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Autore: Helmyra    21/10/2017    2 recensioni
“Mi piace la musica,” commentava l’estraneo, nella vita e nel dolore di Elanilde, “e mi serve uno scudiero. Canterai per me di sera, quando i soldati saranno in congedo e noi due soli, in qualsiasi luogo che abbia attorno quattro mura. Ti terrò per questi motivi, e quando non sarai più utile... ti ucciderò”.
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Spin-off di "A wine of character". Nuovi personaggi e nuove situazioni, a parte la presenza di Dorisa e Sanguine.
Elanilde si prepara al suo debutto in società, attendendo l'assenso di Voranil, gentiluomo e mecenate di Cheydinhal.
La guerra è finita, ma le conseguenze del Concordato d'Oro Bianco forniscono ai Thalmor un'occasione di vendetta.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Daedric Maidens'
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Benedetta la rabbia, che rende le parole vane e le membra pronte all'azione. Benedetta in guerra e nelle calamità, pane del soldato sempre vigile nel punire i torti. Benedetta, certo... ma non in quel frangente.

Sevan si avventò sul giullare bretone, negandogli qualunque giustificazione e agendo per partito preso. La furia lo aveva reso cieco.

“Lasciala andare immediatamente!” Lo sollevò per la collottola, sostenendolo con un solo braccio. “Altrimenti, io...”

“Cosa c'è...” Sam sputò a terra. “Sei sorpreso, adesso? Di vedermi chino su di lei, per caso? Oppure... per questo?”

Il Legato si ritrasse: era letteralmente coperto di lividi. Una maledizione – o chissà quale diavoleria dell'Oblivion – stava agendo dentro di lui e il suo corpo pareva corrodersi dall'interno. Sotto pelle le vene avevano assunto una tinta violacea, cariche di un veleno peggiore di quello dei ragni del gelo, l'unico di cui conosceva l'antidoto. Era incredibile che riuscisse ancora ad affrontarlo, anche solo a parole; che avesse la forza di contrastare il suo sguardo di rimprovero senza perdere i sensi. Aborrì la sua irruenza e s'inginocchiò, facendo coricare l'amico di schiena sulle gambe.

“In che modo posso aiutare?” Haraldur legò il cavallo ad un anello di ferro cementato tra le fenditure della pietra. Raggiunse l'amico e si sfilò la bisaccia, cercando al suo interno qualcosa che somigliasse ad una fasciatura.

“Perché hai portato quest'uomo?” Tanta gentilezza incontrò un netto rifiuto. “Avrei preferito che venissi qui da solo.”

“Allora devi perdonarmi due volte, Sam.” Si giustificò, poggiando una mano sulla sua fronte per controllare se avesse la febbre. “Si chiama Haraldur ed è un guerriero. L'ho accompagnato perché sono stati i Barbagrigia ad averlo mandato qui a Markarth. Vorrebbe incontrare la sacerdotessa...”

Le labbra del bretone si curvarono. “I Barbagrigia, ah. Allora non per un consulto amoroso. ”

Lo straniero era di certo in grado di percepire la Voce di Dorisa, non il suo influsso, altrimenti lo avrebbe smascherato immediatamente.

“No.” La sua risposta fu secca, ma il tono lasciava trapelare incertezza. “Intendo discuterne solo con la Signora.”

“Be', ora la Signora sta riposando e io sono colui che ne conosce i segreti, anche quelli intimi.” Che strazio essere un mortale e tollerare tutta quella sofferenza in un sol colpo. Se si fosse rivelato per quel che era ci avrebbe pensato due volte ad esporsi in modo tanto spavaldo, giusto perché l'abito non fa il monaco.

E i monaci, si sa, sotto sotto sono dei gran porcelli, osservò in silenzio mentre digrignava i denti, perché un ghigno di sfida sarebbe stato troppo sospetto, date le condizioni in cui versava.

“Se avessi voluto farvi del male o screditarvi in qualche modo, sarei stato il primo a gettarvi in una fossa.” Spiegò Haraldur senza risentimenti. “O uno dei tanti ad accusarvi, assieme allo Jarl... in realtà detesto infangare la reputazione di chi non conosco in base a un pregiudizio.”

