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Autore: QueenOfEvil    19/11/2017    0 recensioni
(Dal capitolo sette):
"Sì, aveva aspettato quel giorno per anni, nella polvere, nell’ombra di qualcun altro, di Ahadi, di Mufasa e adesso che correva il rischio di venire oscurato anche da Simba, da quello scricciolo che altro non era che un prolungamento del fratello tanto odiato, gli era stata finalmente data l’opportunità di scuotersi di dosso tutti: sarebbe diventato ciò che era stato predestinato ad essere fin dall’infanzia, fin dalla nascita. Il sovrano che nessuno mai aveva visto in lui."
La storia di un re considerato tale solo da se stesso. E, chissà, forse, in fondo, neanche quello.
Genere: Dark, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Scar
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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15. Scar. Tis the times' plague, when madmen lead the blind

Con sua grande sorpresa, dopo quel giorno di un mese prima gli incubi erano cessati: niente più fuoco, niente più iene e, soprattutto, niente più Mufasa. Sarebbe dovuto esserne felice e sollevato ed in un certo senso lo era, sicuramente preferiva svegliarsi dopo un sonno leggero e privo di immagini ad infastidirlo al batticuore che lo aveva accompagnato fino ad allora, ma qualcosa dentro di lui, che si poteva benissimo ricondurre o ad un sesto senso o ad una paranoia crescente, gli suggeriva che potesse essere esclusivamente la calma prima della tempesta.

Parlando di tempesta, era possibile che quello fosse il giorno buono per un poco di pioggia, finalmente: il sole non splendeva, e quella non era una novità, specialmente nell’ultimo periodo ove quasi sempre c’era una nebbia ed un’atmosfera funerea ovunque nel regno, ma ciò si accompagnava ad una nuvola scura che, gradualmente, si stava avvicinando dai confini verso la Rupe dei Re. Non che a Scar importasse, ormai: aveva deciso che avrebbe atteso lo svilupparsi degli eventi e si sarebbe messo l’anima in pace, anche se in realtà non se n’era mai preoccupato più di tanto. Sarebbe arrivato un temporale? Bene, meglio. Non sarebbe arrivato? Sarebbero andati avanti lo stesso, esattamente come avanti erano andati per quei due anni e mezzo.

Determinato dunque a non lasciarsi abbattere dall’aria tetra che dominava i suoi possedimenti e a vedere il lato positivo della situazione, sempre che ce ne fosse uno, trascorreva sempre più tempo nella sua tana, in modo tale da non dover incappare negli sguardi di disapprovazione delle leonesse, tra le quali, fortunatamente, non compariva più Nala. Non sapeva se questo fosse dovuto ad un incidente durante la caccia, ma ne dubitava, visto che nessuna sembrava particolarmente in pena per lei, o se semplicemente avesse deciso di andarsene, abbandonando la propria famiglia ed il proprio branco, e men che meno gli interessava: aveva la convinzione, infatti, che probabilmente sarebbe morta nel giro di pochi giorni, sola, senza nessuno, lei che era abituata ad avere sempre delle compagne su cui contare.

In ogni caso, la questione che trovava più importante in quel momento era quella del suo intrattenimento personale, di scarsissimo livello a causa della sua reclusione, più o meno volontaria, nella grotta: aveva perciò stabilito, come regola, come legge e non come semplice casualità, che proprio Zazu provvedesse al suo divertimento, facendo finalmente sfoggio utilmente delle sue strabilianti doti canore ormai non più adibite all’enunciazione del rapporto del mattino, abolito fin dai suoi primi mesi come sovrano. E d’altronde, ci sarebbe stato ben poco da segnalare anche se avesse potuto continuare: si sa bene che gli scheletri e gli arbusti morti non sono particolarmente facili da mettere in rima in modo interessante.

Il suo buonumore, dunque, tentava di rimanere invariato mentre, circondato da vari scheletri e crani di animali morti, perfettamente in linea con l’aspetto che le Pride Lands avevano adottato, stava disteso supino su un incavo della roccia, cercando di non deprimersi sentendo la canzone che il bucero stava intonando, con una voce che avrebbe fatto deprimere anche una iena.

