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Autore: _Frame_    19/11/2017    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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149. Compagnia glaciale e Ciurma pericolosa

 

 

21 maggio 1941,

Mar Glaciale Artico, Stretto di Danimarca

Bordo dell’incrociatore pesante HMS Norfolk

 

Inghilterra infilò le mani in fondo alle tasche dell’uniforme nera, camminò attraverso il ponte di coperta dell’incrociatore passando sotto l’ombra di una delle torrette binate, e si diresse verso prua, dove il fischio del vento si faceva più acuto, soffiandogli nelle orecchie. Si strinse nelle spalle e alzò gli occhi al cielo. Rabbrividì sotto una zaffata di vento, umido e penetrante come una coltellata di ghiaccio, e fronteggiò l’albero maestro dell’incrociatore che si ergeva contro le nuvole, finendo immerso nella foschia addensata come un tappeto di cotone grigio. Ramificazioni nere spaccavano le rientranze delle nuvole, i borbottii del cielo protestavano assieme al ruggito del mare grigio e lucido come una lastra di cemento infranta dal passaggio dell’imbarcazione che ne tagliava le onde.

Inghilterra soffiò un sospiro affaticato dall’aria pesante e gelata che gravava nei polmoni, e rallentò il passo, tastando le vibrazioni delle turbine e dei motori dell’incrociatore che gorgogliavano sotto i suoi piedi. Riprese fiato – un fiato denso, che sapeva di ghiaccio di ferro – e alzò la voce per farsi sentire oltre gli ululati del vento e gli schianti cristallini delle onde che si spaccavano sullo scafo. “Credimi, detesto dovertelo dire in questa maniera,” mentì. “Ma la mia non sarà una richiesta, sarà un ordine.” Inghilterra continuò a camminare verso prua, e gli schiocchi pesanti e solenni dei suoi passi camuffarono quelli più lenti ed esitanti che lo stavano seguendo. Si lisciò la stoffa nera della giacca che ondeggiava attorno alle ginocchia, sistemò la controspallina dorata – due bastoni da feldmaresciallo si incrociavano davanti a una corona d’alloro ricamata sotto lo stemma della Corona Reale – e il colore dei suoi occhi si fece più buio e profondo, raccolse tutte le sfumature nebbiose di quel mare di ghiaccio su cui si specchiavano i nuvoloni del cielo. “Ho bisogno che mi guidi in queste acque, e che tu mi stia affianco in vista di un confronto diretto con i convogli dell’Asse.” Inghilterra fermò il passo. Un altro sbuffo di vento gli scosse il bavero della giacca contro le guance e agitò le punte dei capelli sulla fronte lievemente aggrottata. “Hai qualcosa in contrario...” Flesse un piccolo e sottile sorriso da furbo che gli affilò lo sguardo, e si voltò lasciandosi avvolgere da una spira d’aria. “Islanda?”

Islanda s’impietrì, arrestò a sua volta il passo sotto l’ombra allungata di una delle torrette binate, e serrò i pugni contro i fianchi. I capelli si agitarono sotto la spinta delle spire di vento e incorniciarono la forma tonda del suo viso, reso più bianco dal freddo e dall’oscurità del cielo in tempesta. I suoi occhi si strinsero leggermente e divennero più scuri, velati da un’ombra di ostilità ed esitazione che lo tenne distante da Inghilterra, e più vicino agli schizzi dell’acqua ghiacciata che riuscivano a saltare fino al ponte. Mister Puffin sgranchì le zampe appese con gli artigli alla controspallina del padrone che vestiva a sua volta in uniforme nera – una spada e un bastone da feldmaresciallo si incrociavano sotto le cuciture dorate che formavano il disegno della Corona Reale, gradi da viceammiraglio – e sbatté le ali lasciando cadere una piuma corvina. Gli occhietti neri e sottili della pulcinella di mare guizzarono in direzione di Inghilterra e lo fulminarono, pungenti e penetranti come gli sputi di ghiaccio soffiati da quel vento artico che gridava su di loro agitandogli il piumaggio.

Islanda girò lo sguardo verso il mare, facendosi più piccolo nell’uniforme nera della Royal Navy che gli dava un aspetto impacciato, e si lasciò coprire dal profilo di Mister Puffin che gli rimase appollaiato sulla spalla. Corrugò un’espressione scocciata e intimorita che nascose l’insicurezza dei suoi occhi. “Non credo di essere nella posizione più adatta per rifiutare.” Si strinse il braccio, e si strofinò la manica dal gomito alla spalla con movimenti rapidi e nervosi.

Inghilterra rinnovò il sorrisetto da furbo, trasformandolo in un mezzo sorriso di soddisfazione. “Su questo puoi scommetterci.”

Islanda corrugò le punte delle sopracciglia, fossilizzò quel paffuto e un po’ infantile broncio di disappunto, e lasciò che le sue parole venissero arrochite dal vento. “Questo non significa comunque che la situazione mi piaccia. Voglio dire...” Si rimboccò il bavero della giacca nera, riprese a camminare lungo il ponte, ma i suoi occhi rimasero fissi sul mare, a rifletterne le sfumature ghiacciate e metalliche, gelide come la sua voce. “Mi hai fatto stare in disparte fino ad adesso, da quando la mia nazione è finita sotto il tuo controllo, e ora mi tiri fuori come se fossi, non so, una specie di soldatino giocattolo.” Sciolse la stretta delle dita attorno al braccio, sollevò la mano all’altezza della spalla, e accostò le nocche al muso di Mister Puffin. Gli strofinò una carezza sulla testolina, in mezzo agli occhi, e si lasciò consolare dai lievi gorgoglii di piacere che emetteva la pulcinella. Una sfumatura più rassegnata gli intristì lo sguardo. “Forse non sei tanto diverso dai tuoi nemici come vuoi far credere.”

Inghilterra scrollò le spalle, indifferente. “Non ho mai detto di esserlo.” Riprese a camminare verso prua, verso la bandiera britannica che sventolava sotto gli schiaffi del vento, e continuò a scrutare Islanda da sopra la spalla con la coda dell’occhio. “Ma non voglio illuderti, Islanda,” gli confessò. “Non sono qui per esserti amico, non sono qui per cercare la tua simpatia, ma sono qui per portare avanti una guerra. Nonostante questo...” Si girò, fermandosi davanti a lui, e si posò la mano sul petto, accanto alla composizione di piastrine colorate cucite sulla giacca. La sua voce assunse un tono più fiero e solenne. “Ti prometto che mi comporterò come un degno alleato e che farò in modo che tu sia sempre al sicuro.” Tese il braccio e gli porse la mano aperta, leggermente arrossata e graffiata dal gelo. “Ci stai?” Il vento gli agitò l’orlo della manica nera.

Islanda posò lo sguardo sulla mano tesa di Inghilterra, corrugò un’espressione scettica che gli fece storcere la punta del naso, e strinse di più i pugni infilati nelle tasche, tenendoli serrati, cementati là dov’erano. “Sei davvero disposto a fidarti di me così cecamente?”

Inghilterra aprì e strizzò la mano, esitò anche lui e ricambiò quell’occhiata scettica. “Cosa vuoi dire?” Ritirò il braccio.

Islanda si strinse nelle spalle sentendo il peso di Mister Puffin spostarsi assieme al movimento dei suoi muscoli. “Potrei sabotarti.” Camminò affianco a Inghilterra e gli sfiorò il braccio con il suo. “Potrei farti perdere di proposito contro Germania. Se mi facessi conquistare da lui, forse avrei più da guadagnarci rispetto a rimanere con te. Per lo meno, passando dalla parte dell’Asse tornerei assieme a una parte della mia famiglia.” Si sgranchì le dita, percependo la pressione delle catene invisibili aggravarsi attorno ai polsi puliti, senza piaghe o ferite. Ma il peso rimaneva. “Ormai, o una catena o l’altra...” Buttò lo sguardo sopra la sua spalla libera, e lanciò a Inghilterra un’occhiata sbilenca e ostile come quelle di Mister Puffin.  “Cos’è che dovrebbe rendere la tua prigionia migliore?”

Inghilterra rimase in silenzio, viso di pietra, cullato dall’ululato del vento che gli soffiava nelle orecchie, e dal freddo che gli carezzava le guance e che si infilava sotto gli abiti, e sospirò. “Non credo che tu avresti abbastanza forza e potere da essere in grado di sabotarmi.” Tornò a camminargli davanti e accennò un minuscolo sorriso. “Scusa se te lo dico.”

Islanda aggrottò la fronte. Mister Puffin gonfiò il piumaggio, distese leggermente le ali per apparire più grosso e minaccioso, e i suoi artigli si piantarono nella controspallina dorata a cui era appeso. I suoi occhi brillarono di una luce cattiva, risposero all’offesa lanciata al padrone.

Inghilterra ignorò la minaccia di Puffin, sollevò il mento e guardò Islanda con un’espressione più mite, quasi delusa. “Ma hai davvero così poca fiducia in me?” gli disse. “Non credi che riuscirò a riunirti al resto della tua famiglia?”

Islanda guardò in basso, di nuovo sconfortato e schiacciato dal senso di impotenza che gli stringeva i polsi e il cuore. “No.” Un brevissimo lampeggio gli attizzò la luce negli occhi. “Scusa se te lo dico.”

Inghilterra esitò, e non seppe nemmeno lui se sentirsi offeso o compiaciuto.

I passi di Islanda accelerarono e tornarono ad affiancarlo. “Che interessi avresti nel farmi tornare libero e assieme a loro?” gli chiese lui.

Inghilterra sospirò, gonfiandosi di quell’aria fitta di ghiaccio e di nafta, e arricciò le labbra in una mezza smorfia di dubbio. “Uhm, interessi...” Si lasciò trascinare da una spinta del vento, tese una mano davanti alla fronte, e posò lo sguardo sul cielo di piombo. I tralicci dell’incrociatore passavano attraverso la nebbia addensata sopra le loro teste e la trafiggevano come lame. Il sottile nevischio si scioglieva subito, spargendo un lieve velo di pioggerellina che si condensava sui loro visi e sulle loro giacche – perline d’argento su un manto nero – pungendoli come una tempesta di spilli. Inghilterra corrugò la fronte. “Ci sono molte altre cose che smuovono le guerre, sai.” Si tolse la mano dalla fronte e la passò fra i capelli che si stavano inumidendo. “Principi morali, affetti, vendette puramente emotive. La guerra a volte va al di là degli interessi strategici.”

“Non per uno come te.” Islanda superò Inghilterra, tornò a portarsi davanti a lui, e s’impuntò con quel suo sguardo freddo e incrinato dall’insicurezza. “Te lo chiedo di nuovo.” I suoi occhi divennero più penetranti di quelli di Mister Puffin. “Cos’è che rende la mia prigionia meno opprimente rispetto a quella che devono patire mio fratello, o Danimarca, o anche Finlandia?”

Inghilterra sostenne il suo sguardo senza esitazione. “Perché la tua prigionia ti sarà utile,” rispose. “E sarà il mezzo per la tua stessa liberazione.”