“Credi di avere tanto potere?” La voce di Sam suonò roca e insinuante, come quella di Sanguine. “Va bene, supponiamo di essere entrambi ad un passo dalla morte e di sgravarci dell'ultimo cruccio di un'intera esistenza... quindi, solo la verità. L'influenza del Principe mi permette, come seguace scelto, di conoscere le intenzioni di chi m'è di fronte... qual è la tua?”

Haraldur sgranò gli occhi, trovandosi tutt'a un tratto spiazzato.

“Cerco la Sacerdotessa... per ricevere la sua Voce.”

“Una richiesta non da poco.” Sam si piegò verso di lui, per entrargli con uno sguardo fin dentro l'anima. “Soprattutto se richiede un dono... o un sacrificio. In fin dei conti, in qualunque modo la si chiami, una privazione è una privazione. E sono sicuro che non vorrà separarsi dalla benedizione che ha ricevuto così alla leggera.”

“E se fosse Akatosh stesso a reclamarla... a reclamarla servendosi di me? Allo stesso modo in cui l'entità che veneri ti ha dato la saggezza che millanti?”

“A nessuno, però, interessa il modo in cui intende agire.” Sevan fece adagiare il bretone sul sacco a pelo, per poi rialzarsi e prendere tra le sue braccia Dorisa. Almeno lei sembrava dormire profondamente. “Non ho rischiato la pelle per vedervi litigare, specie se Molag Bal ci sta col fiato sul collo. Prima organizziamo un piano contro il drago, meglio è. Ve la sentite di rimandare tutto a un futuro prossimo e di ragionarci su a mente fredda? I complimenti ve li scambierete più tardi.”

“Ha ragione.” Sam voltò la testa verso la fiamma della lampada ad olio, che aveva recuperato da un'offerta votiva nelle catacombe, dove i morti riposavano in pace. “Non ne vale la pena, adesso. Rischieremmo di mettere in secondo piano quel poco che ci unisce.”

“E dire che un tipo come te non ha la fama di essere così mal disposto nei confronti del prossimo...” Haraldur frugò ancora nella bisaccia: tirò fuori una fiaschetta di idromele e la stappò, per alleviargli le ferite. Anche se di malumore, Sam non poté rifiutare l'offerta e bevve. “E io non mi ritengo tanto arrogante. Ti chiedo la cortesia d'assistermi in questa missione che, mio malgrado, devo portare avanti. Questa non è che una conseguenza di quella piaga chiamata Alduin, il Divoratore di Mondi.”

Akatosh, vecchio furfante, alla fine ti fai beffe di me per l'ennesima volta e mi riveli tu stesso la verità che andavo cercando, per mano di un uomo che non ha scelto il suo destino.

“Alduin...” Balbettò Sam, soffermandosi sulle sillabe del nome che ritmò come un canto. “Sarebbe un guaio se gli alberi da frutto, le locande e i vigneti svanissero. Avanti, sono a tua disposizione. Dimmi cosa intendi fare.”

“Innanzitutto, dovremmo cercare anche noi di che proteggerci, per superare la notte e non gelare.” Rispose per lui Sevan, rimboccando le coperte al bretone. Nel frattempo aveva già assicurato a Dorisa un giaciglio decente, utilizzando il proprio mantello per dare volume al cuscino. “Aspetterò l'alba per recuperare le provviste e portare il cavallo al pascolo. Finché siamo qui dovremo arrangiarci con quello che troveremo nei corridoi lì in fondo, qualcuno sarà pur venuto a pregare per l'anima di questi defunti, no?”

“Non fraintendermi, Sevan, ma è più probabile che qualcuno ci sia morto qui dentro.” Lo interruppe Haraldur. “Tuttavia, non ci sono alternative. Qualcuno dovrà rimanere al tempio e siccome sei una vecchia conoscenza, sarebbe opportuno che fossi tu ad assisterli. Ho combattuto contro i draugr e ti posso dire che basta un po' d'astuzia, il più delle volte.”

