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Autore: Diana LaFenice    23/10/2017    1 recensioni
Al tempo in cui il Medioevo si scambia di posto col Rinascimento, Agostino è soltanto un bambino quando la sua vita cambia per sempre e, con la sua famiglia, si trasferisce a Sirmione per sfuggire alle malelingue sul suo aspetto: a causa di un forte shock parte dei suoi capelli sono diventati bianchi.
Il suo peregrinare finirà quando lo zio lo accoglierà presso di sè a Castel Toblino, ove troverà impiego come giardiniere. Il suo intento, infatti, è quello di ricreare il Giardino dell'Eden proprio lì, nel parco del castello. Ma non sarà facile.
L'amore per i fiori e la natura, che condividerà con molte persone, intrighi, superstizioni, maledizioni, una creatura misteriosa la cui voce angelica che risuona nelle notti della bella stagione, e pericoli di varia natura, fanno da cornice alla vita del giovane giardiniere, all'incredibile storia che vivrà e a una leggenda quasi dimenticata il cui unico ricordo è ormai la spilla su cui aleggia: quella di un giovane amore sbocciato sulle sponde di un lago minacciato dai pericoli del suo tempo e l'espiazione di un cavaliere.
Questa è la Leggenda delle Stelle d'Acqua.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 2: La bambina nella rete


Q
uella mattina si era alzato presto, svegliato dal profumo del minestrone che la madre aveva cominciato a preparare subito.
Il bambino si alzò dal letto, si sciacquò rapidamente il visetto con l’acqua della bacinella sul comodino e raggiunse la madre in cucina che lo salutò amorevolmente. Poi gli servì la colazione e, quando ebbe finito di mangiare, lo mandò a raccogliere le castagne. Raccomandandosi di fare attenzione e dandogli un sacchettino con la frittata e la schiacciatina che aveva preparato per lui a mo’di pranzo, una borraccia con l'acqua fresca e il coltello per tagliare le mele e sbucciare i ricci.
Il bambino le baciò la guancia e promise che sarebbe tornato presto. Poi, prese la bisaccia e corse via a perdifiato. Animato dalla felicità e dalla spensieratezza tipiche della sua età.
L’autunno era la sua stagione preferita, per questo era così felice. Quante volte aveva giocato con le foglie coi suoi amici e i suoi genitori quando era più piccolo? Quante volte si era rotolato dalle dolci collinette per finire dentro un nido di foglie?
Così tante da perderne il conto. E ormai, a nove anni suonati, era abbastanza grande per cavarsela da solo.
In breve raggiunse il castagneto e cominciò la sua raccolta. I ricci facevano già da tappeto al sottobosco con le foglie e se non stava attento rischiava che qualcuno gli cadesse in testa. Cosa che era già accaduta quattro anni prima. Fortuna che il berretto aveva impedito che si facesse male.
Ma prima di cominciare si accomodò ai piedi di un albero ove si riposò e riprese fiato. Mangiò il suo pranzo e bevve fin quasi a svuotare la borraccia: dopotutto era mezzogiorno e ci aveva messo tre ore per giungere lì. Poi si mise all’opera. La raccolta delle castagne lo impegnò per tutto il pomeriggio. Si fermò solo per fare pipì.
Ormai le giornate erano rinfrescate e il sole calava prima. Perciò non aveva molto tempo, doveva essere abbastanza rapido da rincasare prima del tramonto. Non gli piacevano i boschi di notte. Erano il luogo ideale per tutti i mostri di cui aveva sentito parlare. Però a mamma e papà non sarebbe dispiaciuto affatto se avesse fatto un salto anche al noccioleto. Dopotutto non era troppo lontano da lì, giusto a mezz’ora di cammino. Perciò si avviò in quella direzione, tanto nel sacco c’era posto anche per delle manciate di nocciole. Forse avrebbe tardato un po’, ma non importava, era una così bella giornata che valeva la pena di buscarsi una ramanzina.
Arrivò a destinazione e si mise all’opera.
Quando la bisaccia divenne talmente pesante da sbilanciarlo, capì che era giunto il momento di tornare a casa. E doveva sbrigarsi. I passerotti e gli storni riempivano il bosco col loro chiacchiericcio e il cielo si era già tinto degli infuocati colori del tramonto, che illuminavano le poche fronde rimaste. Ma non se ne preoccupò troppo: poteva tranquillamente imboccare una scorciatoia.
