nulla rendesse quel gesto pressoché inutile: “Vuoi davvero fare guerra a Rimini?”

Caterina non disse nulla, tornando a stringerlo con tanta forza da fargli quasi male.

“Vuoi uno sbocco sul mare?” chiese Giovanni, dopo un paio di minuti di lambiccamenti.

La Tigre annuì piano e poi aggiunse: “E poi voglio vendicarmi per come ha calpestato il patto che credevo di avere con lui.”

L'uomo domandò di che si trattasse e, prima ancora di chiedersi se fosse lecito o meno metterlo a parte di tutti quei retroscena, Caterina gli raccontò tutta la storia, dall'omicidio di Guido Guerra da lei commissionato, fino al passo indietro fatto poco dopo dal Malatesta per paura di perdere il favore di Venezia.

Al Popolano tutta quella storia parve solo un grandissimo pericolo. La Contessa s'era gettata a capofitto in una bolgia infernale dalla quale nessuno poteva sapere come sarebbe uscita. Però, ormai, lui si sentiva legato a lei mani e piedi e dunque avrebbe fatto del suo meglio per aiutarla.

“In tal caso – concluse Giovanni, quando la Tigre concluse la sua lunga dissertazione – una festa è l'ideale per distrarci un po'. Passare il Carnevale a rimuginare su cosa sta succedendo a Cesena non farebbe bene a nessuno.”

 

“Riparti subito.” disse piano Bartolomea, sistemandosi un po' sulla sua poltroncina, ripiegando la lettera che era appena arrivata da Roma e guardando fisso il marito: “Il papa è pronto a cedere...”

Una serie di colpi di tosse le tolsero la parola per qualche momento. Bartolomeo le stava al fianco, seduto su una sedia e non voleva lasciarla per nessun motivo.

Quando era tornato a Bracciano, l'aveva trovata grigia in volto, smagrita e terribilmente sofferente.

Il cerusico non aveva voluto pronunciarsi chiaramente, accennando solo a qualche frattura costale che non rimarginava e alla difficoltà di respirazione, e l'Orsini l'aveva anche zittito, quando era stata a portata d'orecchio, sostenendo di essere di tempra molto forte e che non temeva nulla, nemmeno il diavolo.

Il marito, invece, si era molto spaventato a vederla così e aveva anche provato a convincerla a fare qualcosa in più, magari a seguirlo da qualche parte, a cercare medici migliori, una zona dal clima più salubre. Lasciare quel castello umido, di certo, l'avrebbe fatta stare subito meglio.

“Non mi ha buttata fuori di qui un Borja, dunque non lo farai nemmeno tu.” aveva ribattuto lei, con un tono abbastanza scherzoso, ma fermo: “Di' la verità, piuttosto: finalmente ti sei accorto di aver sposato una vecchia megera.”

Così anche lui l'aveva buttata sul ridere e nessuno dei due aveva più fatto cenno alla salute di Bartolomea.

“Devi contrattare lo scambio di prigionieri.” continuò l'Orsini, modulando la voce, nella speranza di non avere altri dolorosi accessi di tosse: “I nostri hanno il Duca d'Urbino e un Gonzaga. Non sono prede da poco. Che ci ridiano Gian Giordano e Paolo, in cambio. O almeno uno dei due e tutte le nostre terre.”

Bartolomeo non avrebbe voluto ripartire per nessun motivo al mondo, ma negli occhi scuri e un po' acquosi di febbre della moglie leggeva un messaggio ben chiaro. Quella che aveva sposato non era una donna comune e dunque non apprezzava doni e gentilezze comuni. Lei lo voleva sul campo, fino all'ultimo, ad arrivare laddove lei non poteva.

“Va bene, farò come dici.” assicurò l'uomo.

“Se le terre non ce le vuole rendere – proseguì Bartolomea, con un cenno d'apprezzamento per la solerzia del marito – sappia che siamo pronti a pagare un riscatto, ma non superiore ai centomila ducati.”

“Io proporrò cinquantamila, allora.” disse il marito.

La donna sollevò con un po' di fatica una mano e gli accarezzò il volto asimmetrico e ruvido di barba incolta: “Ho sempre saputo che tu eri l'uomo giusto per me.”