“Dolore e lacrime io devo patire e solo il bluse mi salverà…” Dopo quell’ultima strofa, che toccava il fondo nel pessimismo cosmico che sembrava dominare la mente dell’uccello, Scar si stufò di ascoltare quella lagna e, allontanando per un attimo dalle fauci l’osso che stava usando come stuzzicadenti, lanciò uno sguardo verso la gabbia toracica in cui aveva infilato il suo intrattenitore personale affinché non scappasse. Alzò poi gli occhi al cielo e, tirando con nonchalance e una mira impeccabile ciò che aveva tra le zampe a pochi millimetri dalla testa dell’altro, emise un sospiro annoiato.

“Oh, Zazu, su con la vita!” Un sorriso divertito gli passò tra le zanne “Canta qualcosa di… un po’ più brillante, d’accordo?” Finse di ignorare l’occhiata contrariata che gli venne lanciata, solo per scattare stizzito ed irritato quando le note di “È un mondo piccolo” risuonarono nella tana: aveva sempre detestato quella canzone fin da piccolo, quando la sentiva come un ritornello infinito uscire dalla bocca di Mufasa. E certamente il fatto che il fratello sembrasse adorarla non contribuiva ad attribuirle dei punti.

“No, no! Qualunque cosa tranne questa!” Incominciava quasi a rimpiangere la nenia che fino a poco prima gli aveva fatto sanguinare le orecchie quando, per fortuna sua ma soprattutto dell’uccello, che sarebbe sicuramente andato incontro a seri guai se non avesse obbedito al suo ordine in maniera soddisfacente, quello iniziò ad intonare un ritornello alquanto più divertente:

“Ho tante noci di cocco splendide, tutte in fila per tre per tre per tre! Grandi, grosse anche più grandi di te!” Scuotendo la testa e tenendo il ritmo, il leone prese con un unghia un teschio che si trovava proprio al suo fianco ed iniziò a scuoterlo, facendogli chiudere ed aprire la mandibola, seguendo l’andamento della canzoncina. Canzoncina che, con suo grande disappunto, si interruppe quasi subito per lasciare spazio ad un commento la cui tipologia egli sperava di avere eliminato già molto tempo addietro.

“Oh, questo Mufasa non me l’avrebbe mai chiesto!” Non era neanche un insulto, detto con odio e in un momento di rabbia particolarmente acuto, qualcosa che comunque non avrebbe potuto sopportare, ma che in ogni caso sarebbe stato meglio di quello che stava ricevendo: una constatazione. Una constatazione detta con fastidio e irritata rassegnazione.

Come si permetteva quel pennuto, quella nullità, di fare commenti simili nella sua posizione? Come si permetteva di metterlo ancora a confronto con l’altro? Ne aveva abbastanza di quello che gli altri potevano pensare! Quello era il passato, il fratello non era altro che il passato! Perché nessuno sembrava capirlo? Aveva forse dimenticato di chi dovesse ricercare l’approvazione? Chi dovesse temere? Avrebbe fatto in modo di ricordarglielo immediatamente.

“Cosa? Che cosa hai detto?” Neanche la reazione di Zazu, che, intimorito, si appiattì contro la parete poté soddisfarlo, tanto da spingerlo a ringhiare perfino più forte, facendo passare il muso fra le ossa in cui il suo servo era rinchiuso, nell’improvviso tentativo di azzannarlo “Conosci la legge! Non mi bisogna mai pronunciare quel nome in mia presenza! Io sono il re!”

Non avrebbe mai pensato che quelle parole gli sarebbero potute suonare stomachevoli, che sarebbe giunto il momento in cui proclamare di essere sovrano non gli avrebbe più dato soddisfazione, eppure… eppure perché si sentiva quasi nauseato ripetendolo per l’ennesima volta a qualcuno che evidentemente mai ci aveva creduto? E le stava davvero urlando al bucero, o forse più a se stesso? Pensieri che svanirono in un lampo, quasi senza venire messi a fuoco, quando l’altro, piegato dal quella furia improvvisa, si ritrovò a balbettare delle scuse che quantomeno lo tranquillizzarono momentaneamente, pur lasciandogli in bocca un retrogusto abbastanza amaro.