Islanda sbatté le palpebre, perdendo quell’ombra di ostilità che gli oscurava gli occhi, e restò a labbra socchiuse, non capendo.

Inghilterra continuò a camminare sul ponte con passo incalzante. “Germania ha tutti gli interessi di tenervi incatenati, anche quando la guerra sarà finita, al contrario di me. Germania...” Tornò a flettere un accenno di sorriso, un sorriso più amaro, e i suoi occhi scivolarono sulla distesa di acqua grigia. “Vuole costruire un impero, dopotutto. Lui vi vuole tutti al suo cospetto, come pedine. Anche io durante questa missione ti userò come una pedina, è vero, ma la differenza fra me e Germania è che io so riconoscere e rispettare il tuo valore da nazione. E ti prometto che, una volta che la guerra sarà finita, scioglierò la scacchiera e tu riotterrai la tua libertà.” Squadrò Islanda e gli lanciò di nuovo una sottile occhiata di furbizia da sopra la spalla. “Questo ti sta bene?”

Islanda e Mister Puffin si guardarono sottecchi, scambiandosi la stessa espressione di scetticismo che fece storcere un sopracciglio a entrambi. Islanda sospirò a fondo alzando gli occhi al cielo, e passò accanto a Inghilterra senza nemmeno guardarlo in faccia. “Non ho scelta, no?” Tornò a sfiorargli la spalla e proseguì verso prua.

Inghilterra si ritrovò a squadrare la sua schiena ingoffita dalla giacca dell’uniforme troppo larga, le sue spalle leggermente ingobbite dove troneggiava il profilo nero e maestoso di Mister Puffin, come una sua seconda ombra, e fece roteare lo sguardo percependo un nervoso e familiare formicolio in fondo al petto. Eccone un altro con la fase ribelle. Si rimise le mani in tasca e accelerò la camminata. Tornò a raggiungerlo. “Ti è ben chiaro il tuo compito?”

Islanda continuò a passeggiare a viso basso, sempre rintanato dietro il profilo di Puffin, e parlò a voce più bassa. “Sì,” annuì. “Mi hanno detto che è stato avvistato un convoglio tedesco diretto a nord, e che noi abbiamo il compito di stanarlo e di fermarlo per impedire che faccia...” Soffiò una pesante e umida nuvoletta di condensa dello stesso colore della nebbia. “Qualsiasi cosa abbia in mente di fare.”

Inghilterra aprì e strinse le mani sul fondo delle tasche per sopprimere un violento brivido di disagio che era tornato a scuoterlo. “La questione non è così facile.” La nebbiolina disciolta dalla foschia in cielo che si stendeva anche sul ponte dell’incrociatore si dissolse, e Inghilterra riuscì a scorgere lo sventolio della bandiera appesa a prua che si faceva gonfiare e sgonfiare dal vento. “Ancora prima di questo allarme, abbiamo avvistato e registrato un numero sempre maggiore di ricognitori tedeschi attorno alle coste della Groenlandia, proprio in quel tratto di mare che imbocca l’entrata nell’Atlantico e che serve anche per accedere alle tue acque.”

Islanda allargò le palpebre sentendo gli occhi diventare più lucidi, e soffiò un respiro più morbido. “Lo Stretto di Danimarca.” Pronunciò quel nome sentendo una fitta di malinconia chiudersi attorno al cuore.

Inghilterra annuì. “È ovvio che Germania sta macchinando qualcosa di grosso.”

Islanda arricciò verso il basso un angolo della bocca, e guardò Inghilterra di traverso tornando a corrugare un mezzo broncio. “E ci pensi solo adesso?”

“Prima non ne ho avuta occasione, non ci ho badato troppo,” rispose Inghilterra. “Ero già abbastanza sulle spine per la guerra nei Balcani che...” Il pensiero della guerra nei Balcani gli arrivò in faccia come uno degli schiaffi di vento e pioggerellina che ghiacciavano l’atmosfera. Inghilterra scosse il capo per disfarsi dei brividi che gli si erano piantati nelle ossa come chiodi, e continuò a camminare a passo incalzante, lasciandosi guidare dalle vibrazioni dell’incrociatore sotto i suoi piedi. “Ma ora il problema quassù al nord si è solo incrementato, e probabilmente questi movimenti da parte dei tedeschi hanno tre possibili spiegazioni.”

Islanda si mise a braccia conserte, si strofinò le maniche della giacca, e mantenne quel leggero broncio scettico a corrugargli il volto. “E sarebbero?” Anche Mister Puffin si diede una scrollata alle piume imperlate di condensa, e tornò ad appollaiarsi sulla spalla del padrone.

Inghilterra sfilò una mano dalla tasca della giacca, si fermò, e stese l’indice davanti al viso di Islanda. “La prima: stanno semplicemente scortando dei convogli di rinforzo per le basi in Norvegia e poi contano di tornare in Germania, senza nessuna conseguenza su di noi.” Stese il medio. “La seconda: stanno scortando il convoglio al Nord per preparare degli attacchi navali diretti o su di te, o sulle Isole Fær Øer.”

Islanda sentì una botta di freddo colpirlo nelle viscere e dovette deglutire per riprendere fiato. Attacchi navali su di me.

“E la terza,” concluse Inghilterra, stendendo anche l’anulare, “stanno per imboccare le acque dell’Atlantico e bloccare in questo modo tutti i miei traffici mercantili, compresi quelli con America.” Ritirò la mano che aveva aperto davanti a Islanda, tornò a rintanarla al caldo, nel fondo della tasca, e lo guardò con occhi di nuovo seri e profondi, sfumati di ombra. “Tu cosa ne pensi?”

Islanda si morse il labbro, tastò il sapore metallico delle goccioline di nebbia sciolta, tornò a scambiare uno sguardo con Mister Puffin, e il timore che gli era lampeggiato negli occhi nel sentire le parole ‘attacchi navali contro di te’ aprì uno spiraglio di luce nella sua mente. Si strofinò la nuca. Quella lieve ruga di broncio tornò ad aggrottargli lo sguardo pensoso. “Hai detto che avete avvistato una corazzata e che è stata rilevata dai radar e fotografata assieme a un incrociatore. È a quei due che diamo la caccia, no?”

Inghilterra si strinse nelle spalle. “Non siamo ancora sicuri che sia realmente una corazzata, le fotografie aeree erano troppo imprecise. È solo l’ipotesi più probabile.” E quella che meno spero che si realizzi.

Islanda strinse le dita che aveva strofinato dietro l’orecchio, e quella leggera scossetta alla testa gli accese una scintilla nella mente. “Smuovere una corazzata...” Soffiò un fischio di vento che agitò la sua giacca e il piumaggio di Mister Puffin. Islanda scosse il capo e camminò accanto a Inghilterra. “Secondo me allora vogliono entrare nell’Atlantico.”

Inghilterra strinse le labbra e trattenne uno sbuffo. “Già,” annuì. “In realtà, è quello che penso anch’io.” Tornò a stringere i pugni, e trascinò il suo sguardo verso la distesa di mare color piombo che si increspava sotto il tappeto di nebbia che circondava il Norfolk. Una carica elettrica densa e soffocante come quella foschia lattea penetrò fino al cuore di Inghilterra, gli soffocò il battito in un guizzo pungente e doloroso, e gli contrasse i muscoli. Inghilterra strinse le palpebre e condensò l’immagine delle onde frastagliate nel profondo dei suoi occhi. “Me lo sento nelle viscere.”

Islanda compì ancora qualche passo lungo il ponte, oscillando assieme all’incrociatore che ogni tanto dondolava sotto la spinta dell’acqua e dell’aria, e tornò a rivolgersi a Inghilterra. “Che corazzata è?”

Inghilterra lo seguì, proseguendo la camminata verso prua. “Probabilmente quella nuova. La gemella della Tirpitz.” Attese che un altro ululato di vento si schiantasse contro gli alberi e i tralicci del Norfolk. Lasciò scivolare quel nome sulla lingua, macchiandosi di un amaro presagio. “La Bismarck.”

Islanda sollevò un sopracciglio, i suoi occhi si accesero di incredulità. “E come speri di batterti contro una corazzata del genere?” Alzò un piede e diede due leggeri colpetti al ponte con la punta della scarpa. “Con soli due incrociatori?”

“Non dire assurdità,” lo rimproverò Inghilterra. “Sia il Norfolk che il Suffolk sono qui solo per svolgere un ruolo di pattuglia e di tallonamento nel caso i tedeschi riuscissero ad avvicinarsi a noi.” Inghilterra guardò di nuovo verso il mare, verso la linea d’orizzonte nera che divideva la superficie dura e metallica dell’acqua da quella più gonfia del cielo che continuava a cambiare e a farsi modellare dal vento. I suoi occhi verdi si fecero più aguzzi. “Prima di mettermi a rincorrerli, però, voglio che siano loro a presentarsi qua nello stretto, per non sprecare carburante. Sto già facendo sorvegliare tutti gli altri sbocchi possibili per arrivare all’Oceano Atlantico, ma prima cominceremo con dei pattugliamenti aerei nei fiordi norvegesi.” Inghilterra scosse le spalle, strinse e aprì i pugni dentro le tasche della giacca, e distese un sorriso più rassicurante che gli rasserenò lo sguardo. “Anche se i tedeschi riuscissero a presentarsi qui, ho la Forza H, ho la Home Fleet. Basterà svuotare tutta Scapa Flow, e sia il Norfolk che il Suffolk non dovranno sparare nemmeno una salva.”

“M-ma se...” Di nuovo un lampo di allarme balenò nello sguardo impallidito di Islanda. “Se fossero i tedeschi ad attaccarci per primi colpendo proprio gli incrociatori di pattuglia? Dovremmo per forza rispondere.”

“No, invece.” Inghilterra tese una mano voltando il palmo verso il cielo e fece una carezza all’aria, dove sentiva impregnarsi le goccioline di foschia piovute dagli strati di nubi. “Useremo le nebbie per nasconderci. Le navi tedesche hanno dei radar talmente rudimentali che non riuscirebbero mai a stanarci, soprattutto con il maltempo e con i ghiacci che gli si incrosteranno nelle antenne e che faranno perdere facilmente il segnale.”

Islanda sollevò un sopracciglio. “Quindi...” Un brivido elettrico gli corse lungo la schiena, gli scaldò il flusso del sangue che arrivò a bruciare all’altezza delle guance ancora graffiate dal vento gelido. “Sarà una battaglia navale.” Mister Puffin sollevò il muso che stava scaldando sotto l’ala, e anche i suoi occhietti color carbone scintillarono, fremendo di eccitazione.

“Non solo,” ripose Inghilterra, senza riuscire a nascondere un abbozzo di sorriso. “Ho anche in mente di far intervenire una portaerei, in modo da eseguire anche dei bombardamenti dall’alto. Ma non prima di aver capito cosa hanno veramente intenzione di combinare in queste acque.” Inghilterra guardò Islanda con occhi più duri, ma colmi di fiducia. “Per questo mi serve il tuo aiuto.”