“Vai con lui.” Osservò Sam, muovendo lievemente la mano. “Nulla potrà danneggiarci. Un attacco simile è costato a Molag parte della sua energia e, per quanto un santuario possa corroborarlo, di sicuro dovrà pazientare per il prossimo. Senza contare che i draugr dovrebbero affrontarvi comunque, casomai fossero tanto indispettiti da volerci venire a trovare fin quassù. Godetevi il giro turistico e, se trovate qualcosa d'interessante, non esitate a farmi sapere.”

“Ma...” Sevan spalancò la bocca, incredulo.

“Dai, non temere. Sono uno che si rimette in sesto molto in fretta.”

“Vorrei dirti che questa è una delle tante idee strampalate che hai avuto... ma mi costringi a cedere.”

Lo vide discendere la scalinata verso il sotterraneo assieme a quell'uomo che, troppo in buona fede, aveva accettato nella compagnia. I nervi fremevano e i sensi, più fini di un comune mortale, gli restituirono la foga di un cuore in tensione e sul punto di lacerarsi.

Si poggiò su un braccio e rotolò di fianco, attese il giusto per far sì che i due guerrieri sparissero nei sepolcri. Fu allora che protese una mano verso quel viso, quei capelli che avrebbe accarezzato, assaporato, in una notte piacevolmente più suggestiva di quella che il fato gli aveva concesso.

“Mia cara, è l'ora di rimetterci al lavoro.” Le bisbigliò in un orecchio. Rise, nel constatare che riposava come un bimbo nella culla, mentre il veleno di Molag diventò polvere sulla punta delle sue dita: sgorgava da esse come il vino dal collo di una bottiglia, una fontana di fumo nero e denso che cadeva a terra, ridotto in cenere. Il trucco magico, che avrebbe attirato l'attenzione delle folle in piazza, riportò Sam in salute. Peccato che l'unico spettatore presente, la mummia di donna sul tavolo, preferisse piuttosto il sonno eterno.

“Che scemo!” Lo canzonò una voce che vibrò col fumo delle candele. “Mi chiedevo fin quando sarebbe durata tutta questa messinscena.”

Sam accennò una breve risata, quando vide apparire fra le tenebre non un fantasma, ma la sagoma tangibile e reale di una giovane recluta della Legione, che sembrava portare in braccio una donna dormiente. “Anche a te donano i panni che lo Zio ti ha scelto, perciò ti chiedo... fin quando vuoi giocare a fare il mortale, Sulak?”

“Bastian!” Esclamò lui, rivelandosi alla luce della lampada e sdraiando l'altmer sul sacco a pelo da cui era sgattaiolato il giullare.

Bastian contrario, oserei dire!” Lo rimbeccò lui, dandogli uno scappellotto. “Disubbidisci sempre, è un miracolo che la serva del Thalmor non abbia beccato la strada giusta per il campo imperiale. Poche miglia ad est e ce l'avrebbe fatta, per fortuna ti ho affidato a una scorta decente. Dobbiamo aspettare che pasticcino si svegli, farle trovare di che abbigliarsi per l'occasione e, in particolar modo... decorare questo mortorio fuori moda.”

“Ah, e chi farà tutto ciò?”

“Zuccone! Chi, se no?” Sghignazzò Sam, grattandosi la pancia. “Avevamo iniziato bene con gli ornamenti, vedi di recuperare il tempo perduto... quel puzzone di Molag ama impicciarsi dei nostri affari ed ecco il risultato!”

“Perché devo fare sempre io questi lavori ignobili?” Riprese le sue sembianze, il giovane dremora cominciò a scegliere i fiori dallo stelo più lungo, per intrecciare le corone floreali. “Mi hanno insegnato a combattere, a muovermi tra le ombre senza farmi scoprire... se lo sapessero i miei compagni!”

“Rimarrà un segreto.” Odiava quando gli arruffava i capelli, per consolarlo, sì... ma lo faceva sentire dannatamente idiota. “Hai preso il vino, hm?”

“È nello zaino senza fondo... cercare qualcosa lì dentro è un incubo, ma ho contrassegnato le bottiglie con un nastro vistoso. Cosa intendete farci, vecchio?”

