Serie TV > Da Vinci's Demons
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Autore: _armida    12/11/2017    2 recensioni
Dal capitolo XV:
“Si aspettano che io ti uccida?”, domandò lui con un filo di voce.
(...)
. “Mi… mi terrai la mano mentre… sì, insomma, dall’altra parte non sarò sola ma…”. Non riuscì ad andare avanti e si limitò a cercare aiuto nel viso che aveva di fronte.
“Lo farò per tutto il tempo che vorrai”, si affrettò a dire il Conte, mentre una lacrima sfuggita al suo controllo gli rigava una guancia.
Elettra la spazzò via con una carezza, tornando poi a sorridergli, seppur il suo tono di voce, quando parlò, fu estremamente serio. “Non per tutto il tempo che vorrò, solo il minimo indispensabile, poi correrai da Leonardo a salvargli la vita. Non voglio vedere nessuno di voi per i prossimi trenta o quarant'anni, almeno”, aggiunse in un tentativo di ironia. Si alzò sulle punte, per poter avere il suo viso all’altezza del proprio e lo baciò per l’ultima volta. “Addio, Girolamo”, disse ad un soffio dalle sue labbra.
Si guardarono negli occhi.
Una tacita domanda.
Un cenno di conferma.
Strinsero entrambi le mani intorno al pugnale e la lama si fece strada nella carne.
(seguito di "L'Altra Gemella)
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
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Capitolo V: Acque mosse, parte I