Islanda rimase a bocca aperta. “Ma io come...” Scosse il capo e si premette la mano sul petto. “Come pensi che io possa esserti d’aiuto in tutto questo?” gli chiese. “Combattendo? Lo hai detto anche tu: io non sarei in grado di sconfiggere nemmeno te, figuriamoci Germania o Prussia.”

Inghilterra sollevò il mento, lo guardò di traverso, e aggrottò una smorfia offesa. “Pensi che io sia più debole di loro?”

Islanda si morsicò il labbro inferiore e ammutolì, si tenne chiuso nelle spalle diventando rosso in viso, gettò lo sguardo in disparte finendo con la guancia nascosta dietro il profilo di Mister Puffin, e flesse le sopracciglia in un’espressione colpevole e velata di imbarazzo. Glielo lasciò intendere.

Inghilterra abbassò le palpebre, soffiò un lungo sospiro che rasserenò la tensione sul suo volto, e anche la sua voce suonò più morbida, trascinata via dalle carezze di vento. “In realtà,” disse con tono pacato, “Germania è a Creta.” Camminò lungo il ponte continuando a guardare il mare, si rimboccò la giacca attorno al collo, e il suo sguardo si fece più distante, quasi si stesse affacciando oltre le increspature delle onde. “E non sono nemmeno sicuro del fatto che Prussia sia davvero qui a guidare i convogli, ma ho i miei buoni motivi per crederlo.”

Sia gli occhi di Islanda che quelli di Mister Puffin tornarono a farsi più scuri e sospettosi. “Quali?”

Inghilterra diede una scrollata di spalle. “Il fatto che non abbia partecipato all’assedio di Creta, prima di tutto,” rispose. “Io ho combattuto là durante il primo giorno dell’assalto, in ogni punto dell’isola, e non l’ho mai visto. Ed è impossibile che sia rimasto ad Atene o che sia tornato a Berlino proprio nel bel mezzo della campagna.”

“Quindi hai...” Una ruga di rabbia attraversò il volto di Islanda, accentuò l’ombra di sospetto addensata fra le sue palpebre ristrette, e aggravò la sua voce in un tono di accusa. “Hai deciso di lasciare il campo di battaglia a Creta solo per inseguire un nemico che non sei nemmeno sicuro di trovare qua?”

Inghilterra sospirò e fece roteare lo sguardo. “C’è comunque qualcuno che si sta occupando dell’isola al posto mio.”

“Ma hai abbandonato Grecia.” Islanda girò una guancia, guardando Inghilterra di traverso, e scivolò di un passo indietro. “Hai abbandonato il campo di battaglia di un tuo alleato e io dovrei fidarmi di te?”

Uno schiaffo di indignazione fece sussultare anche Inghilterra. “Ehi.” Anche lui tornò a buttargli uno sguardo più duro da sopra la spalla. “Grecia è comunque già in prigione, io non posso farci niente. Ormai tutto quello che potevo fare l’ho fatto.”

Un soffio di vento passò in mezzo ai due, scosse le loro giacche, il piumaggio di Mister Puffin, i capelli di Islanda, e nascose parte del suo sguardo dietro il bavero tirato fino alle labbra. Gli occhi di Islanda – ghiaccio metallico che scintillava come le onde spaccate in quel mare d’acciaio – percorsero la figura di Inghilterra dalla testa ai piedi, e il suo broncio si fece più amareggiato. “Lo sapevo,” mormorò. Islanda tornò a dare le spalle a Inghilterra, ad allontanarsi a passo lento, e Mister Puffin diede una sbattuta di ali, facendo apparire più larga e imponente l’ombra di entrambi. “Non si tratta mai di noi, ma solo di voi,” disse. “Se tu hai deciso di venire a combattere il convoglio tedesco, non è per difendere me, ma solo per difendere te stesso. Hai solamente paura che Germania si impadronisca del mio territorio e che ti circondi di conseguenza, non lasciandoti più scampo quando proverà a invaderti di nuovo.”

Anche Inghilterra guardò Islanda più a fondo, percorrendo la sua piccola figura che camminava sul ponte di coperta, la sua ombra allargata da quella sbattuta d’ali di Puffin appollaiato sulla spalla, quel suo viso basso che riusciva a rimanere fiero nonostante quella lieve e costante ruga di smarrimento. Dentro di sé, Inghilterra sapeva che Islanda aveva ragione. Islanda è molto giovane, si disse. Fra i Nordici è quello con meno esperienza sul suolo di guerra ed è quello più debole in campo militare, ma non è stupido. Forse, è proprio perché ha sempre assistito ai conflitti dall’esterno che riesce a essere così analitico. Corrugò un sopracciglio, tornando ad affilare quella sua espressione furba e calcolatrice. Potrebbe essermi davvero più utile di quello che credevo. E devo fare in modo che si fidi di me se voglio che questa alleanza funzioni.

“Ascolta, Islanda.” Inghilterra gli camminò vicino, tornandogli affianco, e abbassò il tono, ammorbidendolo. “Considera la mia sincerità come una prova di fiducia.” Si posò la mano sul petto, sopra il cuore. “Non ti mentirò e non ti ingannerò, sarò sempre sincero riguardo la mia posizione nei tuoi confronti, anche quando sarò costretto a confessarti che ti sto solo usando per i miei scopi.”

Un lampo di disprezzo corrugò la fronte di Islanda. Lui annuì lentamente e commentò con un “Grazie” senza nascondere una punta di sarcasmo.

Inghilterra non ci badò e rinnovò la sua promessa. “Ma ti garantisco la mia protezione. Tu proteggimi da questi mari, e io ti proteggerò da Prussia. Anche lui si trova in un territorio che non gli appartiene, quindi sarà in difficoltà, e io e te possiamo batterlo.”

“E se...” Islanda rabbrividì, si strinse nelle spalle e guardò in basso, perdendo la maschera di sarcasmo. “Se Prussia avesse avuto la tua stessa idea? Se anche lui...” Nella sua mente, quell’ipotesi sorse come una mano rachitica che emerge da un lago nero e melmoso, una mano pronta ad afferrarti la caviglia e a trascinarti nel buio e nel gelo, soffocandoti nell’oscurità di quell’acqua fangosa. A Islanda si strinse lo stomaco per la paura. “Se anche Prussia avesse deciso di sfruttare o mio fratello o Danimarca o... o tutti e due per aprirsi la strada verso l’Atlantico? Dovrei aiutarti a fare del male anche a loro?”

Inghilterra allontanò gli occhi. “Il mio obiettivo è Prussia,” ribadì, sbrigativo, “nessun altro.”

“E se lui usasse loro come scudo? Come faresti a evitarli?”

“In quel caso...” Inghilterra fece spallucce e scosse il capo, quasi non lo riguardasse. “Non posso assicurarti che mi tratterrò dal colpirli.”

Un altro fremito di paura scosse il corpo di Islanda, lo fece irrigidire in mezzo al vento, gli rese le guance più bianche e gli occhi più persi e insicuri, la pancia ancora stretta in un nodo di panico. Mister Puffin si sporse dalla sua spalla e gli toccò una guancia con la sua testolina piumata, diede un battito d’ali e inviò un’occhiata lacerante a Inghilterra, proteggendo il padrone dalle sue parole.

Inghilterra schivò gli occhietti pungenti della pulcinella e tornò a rivolgersi a Islanda. “Rilassati,” lo tranquillizzò. “Se ti può consolare, dubito che Prussia abbia coinvolto qualcun altro in un’operazione del genere. A lui piace fare le cose da solo. Lo capisco perché di solito anche per me è così. Senza contare il fatto che...” Le immagini della Battaglia sulla Manica emersero dai suoi ricordi, assieme agli sguardi di odio che Danimarca aveva rivolto a Germania, alla resistenza che gli aveva fatto sanguinare i polsi tirati dalle catene, e a tutta la rabbia e al dolore che Inghilterra gli aveva visto ingoiare quando si era ritrovato a stringere il corpo ferito di Norvegia fra le sue braccia. Inghilterra scosse il capo. “Sia Norvegia che Danimarca non gli sarebbero poi così utili, considerando la pessima condotta che hanno dimostrato durante le battaglie sulla Manica.”

Islanda sollevò un sopracciglio, tornò vigile e carico di sospetto. Quindi ha già combattuto contro di loro. Gli avrà fatto del male? Strinse i pugni, spremette dolore e paura fra le dita tremanti. E io dovrei combattere al fianco di qualcuno che sarebbe disposto a distruggere la mia famiglia pur di ottenere la vittoria? “Io...” Islanda si girò, distolse lo sguardo da quello di Inghilterra, e tornò a strofinarsi il braccio da sopra la giacca per grattare via quella sensazione di disagio che gli bruciava la pelle. “Io non so se voglio fidarmi di te.”

Inghilterra esitò, socchiudendo una palpebra, e un barlume di idea gli fece ritrovare la luce negli occhi. “E di Svezia ti fidi?”

Islanda sussultò, fermò il passo. “Come?” Un’altra fitta di nostalgia gli soffocò il battito del cuore. “Svezia?” Tornò a guardare Inghilterra, ad affrontare i suoi occhi penetranti, ma scivolò con un piede all’indietro, come per proteggersi dalle parole che stavano per arrivare. Lo guardò con sospetto. “Cosa c’entra Svezia?”

Inghilterra nascose un piccolo sorriso di soddisfazione sotto la giacca. Abboccato. “È stato lui a registrare il passaggio delle due navi e a passare il messaggio all’Ammiragliato di Londra.” Continuò a camminare a passo lento fiancheggiando la balaustra del Norfolk. “Voleva che intervenissi io di persona.”

L’espressione di Islanda si distese, gli occhi persero la sfumatura aggressiva che li teneva sulla difensiva, e anche la tensione dei suoi pugni si sciolse. Islanda soffiò un sospiro sorpreso che gonfiò una nuvola di condensa. “Oh.”

Inghilterra annuì. “Come vedi,” proseguì, “in qualche maniera stanno tutti facendo la loro parte.”

Islanda scosse il capo, accelerò il passo e tornò a mettersi affianco a lui, a cercargli lo sguardo, a cercare risposte. “Ma io cosa posso fare?” I suoi piedi tremarono leggermente, sostenuti dal ponte di quell’incrociatore che non gli apparteneva, di cui non ne riconosceva le vibrazioni, il respiro, il battito dei motori e il soffio del suo ruggito mentre tagliava le onde. Islanda si strinse nella giacca di un esercito che non gli apparteneva, di un paese che non era il suo, e tornò a farsi piccolo nell’abbraccio di stoffa, a sentirsi debole e fragile sotto la spinta del vento che gli ululava addosso. “I-io sono solo,” deglutì, tornò a rabbrividire, “solo...”