Contravvenendo alle avvertenze del cerusico, che, per quanto non troppo convinto, aveva sentito dire che il genere di malattia della signora di Bracciano potesse passare da una persona all'altra anche solo con un breve contatto fisico, Bartolomeo si sporse verso la moglie e la baciò lentamente, tenendosi stretto quel momento, sperando che non fosse l'ultimo.

 

Mancava meno di un giorno a Carnevale e la Contessa stava ingannando l'attesa tuffandosi negli addestramenti delle nuove reclute.

La neve aveva impedito per tutto il giorno di lavorare al mastio, ma nel cortile, malgrado il turbinare dei fiocchi, i soldati continuavano a darsi da fare, mostrando le proprie abilità con le armi e scontrandosi a coppie per saggiare la rispettiva forza.

La Tigre, il maestro d'armi e il Capitano Mongardini, in tutto questo, tenevano d'occhio i ragazzi che avevano appena deciso di arruolarsi e parlottavano tra loro decidendo a quali mansioni destinare ciascuno di loro e quali eventualmente scartare e mettere nelle salmerie.

Giovanni, che quel giorno aveva preferito stare al caldo, dato che la domenica se n'era andata tutta in mezzo ai boschi, tra il gelo della neve e gli sforzi della caccia con Caterina, si era messo a una delle finestre che davano sul cortile.

Lui e la Contessa, poi, avevano passato di nuovo la notte alla Casina ed erano tornati a Ravaldino molto presto, quella mattina, e certi tratti di strada avevano dovuto farli a piedi, perché i loro cavalli non riuscivano a passare in mezzo ai cumuli di ghiaccio con loro in groppa. Quindi Giovanni era arrivato nelle sue stanze con le ginocchia e le caviglie che protestavano violentemente.

Detestava sentirsi così fragile. Avrebbe voluto mettersi anche lui abiti pesanti e mescolarsi agli uomini che stavano tirando di spada, incurante della neve e della fatica. Invece, con rabbia, aveva dovuto piegare la testa alle sue gambe, che lo minacciavano già con qualche doloretto più intenso del solito.

Tutto voleva, fuorché star male di nuovo. Era troppo felice, in quei giorni, per avere il tempo di stare male. Non poteva permettersi di sprecare nemmeno un giorno, ora che Caterina era sua.

Spostando il peso da un piede all'altro e appoggiando i gomiti al davanzale, per guardare meglio giù, il Popolano puntò gli occhi chiari sulla Tigre, che in quel momento stava discutendo con Mongardini, indicando con la testa un paio di reclute.

L'uomo annuiva e, ogni tanto, spillava anche lui qualche parola. Giovanni avrebbe voluto sentire che cosa si stavano dicendo, ma dubitava che aprendo la finestra ci sarebbe riuscito.

A un certo punto, poi, la Contessa diede un colpetto sulla spalla del Capitano, come a dire che finalmente la decisione era presa, e poi cominciò ad aggirarsi per il perimetro del cortile, osservando con occhio attento i soldati.

Il Medici, in un primo momento, non trovò nulla di strano in quell'atteggiamento, ma poi, colpito da un ricordo improvviso, si sentì prendere da un momento di forte insicurezza.

Il modo in cui Caterina – lo poteva ben vedere, benché non fosse molto vicino – puntava lo sguardo prima su uno e poi sull'altro giovane, indugiando più del dovuto sulle loro figure, più che sui loro movimenti, aveva ricordato a Giovanni un discorso fatto con suo fratello Lorenzo molti anni addietro.

Vivevano a casa dei loro cugini da un paio d'anni, e Lorenzo era, come lui del resto, entusiasta del clima vivo ed eclettico della casa dei cugini, tanto da riuscire a lenire il dolore per la perdita del padre. Essendo più grande di lui di quattro anni, era stato accettato di più dai conoscenti del padrone di casa, che invece vedevano in Giovanni ancora un bambino.

Lorenzo passava molto tempo con Giuliano e i suoi amici, in particolare aveva stretto una certa amicizia con Sandro Botticelli, che si divertiva a raccontargli dettagli scandalosi della vita di Firenze e non solo.