La stiva della nave era un ambiente umido e poco illuminato, adatto a conservare gli alimenti. Ma meno adatto ad essere adibito a prigione.
Nico si trovava lì sotto da giorni. O da settimane. Era difficile dirlo dal momento che il giorno e la notte si avvicendavano senza notevoli cambiamenti di luminosità.
La serva abissina di Riario gli portava i pasti con una certa regolarità, a volte fermandosi anche per dire qualche veloce parola. Ma era fin troppo chiaro che anche lei avesse paura a parlare; probabilmente aveva l’ordine di non farlo.
Aveva provato a chiederle qualche informazione sulle condizioni dell’altra prigioniera di Riario, ma ogni volta che accennava ad Elettra l’espressione della donna mutava, si faceva più evasiva, le risposte più vaghe e i suoi occhi guizzavano da una parte all’altra in cerca di una via di fuga. Compiute le poche azioni indispensabili, come cambiare la paglia del giaciglio, svuotare il vaso da notte e consegnargli del cibo, sgattaiolava via alla velocità della luce.
Anche Riario, quel verme schifoso, ogni tanto scendeva nei meandri della nave per assicurarsi che il suo prigioniero fosse ancora vivo. In quei casi restavano ad osservarsi per diversi momenti, in silenzio, poi il Conte iniziava a parlare: discutevano di politica, per di più, di come andava trattato il popolo, di Firenze.
“Meglio essere temuti, che amati”, ripeteva sempre Riario.
Più che semplici discussioni, parevano delle lezioni. Lezioni che, Nico doveva ammettere a malincuore, non gli dispiacevano del tutto: il Conte poteva anche essere cinico e spietato, però era scaltro, dote che in politica era tutt’altro che superflua.
Aveva però visto anche altro negli occhi di quell’uomo all’apparenza imperturbabile: c’era del rammarico, del rimorso, una sincera tristezza di cui Nico non sapeva spigarsi, o di cui non voleva sapere una risposta: sotto sotto temeva già di conoscerla. Aveva avuto davvero pochi momenti per restare con Elettra da quando era salito a bordo di quella nave, ma essi gli erano bastati per intuire che qualcosa di grave l’aveva scossa. Non si capacitava di come lei fosse lì e non al fianco di Leonardo, a salvare Firenze: li aveva visti lasciare insieme il piccolo porto della città diretti al Duomo. E poi l’aveva rivista sul ponte di quella nave: ciò che fosse successo nel mezzo lo ignorava completamente. Avrebbe tanto voluto saperne di più, ma era anche certo che qualsiasi domanda sarebbe rimasta senza risposta.
Sospirò sconfortato, prima di portarsi una mano a schermarsi gli occhi: la piccola porta che portava ai piani superiori era stata aperta e una sottile lama di luce filtrava attraverso lo spiraglio, andando a posarsi proprio sopra il suo viso. In controluce, vide una sagoma scura percorrere la ripida rampa di scale che portava nella stiva.
Intuì che doveva trattarsi di un uomo. Di Riario, senza dubbio.
All’arrivo del Conte nelle vicinanze della cella, non si alzò, né cambiò la propria posizione, limitandosi a sfidarlo silenziosamente con il proprio sguardo, ostile.
Solitamente Riario appariva fin divertito da quei modi, probabilmente nel suo cinico mondo riusciva a trovare dell’ironia in tutta quella resistenza, ma quel giorno, studiandolo attentamente, Nico non vide niente di tutto ciò: il Conte appariva stanco, con l’aria stravolta e le orecchie basse, come quelle di un cucciolo che è appena stato sgridato.
Avrebbe voluto gioirne, deriderlo per rivoltare il coltello nella piaga. Dopo tutto quello che gli aveva fatto se lo sarebbe solo meritato, ma qualcosa glielo impediva. Senso di pietà? Molto probabile.
Riario gli ripeteva spesso che erano simili. Ma non lo erano affatto.
Lo osservò mentre si sedeva esausto su di uno sgabello.
Si studiarono ancora per alcuni secondi nel più rigoroso silenzio. L’unico suono udibile era lo sciabordio delle onde.
Il Conte si umettò le labbra, segno che, anche Nico se ne era reso conto, compiva solamente in momenti di difficoltà, quando le parole da dire venivano meno.
“Ho bisogno del tuo aiuto”, disse alla fine, con estrema serietà.
Il giovane alzò un sopracciglio, scettico. “Prima mi chiudete in una cella nella stiva alla stregua di un animale e poi venite a cercare il mio aiuto”, gli fece notare in modo tutt’altro che amichevole. “È curioso”, aggiunse con pungente sarcasmo.
Riario, che sapesse, non chiedeva mai aiuto. Doveva essere davvero disperato per farlo. E non avere altra scelta.
Finalmente, Nico sentiva di avere il coltello dalla parte del manico.
“La tua già precaria situazione potrebbe peggiorare ulteriormente”
O forse no.
Lo osservò con diffidenza. “E come potrebbe, di grazia?”, chiese con lo stesso tono di voce di poco prima.
Vide l’espressione dell’uomo mutare, farsi più minacciosa e imperscrutabile: Riario aveva indossato nuovamente la sua maschera da sfinge seppur, visibile qua e là, qualche piccola crepa era manifesto dello sforzo che in quel momento stava compiendo.
“Suppongo non sia necessario che io ti spieghi come ciò potrebbe avvenire”, sibilò. Il suo sguardo andò a posarsi sulla mano del giovane, sulla cicatrice circolare sul dorso di essa.
Anche Nico seguì i suoi occhi, nascondendo poi in un gesto d’istinto l’arto dietro la schiena.
“Sono piuttosto bravo a causare dolore”, aggiunse, per poi mutare nuovamente la propria espressione. Sospirò, come se si preparasse ad una difficile confessione. Forse era proprio così. “Da quanto conosci Elettra?”
“Da più tempo di voi certamente”, rispose il giovane, mantenendosi sempre sulla difensiva. “Che le avete fatto?”, aggiunse a voce un po’ più alta, alzandosi in piedi e stringendo tra le mani le sbarre della propria cella.
“Devi solo cercare di farla ragionare… lei non sta passando un bel periodo”
Nico sapeva perfettamente a cosa Riario si riferisse: nelle loro ‘chiacchierate’ avevano parlato anche della morte di Giuliano de Medici, della sorte incerta del fratello e, di conseguenza, dei suoi fedelissimi. Non poteva nemmeno immaginare in quale stato di angoscia potesse trovarsi Elettra a non sapere nulla dei propri cari.
“Voi non vi ascolta, forse?”, chiese, sforzandosi di imprimere alla propria voce tutto il sarcasmo di cui era capace.
Riario doveva aver capito che si trattava soltanto dell’ennesima provocazione, ma invece di prendersela, come il giovane si sarebbe aspettato, sul suo volto fece la comparsa un timido sorriso malinconico. “Invero, non lo ha mai fatto”, disse con dolcezza, per poi farsi nuovamente serio. “Vorrei che tu ci provassi comunque. In quanto suo amico e per l’affetto che provi nei suoi confronti”, si affrettò ad aggiungere, nel vano tentativo di sviare il giovane dall’effettiva richiesta di aiuto con cui aveva esordito.
Peccato che il giovane era tutt’altro che uno sciocco: in quelle settimane per mare aveva imparato molto. “E se accettassi, cosa potrei ottenere in cambio?”, chiese interessato.
Riario si umettò le labbra, nervoso: entrambi sapevano quale sarebbe stato il giusto compenso. Ma il Conte pareva restio a concederlo.
“La tua condizione potrebbe notevolmente migliorare. Ma solo se avrai successo”.
Doveva essergli costato davvero molto dirlo.
Nico annuì, soddisfatto. “Accetto”.
 