Inghilterra intercettò la sua insicurezza, quegli occhi vacillanti, e provò un soffio di tenerezza nel vederlo stretto alla sua uniforme nera che lo faceva apparire ancora più minuto. Tornò a parlargli con tono fermo e intransigente. “Staremo a vedere chi sei davvero.” Gli si piazzò davanti e sollevò lo sguardo, tenendo gambe e spalle larghe. “Vuoi combattere per la tua famiglia, Islanda?” gli disse con tono più forte e spronante. “Vuoi combattere per tornare assieme a quelli a cui vuoi bene e che hanno a loro volta combattuto per te?”

“I-io...” Islanda sbatté due volte le palpebre, scosse il capo, e anche il suo sguardo si riaccese, tornò sfrontato e combattivo come una delle occhiatacce di Mister Puffin. “Certo che lo voglio.”

Inghilterra annuì. “Allora fidati.” Si girò e riprese a camminare a passo pesante e sicuro. “Non sarà facile, non sarà indolore, ma ti prometto che anch’io farò di tutto per riportarvi tutti e cinque assieme. Anche io sto mettendo in pericolo parte della mia famiglia per voi, anche io sto cercando di proteggere quelli a cui voglio bene.” Strinse le mani dietro la schiena, e i suoi occhi fiammeggiarono di ferocia. “Quindi non credere che me ne andrò da qui senza prima avere ottenuto quello che voglio.” Il vento gli soffiò attraverso, raccolse l’aria del nord, il suo freddo, l’odore di nafta proveniente dall’incrociatore, e si diresse più a sud, dove altre navi stavano solcando le acque.

 

♦♦♦

 

21 maggio 1941,

Mare del Nord, Norvegia, pressi di Bergen

Bordo della Corazzata Bismarck

 

L’ammiraglio della Kriegsmarine sfogliò ancora due dei bollettini che erano ammucchiati su uno dei tavoli al centro della plancia, si soffermò su quello che reggeva nella mano destra, e corrugò le sopracciglia grigie percorrendo con lo sguardo le righe stampate a macchina che riempivano la carta gialla. La penombra della camera, rischiarita solo dalle lampade a soffitto, accentuò gli infossamenti della sua espressione concentrata sui documenti. “Stimiamo che entro le ore zero-nove-zero-zero saremo in arrivo al Porto di Bergen, signore.” Appoggiò i fogli lasciandoli scivolare sulla superficie del tavolo, accanto alla tazza di caffè vuota, sbavata solo dei suoi fondi neri e granulosi, strinse le mani intrecciandone le dita, e rivolse gli occhi a Prussia. Occhi ancora appesantiti dalla stanchezza, come velati da uno strato di fumo, reduci di sole tre ore di sonno. “Abbiamo appena ricevuto un messaggio anche dall’equipaggio del Prinz Eugen, e dopo lo stazionamento procederemo anche assieme all’incrociatore, come stabilito.”

Prussia strinse la mano sul mento e fece anche lui correre lo sguardo sui documenti battuti a macchina. Uno sguardo attento e aguzzo, fresco e trasparente come una mattina di primavera, lucido come la superficie di un rubino. “Condizioni meteo?” Spostò accanto a sé la mano aperta con il palmo verso l’alto, e diede le briciole della sua colazione – quello che era avanzato dai suoi toast – a Gilbird che gli si era appollaiato affianco. Gilbird sporse il becco sulla sua mano, piegò la testolina esaminando le briciole, e cominciò a beccare partendo da quella più grossa.

L’ammiraglio e il suo vice si scambiarono un’occhiata bassa, e lo sguardo del viceammiraglio fu attirato inconsciamente dalle vetrate della plancia, oltre le quali la luce del sole che stava sorgendo lentamente era ancora tappata da nebbie fitte, scure e spumose come fumo appena evaporato dalla cappa di un camino.

Il viceammiraglio sospirò e si strinse nelle spalle. “Non delle migliori, signore.” Si passò una mano sul viso e fece correre le dita lungo la curva del collo, fino a spremerle sulla spalla indolenzita. “C’è molta foschia, e potrebbe cominciare a piovere entro la mattinata.”

“Ma eravamo comunque preparati all’eventualità, signore,” intervenne l’ammiraglio. “La nebbia si infittisce facilmente fra questi fiordi, e ci proteggerà nel caso qualche pattuglia aerea inglese dovesse raggiungerci e individuarci.”

Prussia accennò un gesto di affermazione con il mento, ma i suoi occhi rimasero bassi e assorti sui documenti, la mano aperta a forma di coppa ancora immobile sotto le beccate di Gilbird che continuava a mangiare le briciole di toast. Gli occhi di Prussia si fecero più accesi, lui guadagnò un respiro che gli irrigidì i lineamenti del volto, e buttò un’altra domanda che gli chiuse un sottile anello d’ansia attorno alla bocca dello stomaco. “Movimenti sospetti da Scapa Flow?” Anche Gilbird sollevò il musetto, attirato dal tono grave e vibrante del padrone, senza ingoiare la briciola che teneva stretta nel becco.

L’ammiraglio scosse il capo. “Nossignore.”

Il suo vice gli rivolse però un’altra occhiata più bassa e complice, sollevò le sopracciglia in un cenno ammiccante, e arricciò l’angolo della bocca. Si schiarì la voce, tornò a rivolgersi a Prussia. “In realtà, signore,” rigirò un paio di fogli, arrivò a delle fotografie sgranate, “anche il monitoraggio di Scapa Flow si sta rendendo più difficile a causa del maltempo.” Fece correre gli occhi sulle ultime fotografie aeree macchiate di foschia, dove era segnata la data del giorno prima, e si massaggiò la fronte. “Non siamo stati in grado di scattare alcuna fotografia aerea nelle ultime ore, perciò...” Non finì la frase, tamburellò le dita sul tavolo e lasciò intendere.

“Uhm.” L’espressione di Prussia tornò a distendersi, rimase tranquilla. Lui rilassò le spalle contro lo schienale della sedia e spostò lo sguardo verso le vetrate della plancia invase dal grigio del cielo. Scosse le spalle. “Be’, per la nebbia e la pioggia non possiamo incolpare nessuno.” Forse. “Ma non è comunque una buona scusa per abbassare la guardia.” Si rialzò dalla sedia con uno slancio, raccolse la giacca dell’uniforme bianca che aveva ripiegato sullo schienale, e se la buttò sulle spalle, indossando la prima manica. Gilbird sollevò il musetto e saltellò sull’orlo del tavolo per seguirlo. “Tenete Scapa Flow monitorata,” disse Prussia. “Avvisatemi di qualsiasi movimento, anche di un singolo spostamento da parte della Royal Navy, anche se un singolo merluzzo uscirà dalla base. E...” Prussia si fermò con le dita strette al primo bottone dorato della giacca, e rivolse un’ultima occhiata fulminea ai due ufficiali. “Tenete pronte le installazioni della contraerea qua in Norvegia.”

L’ammiraglio sollevò un sopracciglio, e anche il suo sguardo assonnato tornò a splendere di dubbio. “La contraerea, signore?”

Prussia annuì, si lisciò la giacca abbottonata, e diede due colpetti con le nocche alla parete della plancia. Sentì il ronzio della corazzata fare le fusa sotto la sua mano. “Ora che la Bismarck e il Prinz Eugen rimarranno fermi per queste ore, c’è più possibilità che gli inglesi riusciranno a individuarci. Se avvistate un qualsiasi aereo, anche solo di pattuglia, non necessariamente un bombardiere...” I suoi occhi si accesero di rosso, si tinsero di sangue, ma rimasero freddi come granito. “Abbattetelo.”

I due ufficiali irrigidirono la schiena, raddrizzarono le spalle, e annuirono entrambi con sguardo solenne. “Sissignore.”

Prussia diede le spalle a entrambi. Distese il braccio che aveva appena infilato nella manica della giacca, e chiamò Gilbird con un cenno della spalla. “Andiamo, piccino mio.”

Gilbird spalancò le ali e spostò il peso da una zampetta all’altra. “Pyo!” Sbatté le ali con un frullio rapido e sfrecciò lontano dal tavolo sollevando un angolo di carta di uno dei bollettini. Il canarino planò sul braccio di Prussia, diede un altro battito d’ali per tenersi in equilibrio e gli fu subito sulla spalla, accanto alla sua guancia.

Prussia uscì dalla plancia, imboccò le scale che scendevano dalla torretta di comando, e ribaltò il bavero della giacca, sistemandosi le piastrine dorate dell’uniforme. Ghignò, immerso nell’ombra del corridoio, e i suoi occhi si accesero di un rosso sanguigno. “È ora di dare la sveglia alla nostra ciurma.”

 

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Danimarca teneva lo sguardo fisso sul soffitto della cabina, le palpebre sbarrate e rigonfie di sonno, gli occhi rossi e brucianti che cominciavano a vederci doppio, e un lieve pallore a donare al suo viso un aspetto più smorto del solito. Pochi e sottili riflessi di luce grigia si proiettavano sul soffitto, penetrando dalle fessure delle tendine tirate davanti all’oblò. Il ronzio costante delle tubature che facevano vibrare la cabina, la cuccetta, e che si piantavano nelle orecchie attraverso l’imbottitura del cuscino premuto contro la nuca, era un trapanare costante che penetrava sempre più a fondo nel suo cranio, accrescendo la nausea provocata dal forte odore di naftalina e di vernice fresca, e dalle vertigini che provava sentendo le oscillazioni costanti del materasso che assecondava i movimenti della corazzata in navigazione.

Danimarca strizzò i pugni sulla coperta di lana cotta, sbatté due volte le palpebre brucianti e gli sembrò di spremere le ciglia in uno strato di sabbia ruvida. Tornò a rilassare le dita ma serrò i denti per contenere un ringhio di stanchezza e frustrazione. Raccolse il cuscino, se lo schiacciò contro le orecchie, si girò a destra distendendo le gambe sotto le coperte, ma le molle del materasso premettero più dure e soffocanti contro l’anca, scaricandogli una fitta di dolore. Si girò a sinistra, diede un’altra scalciata sotto le coperte, e fu ancora peggio, come se avessero imbottito la federa di sassi. Danimarca tornò a sbattere le palpebre tenendo l’orecchio schiacciato al cuscino da cui sentiva ancora i ronzii delle turbine e delle caldaie perforargli il cranio, e lasciò scivolare un braccio fuori dalle coperte, verso il pavimento. Esalò un sospiro stremato. “Nor.” Si appese all’orlo della cuccetta, strisciò tenendosi con la testa sotto la coperta di lana, e si sporse. Buttò un’occhiata alla cuccetta inferiore immersa nell’ombra. “Ehi, Norge, sei sveglio?”

Norvegia strinse il braccio che aveva raccolto sotto il cuscino, grattò le unghie contro la coperta di lana che gli cadeva lungo il fianco girato, e schiuse le palpebre, aprendo la vista appannata sulla parete della cabina contro cui era sistemata la cuccetta. Sbatté due volte le ciglia, e sospirò anche lui, colto da un formicolio di nervosismo che gli bruciò fra le pareti dello stomaco. “No,” ringhiò con un rantolo.

