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Autore: Diana LaFenice    18/10/2017    1 recensioni
Al tempo in cui il Medioevo si scambia di posto col Rinascimento, Agostino è soltanto un bambino quando la sua vita cambia per sempre e, con la sua famiglia, si trasferisce a Sirmione per sfuggire alle malelingue sul suo aspetto: a causa di un forte shock parte dei suoi capelli sono diventati bianchi.
Il suo peregrinare finirà quando lo zio lo accoglierà presso di sè a Castel Toblino, ove troverà impiego come giardiniere. Il suo intento, infatti, è quello di ricreare il Giardino dell'Eden proprio lì, nel parco del castello. Ma non sarà facile.
L'amore per i fiori e la natura, che condividerà con molte persone, intrighi, superstizioni, maledizioni, una creatura misteriosa la cui voce angelica che risuona nelle notti della bella stagione, e pericoli di varia natura, fanno da cornice alla vita del giovane giardiniere, all'incredibile storia che vivrà e a una leggenda quasi dimenticata il cui unico ricordo è ormai la spilla su cui aleggia: quella di un giovane amore sbocciato sulle sponde di un lago minacciato dai pericoli del suo tempo e l'espiazione di un cavaliere.
Questa è la Leggenda delle Stelle d'Acqua.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 1: Agostino

R
ecitare i breviari era cosa da ricchi. Leggere e scrivere era per ricchi. Il sapere era dei ricchi. Arare e coltivare la terra era affare dei poveri. Pentirsi dei propri peccati era per i poveri. Ecco cosa gli ripeteva il suo caro padre ogni volta che si soffermava a guardare i figli e i nipoti del prelato. Oppure ogni volta che andavano a curare il giardino del Palazzo.
Per questo si costrinse a distogliere lo sguardo da quella visione e seguire il padre che stava uscendo dal mercato. E così non si accorse della pallonata che gli arrivò dritto in testa da uno degli amichetti. Protestò e si girò verso il bambino, che gli sorrise, mentre gli altri ridevano e gli fece la linguaccia. Agostino sorrise a sua volta. In fondo non si era fatto niente. E si lanciò addosso al ragazzino che lo schivò. E, tra le risa, il gioco si trasformò in chiapparello. Ma proprio allora: ‹‹Vieni Agostino. Finirai di giocare con i tuoi amici un altro giorno››.
‹‹Ma, ma papà!›› Balbettò il bambino tutto sudato e arrossato, fermandosi. Anche gli altri ragazzini mugolarono, scontenti. Il genitore lo squadrò e poi disse: ‹‹Niente ma. Ho finito tutte le compere da un po’ e si sta facendo tardi››.
‹‹Dai. Un ultimo tiro.›› Lo supplicò mettendo su un broncio infantile. Proprio ora che si stava divertendo. Di solito con la mamma funzionava. Ma il genitore non si lasciò intenerire. Quando era suo padre a scendere in città per portare le merci al mercato e comprare qualcosa, non c’era tempo per bighellonare.
‹‹Hai detto la stessa cosa tre tiri fa. Adesso basta. Saluta i tuoi amici e andiamo››.
Il bambino sbuffò ma obbedì. Si volse verso i ragazzini che erano lì. Uno di loro cingeva la palla con le braccia. Si salutarono e poi Agostino trotterellò dietro al genitore, che stava già caricando la spesa sul carretto.
L’asinella che lo trainava mosse la coda per scacciare le mosche che le ronzavano attorno.
Poi montò a cassetta e aiutò il bambino a salire prendendolo da sotto le ascelle. Poi, mentre il figlioletto sgattaiolava dietro assieme ai sacchi, prese le redini e partirono.
Il padre di Agostino, Guido da Monselice, era un umile contadino. Un tempo era un ex giardiniere. Ora passava la maggior parte del tempo nei campi ma se il giardiniere del nobile locale stava male, allora chiamavano lui. Aveva vinto quel posto grazie a un concorso indetto dal nobile sopraccitato. Era ovvio che il posto andasse a lui: in gioventù aveva servito presso abbazie e monasteri. Aveva curato serre, horti e hortus conclusus presso la Scuola Medica salernitana e il Re di Napoli, cui era giunta la sua fama. Gli hortus conclusus erano orti chiusi, circondati da mura che offrivano la riproduzione di un’immagine idilliaca. Un terreno pianeggiante di forma regolare cinto da alte mura, che racchiudeva al suo interno prati verdi, fiori, erbe e frutteti che facevano da cornice a una fontana d’acqua purissima sempre centrale. Che nei monasteri e le abbazie erano simboli di fertilità e omaggio della Madonna.