“Serve per mettere in atto il rituale... anche se il tizio non ci piace, dobbiamo molto a questa creatura. Almeno ci ha diretti sulla strada giusta. Nel registro del Thalmor figurano due nomi, tali Esbern e Delphine. Si dice che siano affiliati ad un'organizzazione ormai allo sbando, però... forse il santerello nord potrebbe saperne di più, in merito...”

“O magari li conosce già...” Alla supposizione di Sulak, Sam rivelò una punta di preoccupazione. Era stato predisposto tutto in modo che i loro cammini s'incrociassero e il principe sembrava essere in difetto, anche in fatto di preveggenza. Non sarebbe venuto meno al suo proposito di garantirsi un corridoio verso l'Aetherius, eppure i presupposti – già presenti secoli prima – si stavano sgretolando come torri di sabbia al sole.

Si diresse al centro della stanza e descrisse un arco col braccio destro: vennero meno i perni che assicuravano al pavimento uno dei tavoli marmorei posti accanto all'ingresso. Con fare deciso continuò a mantenere il contatto oculare tra lui e il pesante oggetto, che prese a fluttuare in mezzo al pulviscolo dell'anticamera. Lo trasse a sé con entrambe le mani: il tavolo sembrò sostare a mezz'aria per un attimo, poi aderì di nuovo alla pietra, scivolando lievemente e nascondendo la mummia sul retro.

“Cerchiamo di trasformarlo in un altare.” Canticchiò sottovoce. “Dobbiamo fare bella figura con il prossimo ospite e ci spetta l'ingrato compito di rendergli l'esperienza indimenticabile.”

“Come?” Domandò Sulak, agitando l'indice sinistro in aria dopo essersi punto con la spina di una rosa.

“...Nel modo che s'aspetta, donandogli tanto piacere alla vista!” Gioì Sam, in un gesto plateale. Il vecchio amava le idee balzane, certo la cripta non era uno splendore, ma decidere di adibirla a tempio provvisorio... era come rendere Coldharbour un'oasi paradisiaca.

“Dai, non esagerare...” Un'incursione nei suoi pensieri che gli guadagnò un altro colpetto alla testa. “sarà magnifico, te lo assicuro!”

“Ci scommetterei un dito, nonnetto.” Piagnucolò, succhiandosi il pollice dopo l'ennesima puntura.

 

Nei sotterranei il vapore gelido si dipanava lento, era schiuma sulle onde fredde dell'oceano. Il lezzo di putrefazione, dopo centinaia di anni, si era attenuato in un'esalazione stagnante che s'insinuava tra le narici e non andava più via. Sevan, abituato alle sferzate di Winterhold ma non alla costrizione di una catacomba, tossiva mentre avanzava con la spada puntata in basso, quasi a tagliare un varco tra la nebbia.

Haraldur lo precedeva di una spanna, con lo scudo chiodato fisso al cinturone e la lama di fronte al viso, per parare un probabile assalto. Scrutava di continuo le pareti lungo il canale, le nicchie e i suoi occupanti, cadaveri che senza preavviso avrebbero potuto abbandonare la propria alcova e avventarsi su di loro. Solo lo scalpiccio dei loro stivali nelle pozzanghere interrompeva una quiete abissale, desolante, che gridava sconforto solo nell'animo.

Ogni tanto sensazioni piacevoli, il tocco leggero del muschio tra i lastroni e sotto le suole. Sevan si appigliava a quelle, immaginava la volta sconfinata e gli astri brillare ad indicargli la strada. Lo tenne fermo nell'incedere la convinzione di aver visto di peggio, non in una catacomba, bensì nella cantina di una casa abbandonata, in un passato mai sopito.

Il passaggio era sgombro o era solo un'impressione. Quegli esseri macilenti prediligevano le zone oscure e fredde dei sepolcri e Haraldur lo sapeva bene. Strinse un braccio all'amico e gli intimò di procedere con cautela: uno scricchiolio aveva risvegliato in lui il sospetto e presto si ritrovarono braccati da una serie di mezzelune – ricurve e affilate – che oscillavano su per la volta.

“Lascia fare a me.” Si offrì il nord, indicandogli l'estremità opposta. “Mi basta raggiungere l'altra sponda, disinnescare il meccanismo che le fa ruotare e poi avremo campo libero.”