A un tratto, mentre costeggiava la zona vicino al vecchio fosso sentì un pianto disperato portato dal vento. Il ragazzino sulle prime credette di avere di essersi sbagliato. Cosa ci faceva una bambina da sola nel bosco a quell’ora? A volte poteva succedere di scambiare un rumore per un altro, quando si era stanchi. Però continuava a sentirlo, e si convinse che c’era davvero qualcuno che piangeva. Poi la sentì implorare: «Aiutatemi» e la supplica si trasformò in un grido di paura che riecheggiò in tutta la valle. A quel punto non resistette più e uscì dal sentiero per correre in suo aiuto. Neanche si era accorto di essersi fermato.
Di quell’incontro avrebbe serbato un ricordo vivido e confuso al tempo stesso. Per esempio, avrebbe saputo dire come era la luce in quel momento, avrebbe saputo riferire quelle grida e quelle suppliche di «Aiuto, vi prego, non lasciatemi qui, ho paura, aiuto» ma non avrebbe saputo riferire se nella corsa avesse inciampato o si fosse ferito. O se fosse ruzzolato giù per il dolce pendio. Forse aveva risposto alla sua richiesta con un grido di «Dove sei? Non ti vedo» e forse anche «Resisti» perché lei prese a gridare «Sono qui, aiutami, sono qui» ma non si ricordava cosa gli aveva gridato.
A volte la voce gli pareva più fievole altre più intensa.
Ma quando sbucò dai cespugli la vide. Era imprigionata in una rete di spesse funi sollevata a qualche metro da terra. La rete era appesa a uno spesso ramo di pioppo a picco sul profondo canale sotto di lei.
A causa dell’altezza non riusciva a vederla bene ma a giudicare dalle mosche che le ronzavano intorno e dalle funi arrossate dal sangue secco, doveva essere lì da qualche giorno. Aveva la chioma chiara e aggrovigliata e la pelle di una sfumatura cianotica. Ma fu tutto ciò che riuscì a vedere. A parte gli arti feriti e arrossati dalle corde e forse da lame che lottavano per liberarsi. Ma non erano solo gli arti. Qualcuno l’aveva ferita come fosse un animale. E Dio solo sapeva cos’altro aveva subito quella poverina. Si stupiva che fosse ancora viva.
Forse era una strega.
Sapeva quello che si raccontava sulle streghe. E forse doveva lasciarla lì perché era giusto che meritassero la purificazione. Ma quella era troppo piccola per essere una di loro. E poi non recava marchi di alcun genere a quello che poteva vedere. Avrà avuto la sua età, forse un anno meno.
Il ramo oscillava a ogni strattone che lei dava.
«Per favore, aiutami» Riuscì a dire con voce roca prima che contraesse di nuovo la faccia in una smorfia di pianto.
«Non piangere. Non piangere. Ora ti libero. Come ci sei finita lì?» Domandò togliendosi la bisaccia lasciandola cadere a terra. Lei cercò di tirare su col naso e cercò di stropicciarsi i lacrimosi occhi. La faccia gonfia di pianto e sporca di muco rappreso e non. «Non lo so. Io non ho fatto niente. Non ho fatto niente di male. Stavo solo giocando e poi loro mi hanno presa e…Ti prego, tirami fuori.» Lo supplicò riprendendo a piangere. Ormai dalla sua gola uscivano solo versi isterici e pianto. Come se la paura avesse fagocitato e annientato ogni facoltà cognitiva. Rendendola non dissimile da una bestia in trappola e cancellando così la presenza di Agostino. Il quale dal canto suo prese il coltello e cominciò ad arrampicarsi sull’albero, rischiando più volte di perdere l’equilibrio e cadere a causa degli strilli più acuti che lei lanciava. «Stanno arrivando. Tornano. Verranno. Li sento. Mi faranno di nuovo del male. Aiutatemi, qualcuno mi aiuti! Lasciatemi stare!» Gridò isterica con voce stridula e assordante.
«Sta calma! Sta calma! Ti aiuto io, sta calma!» Esclamò il bambino, cercando di sovrastare quelle grida, prossimo a raggiungere il punto dove cominciava il ramo. E dire che giocava ad arrampicarsi spesso.