Danimarca tornò a rotolarsi supino, la nuca premuta sul cuscino e i pugni stretti contro la coperta tirata fino al petto, e i suoi occhi si fossilizzarono di nuovo sui riflessi grigi che ondeggiavano attraverso la superficie del soffitto. Una patina di sonno faceva luccicare il suo sguardo sgranato nel buio, spicchi di azzurro in mezzo al nero. Danimarca scosse il capo. “Io non riesco a dormire,” mormorò. “Più ci penso e...” Sciolse una mano dalle coperte e la aprì contro la faccia, sopprimendo i segni della fatica e del dolore che lo stavano corrodendo dal giorno in cui aveva messo piede sulla Bismarck. “E più mi rendo conto che questa è una gran bella situazione del cazzo.”

Norvegia tornò a stringere il braccio piegato sotto il cuscino, aggrappandosi all’imbottitura, e soffiò un sospiro contro la stoffa, tornando a chiudere gli occhi. “Buon per te.” Tirò la coperta di lana, rimboccandosela attorno alle spalle, e si concentrò solo sul buio delle sue palpebre abbassate.

Sul volto di Danimarca comparve un’espressione più ansiosa, ancora risucchiata nel groviglio di pensieri grigi e fitti che si erano annidati nella sua testa, come se non avesse nemmeno ascoltato i mormorii di Norvegia. “E se Prussia ci obbligasse a fare qualcosa che non vogliamo?”

Norvegia tornò a socchiudere gli occhi e corrugò un sopracciglio. “Stai dormendo in una cabina della sua corazzata,” precisò, “indossi un’uniforme della sua marina. Direi che è già qualcosa che non vuoi fare.”

Danimarca tornò a strizzare le dita contro la coperta, sopprimendo il prurito che gli divorava la carne e soffocava il respiro come quando aveva indossato l’uniforme a cui era cucita la croce di ferro, e rabbrividì. Tornò ad aggrapparsi alla doppia spranga che proteggeva il fianco della brandina, e si sporse di nuovo verso il basso, verso Norvegia. “Cosa credi che vorrà davvero ottenere da questo pattugliamento? Pensi...” Le unghie stridettero, il battito del cuore che pulsava attraverso le mani assorbì tutte le vibrazioni che palpitavano dalle viscere d’acciaio della corazzata, ne catturarono il respiro. “Pensi davvero che sia solo per Inghilterra?” La voce di Danimarca si fece più tremante. “Per fermare i suoi traffici? E se invece volesse mettere le mani anche su Isla?”

Questo lo fece esitare. Norvegia irrigidì sotto l’abbraccio delle coperte, tenne le dita serrate all’orlo di lana, e si girò di scatto rivolgendo a Danimarca quello sguardo storto e ancora offuscato dal sonno. Aggrottò un sopracciglio e inquisì i suoi occhi scuri che lo fissavano dal buio, toccati di traverso da quel sottile raggio di luce che entrava dalle tende.

Lo sguardo di Danimarca, semi celato nella penombra e dai capelli spettinati che cadevano in disordine attorno al viso, divenne più teso e vacillante, animato dal barlume di paura che lo aveva tenuto sveglio durante tutta la notte. “Se in tutto questo bello schifo dovesse finire coinvolto anche lui, allora cosa dovremmo fare?”

Norvegia rinnovò la sua espressione dura e distaccata aggrottando anche l’altro sopracciglio, e i suoi occhi parvero bucare l’oscurità che regnava nella cabina. “Perché dovrebbe finire coinvolto anche lui?” Ma quel fastidioso formicolio scivolò anche sotto le sue coperte, fin dentro la sua pelle, e gli si arrampicò lungo la schiena come una processione di formiche.

Danimarca si tenne aggrappato anche con l’altra mano alla doppia sbarra di contenimento, vi appoggiò il mento sopra, e guardò verso di lui con occhi più bui e tristi. “Perché prima ci pensavo, e mi sono anche detto: ‘Ehi, e se questa fosse l’occasione buona per far passare Isla dalla nostra parte?’ Sarebbe facile, no? Sconfiggiamo Inghilterra, aiutiamo Prussia a impadronirsi dei territori in mano alleata, Isla compreso, e almeno potremo tornare assieme.” Strinse le dita sul metallo, e le fasce attorno ai polsi feriti grattarono contro le piaghe che avevano ricominciato a pulsare come quando si erano appena aperte. Dentro il petto di Danimarca sorse un forte bruciore, una brace di rabbia. “Ma pensare che anche lui a quel punto dovrebbe subire quello che subiamo noi ogni giorno...” Tornò a scuotere il capo. “Forse... forse è davvero meglio che se ne stia assieme a Inghilterra piuttosto che sotto l’Asse.” Danimarca incrociò le braccia sulla sbarra e si sporse verso il basso facendovi scivolare sopra i gomiti. Cercò di nuovo Norvegia. “Tu che faresti?”

Le dita di Norvegia tremolarono contro l’orlo della coperta, sopprimendo quella scossa di timore che lo aveva punto alla base del collo. Lui scosse il capo, si tirò di nuovo le coperte fin sopra la spalla, senza girarsi, e affondò il capo nel cuscino. “Ti continui a comportare come se tutto questo dipendesse ancora da te.”

“Perché?” ribatté Danimarca. “Secondo te noi non possiamo più influenzare nulla in questa merda di guerra?”

“No.” Norvegia tornò a sporgersi a sua volta dalla cuccetta, e un lembo di coperta scivolò dalla sua spalla, cadde contro il suo gomito, e si ammosciò sul pavimento. “Tu non hai più potere,” gli disse con tono duro e freddo come i suoi occhi. “Non puoi più decidere cosa fare della tua vita. Ed è meglio che lo accetti prima che ti ritrovi...”

La porta della cabina si spalancò e sbatté contro il muro, una mano colpì l’interruttore alla parete e una bomba di luce esplose nella camera. “Sveglia, sveglia, ciurma!”

Danimarca schizzò in un salto che lo sbalzò via dalla cuccetta. “Wha!” Sbatté la testa sul soffitto, si sbilanciò sorvolando la sbarra di contenimento, precipitò a terra, scivolò contro l’orlo della cuccetta di Norvegia, tirando con sé il lembo di coperta che era caduto dal materasso, e trascinò con sé anche lui, facendolo ruzzolare sul pavimento.  

Prussia tolse le dita dall’interruttore sulla parete, si strofinò le mani con due colpetti, e il suo sguardo scivolò verso il pavimento. “Siamo già entrati nel fiordo, e stiamo per attraccare al porto, abbiamo già preso contatto con il Prinz Eugen, perciò...” I suoi occhi si soffermarono sul groviglio di coperte, sulla mano che Norvegia stava schiacciando contro la faccia di Danimarca per scollarselo di dosso, sui loro gomiti che si erano incatenati, e sulle gambe finite intrecciate sotto le coperte ingarbugliate. Prussia sollevò un sopracciglio in un’espressione perplessa. “Vestitevi e datevi un contegno, per l’Amor di Fritz.” Anche Gilbird, appollaiato sulla sua spalla, flesse la testolina guardandoli con occhietti confusi, sobbalzò emettendo un cinguettio di imbarazzo, e si coprì il muso sotto l’ala.

Norvegia piegò una gamba a sé, spinse il piede contro l’anca di Danimarca, lo fece rotolare lontano da lui, e sgarbugliò la coperta attorno alle sue caviglie. Si tolse un lembo di lana dalla spalla e lo ribaltò contro la testa dell’altro. “Ehi!” Danimarca si appese alla coperta che gli era caduta sul viso, si mise gattoni, tastò il pavimento, e scivolò sbattendo il mento sul legno.

Prussia si girò, distogliendo lo sguardo da quella scena, e sollevò un indice al soffitto. “Vi voglio sistemati e vestiti entro mezz’ora, poi raggiungetemi nella sala comandi. Fra meno di un’ora saremo a Bergen.”

Norvegia sgranò gli occhi rischiariti dalla luce appena esplosa nella camera e il suo corpo irrigidì. Il fiato congelato in gola. Siamo già a Bergen? Anche lui compì un piccolo rimbalzo sulle ginocchia, cadde sul gomito, provò a fermare Prussia congelandolo con uno sguardo. “Prussia, aspetta...”

“Mezz’ora, ciurma,” Prussia acchiappò la maniglia della porta, “non di più.” Richiuse la cabina con uno schiocco e i suoi passi si allontanarono lungo le pareti del corridoio che si infilava nelle viscere della corazzata. Tornarono solo i brusii delle turbine e i rantoli di Danimarca soffocati dalla coperta che non era ancora riuscito a togliersi dalla faccia.

Norvegia salì sulle ginocchia, tenne lo sguardo scettico rivolto al pavimento, e isolò un altro rantolio di dolore di Danimarca per udire solo la voce dei suoi pensieri. Allora siamo già nel bel mezzo dei fiordi, siamo già nel mio territorio. Strizzò le mani su un lembo di coperta di lana, e un brivido freddo come un cubetto di ghiaccio lasciato scivolare sulla spina dorsale gli toccò la pelle, infilandosi fin dentro le cosce. Ecco perché ho passato la notte a rigirarmi e a non capire cos’è che mi turbasse. Staccò le mani dalla coperta e si strofinò le braccia da sopra la camicia, come per scollarsi di dosso un’appiccicosa e viscida pellicola di malessere che si era condensata in un gelido senso di nausea in fondo alla pancia. Ma cosa vuol dire questa sensazione? È come se la mia terra mi stesse cercando di mettere in guardia. Spostò lo sguardo dietro di sé, verso l’oblò della cabina coperto dalle tendine scure, e si concentrò sul filo di luce grigia, brillante e sottile come una lama, che penetrava l’ambiente. Altri brividi lo scossero. Ma in guardia da cosa?

Danimarca emerse da sotto le coperte, mugugnò un altro lamento, e si strofinò la testa. “Urgh, che male...” Scosse il capo, diede un’altra grattata ai capelli spettinati, e diede il suo solare buongiorno alla radiosa mattinata che stava sorgendo in mezzo alle nebbie norvegesi.

 

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21 maggio 1941,

Porto di Bergen, Norvegia

Bordo della Corazzata Bismarck

 

L’incrociatore pesante Prinz Eugen, visto di profilo, era meno massiccio rispetto alla corazzata Bismarck. Dietro lo strato di nebbiolina grigia e cristallina incuneata nelle rientranze del porto, e addensata sopra la superficie del mare nera che carezzava quella terra alta e spiovente, Norvegia riusciva a riconoscere le striature bianche e nere che si allungavano dallo scafo dell’incrociatore fin sul suo ponte aperto, sul ponte di comando e sulle stazioni di controllo. I tralicci dell’albero maestro bucavano la nebbia e si perdevano nella foschia, non se ne vedevano le cime. Un vento aspro e tagliente come una carezza di lame agitava le bandiere tedesche che sventolavano dalla prua e dalla poppa dell’incrociatore. Le sagome scure e piccole dei marinai si spostavano in mezzo ai cannoni delle torrette binate, svanivano e ricomparivano come ombre, e le loro voci finivano nascoste dai gracchi e dai cigolii delle gru, dagli ululati dell’aria che soffiava sul porto. Gocce di pioggia fine e ghiacciata soffiavano anche sul ponte della Bismarck. Sputavano i loro cristalli addosso a Norvegia, gli sfregiavano le guance arrossate dal freddo, gli agitavano le ciocche di capelli tenuti fermi dalla spilla a forma di croce che scintillava a ogni ondeggio, e scuotevano i lembi della giacca pesante che si era tirato fino alle labbra per resistere alle grida della sua terra che gli fischiavano nelle orecchie.