“Certo, Sire, voi siete il re! Io l’ho solo nominato per illustrare le differenze nel vostro sistema… manageriale” Non aveva ancora finito con lui, e sospettava che non avrebbe finito fintanto che le sue piume non si sarebbero macchiate di sangue se la situazione avesse seguitato a procedere in tal modo, quando sentì una voce tristemente nota che lo chiamava.

“Ehi, capo!” Irritato, e anche rassegnato alle brutte notizie che gli sarebbero arrivate, perché da un po’ di tempo a quella parte pessimi resoconti era tutto ciò che riusciva ad ottenere, con un deja-vu che gli ricordava pesantemente i suoi anni prima della successione al trono, si girò verso l’entrata della caverna, senza togliere però la zampa dalla gabbia toracica e quindi non alleviando la sensazione di pericolo che Zazu doveva star provando.

“Oh, che cosa c’è adesso?” Davanti a lui, come aveva immaginato a malincuore, stavano entrando nella tana Shenzi, Ed e Banzai, quest’ultimo, in particolare, con un’espressione talmente nera da potersi confondere con le cupe nubi che vorticavano ormai da ore sulla Rupe dei Re.

“Qui la questione è ridotta all’osso” iniziò la iena, prima di venire interrotta subito dalla sorella, che, con l’aria di avere perfettamente sotto controllo la situazione, si rivolse prima a lui e poi al sovrano davanti a loro.

“Me ne occupo io. Scar? Non c’è più né cibo né acqua” Era un’affermazione talmente scontata che il loro interlocutore alzò gli occhi al cielo, domandandosi se davvero erano così stupidi da pensare che lui non si fosse accorto delle condizioni in cui versava il suo regno. E poi “Non c’è più” era un’esagerazione, non poteva che esserlo: da qualche parte, anche in piccole dosi, doveva pur rimanere qualche gnu solitario o una piccola pozza. O no?

“Già! È ora di cena e non c’è neanche un osso da rosicchiare!” Ovviamente l’unica preoccupazione di quell’ammasso di idioti era lo stomaco, e quella non era una novità; quello che davvero innervosiva il leone era che si presentassero al suo cospetto per questioni simili: credevano davvero che avrebbe agitato una zampa e davanti a loro per magia si sarebbe materializzato un cosciotto di zebra? Non stava a lui cacciare, non era un suo problema né lo era mai stato: certo, se le altre componenti del branco avessero fatto il loro lavoro il problema non si sarebbe neppure posto.

“Sapete che spetta alle leonesse il compito di cacciare” disse, con un’aria quasi stanca e al contempo terribilmente annoiata dalla situazione che si stava presentando “Io non…”

“Ma non vanno a cacciare!” Già, quella nuova moda dell’insubordinazione, che a quanto pare si stava diffondendo tra i suoi sudditi grazie alla combinazione degli sforzi di Sarabi e della possibilmente deceduta Nala, non gli era nuova e contava di prendere provvedimenti al più presto, oppure di non prenderne affatto e aspettare quello che il cielo avesse in serbo per la savana, possibilmente pioggia, ma in quel momento non gli importava assolutamente nulla né del cibo né di qualsiasi altro problema: come sempre era accaduto e come sempre più spesso accadeva, sentiva come unico desiderio quello di passare il più possibile tempo da solo. Pensò quindi bene di concludere la discussione con una concessione infastidita e priva di interesse, mirata esclusivamente ad un contentino veloce e di poco conto.

“Oh, mangiate Zazu!” Effettivamente non vedeva più l’utilità di quel pennuto da mesi ormai, senza contare che era nient’altro che una bocca in più da sfamare, una bocca insolente ed irrispettosa da sfamare. La soluzione non sembrò dispiacere troppo ai suoi seguaci, ma non entusiasmò neanche troppo il diretto interessato che, emerso dalla condizione di saggio silenzio in cui aveva deciso di mantenersi per evitare di ricordare al re la sua presenza, si affrettò a difendersi nel modo migliore che poté.

“Non vorrete davvero mangiarmi! La mia carne è dura, filacciosa, bleah” Per qualche ragione, la vista del passato galoppino del fratello che si denigrava in quel modo risollevò, anche se di poco, l’umore di Scar che, ancora più convinto della sua scelta, si affrettò a replicare con complimenti spinti da una vena piuttosto sadica e dalla speranza di poter accontentare con un sacrificio praticamente nullo i tre che gli stavano a fianco.