“Non è meglio se vado io?” Propose Sevan. “Ho un'armatura più resistente e riuscirei a passare sotto le scuri strisciando a terra.”

“Così corri il rischio che ti trancino la schiena! Queste sono trappole escogitate da chi ha imparato a usare la Voce, per costringere chi ha il dono a indietreggiare. Ci vogliono pazienza e nervi saldi... non seguirmi. Passa quando le lame si ritraggono nella roccia.”

Sevan acconsentì di malavoglia. Confidò nei consigli del guerriero perché, molto probabilmente, aveva già affrontato in altre imprese ostacoli simili. In effetti, la guerra gli aveva dato numerose occasioni per mettersi alla prova, ma sfidare i draugr era per lui cosa nuova. Per un dunmer gli antenati erano dei protettori, degli alleati... non esseri violenti pronti a mettere le mani addosso.

I polsi gli tremavano, la punta della spada tintinnava a terra, nervosa. Vedere l'amico affrontare quei triboli, uno ad uno, era una visione estenuante. Haraldur mosse un passo, poi un altro. Gettava gli occhi a terra per calcolare la distanza tra i piedi e i graffi sul lastricato, poi s'imprimeva a mente il vorticare di quei ferri.

Ran-tra-tram. Odiava già quel suono, lo assordava e gli ricordava come colpisse la morte in battaglia. Senza preavviso, ciecamente.

Il filo lucido dell'ultima scure non gli sfiorò la punta del naso per un dito o poco più. Haraldur sudava e lui stava impazzendo, nell'impossibilità di dargli una mano. La traversata era durata qualche minuto ma sembrava che fossero passate ore... e quanto meno se lo aspettava, il ronzio cessò.

“Non credere che il resto sia meglio.” Gli sussurrò il nord, mentre lui tirava fiato. “Questo significa solo altri pericoli, oltre queste barriere. Perlustriamo la prossima camera, magari qualcuno è stato qui prima di noi e ce l'ha fatta.”

Il Legato ne dubitava, poiché polvere ed ossa raschiate erano deposte laddove le lame avevano colpito; eppure cercò di convincersi che fosse accaduto. La stanza successiva era rischiarata da una fioca luminescenza, insolita in un luogo rimasto inesplorato tanto a lungo. Le fiamme sulle candele guizzavano, librandosi a poca distanza dalle nicchie, e il loro brillio non aveva nulla di rassicurante. Era una magia ancestrale a tenerle in vita, attive, quanto le lame troppo lustre che avevano appena evitato. Sevan si soffermò su ogni dettaglio, alla ricerca di qualcosa che si potesse rivelare inaspettatamente utile. Haraldur, invece, procedé spedito verso un cumulo di panni di lana ammucchiati in un angolo, assieme a uno zaino in cui trovarono dei grimaldelli e delle torce per illuminare il percorso.

“Pace all'anima di tutti gli aspiranti scassinatori.” Commentò il nord, per nulla meravigliato dalla scoperta. “Non mi sorprenderei a trovare i resti di questi avventati banditi più avanti.”

“Non credo che troveremo altri segni di precedenti visite.” Avvicinò una fiaccola spenta a un braciere, lentamente prese fuoco. “Abbiamo quello che ci serve, direi di fare ritorno al tempio.”

Tra la stoffa, Haraldur rinvenne un arco. Il proprietario doveva esser stato sorpreso nel sonno, oppure aveva mancato di opporre resistenza al pericolo giunto troppo in fretta. Strinse il sacco di lana in un fagotto, ne porse uno al legionario e, mentre se lo caricava indosso, udì un gorgoglio fuori posto; poi un sibilo sordo farsi sempre più pressante.

Aveva schivato il dardo per poche spanne e la creatura muggì di sdegno. Tornò alla carica, recuperando un'altra freccia e incoccando in rapida successione: fu allora che venne allo scoperto, rivelandosi nel corridoio sottostante. La distanza non rendeva al morto la mira agevole, per cui mancò ancora il bersaglio. Sevan, colto da un'ispirazione estemporanea, imbracciò l'arma di fortuna e prese a tastare il pavimento, con l'intenzione di raccogliere almeno una delle frecce che gli erano state scagliate contro.