Norvegia compì un paio di passi attraverso il ponte della Bismarck, si appoggiò con i gomiti alla balaustra, sporse le spalle in avanti andando incontro alle braccia del vento che lo attiravano verso il profilo del Prinz Eugen, e i suoi occhi si riempirono di nebbia, divennero scuri e freddi come il cielo che si stendeva sopra il porto di Bergen. Norvegia sospirò, sentendo il petto appesantirsi di sconforto. Navi tedesche nei miei porti. Una viscida sensazione di disagio, fredda e appiccicosa come ghiaccio sciolto, gli si arrampicò lungo le gambe, gli strisciò fin sotto i vestiti dandogli l’impressione di avere una mano estranea infilata fra le cosce. Norvegia strinse le gambe, arricciò le spalle in avanti tenendo le braccia conserte accostate al petto, e si morse le labbra per contenere un tremante conato di disgusto. Le ginocchia vacillarono, i pugni si strinsero contro la balaustra d’acciaio e conficcarono le unghie nei suoi palmi. E sapere di non poterci fare nulla fa ancora più male. Il suo cuore batté di dolore, di rabbia e di frustrazione, la stessa sensazione che lo aveva trafitto al petto il giorno della sua occupazione. Se solo potessi combatterli ancora...

La sottile pioggia di ghiaccio sputata contro le sue ciglia lo spinse a socchiudere gli occhi, a voltare lo sguardo verso le ombre dei cannoni binati che si stendevano lungo il ponte della Bismarck, fino a seppellirlo. Norvegia si girò, tirò il capo all’indietro, e finì con lo sguardo risucchiato nel buio che si apriva nelle bocche dei cannoni a riposo – quei grandi e profondi fori ovali che vibravano di energia latente come tutta la corazzata. Un brivido di timore e soggezione gli scivolò nello stomaco, ma gli trasmise una sensazione più tiepida e morbida, avvolgente come un abbraccio protettivo. Norvegia distese la tensione del viso, rilassò la contrattura delle ginocchia che si erano serrate per resistere alla sensazione di disagio scivolata fra le sue gambe, e si lasciò toccare dal senso di protezione trasmesso dall’energia delle torrette circondate dallo strato di nebbia che le faceva apparire ancora più grandi e possenti contro il cielo grigio. Per lo meno i tedeschi sanno quello che stanno facendo con tutta questa forza fra le mani. Tornò a guardare il Prinz Eugen, le sue forme aguzze e spigolose, le nuvole di nebbia che parevano pulsare di energia attorno alle sue torrette e alle bocche dei suoi cannoni, come nubi di temporale attraversate dalle ramificazioni dei fulmini, e si sentì invadere da quella tempesta elettrica che era come una soffiata di fuoco sulla pelle. Corrugò un sopracciglio. Spero.

Dei passi si avvicinarono a lui attraverso la superficie del ponte, e una voce lo colse alle sue spalle. “Magnifico, vero?”

Norvegia riabbassò di colpo il capo e si voltò tenendo un pugno stretto alla balaustra.

Prussia gli si avvicinò a passo lento ma pesante, tenendo le mani infilate nelle tasche della giacca pesante che aveva indossato sopra l’uniforme bianca, e indicò il profilo del Prinz Eugen con un cenno del mento. “L’incrociatore,” specificò. “È la prima vera missione ufficiale anche per lui, da quando l’abbiamo varato.” Si portò affianco a Norvegia, incrociò anche lui le braccia sulla balaustra metallica, e si affacciò al porto. Le spire di vento lo avvolsero, distribuirono il velo di gocce di pioggia sulla sua giacca, fra i suoi capelli e sulle sue guance arrossate dal freddo. Prussia soffiò un sospiro di condensa, e i suoi occhi assorbirono il grigiore del cielo, il buio pece del mare che si infrangeva sullo scafo delle imbarcazioni, e il nero della terra. Divennero color bronzo. “È una bella nave,” disse, rivolto al Prinz Eugen. “Giovane e fresca.” Sollevò un piede e batté la punta sulla superficie del ponte, lasciando sbocciare un sorriso aguzzo sulle labbra. “Possiamo quasi considerarlo il fratellino della Bismarck. Non avete nulla da temere, credimi. Con una forza tale schierata nell’oceano, nemmeno uno come Inghilterra sarà un ostacolo per noi e per la nostra missione.”

Norvegia corrugò leggermente la fronte e gli rivolse uno sguardo distaccato, gonfio di astio. Il vento fischiò con più prepotenza attorno a lui, il cielo si addensò apparendo più buio, color piombo, e gli donò un’aria più tetra. Norvegia tornò a stringere i pugni sulla balaustra, a rivolgere gli occhi al Prinz Eugen, e rimase in silenzio, le labbra a sfioro del bavero della giacca.

Prussia lo guardò di striscio, da sopra la spalla, senza che Norvegia se ne accorgesse, e appiattì il ghigno, tornando serio in volto. Soffiò anche lui un sospiro, una nuvoletta bianca che si gonfiò come la bolla di un fumetto, e si passò una mano fra i capelli inumiditi dalle goccioline di pioggia. “So che non vi fidate di me.” La mano corse lungo la curva del collo e strofinò la nuca. “E non ve ne faccio una colpa, giuro. Nemmeno io mi fiderei di me se fossi al posto vostro. Ma indovina un po’...” Rivolse l’indice a Norvegia. “Nemmeno io mi fido di voi. E sai perché?”

Norvegia non mutò l’espressione del volto, si limitò a ruotare gli occhi verso Prussia e a guardarlo con sufficienza.

Gli occhi di Prussia, scuri come bronzo ma ancora caldi come sangue appena versato, trasudavano sincerità. “Perché so che siete forti.”

Norvegia sollevò l’estremità di un sopracciglio, tradendo il piccolo guizzo al cuore che aveva provato davanti a quelle parole.

Prussia si strinse nelle spalle, tornò a guardare il mare, le nuvole, il profilo scosceso del porto che si immergeva nello strato di nebbia. “Anche se siete sotto il nostro controllo come le pedine di una scacchiera, voi due rimanete pur sempre delle nazioni. Avete un cuore, avete un cervello.” Accennò uno sbuffo di risata e scosse il capo. “Non credere che io me ne dimentichi. So quello che è successo durante i combattimenti contro Inghilterra e so in che maniera siete riusciti a tenere testa persino a lui.” Fece tamburellare le dita sollevando un trillo metallico sulla balaustra, e la sua voce si fece più rauca. “E a ribellarvi agli ordini di mio fratello. In entrambi i casi, ci vuole una forza di volontà notevole.” Prussia tornò a rivolgere a Norvegia quello sguardo sincero, ma anche più pesante e difficile da sostenere rispetto a quelli bollenti e animati dai suoi occhi in fiamme. “Se collaborerete con me, se non farete i difficili, e se vi fiderete come io sto decidendo di fidarmi di voi, prometto che farò di tutto per riunirvi con Islanda.”

Norvegia affrontò lo sguardo di Prussia, restrinse anche lui le palpebre, e si lasciò di nuovo avvolgere dall’oscurità del cielo, dal gelo della pioggerellina che gli cadeva attorno, cristallina come neve. I suoi occhi si riempirono del colore buio e soffocante della nebbia. “E come?” Raddrizzò le spalle, spostandosi dalla balaustra, e diede le spalle a Prussia. Si protesse il viso con un lembo della giacca e camminò lontano. “Mettendo in catene anche lui?”

Prussia fece roteare lo sguardo e lo seguì. Camminò affianco alle catene delle ancore tese che si infilavano nelle viscere del ponte di coperta – anelli di catena così spessi da arrivargli fin sotto il ginocchio – e anche lui si rimboccò la giacca. “È un prezzo onesto, mi sembra.” I rombi e i ronzii delle turbine che emergevano dal ponte si fecero più alti e fragorosi. Prussia dovette alzare la voce per farsi sentire da Norvegia. “Non è quello che avete sempre voluto? Tornare tutti e cinque assieme?” disse con tono di sfida. “Io vi sto offrendo l’opportunità di fare il primo passo per far sì che ciò avvenga.”

Norvegia scosse il capo, non gli rivolse lo sguardo, e continuò a camminare lungo il ponte di coperta. “Non ne sono sicuro.” Superò il passaggio piatto scavato nei lastroni della diga che proteggeva la struttura del ponte, andò oltre i ronzii delle turbine e dei ventilatori che continuavano a ruggire e a soffiare, e si immerse nell’ombra nera della Torretta Anton, erta sopra la sua testa. Quello strato di buio donò una sfumatura più malinconica al suo viso già incupito dal maltempo. “Non sono più sicuro di sapere quello che voglio, ormai.”

Prussia indurì lo sguardo. “E cosa intendi fare per il resto della guerra, allora?” Flesse il capo di lato per tenere la testa bassa ed evitare di sbattere contro il cannone teso in linea orizzontale. Sollevò la mano, ne toccò la superficie liscia e fredda, gli diede un colpetto, e lo superò, finendo sotto l’ombra più sottile e allungata della Torretta Bruno. “Quale sarà il tuo obiettivo, da ora in poi?”

Norvegia si fermò a sua volta alla base della Torretta Bruno, sollevò gli occhi oltre i profili neri dei cannoni tesi e silenziosi, e guardò oltre la nebbia, oltre le cime d’acciaio che si intrecciavano come raggi metallici. Il suo sguardo si posò sulla sporgenza del ponte aperto, sotto l’occhio vuoto e piatto del riflettore spento che vegliava sulla corazzata, sopra il pannello reticolare del cercatore di distanza. Le sagome di quattro ufficiali, soffuse dalla nebbia che si addensava sulla cima della Bismarck, si spostavano sul ripiano della stazione di comando dell’artiglieria, guidate da una quinta persona che stendeva le braccia, indicava la cima dell’albero maestro, si piegava a controllare la base dei cannoni più piccoli, e annuiva alle parole degli ufficiali. Lo sguardo di Danimarca era distante e assorto mentre dava gli ordini, mentre le sue parole finivano coperte dai brusii delle turbine e dai rumori che salivano dal porto. I suoi occhi profondi e brillanti come laghi di ghiaccio assorbivano con avidità ogni scintilla metallica proveniente da armi e corazza.