***

 

Poco dopo…


Riario non aveva proferito parola da quando aveva aperto la cella di Nico. Il breve tragitto che divideva la stiva dalla cabina in cui Elettra si trovava era stato percorso nel più assoluto silenzio.
Indugiarono entrambi per diversi secondi con lo sguardo rivolto alla porta chiusa, poi il Conte si voltò verso il giovane, osservandolo a lungo con la propria espressione impenetrabile. Forse si trattava di un muto avvertimento.
Tornò a voltarsi verso la porta, bussando poi sulla ruvida superficie di legno. Attesero alcuni secondi ed infine Riario abbassò la maniglia ed entrò.
Ciò che si trovarono davanti, nessuno dei due se lo sarebbe aspettato: Elettra teneva la propria matita in una mano, davanti al viso, con l’affilata punta pericolosamente vicino al proprio occhio; ancora poco ed essa avrebbe sfiorato la pupilla.
Nico rimase inerme sulla soglia, attonito mentre il Conte con gesti fulminei si fiondò in direzione della scrivania, prendendole il polso tra le mani ed allontanandolo dal suo viso. Le sfilò dalle dita la matita, nascondendola poi in una tasca della giacca.
“Elettra, cosa stavi cercando di fare?”, domandò con preoccupazione, senza lasciare la presa sui suoi polsi, saldamente inchiodati sulla scrivania, ai lati del corpo.
La giovane alzò il proprio sguardo nel suo, osservandolo con i propri occhi vuoti. Sbattè un paio di volte le palpebre, prima di voltare la testa in direzione della porta, dove Nico la stava a sua volta osservando.
Riario sospirò prima di lasciare scivolare con lentezza le proprie mani fino a raggiungere le sue guance e carezzandole gli angoli della bocca con i pollici. “Hai visto, mia diletta? Ti ho portato un amico”, disse a voce bassa, molto vicino al suo viso. Le rivolse un largo ma finto sorriso, sperando di contagiarla a piegare le labbra in uno simile.
Non ottenendo alcuna reazione, esortò Nico a fare qualche passo e ad avvicinarsi a loro.
Si staccò da lei, raggiungendolo più o meno a metà strada. “Ricordati il nostro patto”, sibilò all’orecchio del giovane. “La tua già precaria situazione potrebbe sempre peggiorare”
Fece qualche passo verso la porta. “Vi lascio soli, immagino abbiate molte cose da dirvi”, disse con il sorriso sulle labbra.
Nico trovava disorientanti questi improvvisi cambi di espressione di Riario. Attese che il Conte chiudesse alle proprie spalle la porta per avvicinarsi alla giovane.
“Elettra?”, tentò di chiamarla, con la voce che esprimeva incertezza.
Lei rimase immobile, seduta alla scrivania e con lo sguardo fisso sui fogli che aveva davanti.
“Elettra?”, ritentò. Fece alcuni passi avanti, posandole una mano sulla spalla, sperando così di ottenere una qualche reazione.
Niente, come se lui non fosse nemmeno nella cabina.
Il suo sguardo cadde sulla miriade di fogli che erano andati accumulandosi sulla scrivania e a terra: rappresentavano tutti Giuliano de Medici.
Nico ne prese alcuni tra le mani, studiandoli. Uno di essi colpì particolarmente la sua attenzione: rappresentava il giovane de Medici a terra, in un lago di sangue. Una scena troppo cruda perché lei potesse solo immaginarla, poi capì: non era il frutto dell’immaginazione della giovane, lei si trovava lì quando era successo.
Strinse con rabbia il foglio di carta tra le mani: Riario si era dimenticato di dirgli che Elettra aveva assistito alla sua morte; molto probabilmente aveva omesso l’informazione volontariamente.
Avrebbero fatto una lunga chiacchierata una volta uscito di lì.