Si aggrappò al tronco, si concesse tre respiri prima di spostarsi cautamente verso l’inizio del ramo. E a causa dei movimenti della bambina fu costretto a strisciare, sempre con non poche difficoltà, fino alla corda. Tenendosi saldamente al ramo con le gambe cominciò a segare la corda, alternando rassicurazioni mezzo isteriche ad ammonimenti. E se lei si era accorta delle sue manovre, allora non gli facilitava la cosa, perché cominciò a dimenarsi e gridare sempre più. Era così spaventato anche lui che cominciò a credere di poter udire i passi e le grida degli uomini che l’avevano imprigionata lì. E la paura cominciò a farsi strada dentro di lui crescendo assieme alle grida dell’isterica. «Fai presto, arrivano, fai presto. Fai presto. Fai presto. Fai presto. Fai presto. Fai presto. Fai pre» Proprio allora la corda cedette e quest’ultima frase si trasformò in un urlo di sorpresa e terrore mentre la rete cadeva in acqua con un tonfo che sollevò schizzi che bagnarono ciò che restò della rete. Nella fretta del momento non aveva considerato che potesse cadere in acqua. Abbassò gli occhi e vide gli ultimi schizzi ricadere su se stessi e cominciò a gridare a propria volta mentre bolle d’aria scura s’infrangevano sulla superficie mescolandosi alle increspature e le gocce. E presto anche l’ultima bolla salì in superficie. Poi non ve ne furono altre. Tutto ciò che restava della bambina altro non erano quelle corde che si intravedevano nell’acqua scura. Ma di lei nessuna traccia.
La paura si impossessò di lui, mutando rapidamente in terrore. Che cosa aveva fatto? Cominciò a indietreggiare rapidamente per scendere e precipitarsi in suo soccorso. Anche se non sapeva nuotare.
Ma non aveva che raggiunto la base del ramo che qualcosa salì dal canale e riemerse dall’acqua. Era la bambina. Ma era diversa. I capelli scuri e sciolti, la pelle ancora cianotica ma già meno livida, anche se gli occhi e la faccia erano ancora gonfi. Le iridi erano di una sfumatura diversa che faceva pendant con il diadema a forma di mezzaluna con una pietra preziosa. E le creste frastagliate che circondavano lateralmente la sua testa, partendo lì dove dovevano esserci le orecchie. Lei prese un bel respiro profondo prima di guardarlo e cominciare a ringraziarlo, grata. Agostino - ancora impietrito contro l’albero, le ginocchia al petto - si limitò a fissarla, forse sorpreso o forse spaventato per quel miracolo? Era quella la parola giusta? O forse sortilegio? Che avesse davvero liberato una serva del demonio?
«Grazie. Grazie di cuore.» Continuò lei, raggiante di felicità, ignorando l’espressione allibita del suo salvatore. Il quale dal canto suo continuava a fissarla incredulo e pallido come un cencio. «Come ti chiami?» Gli chiese con un sorriso smagliante. E il bambino riuscì a farfugliare il proprio nome con un balbettio. Lei gli sorrise e continuò a ringraziarlo ancora per un po’. Se avesse potuto l’avrebbe abbracciato. Poi si tuffò nell’acqua.
«Aspetta!» Cercò di urlare Agostino tendendo una mano come a fermarla. Sgranò gli occhi e trasalì, impallidendo per il rinnovato terrore schiacciandosi completamente contro il tronco. L’ultima cosa che vide di lei fu la coda degli stessi colori dell’acqua torbida, striata orizzontalmente come il manto di una tigre culminante in una frastagliata pinna a ventaglio che scomparve nei flutti del canale. Solo allora Agostino urlò con tutto il fiato che aveva in gola liberando tutta la paura che provava. E mentre cercava di scendere mise un piede in fallo e cascò a terra sul fitto sottobosco di foglie che ammortizzò un poco la caduta, ma non lo salvò dalla perdita degli incisivi superiori. Il bimbo stravolto dalla paura, il viso rigato di lacrime che gli offuscavano la vista, il corpo dolorante e la bocca insanguinata, fu un miracolo se riuscì a ritrovare la strada di casa.
I genitori se lo videro piombare in casa come se avesse avuto Satana in persona e tutti i mostri della notte alle calcagna. Agostino si tuffò tra le braccia della madre che era seduta al tavolo e si era girata verso di lui. Il padre invece era balzato in piedi preoccupato.