Suo padre gli aveva raccontato che cominciò a lavorare la terra in gioventù. Allora lui viveva vicino una rinomata abbazia della Lingua D’oca e i suoi famigliari avevano rapporti stretti con i monaci e l'abate. Così un giorno si era ritrovato col proprio padre a dare una mano ai monaci con gli horti e il chiostro. Quest’ultimo non dissimile da quello romano o tardo-romano a pianta rettangolare. Racchiuso in uno spettacolare colonnato a portici desunto dai parchi persiani, per questo chiamato paradiso. In questo spazio gli uomini del convento coltivavano piante per uso medicinale ed erboristico. Mentre i quattro angoli ai lati erano separati tramite divisioni curve e vi si coltivavano i fiori per l’altare, soprattutto i gigli tanto cari al padre di Agostino. Imparò pure che ogni cosa aveva il suo simbolo e il suo studio. Per esempio nei chiostri c’erano elementi simbolici ricorrenti: come l’acqua, il ginepro, i già citati gigli, ma anche le rose e gli iris. Spesso i monaci avevano dei giardini privati. Che Agostino era riuscito a vedere grazie all’immensa fama di suo padre.
Molto spesso l’intero giardino era perimetrato da basse siepi di bosso. E il giardino era diviso in quattro quadranti da due assi perpendicolari. Ma - sottolineava sempre - l’amore per quest’arte non era venuto da sé, si era sviluppato col tempo. Non era stato facile per lui lavorare quando voleva solo andare a giocare con gli amici. Fu grazie al monaco erborista che si appassionò. Costui gli insegnò, con molta pazienza, attingendo dalla ricca biblioteca del monastero ad apprezzarli e averne cura. Era abituato a insegnare ai monaci come aiuto maestro di botanica, a coltivare e curare le piante, ma non a creare un giardino. Ma poi, perfezionando metodi, conoscenze e approfondendo l’amicizia con il botanico, aveva potuto girare altre abbazie e monasteri della regione scoprendo che i giardini erano tutti uguali.
Mentre invece quelli nobili erano diversi ma avevano in comune con quelli conventuali una qual certa ricorrenza. Cioè il giardino era recinto e diviso da graticci, alberi da frutto e la presenza di un ruscello o una fontana. Il giardino cortese, inoltre, era ripartito in stanze differenti dove ci si riuniva o amoreggiare. V’erano muri e archi, graticci, tonneau, fontane a volte molto elaborate I più belli di questi giardini finivano addirittura nelle miniature o, meglio ancora, in quadri e arazzi. Sedili ricavati da un basso terrapieno ricoperti di prato e circondati da un basso muretto che faceva da schienale. I fiori erano disposti sul perimetro delle mura, dispersi nei prati o coltivati in parcelle rettangoli o quadrate allineate, spesso sopraelevate e circondate da un graticcio di legno morbido intrecciato di solito di salice. Quelli erano i veri locus amoenus, cioè, luoghi felici, ameni; ma nella loro zona era quasi mistico.
Tutte le volte che Agostino lo sentiva parlare così non poteva fare a meno di percepire la sua nostalgia per l’amata Francia.
Infatti Guido era sceso per lavorare per le corti italiane e da allora non se ne era più andato. Aveva girato l’Italia e imparato la lingua e qualche dialetto. E anche se ora parlava fluentemente l’italiano, si poteva sentire l’inflessione del suo accento francese. Aveva avuto anche lui il suo momento di gloria, ma poi era passato e lui si era ritrovato messo da parte dai nuovi giardinieri e le nuove innovazioni di questa neonata corrente denominata Umanesimo. Così in breve aveva perso la fama e si era ritrovato a coltivare la terra nella famiglia di quella che poi divenne sua moglie e la madre di suo figlio. Ogni volta che arrivava a questo punto, Agostino, che finora se ne era stato buono sulle ginocchia del padre, si metteva a saltellare e lo supplicava di raccontargli come aveva incontrato la mamma. E il padre lo accontentava con un sorriso.