Tornò ad osservare la bionda, non potendo fare a meno di pensare a quello che le era accaduto quando aveva dieci anni: all’epoca lui non frequentava ancora la bottega di Andrea ma, attraverso i racconti del Maestro, sapeva esattamente come aveva reagito alla scomparsa di madre e sorella. Nemmeno allora erano riusciti a farle dire qualche parola fino a quando Gentile Becchi, in preda allo sconforto, si era confidato con Cosimo de Medici; l’anziano signore di Firenze gli aveva allora consigliato di mettere Elettra a bottega dal Verrocchio. Aveva impiegato diversi mesi per tornare ad esprimersi normalmente mentre, altri disturbi, come incubi, attacchi di panico o i problemi di alimentazione, alle volte tornavano ancora a tormentarla.
E ora questo.
No, non poteva permettere a Riario di farle ancora del male. Non dopo tutto quello che già gliene aveva fatto.
Sempre con il foglietto di carta stretto nel pugno, si diresse a passo di marcia in direzione della porta della cabina. Abbassò con un gesto secco la maniglia ed uscì nel buio e stretto corridoio della nave, dove Riario stava in quel momento dando ordini ad uno degli uomini della ciurma.
“Voi, bastardo!”, disse il giovane, puntandogli il dito contro. Nelle sue intenzioni c’era quella di colpirlo con un pugno se solo il Conte non fosse stato più veloce: Nico si ritrovò con la faccia schiacciata contro una parete e il braccio dolorosamente piegato dietro la schiena. Nonostante ciò, tentò, senza alcuna efficacia, di liberarsi da quella presa.
Il foglio gli cadde dalle mani nel tentativo.
“Come avete potuto farle quello?!”, continuò ad urlare.
Riario lo osservò perplesso e con un gesto secco lo voltò, in modo da poterlo vedere negli occhi. “Fare cosa?”, chiese in tono piatto.
Lo sguardo di Nico si concentrò sul pezzo di carta a terra. Cercò nuovamente di liberarsi e questa volta il Conte lasciò la presa, permettendogli di chinarsi a raccoglierlo.
“Lei era lì quando il de Medici è stato ucciso”, disse il giovane, passandogli in malo modo lo schizzo fatto da Elettra. “Lei si fidava di voi ed è così che ripagate la fiducia altrui?”. Gli lanciò un’occhiata disgustata.
“Era perfettamente a conoscenza della delicata situazione tra Roma e Firenze. I politici si uccidono ogni giorno ed era solo questione di tempo perché accadesse. Lo sapevano tutti: i Medici stessi sapevano del pericolo che correvano e il loro errore è stato quello di abbassare la guardia al momento sbagliato”
Nico scosse la testa. “Elettra forse poteva aspettarsi un colpo basso da Roma. Ma non da voi”
“La mia lealtà va innanzitutto a Roma e al Santo Padre, ero stato chiaro con lei su questo punto”. Glielo aveva fatto presente in diverse occasioni, praticamente ogni qual volta gli interessi del Santo Padre entravano in conflitto con il bene di Firenze. Avrebbe dovuto imparare quella lezione molto tempo prima. “Come la sua va prima di tutto a Firenze”
Il giovane piegò le labbra in un amaro sorriso. “No, lei ha tentato di conciliare i propri sentimenti per voi e il suo ruolo a Firenze. E a volte ha messo voi in primo piano”. Non aveva capito proprio nulla di Elettra. In un certo senso lo compativa. E ciò traspariva dal suo sguardo.
I lineamenti del volto di Riario si fecero più duri. “Credi forse che io non lo abbia mai fatto? Che non abbia mai rischiato di espormi troppo pur di aiutarla?”
“I fatti dimostrano il contrario”, rispose Nico con un’espressione di scherno che replicava piuttosto bene quella tipica del Conte quando si trattava di prendere per i fondelli qualcuno.
Riario non ci vide più dalla pazienza e i gesto secco prese il giovane per la camicia, sbattendolo nuovamente con la schiena contro la parete. “Sai cosa stava per fare Pazzi quel giorno in Duomo quando sono arrivato?”, sibilò, molto vicino alla sua faccia. Girolamo non avrebbe mai dimenticato la scena che gli si era parata davanti. La vedeva di continuo, ogni volta che chiudeva gli occhi. E nei suoi incubi non sempre riusciva ad intervenire in tempo. “Elettra era a terra, in ginocchio, e Francesco Pazzi era in piedi alle sue spalle, con la spada stretta in pugno, che prendeva le misure per mozzarle il capo”. Osservò il ragazzo dritto negli occhi. “Avrei dovuto non intervenire, forse? Il Santo Padre aveva dato l’ordine di uccidere chiunque fosse leale ai Medici. Se, come dici tu, fossi stato ligio al dovere non avrei dovuto fermarlo, eppure mi sono compromesso per lei. E non era la prima volta che accadeva”