“Su, Zazu non essere ridicolo!” ridacchiò quindi, voltando la schiena al quartetto, compiaciuto per la soluzione da lui trovata “Basterà aggiungere un po’ di…”

“Ed io che credevo che le cose andassero male sotto Mufasa”

Anche loro. Anche quegli ingrati, dopo tutto quello che aveva fatto per loro si azzardavano a fare un commento simile, loro che per anni avevano sfruttato le risorse del regno, loro che non erano altro che miserabili parassiti che grazie a lui avevano finalmente potuto godere di un po’ di libertà dopo anni di sofferenza. Anche loro osavano rimpiangere il regno passato. E quel che era peggio, osavano rimpiangerlo in sua presenza. La sensazione di nausea che aveva iniziato a provare poco prima era tornata ad assalirlo prepotente, unita ad una enorme scarica di bile, che lo fece girare in modo fulmineo e guardare dritto negli occhi Banzai, colpevole di quell’affermazione così oscena.

“Che cosa hai detto?” lo sfidò dunque a ripetere, giusto per mettere in chiaro come stessero le cose e come i pensieri dovessero essere accuratamente filtrati prima di uscire dalla bocca: evidentemente questo avvertimento non dovette essere recepito dal latitante cervello della iena che, dando prova ancora una volta della sua idiozia, stava per ripetere le stesse parole, venendo interrotto fortunatamente da una gomitata provvidenziale della sorella, che gli fece comprendere quanto stesse rischiando. Con un sorriso teso ed una risata forzata, dunque, si affrettò a correggere il tiro:

“Ho detto ¿Que pasa?”

“Bene” Disse seccamente Scar, gli artigli che si conficcavano nella terra per il nervoso che quella conversazione gli stava procurando “E ora sparite!” Li vide correre via con la coda fra le gambe, spaventati ed insoddisfatti, non prima di avere ribadito ancora una volta quanto affamati fossero, e, dopo che furono spariti dalla sua vista, si affrettò a lasciare a sua volta la grotta, non sopportando più di rimanere il quel luogo ma senza alcuna intenzione di liberare il bucero: che ammuffisse pure in quella vecchia carcassa.

Si guardò intorno per qualche secondo, per poi decidere di prendere uno stretto passaggio nella roccia, talmente stretto che solo lui, con il suo fisico asciutto, quasi emaciato, poteva percorrerlo senza il rischio di rimanere incastrato o intrappolato: era il luogo ideale per riflettere senza che terze parti lo andassero ad importunare in momenti inopportuni, come spesso sovente accadeva. Le parole pronunciate poco prima in ogni caso continuavano a turbinargli nella mente e a fargli digrignare i denti per lo sforzo di controllarsi e non cedere ad un attacco d’ira: “Bene” aveva detto, ma nulla andava bene. Nulla di nulla. La savana stava morendo, gli animali erano presenti solo in forma di scheletri ed ossa, l’acqua era un lontano ricordo e, cosa peggiore di tutte, sembrava che ogni sua deliberazione venisse compensata esclusivamente con insulti a bassa voce, malcelata disapprovazione e sognanti commenti riguardo ad una fantomatica età d’oro passata.

L’età di suo fratello.

Come poteva il fantasma di Mufasa continuare a tormentarlo a più di due anni e mezzo dalla sua morte? Avrebbe dovuto scomparire per sempre dalla sua vita con quel giorno, quel bellissimo giorno che era culminato con la corsa degli gnu, la fuga della sua discendenza, il suo funerale e invece Scar lo rivedeva continuamente. Lo rivedeva nella pioggia che non cadeva, nel caldo che malgrado tutto non diminuiva, nelle occhiate che gli venivano rivolte in cui tutto c’era tranne che il rispetto che si dovrebbe convenire ad un re