Aveva trentadue anni quando era stato preso a lavorare lì dai futuri suoceri. Costoro erano dei proprietari terrieri da generazioni. Avevano un giardino privato, che avevano creato per la figlia, ma nessuno riusciva a farlo fiorire. E così chiese il permesso di occuparsene lui. I nonni non pensavano che ne fosse capace e ormai si erano rassegnati. Addirittura progettavano di distruggerlo definitivamente per ampliare la loro casa. Tempo tre mesi lui riuscì dove molti avevano fallito e la figlia di questi proprietari terrieri, incuriosita, volle imparare l’arte di prendersi cura delle piante.
‹‹Dimmi come era la mamma. Dimmi come era la mamma.›› Pigolò il piccolo tutto eccitato. Amava sentirgliela descrivere. Il padre sorrise e lo accontentò: ‹‹Oh, era bella. Allora il sole batteva solo su di lei quando sorrideva o si recava in visita da delle amiche. Soprattutto quando metteva i suoi abiti di velluto e si tirava su i capelli e li infilava nella reticella. I colori che le donavano di più erano il verde chiaro come l’erba appena nata e il rosso come il vino appena versato. E le perle, oh, le perle, quando se le metteva le risaltavano i denti››.
Poi tutto era cambiato.
Si erano innamorati, non riuscivano più a stare separati. E lei era già promesso al cugino di un signorotto locale. E i suoi genitori, quando li scoprirono non presero bene la loro tresca. Affatto. Ma nonostante tutte le minacce ricevute, la mamma non smise mai di amare Guido. Così, i genitori, esasperati e umiliati, la ripudiarono. Pensavano forse che sarebbero finiti a mendicare per la strada, ma si sbagliavano. Mentre viaggiavano vennero accolti da una famiglia che possedeva una villa e vennero presi per occuparsi di un piccolo appezzamento di terra, riconoscendo le abilità con le piante di Guido e le capacità intellettive della sua signora. Cosa molto rara per il periodo. E quando uno dei loro fattori morì la loro terra fu affidata a loro. Poco tempo dopo la coppia stava già aspettando Agostino ed era convolata a nozze col giardiniere, nonostante il secco rifiuto dei nonni.
La vita per loro non era stata facile ma erano riusciti a continuare a lavorare per loro e a tirare avanti con le loro forze. Anche se dopo di lui non avevano avuto altri figli. A volte, gli parve di capire, sembrava dispiacergli di aver trascinato sua moglie nella povertà e nella precarietà di quella vita che conducevano. Anche se al pensiero di non poter condurre la sua vita senza di lei, si sentiva morire. ‹‹Perché?›› Gli domandava il bambino, battendo le palpebre senza capire, nell’udire quelle parole aliene. Poi il padre sprofondava un istante nei suoi pensieri. E, rapidamente come ci era sprofondato, si risollevava e riprendeva il racconto. Animato da una nuova luce. Disse che non gli voleva mai dare retta perché: «Per me siete voi due la mia felicità e finché avrò voi sarò la donna più ricca del mondo».
Poi a racconto finito, suo padre gli faceva un bel sorriso, se lo caricava in spalla facendolo ridere e poi tornavano al lavoro.
La storia della mamma e del papà era la sua preferita e riusciva sempre a farlo sorridere.
La fattoria, occupante qualche ettaro, si trovava nei pressi di una foresta e spesso Agostino ci si recava per portare qualcosa sulla tavola nei periodi di magra.
Grazie a suo padre, infatti, conosceva bene ogni pianta e ogni angolo del bosco e non aveva paura di addentrarcisi da solo. Finora Agostino non aveva mai preso una zappa in mano. Prima suo padre aveva voluto educarlo ad apprezzare le piante e curare il giardino. Agostino si sentiva molto emozionato all’idea che poi avrebbe succeduto il padre nella cura delle piante e dei campi. Ormai era abbastanza grande per aiutarlo. Ma non quel giorno, pensò distrattamente mentre saliva sul carretto accanto al genitore e tornavano a casa.
   
 
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