“Sapevate che sarebbe stata lì”, ribattè il giovane.
“Mi aveva detto che sarebbe rimasta a casa. Il piano era quello di mandare alcuni uomini fidati a prelevarla per portarla al sicuro a Forlì”
Nico lo osservò ancora un po’ in cagnesco, prima di tentare di liberarsi.
Di fronte a quei tentativi, Riario sospirò, lasciando infine la presa.
Il ragazzo fece alcuni passi in direzione della cabina, prima di voltarsi nuovamente verso il Conte. “Se volete davvero fare qualcosa per lei, allora statele alla larga”, disse in tono duro, prima di rientrare.
Chiuse la porta alle proprie spalle con lentezza, evitando accuratamente di fare il minimo rumore.
Si appoggiò al legno di essa con la fronte e prese un lungo respiro, poi si voltò in direzione della scrivania: Elettra era esattamente dove l’aveva lasciata, immobile nella stessa identica posizione.
Le si avvicinò e il suo sguardo tornò a concentrarsi su uno dei fogli poggiati sulla scrivania, in cerca di un’idea. Osservò il volto sorridente del de Medici in uno di quei ritratti: forse aveva avuto un’idea.
“Lui non lo vorrebbe, non vorrebbe che tu ti buttassi giù in questo modo”, disse, facendo scivolare il pezzo di carta fino sotto il naso di lei.
La vide sbattere le palpebre e poi osservare il ritratto.
“Che cosa direbbe Giuliano se ti vedesse ora, in questo stato?”, le domandò. Girò la sedia su cui era seduta dal proprio lato, in modo che lo guardasse negli occhi mentre parlava. “Io penso si domanderebbe dove è finita l’Elettra che conosceva, quella ragazza sempre con la spada al fianco e la lingua sciolta. Quella che non ha esitato a puntare una spada al collo di Riario per aiutare un amico in difficoltà”. A Nico scappò un accenno di sorriso a pensare a quello di cui la giovane era stata capace di fare all’accampamento romano, la prima volta che avevano incrociato il Conte sul loro cammino. “Rivorrei indietro quell’amica perché ciò che vedo ora non è null’altro che un guscio vuoto che si sta lentamente consumando anch’esso”, disse, ritornando serio. Prese le sue mani tra le proprie. “Non puoi lasciarti morire, abbiamo ancora tanto da fare”, aggiunse in un sussurro. “La morte di una persona cara non è la fine di tutto, è così, è la vita: c’è chi va e c’è chi viene. E noi questo non lo possiamo controllare. Bisogna accettarlo e andare avanti”. Strinse un pochettino la presa sulle sue mani, sperando di darle così l’impulso a rispondere, almeno un pochettino, ma esse rimasero totalmente inermi. “Pensa alla vendetta, dobbiamo vendicarci con Riario. Dobbiamo trovare un modo per renderlo innocuo, poi potremo impossessarci della nave e fare dietrofront fino a Firenze, fino a casa”. Le sorrise, sistemandole poi una ciocca ribelle dietro l’orecchio. “Ti piace l’idea?”. Sospirò. “Ma non posso fare tutto da solo, ho bisogno del tuo aiuto. E per farlo devi stare bene”. La studiò per diversi secondi, in attesa di un qualcosa che gli facesse intuire che lei avesse compreso tutto il discorso. “Elettra dì qualcosa”, mormorò. Osservò i suoi occhi, spenti e vuoti, ed abbassò il capo, scuotendolo. “Per favore”, aggiunse, seppur sentisse dentro di sé che era stato inutile.
Attese ancora alcuni secondi, poi si lasciò andare ad un lungo sospiro. Le diede le spalle, incamminandosi verso la porta, dove Zita lo attendeva per riportarlo nella propria cella.
 