Un giorno, Lorenzo era corso da Giovanni, che stava perdendo tempo nel cortile d'ingresso del palazzo a guardare il cielo azzurro della primavera, e gli aveva detto: “Sai che cosa mi ha raccontato mastro Botticelli?”

L'altro aveva fatto segno di no ed era rimasto in attesa. Il fratello, allora, all'epoca già un ragazzo, aveva cominciato a riportare le parole del pittore, che gli aveva riferito che nell'Antica Roma le matrone delle famiglie più facoltose andavano dai padroni dei gladiatori, chiedendo loro di mostrarglieli.

“E potevano anche domandare – aveva sottolineato Lorenzo, con una risatina – di vedere in anticipo anche le loro virtù, così dicevano, e così il padrone della palestra li faceva spogliare e quelle donne li passano in rassegna... E dopodiché sceglievano quale affittare per il loro piacere.”

Vedere Caterina aggirarsi a quel modo davanti a tanti ragazzi giovani e forti, aveva fatto tornare in mento a Giovanni quella conversazione e le antiche matrone romane che sceglievano il loro pezzo di carne dopo un'attenta osservazione.

Sentendo il cuore che batteva più forte, provando per la prima volta in vita sua una gelosia profonda e innegabile, il Popolano si ritirò di scatto dalla finestra e andò verso le scale.

Nel cortile, la Tigre, che aveva notato il fiorentino alla finestra, sollevò lo sguardo e non lo vide più.

Siccome quella mattina l'aveva trovato un po' sofferente, temette subito, forse in un eccesso di istinto protettivo, che non stesse bene e così disse a Mongardini: “Torno subito...” e andò verso le viscere della rocca.

Stava già salendo le scale, quando sentì dei passi scendere. Controllò chi fosse in arrivo e vide che era proprio Giovanni.

Senza dirle una parola, il Popolano fece gli ultimi due gradini e la strinse a sé. Caterina un po' si spaventò per l'urgenza con cui l'uomo l'aveva abbracciata e così lo allontanò quasi subito e lo guardò interrogativa.

“Cos'è successo?” chiese la donna, mentre Giovanni abbassava lo sguardo, le guance che prendevano colore.

“Niente... Io...” adesso il Medici si sentiva in difficoltà.

Come avrebbe potuto davvero spiegarle la catena di ragionamenti che aveva fatto?

Prendendo il coraggio a quattro mani, si decise a fare almeno una domanda, quella che inconsciamente lo tormentava fin dal primo giorno: “Non hai più incontrato altri uomini, vero, da quando siamo stati alla Casina la prima volta?”

La Tigre si accigliò, indecisa se essere offesa da quell'insinuazione o se leggervi solo una grande inquietudine.

Dopotutto, lei per prima non aveva mai fatto nulla di concreto per mettere a tacere le voci che giravano su di lei, quindi non era poi così assurdo, per Giovanni, pensarla così.

“No, da quella volta ho avuto solo te.” confermò, a voce bassa, sfuggendo lo sguardo del fiorentino, sperando di non dover mai più discolparsi a quel modo con lui.

Il Medici, credendole senza la minima esitazione, la strinse di nuovo a sé, questa volta con più calma, e poi le diede un bacio in fronte e uno sulle labbra: “Caterina...” sussurrò.

I due si allontanarono l'uno dall'altra, sentendo dei passi che si avvicinavano. Mentre una guardia scendeva le scale passando loro accanto, né l'ambasciatore né la Contessa dissero nulla.

Di nuovo relativamente soli, la Leonessa sorrise: “Dillo ancora...”

Giovanni aggrottò un po' la fronte, non capendo a fondo quella richiesta, tuttavia ripeté: “Caterina.”

“Mi piace come dici il mio nome.” gli fece sapere la donna: “Secondo te, qui dove lo potrei trovare un altro capace di dirlo con questo accento?”

Il Medici capì lo sforzo della sua donna di rincuorarlo ancora di più, perciò le prese un momento la mano e poi le disse: “Perdonami, sono stato uno sciocco.”