Inizialmente non l’aveva neanche cercato, sicuro che, come per le generazioni passate prima di lui, anche nel suo caso si sarebbe riuscito a conquistare la deferenza del branco, e forse non gli era importato neanche più di tanto, tutto preso com’era a godere della sua nuova posizione e, soprattutto, dell’assenza materiale del fratello, ma in quel momento non poteva che sentirsi frustrato: era circondato da idioti, idioti ostinati, come nel caso di Sarabi, idioti ossequiosi, le Outlanders, o semplicemente completi idioti, chiaro riferimento alle iene. Nessuno di loro era il tipo di suddito che avrebbe voluto, tutti peccavano di qualcosa: c’era l’obbedienza, ovviamente, i pezzi della sua macchinazione si erano incastrati talmente bene da assicurargli il completo controllo su tutto e su tutti, ma era un’obbedienza spicciola, quasi vuota, e malgrado riconoscesse che alla fine era meglio che niente, almeno in qualche caso riusciva ad ottenere paura, di malavoglia la sua mente tornava indietro nel tempo, confrontava ciò che lui aveva ottenuto con quello che Ahadi aveva avuto e non poteva che digrignare i denti per la bile che quella indubbia differenza gli procurava. Voleva l’ammirazione, voleva gli onori, voleva che il suo nome venisse sussurrato con deferenza oppure acclamato a gran voce! Eppure si ritrovava con un paio di scheletri, due piante bruciate e infinite paia d’occhi severi che lo squadravano con disapprovazione: se nei primi mesi quell’atteggiamento l’aveva quasi divertito e la sensazione di poter disporre di loro a suo piacimento, costringendoli anche ad azioni che non avrebbero voluto fare, era stata parecchio inebriante, in quel momento avrebbe davvero gradito che dai loro musi cadessero le espressioni cupe e restie che chiunque sembrava rivolgergli.

Era il re, continuava a ripetersi ogni giorno in una cantilena che aveva quasi finito per annoiarlo, il re della savana, il re di tutto quello che poteva immaginare. Ma quel tutto aveva il sapore del niente in quel momento, niente che gli potesse portare un briciolo di sollievo. Non avrebbe scambiato la sua posizione con nient’altro al mondo, dopotutto era quello che aveva sempre sognato, ma al contempo continuava a sentirsi frustrato, un sentimento che anni prima sperava sarebbe finalmente scomparso una volta che Mufasa fosse morto e non ci fosse più stato motivo di ricordargli continuamente quanto il primogenito fosse migliore di lui. E forse proprio quello era il problema: del fratello non era rimasto nulla, nulla se non il ricordo, ma era un ricordo talmente luminoso da oscurarlo in vita ancora una volta.

Il pensiero delle iene e della loro continua fame, venutogli improvvisamente in mente, gli fece decidere di tornare davanti alla Rupe, per convocare Sarabi e vedere esattamente quanto la situazione fosse come l’aveva dipinta: sarebbe stata capace di dichiarare il falso pur di non aiutarlo. Ma, prima di fare ciò, lanciò ancora una occhiata al panorama davanti a sé, imponente e macabramente poetico a parer suo, pur nella sua distruzione, e si ripromise, giurò, che in un modo o nell’altro la memoria dei Grandi Re del passato l’avrebbe incluso molto presto o, se avesse continuato a disdegnarlo, sarebbero tutti periti con lui.

“Sarabi!” ruggì dunque, una volta giunto davanti al branco di iene, chiamandola da lui. Anche la sua camminata riuscì ad innervosirlo, così composta, sicura, priva di qualsiasi segno di cedimento di fronte alle iene che facevano segno di morderla e sbeffeggiarla: il suo muso era sempre quello, lo era sempre stato, e averle tolto il sorriso che una volta la presenza del fratello le procurava non era abbastanza. Come probabilmente tutto quello che aveva fatto nella vita non lo era stato.

“Sì, Scar?” era una domanda annoiata quella che gli veniva rivolta, obbediente di malavoglia e al contempo seccata, che lo fece innervosire ulteriormente e lo spinse ad adottare un tono di voce ancora più duro.
“Dov’è la tua squadra di cacciatrici? Non stanno facendo il loro lavoro!” Le diede la schiena, camminando avanti e indietro sul posto ed attendendo una risposta.

“Scar, non c’è più cibo: le mandrie si sono spostate” Per quanto la situazione potesse essere critica, non era possibile che fosse così critica quanto ella la dipingeva: qualcosa doveva pur essere ancora a disposizione e, se non fossero state prese a tal punto a lamentarsi, probabilmente l’avrebbero anche trovato.