***

 

Alcune ore più tardi…


La notte era già scesa da alcune ore, ma nella cabina un paio di candele ancora accese producevano un tenue bagliore.
Elettra era sola: Zita l’aveva messa a letto diverse ore prima, mentre Riario non si faceva vedere da parecchio.
La giovane era immobile, distesa su di un fianco in posizione fetale nella sua parte di letto e con gli occhi chiusi. Stava dormendo, ma il suo sonno era tutt’altro che tranquillo: l’espressione sofferente del suo volto ed un leggero strato di sudore ne erano la prova.
Aprì di scatto gli occhi, guardandosi attorno con il fiato corto. Strinse le ginocchia al petto, rannicchiandosi ancora di più in quella posizione di difesa.
Si guardò in giro, abituandosi piano piano all’oscurità in cui era immersa.
No, non si trovava più in Duomo.
Poco sotto di lei poteva udire un rumore identico a quello prodotto dalle onde contro lo scafo di una nave, un vago ricordo dei viaggi che faceva con suo padre. Quello, unito ad una sensazione di rollio e all’odore di salsedine la portarono a pensare di trovarsi davvero su di una nave. Eppure un istante prima si trovava nel Duomo di Firenze con il corpo di Giuliano stretto tra le braccia…
Si mise di scatto a sedere quando l’immagine di Girolamo che le trafiggeva il petto con la propria spada le tornò alla mente. Il suo sguardo andò immediatamente a focalizzarsi verso il basso, come se si aspettasse di vederne l’elsa sporgere dal proprio torace.
Non vide nulla.
Eppure quel dolore era ancora così vivo che non sarebbe potuto essere solo un frutto della sua immaginazione. Si tastò il petto per avere la certezza che non ci fosse nulla e, non soddisfatta, cercò in tutti i modi di allargare lo scollo della propria veste. La pelle sotto ad essa era liscia, senza nemmeno un segno o una cicatrice che potesse indicare un qualche genere di ferita; solo le costole erano ben visibili sotto la pallida pelle tesa.
Si osservò le mani: avrebbero dovuto essere blu e sporche di sangue, così come i propri abiti. Abbassò lo sguardo sulle proprie vesti, rendendosi conto di non stare indossando la giacca a fiori, la camicia bianca e i pantaloni di quel giorno, ma una lunga veste color rosa cipria.
Che cosa era successo? Come era possibile tutto quello?
Strisciò fino a ritrovarsi con la schiena premuta contro la testiera del letto e strinse le ginocchia al petto, cercando di prendere dei lunghi respiri, in netto contrasto con la sensazione della propria gola che si restringeva. Le lacrime cominciarono a scivolare sulle sue guance senza quasi rendersene conto.
Perché si trovava su di una nave?
Cercò di concentrarsi sui propri ricordi, ma la propria mente non riusciva ad andare oltre l’immagine di Giuliano morto tra le sue braccia.
Sarebbe dovuta essere morta con lui… La mano corse a tastare il polso in cerca di eventuali pulsazioni: sì, il suo cuore batteva ancora. E quella fastidiosa sensazione di soffocamento le indicava anche che ancora respirava.
Che anche nell’aldilà le funzioni vitali fossero le stesse?
Aldilà…
Elettra nell’aldilà non ci aveva mai creduto… e poi perché proprio una nave?
Delle voci sconosciute provenienti dal corridoio le arrivarono alle orecchie. No, se fosse stata dall’altra parte Giuliano sarebbe stato con lei, non di certo degli sconosciuti.
Fece un movimento brusco con il braccio sinistro, per stringere ancora di più al petto le proprie ginocchia, ma avvertì immediatamente una fitta di dolore. Con l’altra mano sfiorò il punto leso, avvertendo sotto alle proprie dita lo spesso filo utilizzato per ricucirle la ferita.
In un lampo le immagini di quel giorno le passarono davanti agli occhi: il luccichio della lama di Francesco Pazzi che non era stata abbastanza veloce ad evitare, il suono metallico della propria spada che cadeva a terra e il freddo pavimento del Duomo sotto alle propria ginocchia. Avvertì un sibilo fendere l’aria sopra alla propria testa seguito immediatamente da un urlo, ma non seppe spiegarsi nulla di tutto quello: il suo sguardo era fisso sul corpo di Giuliano, immobile nel bel mezzo della navata deserta. Tutto quello che avrebbe voluto fare sarebbe stato raggiungerlo.
I rumori dei colpi di spada si mischiarono al suono delle numerosi voci e lamenti e poi, sopra a tutto quello, fece la sua comparsa un viso a lei famigliare, con gli occhi azzurri e dei riccioli biondi.
Quando è che aveva incontrato Nico?
No, non poteva trovarsi anche lui in Duomo, doveva essere stato più tardi… forse su quella stessa nave. C’era una tazza con del sangue sulla nave, di essa si ricordava bene dal momento che liquido rossastro le era finito sulle mani... ed era tutt’ora lì.
Cercò di rammentare qualcos’altro, ma i suoi ricordi erano troppo confusi, con voci, suoni e frammenti di immagini che si mischiavano tra loro, rendendo il tutto ancora più difficile.