“Lo vedi?” Intanto, Haraldur era scivolato dietro un pilastro e lo attendeva furente, con la spada pronta a colpire.

Non avrebbe concesso al draugr il vantaggio del corpo a corpo. Gli lanciò contro la torcia e lo costrinse ad indietreggiare, recuperando in tal modo attimi preziosi per sottrarre alle tenebre almeno una freccia. Ironia della sorte, ne trovò una proprio accanto al braciere, che sembrava agitarsi fiero e incandescente, come la sua rabbia.

La fiaccola aveva fatto il resto: gli bastò prender la mira e rilasciare la corda.

“Ora!” Gridò Sevan, incitando il Sangue di Drago a gettarsi su di lui. La freccia aveva bucato la casacca logora del draugr, conficcandosi nel suo petto imputridito. Scalpicciava per evitare che il bruciore incandescente avesse la meglio e intanto barcollava, permettendo una breccia di Haraldur dall'alto.

Un affondo obliquo lo sventrò da parte a parte, dalla spalla destra fino al bacino, a sinistra. L'imprecazione furiosa – lanciata prima che crollasse a terra – attirò gli altri custodi della tomba. Sevan guadagnò terreno, con l'arco teso e un ghigno disegnato sul volto. Aveva recuperato la faretra dal draugr caduto e stavolta puntava dritto verso un otre di fuoco vivo, che solo un laccio di cuoio tratteneva al soffitto.

“È il momento di fare un bagno, ragazzi!” Berciò, mirando alla corda e lasciando andare la freccia. Il contenuto si rovesciò sul basolato, per la sfortuna dei cadaveri viventi che stavano marciando contro di loro.

Il sotterraneo vibrò in una subitanea e letale combustione.

“Hai fantasia, devo ammetterlo.” Fischiò Haraldur, attendendo che le braci rivelassero i resti carbonizzati degli assalitori. Sevan fece spallucce e sputò a terra, disgustato.

“Torniamocene al tempio. Se vogliono davvero vederci morti, più morti di quanto lo siano già, li attenderemo a braccia aperte nel vestibolo.”

“Aspetta...” Sussurrò il nord. “Io vado avanti.”

“Questa è bella.” La risata del dunmer non celò incredulità e nervosismo. “Siamo seri, cos'altro c'è là in fondo? Altre trappole, bacini che grondano acqua? Eh, no... li ho fatti fuori tutti insieme proprio per levarmeli di mezzo, ma... dove corri?”

Saettò veloce tra le urne, le giare e le ragnatele, incurante delle ombre che imperversavano man mano che si avvicinava verso il centro della caverna. Al Legato non rimase altro che seguirlo, schivando i cocci e le vecchie cianfrusaglie capovolte dagli scaffali. Trattenne un'imprecazione solo perché gli aveva salvato la vita, all'imbrunire. Non pensava, però, che avrebbe ricambiato il favore così presto.

“Haraldur!” I graffiti erano spettacolari, a loro modo. Sembravano incisi con uno scalpello e brillavano, in tutta la loro arcana maestria. Sevan non aveva mai visto niente del genere: le pareti semicircolari del complesso erano infuse di un potere che proveniva dalle viscere della terra. La roccia era antica, gli riportava alla mente i dolmen presso cui aveva sostato col reggimento, durante la tratta per Solitude. Tuttavia, gli incutevano un timore reverenziale, la loro forza era palpabile: un sogno lucido gli stimolò le sinapsi, facendo convergere immagini mai vissute nel suo pensiero.

Giungevano a frotte, decine e decine di seguaci; s'inchinavano di fronte un uomo che pareva giunto da un'altra dimensione. Indossava una maschera e, al suo tocco, incitava i fedeli a cantarne il nome. Inebetiti, quei volti scavati – senza dignità – s'inchinavano baciando la terra su cui metteva piede. Le vesti erano sgargianti, non vive nei colori, ma alla luce del sole emanavano uno splendore pari alle scaglie di un pesce. Cangiante, iridescente: le pelle abbagliava i loro occhi spenti e sobillava in loro fervidi tormenti.