“Torno al cortile.” lo salutò la Sforza, dedicandogli un altro sorriso e scendendo di nuovo le scale, rimettendosi subito a fare la cernita dei soldati, dividendoli assieme a Mongardini e al maestro d'armi, tra i corpi d'artiglieria, di fanteria e di guardia cittadina.

 

Pandolfo Malatesta sedeva sul suo scranno improvvisato, circondato dai suoi provvigionati e si godeva lo spettacolo.

Aveva catturato tredici uomini che Castracane aveva mandato per prenderlo e ucciderlo. Era stato molto più veloce e furbo di loro e adesso quegli illusi penzolavano in pubblica piazza con una corda al collo.

La popolazione, radunata davanti al patibolo per ordine del Malatesta, aveva assistito attonita e impotente a quello sfoggio di strapotere e anche Violante Bentivoglio, seduta accanto al marito, osservava i tredici impiccati senza riuscire né a dire una parola né a esternare un'emozione.

Dopo il crudo spettacolo offerto ai riminesi, Pandolfo, ignorando lo sguardo terrorizzato della moglie, decise di tornare a palazzo assieme ai suoi uomini, per pianificare meglio il rapimento della figlia di Castracani.

“L'abbiamo trovato.” annunciò quella sera uno dei suoi, che era stato in giro tutto il giorno in cerca del padre della ragazza, che era misteriosamente sparito dopo l'impiccagione dei suoi sgherri,

Il Pandolfaccio, che stava attraversando la sala in lungo e in largo, le mani dietro la schiena e i capelli unti davanti al viso, si illuminò: “Andate a prenderlo. E poi sequestrate tutti i suoi beni e date il sacco al suo palazzo. Portatemelo qui. Se avrà cara la vita, mi consegnerà sua figlia, ovunque l'ha nascosta!”

Violante, seduta in un angolo, guardò il marito con gli occhi sgranati. Mentre Pandolfo era disperso per la città, lei aveva provato a scrivere a suo padre, chiedendogli a scelta o di aiutarla a sbarazzarsi del marito, approfittando di quel momento di follia, o di sostenerla e sedare le eventuali rivolte che il gesto inconsulto del Malatesta avrebbe suscitato.

Giovanni Bentivoglio aveva risposto tramite lettera stilata dal suo segretario, con cui diceva che Bologna non aveva i mezzi e l'interesse, al momento, per immischiarsi negli affari di Rimini.

Lasciata sola dalla famiglia d'origine, Violante sentiva di non poter emulare sua sorella Francesca, che aveva ucciso a sangue freddo Galeotto Manfredi. Che ne sarebbe stato di lei, se l'avesse fatto?

Così non le restava che assecondarlo, come poteva, e fare del suo meglio per evitarne la rovina.

Quando i provvigionati uscirono dalla sala per eseguire gli ordini del loro padrone, la Bentivoglio fece un respiro molto fondo e poi provò a dire: “Non basta prendere lui? Perché cercare ancora di mettere le mani su quella povera giovane?”

“Perchè la voglio!” ululò il Pandolfaccio, torreggiando su di lei e dandole un forte schiaffo: “E d'ora in poi tieni le tue considerazioni per te!”

Malgrado il forte colpo, che le aveva fatto sanguinare il labbro, Violante fece del suo meglio per non soccombere al marito e si mise in piedi, sfidandolo apertamente: “Sono tua moglie! I consigli che ti do, te li do per il tuo bene! Se ti farai ammazzare per quella ragazzina, anche io finirò in pasto ai leoni!”

Il Malatesta restò interdetto dall'improvviso guizzo di coraggio della donna, ma si riprese in fretta, afferrandola per il braccio e storcendoglielo dietro la schiena: “Sei mia moglie, eh? Eppure è da parecchio che non adempisci i tuoi doveri coniugali.” le sibilò, iniziando a sollevarle la gonna e poi riversandola prona sul divano da cui s'era appena alzata.

“Smettila! Lasciami!” provò a ribellarsi Violante, ma il Pandolfaccio aveva deciso che, nell'attesa che i suoi riuscissero a risolvere la questione della figlia di Castracani, avrebbe sfogato i suoi istinti con lei.

 

 
   
 
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