“No! Non si stanno impegnando abbastanza!” Il pensiero che effettivamente la desolazione delle Pride Lands fosse totale era stato preso in considerazione, ma aveva già scartato tutte le manovre estreme che questo avrebbe comportato: l’unica rimasta era rimanere lì, in attesa di qualcosa, ed era sicuro che quel qualcosa sarebbe arrivato, prima o poi.

“È finita” gli rispose lei, scandendo bene le parole “non è rimasto più nulla, ormai non abbiamo altra scelta: dobbiamo lasciare la Rupe dei Re” Ed ecco la soluzione che lui odiava più di tutte: arrendersi, ammettere di avere fallito, di dover permettere che tutto quello per cui aveva lavorato, tutto quello a cui aveva dedicato una vita intera, venisse eclissato ancora una volta: non l’avrebbe mai permesso, mai!

“No, non andiamo da nessuna parte” ribatté, determinato, squadrandola negli occhi e facendole accendere nelle iridi castane una scintilla di sorpresa indignazione.

“In questo modo ci stai condannando a morte!” Morte. Chissà perché, ma il pensiero della morte non lo spaventava neanche più di tanto, anzi, in quel momento era decisamente preferibile alla migrazione: se fosse piovuto, ed era un grande se, e le mandrie fossero tornate, d’altronde, avrebbe dimostrato di avere ragione, sarebbe stato considerato il salvatore di quelle terre e finalmente avrebbe ricevuto il rispetto che meritava. Se invece nulla fosse mutato e loro fossero morti… in ogni caso non ci sarebbe più stato nessuno per ricordare. Ricordare gli Antenati, ricordare Mufasa, ricordare a lui quanto fosse diverso e inferiore. Se la morte coincideva davvero con la fine della memoria, ed era indubbio che fosse così, allora sì, meglio che essa sopraggiungesse e li portasse via tutti, lui compreso.

“Allora che sia!” affermò, senza perdere nulla del suo atteggiamento e della sua voce graffiante.

“Non puoi farlo, Scar!” Non poteva farlo? Non poteva farlo. Non fosse stato così arrabbiato, sarebbe scoppiato a ridere: continuavano a dirgli, ad anni di distanza, di cosa potesse o non potesse essere capace, anche se aveva puntualmente disatteso e reso ridicole le loro opinioni. Chi era al potere? Chi aveva un’armata di iene che avrebbe potuto farla a pezzi ad un solo suo comando? Chi aveva le redini del gioco?

“Sono il re!” disse dunque, pronunciando quelle parole ancora una volta e, di nuovo, sentendosi quasi nauseato dal tono infantile che stava adottando, riparandosi dietro a parole che sarebbero dovute essere accompagnate da trionfo, non da scusa “Posso fare ciò che voglio!”

“Se solo valessi la metà di quanto valeva Mufasa…!”

Basta.

Adesso basta. Aveva tollerato tante cose in quegli anni, davvero troppe, più di quante avesse avuto intenzione, ma quella era l’ultima goccia: non aveva mai usato la violenza nel senso stretto del termine, mai prediletta e mai adoperata, eppure gli venne quasi naturale, in quel momento, girarsi di scatto verso Sarabi e colpirla al muso con tutta la forza che aveva in corpo, pur di farla stare zitta, di farla tacere, di eliminare una volta per tutte la rappresentante maggiore del ricordo del fratello che ancora serpeggiava fra di loro.

“Io valgo dieci volte più di Mufasa!”

E, di nuovo, per un decimo di secondo, si chiese se quelle parole fossero indirizzate più a chi stava osservando o a se stesso. 

Era in ogni caso ad andare ben oltre una semplice zampata, non era riuscito a spezzarla e dunque l’avrebbe distrutta con altri mezzi, quando un tuono ed un fulmine illuminarono la scena e, se in un angolo del suo cervello Scar li registrò come una cosa buona, perché forse finalmente avrebbe piovuto, la sua attenzione venne immediatamente catturata dalla figura che si ergeva, imponente ed in controluce, proprio sopra la Rupe.

No. Non poteva essere! Non poteva essere davvero…

… Mufasa?

 
   
 
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