Che cosa direbbe Giuliano se ti vedesse ora, in questo stato?”

Glielo aveva detto Nico, di questo ne era certa.
Giuliano…
Vederla…
Anche lei avrebbe tanto voluto rivederlo, riabbracciarlo e perdersi in quella sensazione di sicurezza che lui le aveva sempre dato.
Avrebbe dovuto trovarsi con lui in quel momento, ma qualcosa o qualcuno glielo aveva impedito. Se solo Pazzi fosse stato più veloce… Ma, forse, poteva ancora porre rimedio.
Sì, poteva farlo.
E dopo avrebbe rivisto Giuliano.
Nella penombra della cabina osservò la porta che la separava dal resto del mondo: il percorso non era difficile, le sarebbe bastato attraversare un corridoio e salire i gradini che portavano sul ponte principale. Non riusciva a spiegarsi come facesse a saperlo, eppure sentiva che quella era la strada giusta. Così come sapeva che a quell’ora le possibilità di incontrare qualche marinaio erano praticamente nulle; forse l’unico che l’avrebbe potuta notare sarebbe stata la vedetta, ma comunque non avrebbe mai fatto in tempo a fermarla.
Si avvicinò al bordo del letto e lentamente mise a terra i piedi. Le assi di legno erano ruvide sotto ad essi.
Chiuse gli occhi e prese un lungo respiro, dopodiché si alzò reggendosi al bordo quando si accorse che la stanza intorno a lei girava vorticosamente. Attese alcuni momenti ed infine mosse i primi incerti passi verso la porta.
Ogni passo era un pochettino più di sicurezza. Ogni passo l’avvicinava sempre più a Giuliano.
Silenziosamente abbassò la maniglia ed uscì nel corridoio deserto.
 

***

 