I due genitori cercarono di calmarlo e di alleviare il dolore ai denti. Fortunatamente erano denti da latte, quindi non c’era pericolo per la sua dentatura, anche se per sicurezza il padre decise di farglieli estrarre e andò a chiamare il dottore che dovette estrargli i denti ed esigette un prezzo stratosferico per essere stato convocato proprio durante l’ora di cena. E lui aveva sei figli a carico da mantenere. Una volta che il medico finì di operarlo, fece preparare alla madre del piccolo una pozione per calmarlo e poi lo mandò a letto dopo avergliela fatta bere.
Agostino ci mise un po’per addormentarsi. Non fu facile perché il dolore non se ne andò via così facilmente e perché la paura sembrava acuirlo ancor di più.
La madre lo tenne stretto a sé cullandolo tutto il tempo, cercando di calmarlo con una cantilena. Mentre il padre confabulò un po'col dottore, scusandosi ancora per quell'ora tarda. Il medico annuì burbero e poi li salutò raccomandandosi di tenerlo d'occhio e di non fargli fare niente per il prossimo mese. Poi sarebbe tornato a visitarlo egli stesso tre giorni dopo.
Ci vollero cinque ore come minimo. Ma non gli chiese cosa era accaduto nella foresta. Se non quando il bambino si fu un po’calmato e il dottore se ne fu andato da un po’. ‹‹Piccolo mio, adesso lo puoi dire alla mamma. Cosa è successo nel bosco?››
‹‹Mi dispiace››.
‹‹Per cosa, tesoro?›› Domandò lei fermandosi un attimo per guardarlo, confusa.
‹‹Ho perso le castagne e le nocciole. Ero andate a prenderle e ho fatto tardi. Mi dispiace e poi...Poi è successo e...›› Il piccolo nascose il viso nel petto della madre continuando a mugolare frasi sconnesse e piene di paura. La donna lo strinse più forte e cercò di zittirlo, mentre il bambino sentiva su di sé gli sguardi del padre e del dottore. Anche se nella stanza oltre a loro c'era soltanto Guido. Sembrava che il dottore potesse scorgerlo attraverso i muri.
‹‹Non ti preoccupare, piccolo mio, papà andrà a prendere la borsa domani. Non ti preoccupare. Anzi no, ci andrete insieme, va bene? Dove l’hai lasciata?›› Ma era ovvio che non dicesse sul serio. Non avrebbe mai permesso al figlio di tornare nel bosco dopo quello che gli era successo.
‹‹Non lo so.›› Piagnucolò lui con la voce deformata dalle ferite, e dagli effetti delle pozioni soporifere, prossimo ad addormentarsi. Le giornate seguenti le passò a letto. Né la madre né il padre gli permisero di alzarsi per alcun motivo e, se doveva andare in bagno lo prendevano in braccio e lo portavano loro. Il dottore fu di parola e tornò per altre visite e medicamenti.
Il ragazzino beveva brodini con la ciotola e il padre, grazie alle conoscenze acquisite come giardiniere presso le abbazie, preparò per lui delle misture che ridussero il dolore ma che per contro lo fecero dormire quasi tutto il giorno.
Dopotutto, scoprì, la caduta gli aveva incrinato le costole e procurato numerose ecchimosi su tutto l’addome.
Aveva anche battuto le gambe e le mani ma i danni sembravano minori di quelli della pancia.
Di quei primi tempi Agostino ricordava la mamma che si allontanava dal fuoco dove si stava scaldando le mani per sedersi sul pagliericcio dove dormiva lui e sorridergli, scostandogli i capelli dalla fronte.
Due giorni dopo quella prima settimana, mentre il ragazzino dormiva, si sentì svegliare da una mano che lo scrollava delicatamente per la spalla e dalle voci dei genitori. Il bambino aprì gli occhi cisposi che si stropicciò e li salutò: «Cosa c’è?» Chiese poi, assonnato. Gli faceva ancora male muoversi, ma già un po’meno rispetto a due giorni prima. Con la lingua non faceva che tartassarsi le gengive ancora vuote, traendoci un macabro divertimento. Ma si trattenne per parlare con i genitori. «Noi andiamo a lavorare, staremo via tutta la mattina. Ti abbiamo preparato un brodino. E’ sul tavolo. Pensi di potercela fare ad alzarti per mangiarlo? Poi quando torniamo ti prepariamo la medicina, d’accordo? Mi raccomando, non aprire a nessuno.» Fece la madre.