Lo veneravano – lo acclamavano – come un Dio caduto dai cieli.

Sevan era un amante di storia, ma quella conoscenza non era stata acquisita di suo pugno. Piuttosto, gli veniva inculcata da un'entità che stava giocando con i suoi ricordi, modificandoli a piacimento per rinnovare un patto di schiavitù. Lo attirava verso l'ara al centro della camera... e quanto quei seguaci, ritenne blasfemo che fosse lì nelle profondità del suolo e non alla portata di tutti.

Non si rese conto di aver mosso dei passi verso l'altare, di aver quasi innescato una trappola che avrebbe siglato il possesso della propria anima nelle grinfie dello spettro.

“Stai indietro!” Il braccio di Haraldur lo bloccò, nel momento in cui la cosa venne fuori dalla tomba, emettendo strida che riecheggiarono nelle sue orecchie come il coro di un esercito di aquile.

“Scappa!” Gli intimò il Sangue di Drago, parando gli artigli del sacerdote draconico con lo scudo chiodato. “Spetta a me duellare contro di lui, per contenderci l'anima e capire chi dei due è più forte. Fus Ro Dah!”

Lo spettro balzò indietro, fluttuando come una tenda al vento, ma si riebbe presto. Gli lacerò le orecchie con un urlo, deciso ad avere la meglio.

E fu la spada di Sevan che incontrò. Digrignava i denti, allibito e al contempo motivato all'affronto.

“Permettimi di farti compagnia, amico... mi hai già salvato la vita una volta e non mi piace stare con le mani in mano, ti ricordi?”

“Ho presente.” Ribatté Haraldur, sguainando la sua lama d'acciaio e parando un incantesimo con lo scudo. “E così, comincia una nuova battaglia... in guardia, allora!”

 

La traccia aerea dell'incantesimo lo condusse prima lungo il declivio in fondo al fiume, presso l'ingresso di una grotta, poi di nuovo sulla strada a est, dritto verso le montagne. Ondolemar tastò la sabbia con le dita, era già secca e le orme impresse sul terreno davano adito ad un sotterfugio, alla marcia frenetica di un intero corteo militare.

Maledetti cani! Ringhiò, non diversamente dalla bestia che aveva preso a paragone. Girovagò in lungo e in largo, si rassegnò dunque a seguire il sottile filo etereo così come gli appariva innanzi. Risalì il declivio, giunse alla fattoria e scavalcò le rocce fino a raggiungere il pascolo più in alto, dove s'innalzava una misteriosa costruzione circolare che i suoi colleghi maghi avevano studiato in altri luoghi della regione.

A-ha! Impossibile che Elanilde fosse stata tanto scaltra da procurarsi di che sopravvivere, data la fuga tanto spiazzante. Si soffermò ad osservare il paesaggio e notò, tra la vegetazione, un mucchio di foglie a ridosso di un alto e folto cespuglio di ginepro. Ripulì la sagoma rettangolare dal telone e dai rami, biecamente posti per celare un carro e alcune provviste a malapena sufficienti per un giorno o due.

Andò oltre con l'immaginazione, sperando che a nessuno avesse rivelato l'identità del proprio sesso. Un impeto di gelosia lo portò ad artigliare il telo e strapparlo, laddove era così fragile da poter esser ridotto a brandelli. Cos'era successo sul quel carro? Lei era sua, soltanto sua...

Non era comunque quello il momento per abbandonarsi all'ira e alla rivalsa. Rintuzzò il desiderio di legarla al letto e punirla in un canto e risalì la scalinata verso le arcate dell'antico tempio sovrastante, una rovina che per maestosità e dimensioni sfidava ogni legge dell'architettura.

E così giochiamo ai piccoli archeologi, non è vero, mia cara? Insinuò, in un presunto dialogo con l'oggetto delle sue più recondite pulsioni. Notò segni di smottamento e grossi macigni scardinati dalla terra, forse a causa di qualche improvvisa frana o calamità naturale. Era sì caduta la pioggia di recente, ma divellere rocce tanto pesanti? Ondolemar non lo credé possibile. Continuò ad indagare, cauto, con l'indice puntato in avanti pronto a sferrare un incantesimo elettrico.