Norvegia distaccò lo sguardo da lui, allontanandosi dai brividi che gli trasmetteva quel suo sguardo già perso nella battaglia, nelle luci della guerra, e rispose a Prussia con un semplice mormorio. “Terrò d’occhio Danimarca.”

Prussia socchiuse le palpebre e aggrottò un sopracciglio, non capendo.

Norvegia si girò verso di lui, lo fronteggiò senza traccia di paura, e lo affrontò con tono di nuovo grave e graffiante. “Fai di tutto per farmi credere che sia mio fratello quello che ha bisogno del mio aiuto. Lo fai perché tu mi temi e perché sai che mio fratello è una mia debolezza. Speri di piegarmi esattamente come Germania è riuscito a fare usandomi durante la Battaglia di Inghilterra.” Aprì e strizzò i pugni, sentendo le fasce sui polsi tirare la pelle bruciante, e guardò Prussia di traverso, con disprezzo. “Ma io non abbocco, Prussia. E so che se c’è qualcuno che ora più che mai ha bisogno di essere protetto...” Rivide Danimarca in ginocchio in mezzo alla neve, schiacciato dai soldati tedeschi che lo tenevano fermo, i suoi occhi di fuoco che avrebbero potuto incenerire Germania, e le parole rabbiose che aveva abbaiato al vento, all’aria vuota, come un lupo che non sa più in che direzione si trova la Luna a cui gettare la sua preghiera. Norvegia sospirò. “È solo Danimarca.”

Prussia mantenne lo sguardo dubbioso, reclinò il capo all’indietro, levò anche lui gli occhi verso la cima della Bismarck, e spiò il profilo di Danimarca che guidava gli altri ufficiali sul ponte superiore. “Perché?” domandò con tono sincero.

Norvegia si chiuse nelle spalle, e i suoi occhi guardarono in basso, in mezzo ai piedi. “Perché...” Perché Danimarca è stupido, perché è impulsivo, perché pur di salvare quelli a cui vuole bene o per salvare il suo stesso orgoglio è capace anche di farsi ammazzare. Perché anche lui sta perdendo la luce, perché sta cominciando a dimenticare il motivo per il quale sta combattendo. Perché l’ho già visto in passato ridotto in quella maniera, e so di cos’è capace quando perde la direzione. E Danimarca non è tipo da fermarsi per ragionare con lucidità e da riprendere la rotta solo dopo aver pensato. Lui è uno che continua ad andare avanti anche quando è perso, anche a costo di sbattere il muso trenta volte sullo stesso muro pur di non rallentare. E non posso permettere che succeda questo, non in una guerra del genere dove non sappiamo nemmeno se riusciremo ad arrivare vivi fino in fondo. Norvegia sospirò a fondo, senza riuscire a nascondere quel tocco di calore familiare che era sempre riuscito a sciogliere il ghiaccio dal suo cuore. “Perché ha bisogno di me.”

Gli occhi di Prussia si fecero più comprensivi, ma lui si affrettò ad aggrottare la fronte e a indurire di nuovo i tratti del volto. “Tu fa’ in modo che Danimarca stia al suo posto, e che non mi intralci,” gli disse. “E io ti prometto che non verrà fatto alcun male, né a lui né a te.”

“Non puoi farci del male,” gli disse Norvegia, con tono piatto ma mostrando occhi più aggressivi, “né a lui né a me. Ferendoci, penalizzeresti solo te stesso.”

Prussia infossò un mezzo ghigno nella guancia, e si lasciò illuminare da un lampo di sfida. “Saresti disposto a giurarlo? A scommetterci sopra?”

Contro Norvegia sbatté una folata di vento che gli gettò un lembo della giacca davanti alle labbra, gli scosse i capelli che sfuggirono alla scintilla dorata della spilla e gli scivolarono davanti agli occhi. Addensò il colore della nebbia attorno a lui, facendola diventare livida come il suo sguardo carico di un odio elettrico che trapassò Prussia come lo schiocco di un fulmine. Il cielo brontolò. Un gorgoglio basso che suonò come il ruggito di quella stessa terra.

Prussia resse lo sguardo di Norvegia, tenne gli occhi dritti, senza timore, e gli passò affianco a testa alta. “State molto attenti, Nordici,” gli mormorò con voce grave come un brontolio della Bismarck stessa. “O potreste ricevere davvero pessime sorprese da questa operazione.” Si lasciò alle spalle il gelo di Norvegia, fece passare un soffio di vento che trascinò via quell’atmosfera carica di ghiaccio elettrico che si era infittita fra di loro, e batté di colpo le mani, come a far esplodere la bolla che li aveva isolati. “Dunque,” ricominciò con tono squillante di entusiasmo, come se lui e Norvegia non si fossero mai scambiati le ultime frasi, “qui al porto c’è ancora molto da fare.” Prussia sollevò un braccio, passò una carezza sulla corazza alla base della Torretta Bruno – di cui non riusciva a toccare il cannone, elevato sopra quello Anton – e superò la scaletta che portava fino alla sovrastruttura. “Abbiamo da riverniciare queste belle signore, dobbiamo carburarle, e ripartiremo questa sera, in direzione dello Stretto di Danimarca,” sbuffò un soffio di risata e levò gli occhi al cielo, “dato che a quanto pare ci piace tanto averlo sempre di mezzo. E da lì ci apriremo la strada verso l’Atlantico.”

Norvegia accelerò il passo e gli andò dietro stando alle sue spalle. “È un canale molto sorvegliato dalla marina britannica. Cosa farai nel caso Inghilterra ci scoprisse?”

Prussia rise più forte e sventolò una mano all’aria, scacciando quell’ipotesi. “Inghilterra non è qui,” sdrammatizzò. “È a Creta, non può fare nulla contro di noi.”

Norvegia strinse le braccia al petto. “C’è sempre la sua marina, la sua aviazione. Quelle funzionano anche senza di lui.”

“E secondo te si metterebbero contro un incrociatore tedesco e contro la corazzata più potente che abbia mai toccato le acque del mondo intero?” Si girò, gonfiandosi il petto con un’aria da spaccone, e si spinse il pollice sotto il primo bottone della giacca. “Solo io tenterei una mossa così presuntuosa. Solo io potrei permettermi di farlo.” Norvegia tornò a guardarlo storto, con quell’espressione congelata in una maschera di scetticismo, ma Prussia tornò a sventolare un gesto con la mano per rassicurarlo. “Rilassati, andrà tutto bene.” Aprì il palmo al cielo e tastò l’aria umida, si bagnò i polpastrelli con le goccioline soffiate dallo strato nebbioso che rivestiva il porto come un cappotto di pelliccia grigia e folta. “La nebbia ci aiuterà a tenerci nascosti.”

Norvegia rivolse il naso al cielo e si portò la mano tesa davanti alla fronte, facendosi ancora più ombra. “Finché non pioverà seriamente,” precisò.

“Basta che tu tenga le nuvole a cuccia.”

Norvegia scosse il capo. “Il nostro umore non influenza il clima della nostra nazione. Se fosse così, creeremmo un disastro dietro l’altro. Però...” Si tolse la mano da davanti la fronte, la rinfilò nella tasca, e tornò a guardarsi attorno con quegli occhi pregni di tensione e di timore nei confronti del suo stesso territorio. Restrinse le palpebre, resistette ai tocchi del vento che lo pungevano come una serie di pizzichi sulle guance, e ingoiò il nodo di timore che gli si era incastrato nella gola. “Tieni comunque gli occhi aperti.”

Prussia aggrottò la fronte, rimase in silenzio, smise di respirare, e gli cadde il ghigno dalla bocca.

Norvegia compì un passo più lento, lo sguardo sempre rivolto al di là dei tralicci della Bismarck, oltre la foschia che avvolgeva la corazzata, e le sue parole suonarono dure e fredde. “C’è qualcosa che non va.” I suoi occhi scivolarono sul terreno scosceso del porto, sui tetti delle abitazioni che intravedeva al di là delle nubi di nebbia, e i sussurri del vento suonarono come mormorii d’allarme dietro le sue orecchie. Brividi gelidi tornarono a scuotergli la carne, ancora più sgradevoli di quelli che aveva provato in mezzo alle gambe all’idea di ospitare navi tedesche nel suo porto. “La mia terra mi sta continuando a lanciare segnali di pericolo da quando siamo attraccati a Bergen. Potrebbe succedere qualcosa mentre siamo qui.”

Anche lo sguardo di Prussia si fece più teso, buio come il cielo. “Gli inglesi ci hanno scoperto?”

Norvegia scosse il capo. “Ancora non lo so,” rispose. “Ma stando fuori in questo porto così a lungo, ci esponiamo troppo al loro tiro. Dobbiamo lasciare Bergen prima che possano accorgersi di noi.”

Prussia socchiuse le palpebre, raccolse quel consiglio, e annuì. “Salperemo alle ore uno-nove-zero-zero.” Si allontanò da lui tornando a camminare sotto l’ombra di una delle torrette, distese un braccio tenendo il pugno stretto, e una freccia color giallo limone gli planò sul polso. Gilbird arruffò le piume, richiuse le ali, e si lasciò posare sulla spalla del padrone. “Fatevi trovare pronti.”

Norvegia annuì. “Sì.” Tornò da solo, in compagnia solamente dei ronzii dei ventilatori che sbucavano dal pavimento del ponte, della pioggerella che ticchettava fioca e delicata su di lui e contro la corazzata, e dei borbottii del vento che gli mormorava nelle orecchie.

Norvegia serrò i pugni, soppresse un’altra scossa di brividi. Ho una brutta sensazione. Ma cosa potrebbe capitarci? Un attacco aereo sul porto? Oppure... Sollevò lo sguardo e gli occhi caddero di nuovo sul profilo di spalle di Danimarca che stava parlando con uno degli ufficiali sul ponte superiore. Di nuovo lo colse quella stretta di tepore e dolore allo stesso tempo che gli soffocò i battiti del cuore. Fra me e lui, adesso sono io quello più forte, ma solo perché ho la temperanza e la lucidità dalla mia parte. Danimarca ha usato tante belle parole davanti a Germania per convincerlo di essere cambiato, ma io lo conosco, non accetterà mai di piegarsi in quella maniera a Prussia, non accetterà di farsi spezzare la sua volontà. Norvegia aggrottò la fronte, i suoi occhi tornarono bui. Devo essere io quello forte, devo essere io quello lucido, e devo esserlo per entrambi. Socchiuse le palpebre, e la voce nella sua testa si fece più triste. Fino a che lui non sarà di nuovo pronto per guidarci verso la nostra libertà.

La nebbia si addensò, il vento la raccolse in un abbraccio, e la spazzò via come una nuvola di fumo.