«Sì».
«Hai capito?» Volle risapere lei.
«Sì.» Borbottò con la sua vocina impastata girandosi sul fianco e sibilò di dolore subito dopo. Ma strinse i denti e inghiottì tutti i gemiti e strizzò gli occhi per non piangere. «D’accordo».
La madre gli carezzò la testa e gli diede un bacio. Poi si alzò e raggiunse il marito che, nel frattempo, si era già avviato sulla porta. E il bambino, un po’più tranquillo, promise che l’avrebbe fatto. Poi tornò a dormire. E dormì finché non udì un bussare concitato alla porta, rumori di cavalli che scalpitavano e un cane che grattava e ululava contro le assi di legno e voci maschili che cercavano di chiamare la sua attenzione. «Ehi, di casa? C’è nessuno?» Il piccolo si svegliò, sbadigliò e andò ad aprire incuriosito e ancora intontito dalle braccia di Morfeo.
Il piccolo Agostino, un po’rintronato, andò ad aprire. E si ritrovò di fronte a tre uomini vestiti di nero che recavano le insegne della chiesa sotto la corazza da mercenario. Erano talmente imponenti da oscurare la visuale del bambino, già abbagliata dal sole che era entrato nella stanza. Quello che riuscì a capire fu che tutti e tre barbuti e tutti vestiti di colori scuri. Parevano quasi soldati di ventura e uno di essi portava un orecchino d’oro che catturò immediatamente l’attenzione di Agostino. Uno di loro recava con sé un cane e il mastino gli abbaiò contro. Forse gli si sarebbe scagliato addosso se non fosse stato per l’uomo che lo teneva al guinzaglio, che lo strattonò indietro ammonendolo con voce ferma e autoritaria. «Bimbo, dove sono i tuoi genitori?» Volle sapere quello in mezzo, che pareva il capo gruppo.
«Sono…» Cominciò lui poi farfugliò un po’nel tentativo di ricordare quello che gli avevano detto: «Nei campi e a lavare i panni, perché?»
«Vuoi dire che non c’è nessuno in casa oltre te?» Chiese lui con aria di rimprovero e Agostino sentì su di sé tutta la forza di quello sguardo di biasimo sulla sua pelle. La sua schienuccia rispose con un brivido di paura che la percorse per intero e capì di aver fatto una stupidata ad aprire a quelle persone. 
Dopotutto potevano essere briganti travestiti, o peggio.
Brivido che venne scambiato per uno di quelli causati dal freddo.
Il terzo compare continuava a calmare il mastino che cercava di saltare addosso al bambino, scusandosi col medesimo per il comportamento del cane. «Di solito non si comporta così. E sta buono, a cuccia. A cuccia, ho detto!» Esclamò tornando a rivolgersi al mastino.
Il secondo, invece squadrava l’interno della casa con interesse.
Ma nessuno dei tre mosse un passo avanti, né il bambino li fece entrare.
«Cercavamo i tuoi genitori. Dovevamo dirgli delle cose.» Spiegò il primo, esprimendosi di modo che anche lui potesse capirlo. «Potete riferire a me, se volete, gliele dirò quando tornano.» Sì offrì il piccolo, stringendo la mano sulla porta. La voce scossa da un tremito di paura. Aspettandosi il peggio. Il cavaliere si inginocchiò di fronte a lui e domandò, con voce dolce, come se stesse cercando di non spaventarlo: «Sicuro?» Chiese guardandolo con sguardo limpido, dello stesso colore di quelli del Cristo dipinto nella chiesina che frequentavano lui e la sua famiglia. Gli occhi di Agostino furono subito catturati da quello sguardo. L'uomo cominciò a riferirgli il messaggio: «Due giorni fa abbiamo catturato un demonio che infestava le acque di questi luoghi. A vederla sembrava una bambina, all’incirca della tua età, forse un anno meno. Ma non lo era. Essa impediva alle persone di attingere l’acqua dai pozzi e di lavare i propri panni o abbeverare gli animali. Qualcuno è addirittura morto. Ma qualcuno l’ha liberata. Le tracce portano a questa casa».