Giunse in cima, dove trovò come unica compagnia delle poiane che circuivano la cupola. Il luogo pareva disabitato da tempo, e nonostante ciò la scintilla eterea culminava proprio di fronte al gigantesco portale... l'ultimo ostacolo che si frapponeva tra lui e le sottili dita di Elanilde.

Senza troppi complimenti spalancò la porta con la pianta dello stivale, pressando con forza sul bronzo lavorato. Lo scricchiolio lento dei cardini lo introdusse in un'anticamera semibuia, umida, da cui la luce filtrava solo attraverso anguste fessure attorno alla base della copertura. L'intero scorcio sarebbe stato perfetto per una storia del terrore, se non fosse per un cavallo baio che scalciava, nervoso, di fronte una catasta di erba secca.

“Tutto torna, allora.” Disse a se stesso, andando oltre la prima fila di archi.

Fu allora che la vide... distesa supina su di un tavolo di pietra, ricoperto da un drappo rosso e petali di rosa. Sfioravano la pelle delicata dell'elfa, le cui forme seminude erano graziate da una toga d'organza. Rivelava ciò che, per anni, era rimasto celato sotto una fasciatura. Il respiro gli si bloccò in gola.

“Elanilde, cosa ti hanno fatto?” Le posò una mano sul cuore, sperando che fosse viva... lo era. Respirava beata, dava segno di apprezzare non solo il suo tocco, ma anche le dolcezze regalate da un sonno profondo e incantevole. Le dita di Ondolemar, involontariamente, scivolarono sulla punta del seno, ne descrissero l'areola appena visibile, fino a scendere verso la curva dell'addome. Morbida, invitante.

“Ah.” Era il profumo dei fiori, la leggiadria delle corolle attorno ai capelli castani, a decorarne il capo e anche l'altare? La divisa aderiva al suo torace umido, si strappò il cappuccio e rivelò la fronte, madida di sudore. Cos'era quell'incantesimo, cosa stava succedendo?

“Benvenuto nel mio piccolo santuario improvvisato, Inquisitore.” Lo salutò una voce femminile. Era la Sacerdotessa, abbigliata di una veste tagliata al busto, senza maniche. Aveva il colore dell'uva matura.

“Tu!” Le puntò il dito contro, pronto ad aggredirla.

“Ma come?” Rise lei, sminuendo la minaccia. “L'avevo detto che sareste tornato. Ed io, come promesso, vi sto accogliendo a braccia aperte”.
 


Con leggero ritardo ritorno con un capitolo che risolve almeno in parte i dubbi. A quanto pare, non è solo Ondolemar che cerca una voce, ma anche Haraldur, giunto da Hrothgar Alto su richiesta dei Barbagrigia. Bastian non è altro che Sulak: Sanguine stesso gli ha chiesto di assumere le sembianze di un legionario per catturare Elanilde ed attirare Ondolemar nelle rovine... il resto verrà raccontato nel prossimo capitolo!

Rispondo ad alcune probabili domande: perché, nonostante l'incantesimo di Molag, Sanguine è a suo agio anche nei panni di Sam? In lui coesistono sia la natura mortale che quella daedrica. Anche se l'incantesimo intacca la parte corporea, in realtà è perfettamente in grado di assorbirlo e neutralizzarlo, a tempo debito. Cosa che Dorisa non sarebbe stata capace di fare.

Nel frattempo, Sulak ha vegliato su Elanilde in una delle dimensioni di Sanguine, facendo in modo che l'incantesimo soporifero non si spezzasse. Dorisa è fuori gioco per buona parte di questo capitolo (anzi, compare solo alla fine), ma nel prossimo verrà raccontato il suo risveglio, andando un po' indietro nel tempo... e il resto.

Credo che mi serviranno almeno altri tre capitoli, non lunghi come questi, per terminare la storia. Scrivere e gestire le trame sta diventando sempre più difficile, perché ci sono delle parti con cui mi sento a mio agio, altre che devo costruire attentamente.

Vi ringrazio, come sempre, per la pazienza, per l'attenzione, i consigli e le recensioni. A presto!

  
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