Nel frattempo…


Girolamo si trovava nella cabina che il Capitano della nave aveva adibito come proprio personale studio e che gli aveva gentilmente concesso di utilizzare, insieme con i propri alloggi. Stava studiando la Pelle dell’Abissino con sopra inciso il codice per interpretare la Mappa rinvenuta nel Libro dell’Ebreo. Per propria sfortuna era anch’essa in codice.
Occorreva decifrarla al più presto, altrimenti a breve si sarebbero ritrovati a navigare alle cieca.
Erano giorni e notti che ci lavorava, ma ancora non era riuscito ad ottenere nemmeno il più esiguo risultato.
Si strofinò gli occhi, arrossati per la stanchezza.
Forse il giovane Nico aveva ragione.
“Siete andato con il Vaticano rischiando l’esecuzione per impossessarvi del Libro delle Lamine. E tutto perché vi darebbe la conoscenza e il potere con cui il mio maestro è nato”, gli aveva detto durante una delle loro conversazioni.
Sì, forse quel ragazzino aveva davvero ragione.
Da Vinci avrebbe decifrato quegli strani disegni in pochi minuti. Mentre lui in giorni e giorni di lavoro non era giunto a nulla.
Sì, questo lo irritava e non poco.
Anche Elettra era certo che ce l’avrebbe fatta in poco tempo, se solo fosse stata bene.
Elettra…
Nico aveva ragione anche su di lei: starle continuamente accanto aveva solo peggiorato la situazione; avrebbe dovuto mantenere le distanze da quel momento in poi, sperando che a poco a poco si sarebbe ripresa.
Lei e le sue condizioni occupavano la sua testa notte e giorno e lo tormentavano anche durante il sonno: persino la sua mente si prendeva gioco di lui, facendogli aprire le porte del Duomo fiorentino con un istante di ritardo, quando la spada di Pazzi era già stata calata. In quei momenti apriva gli occhi di scatto, con la fronte sudata e il fiato corto.
La sua prima azione era quella di cercarla nel buio, riuscendo a calmarsi solo dopo aver osservato per lunghi secondi il suo petto alzarsi ed abbassarsi.
Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, cercando di concentrarsi su ciò che stava facendo: non poteva permettere alla propria testa di distrarsi.
Avvicinò a sé le poche informazioni che era riuscito ad appuntare su di un foglio: la propria calligrafia era sempre stata chiara ed elegante, come si conveniva ad un nobile, ma con tutta la stanchezza che aveva in corpo, anch’essa ne risentiva. Stentava quasi a riconoscerla come propria.
Osservò attentamente le lettere sdoppiarsi e distolse immediatamente lo sguardo, concentrandosi sulla parete opposta, sulla porta che portava al corridoio. A differenza degli altri infissi che si affacciavano su di esso, quell’imposta possedeva dei vetri opachi, opportunamente posizionati per far entrare più luce nello studio.
La candela nel corridoio era ancora accesa e la sua tenue luce si riversava in parte nel cabina, illuminata solo dal candelabro appoggiato su di un angolo della scrivania.
Una figura passò nel corridoio, oscurando per un istante il resto dello studio. Girolamo osservò distrattamente la porta, per poi farsi più attento rendendosi conto che non era l’ombra di un marinaio quella che aveva visto: innanzitutto indossava un abito lungo e, poi, era decisamente troppo minuta per appartenere ad un uomo. E non corrispondeva nemmeno a quella di Zita…
Si alzò di scatto dalla propria seduta, andando verso la porta ed aprendola lentamente, senza fare il più piccolo rumore.
Udì il frusciare di una gonna sui ripidi gradini che portavano al ponte principale e con la coda dell’occhio vide il finale di una veste dai colori chiari scomparire nell’oscurità.
“Elettra?”, provò a chiamarla, cercando di mantenere un tono di voce calmo e non allarmato.
Non sentì alcuna risposta.
Decise allora di uscire nel corridoio e da lì proseguire sul ponte, lentamente, per non rischiare di spaventarla: Elettra non si era mai avventurata fino fuori della propria cabina. Che si sentisse finalmente meglio?
Un sorriso fece capolino sul suo volto, ma esso scomparve nell’attimo esatto in cui, arrivato sul ponte, la individuò: la giovane si trovava in piedi sul parapetto della nave, che osserva il mare spumeggiare diversi metri sotto di loro.
“Elettra!”, urlò allarmato. “Ti prego, scendi immediatamente”
Corse verso di lei, ma si fermò a pochi metri, per paura che avvicinarsi troppo l’avrebbe portata a spaventarsi e a fare qualche passo falso.
Lei si voltò verso di lui.
Si guardarono negli occhi per alcuni istanti, dopodiché Elettra si lasciò cadere all’indietro, nelle oscure acque sottostanti.  


Nda
Vi prego non picchiatemi!
A parte gli scherzi, mi scuso per il ritardo con cui aggiorno (come tutte le altre volte). 
E il mistero del prologo è stato svelato! Ormai lo sapete che non lascio nulla al caso ahahah. Diciamo che siamo finalmente arrivati al punto di rottura: ora qualcosa deve pur succedere perchè avanti così non si può più andare. Elettra si salverà? Oppure dobbiamo archiviare il personaggio e pensare a qualcosa di nuovo?
Chiedo nuovamente venia e mi raccomando fatemi sapere le vostre opinioni (tutto è accetto, anche gli insulti).
Alla prossima! 
 

   
 
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