Agostino impallidì e deglutì rumorosamente mentre le membra prendevano a tremare.
«Sei stato tu?» Chiese l’uomo in tono basso, senza staccare gli occhi dai suoi. Quello che successe in seguito fu un vero e proprio miracolo, perché nemmeno il bambino seppe dove trovò il coraggio necessario per calmarsi e proferire quello che disse: «No. Io passavo da quelle parti perché lì vicino ci crescono gli alberi di nocciole e ho sentito delle grida. Ma ho visto tutto. Sono stati dei briganti. Hanno visto il demone e l’hanno catturato scambiandolo per un umano. Hanno tagliato le corde e l’hanno portato via dicendo che l’avrebbero ucciso e venduto le sue carni a qualcuno, un venditore di reliquie, o qualche stregone, credo».
«Poi che è successo?»
«Quando se ne sono andati mi sono arrampicato sull’albero per capire cosa avessero fatto. Volevo dire ai miei genitori quello che avevo visto e portarli lì, di modo che avvertissero il parroco.» Agostino non riusciva ancora a concepire un’autorità più alta e sacra del parroco. Continuò, recitando le sue preghiere mentalmente e pregando i santi del Paradiso di aiutarlo promettendogli in cambio qualunque cosa: «Quando poi ho sentito un colpo dietro di me, mi sono spaventato e sono caduto a terra. Per questo ho perso i denti, guardate.» Fece alzandosi il labbro superiore con un dito. Il leader del gruppetto disse: «Perché non sei corso subito dal prete, invece che indugiare?»
«Indugiare?»
«Restare».
Agostino cercò le parole adatte: «Ho avuto paura, messere. Mi dispiace. E mio padre mi dice sempre che sono un ometto e che non devo avere paura. Volevo che…» Tacque, imbarazzato e chinò il capo.
Il cavaliere lo fissò a lungo e poi disse: «Cos’è questa ciocca bianca?» Il bimbo trasalì e si spaventò. Rialzò il capo e domandò: «Quale ciocca bianca?» Il cavaliere gliela tirò leggermente con la grande mano guantata: «Questa. Ci sei nato?» Chiese incuriosito, lasciandogli la testolina, sempre con quel fare paterno che caratterizzò tutto quel colloquio.
«No.» Fece il piccolo spaventato. E gli ritornarono in mente tutte le dicerie che gli avevano riferito sulle ciocche bianche premature. E che alcuni venivano evitati proprio per questo. Poi si gettò ai suoi piedi e cominciò a singhiozzare, sia per il dolore delle ferite che per la paura: «Ho detto la verità, messere. Non chiamate l’inquisizione, non portatemi via. Vi supplico, non ho fatto niente di male. Non voglio lasciare la mamma e il papà. Vi supplico…» Piagnucolò.
Il cavaliere si chinò e gli batté la mano sulla schiena: «Su, su, calmati. Non è stata colpa tua. Su. Non chiameremo nessuno, stai tranquillo. Tranquillo.» Fece stringendogli le piccole spalle e il bambino si calmò a poco a poco. «Stai meglio?» Domandò il cavaliere mentre Agostino si puliva il viso con le mani e le braccia coperte dalla camiciola da notte, che di solito portava sotto i vestiti.
Annuì.
«Grazie per le informazioni, piccolo. Addio.» Ciò detto lo lasciò andare e i tre si voltarono, tornando alle loro cavalcature. Adesso che li vedeva si rendeva conto che tutti e tre avevano i capelli lunghi dello stesso colore scuro con riflessi mogano. Forse erano tre fratelli.
Agostino lo richiamò indietro dopo pochi passi e l’uomo si voltò: «La catturerete, non è vero?» Domandò con la sua vocina ancora spaventata.
«Certo.» Promise il cavaliere. Poi lo salutò di nuovo, con un cenno della mano e raggiunse i compagni, che lo attendevano poco distanti. Montarono in sella e galopparono via.
Agostino richiuse la porta e si ricacciò rapidamente sotto le coperte piangendo per la terribile prova appena superata. Ma un’altra terribile prova l’attendeva: doveva affrontare i genitori, perché prima o poi, sapeva, le voci di paese sull’arrivo di quei tre cavalieri, sarebbe giunta anche alle loro orecchie. E avrebbero preteso spiegazioni. E se le sarebbe buscate di santa ragione.
   
 
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