 

♦♦♦

 

21 maggio 1941,

Mar Glaciale Artico, Stretto di Danimarca

Bordo dell’incrociatore pesante HMS Norfolk

 

L’ammiraglio britannico chiuse il sigaro fra le labbra, tirò una forte boccata che fece brillare la punta e incenerire le foglie di tabacco arrotolato, e soffiò una spessa nube di fumo fuori dalla sua bocca, come una bolla di nebbia. “Gli stormi di Spitfire sono già in volo, in direzione dei fiordi norvegesi.” Abbassò il sigaro verso il posacenere di marmo, diede due colpetti e lasciò cadere due macchie di cenere bianca che si unirono alla montagnetta già accumulata, sporcata da minuscole briciole di braci ancora lucenti e incandescenti. “Hanno pattugliato lo Skagerrak, quello di Oslo, e anche il Kross.” L’ammiraglio tornò a infilarsi il sigaro fra le labbra, si strinse nelle spalle, e diede un’altra sfogliata ai rapporti. Scosse il capo. “Ma non hanno rilevato nessun movimento sospetto.”

Il viceammiraglio abbassò i fascicoli che teneva fra le dita, nelle lenti dei suoi occhiali si riflesse il nastro di fumo azzurrino spanto dal sigaro del suo superiore, e rivolse lo sguardo alla sua sinistra, verso Inghilterra. “Un altro stormo è invece stato inviato nei pressi di Bergen e...” Estrasse una cartella gialla dai fascicoli, ne sfilò la lingua, e tirò fuori un blocco di fotografie grandi quanto le pagine dei bollettini. Appoggiò le fotografie sul tavolo, le fece scivolare anche davanti a Islanda, e le porse a Inghilterra. “Queste sono le fotografie che ci hanno inviato dall’Aeroporto di Wick, dopo che gli Spitfire hanno fatto ritorno.”

Islanda strinse le braccia attorno a Mister Puffin che si era appollaiato sul suo grembo, tenendo il muso sotto l’ala per proteggersi dall’odore dolciastro di fumo di sigaro che si mescolava a quello del rum appena stappato, ed entrambi sporsero gli sguardi verso le fotografie aeree che il viceammiraglio aveva spinto verso Inghilterra. Inghilterra raccolse i cartoncini lucidi, sgranati dalla nebbia visibile anche a quell’altitudine, e li sfogliò fra le dita. Il gomito piegato accanto al bicchiere di rum mezzo vuoto, e gli occhi lucidi e aguzzi – per nulla appannati dall’alcol – che scavavano nelle curve del territorio norvegese e fra le sagome allungate delle due imbarcazioni avvistate.

Il viceammiraglio intrecciò le mani davanti al viso, fece tamburellare le dita sulle nocche. “C’è ancora molta foschia,” disse. “Pioveva mentre sono state scattate, ma come può vedere anche lei, signore, sembra proprio che queste siano...”

Inghilterra annuì e finì per lui. “Due navi da guerra.” Ne sfogliò ancora un paio e diede quelle che scartava a Islanda, seduto accanto a lui assieme a Puffin. “Esattamente come la prima segnalazione che il Gottland ci aveva inviato qualche giorno fa.”

Islanda raccolse la prima fotografia, la inclinò in modo che potesse vedere anche Puffin, e i suoi occhi corsero attraverso le insenature della costa, le increspature delle onde bianche contro il grigio sgranato, e quelle sagome che macchiavano il profilo del porto, nere e lunghe come il sigaro che stava fumando l’ammiraglio. Islanda si morse il labbro e sentì una fitta trafiggergli il cuore. Navi tedesche su coste norvegesi. Gli sembrò di star stringendo una foto che ritraeva il corpo ferito e sanguinante di suo fratello.

Inghilterra posò anche le altre fotografie, raccolse il bicchiere di rum, e fece oscillare il liquore spargendo le sue sfumature ambrate attraverso il vetro. “Le vostre opinioni?” Bevve un sorso contenuto.

L’ammiraglio prese un’altra boccata di fumo che illuminò di arancio la punta del sigaro, trapassò con lo sguardo il velo di fumo azzurrino che lo avvolgeva, e posò anche lui gli occhi sulle fotografie. “Una è una corazzata, ormai non c’è più dubbio.” Appoggiò il sigaro sulla rientranza del posacenere di marmo, e raccolse la fotografia che Islanda aveva appena posato – quella che ritraeva le navi con l’inquadratura più ristretta. “L’altro è un incrociatore pesante. La corazzata è una classe Bismarck e, dato che è impossibile che si tratti della Tirpitz, non può essere altro che la Bismarck stessa, signore.”

Inghilterra aggrottò la fronte, si spremette le dita contro le palpebre, si massaggiò gli occhi, e si passò la mano fra i capelli. Corrugò le sopracciglia rinnovando l’espressione pensosa. “E l’incrociatore?”

L’ammiraglio sfogliò un’altra foto, il nastro di fumo continuava a salire dal sigaro appoggiato al posacenere e gli ondeggiava davanti al volto. “Un classe Hipper, signore.”

Inghilterra scosse le spalle. “Il Prinz Eugen, ovvio,” disse con un timbro di voce inasprito dal rum. “Si saranno fermati a carburare, e a questo punto è chiaro che stiano per intraprendere un viaggio più lungo, ben oltre i fiordi norvegesi.” Si prese il mento fra le dita, fece tamburellare l’indice sulla guancia, e un lampo di tensione tornò ad attraversargli gli occhi che stavano bruciando come fiamme smeraldine. “Stanno davvero per buttarsi nell’Atlantico?”

L’ammiraglio e il suo vice si scambiarono uno sguardo altrettanto teso e carico d’ansia da dietro i bordi superiori dei documenti. L’ammiraglio posò le fotografie che aveva tenuto in mano al posto del sigaro e intrecciò le dita sul tavolo. “Quali sono i suoi ordini, signore?” chiese a Inghilterra. “Come dobbiamo regolarci?”

Inghilterra si rosicchiò il labbro che sapeva di rum. “Uhm.” Si spinse con le spalle contro lo schienale della seggiola, e si massaggiò la fronte e le palpebre con entrambe le mani per spalmare via l’emicrania che già cominciava a ingabbiargli la testa. “Due navi ferme, alla fonda.” Ma che bei ricordi. “Non c’è altra soluzione che bombardare il porto già da adesso.”

Anche Islanda abbassò a sua volta le fotografie che reggeva fra le mani, e sgranò gli occhi ingoiando un gemito impaurito. “Bombardare Bergen?”

Inghilterra annuì. “Naturalmente,” rispose. “Ora sono esposti e indifesi, non posso lasciarmi sfuggire questa occasione.”

“M-ma...” Islanda si sporse tenendo un braccio attorno a Mister Puffin che gli sedeva sulle gambe, e si avvicinò a Inghilterra mostrandogli uno sguardo ansioso. “Ma Bergen è...” In Norvegia, nel pieno del suo territorio, non in mare aperto dove l’influenza della guerra cade solo su Germania e su Prussia stessi. Anche se lui non fosse coinvolto direttamente nella missione, colpirlo su un suo porto significherebbe comunque...

“Che squadriglie dobbiamo mobilitare, signore?” domandò l’ammiraglio, prima di dare a Islanda l’occasione di formulare la frase.

Inghilterra tornò a corrugare quell’aria assorta e pensosa, fece tamburellare le dita sul tavolo e rimuginò. “Abbiamo uno stormo di sei Whitley e sei Hudson pronti a decollare e a raggiungere il Porto di Bergen dove sono state scattare le fotografie. E all’alba saremo in grado di radunare altri bombardieri, se il meteo ci permetterà di continuare l’attacco.”

“E se il convoglio dovesse uscire dal porto, signore?” domandò l’ammiraglio. “Non sarà facile bersagliarlo come durante un attacco con l’obiettivo alla fonda.”

“Per questo abbiamo la Victorious, no?” Inghilterra spinse un indice contro il tavolo, diede due colpetti con il polpastrello. “Nel caso il convoglio ci sfuggisse, anche noi abbiamo una buona quantità di navi pronte ad assalirlo. Gli Swordfish decollati dalla Victorious non gli lasceranno via di fuga.”

Il viceammiraglio socchiuse le palpebre dietro le lenti degli occhiali, e il suo sguardo si estraniò, si fece più distante e cauto. “Le consigliamo comunque, signore, di pensare a un’alternativa,” disse. “L’equipaggio della Victorious è ancora molto inesperto e poco preparato, e far decollare degli aerei in queste condizioni meteo sarebbe complicato anche per dei piloti più esperti.”

“In tal caso,” proseguì Inghilterra, “tenteremo prima di tutto un attacco navale, sbarrandogli la strada, ma a questo penseremo solo nel caso questo primo tentativo fallisse.” Raccolse una delle carte che avevano piegato accanto ai documenti, prese anche una delle matite sparse sul tavolo accanto alle penne, e spiegò la mappa. “Attaccate il Porto di Bergen.” Trovò la città norvegese fra le frastagliature dei fiordi che parevano sbriciolarsi in mare, e cerchiò il porto con due gesti rapidi e profondi come una graffiata. “Se la corazzata e l’incrociatore dovessero sfuggirci, aumenteremo il pattugliamento degli sbocchi navali, soprattutto qui sullo Stretto. Se dovessero arrivare, allora richiamate lo Hood e la Prince of Wales da Scapa Flow. Se non dovesse bastare nemmeno quello per abbatterli, allora taglieremo loro la strada con il Repulse, la Victorious, e la King George V.” Inghilterra lasciò la matita che rotolò lungo la cartina, si alzò facendo strisciare la sedia, e si lisciò la giacca nera lungo i fianchi. I suoi occhi intensi e autoritari premettero sugli sguardi dei due ufficiali. “Eseguite e tenetemi informato.”

I due ufficiali si scambiarono un’ultima occhiata fulminea e annuirono all’unisono. “Sissignore.”

Inghilterra imboccò l’uscita della camera, seguito dalla sua stessa ombra che gli scivolò dietro. Islanda si alzò di scatto facendo volare Mister Puffin sulla sua spalla, e lo rincorse attraverso il corridoio. “Inghilterra.” Lo raggiunse e alzò la voce, ancora un po’ tremante di tensione. “Inghilterra, fermo, aspetta.”

Inghilterra gli buttò un’occhiata distratta da sopra la spalla, velata di indifferenza. “Cosa c’è?”

Islanda lo superò e gli sbarrò la strada. Lo guardò con occhi più truci, e Mister Puffin sbatté due volte le ali per bloccare Inghilterra con una piccola risacca d’aria che finì per sbattergli in faccia. “Hai seriamente intenzione di bombardare il Porto di Bergen?”

Inghilterra non arretrò, nonostante la folata d’aria gonfiata dalle ali di Puffin, e prese un lungo sospiro. Alzò lo sguardo al cielo. Ecco. Lo sapevo che sarebbe andata a finire così. “Problemi a riguardo?” gli disse, mantenendo il tono freddo.

“Sì.” Islanda lo guardò con gli stessi occhi offesi, sfrontati e allo stesso tempo impotenti con cui lo aveva guardato un anno prima al porto di Reykjavik. “Se attaccherai direttamente le coste norvegesi, farai del male a mio fratello.”

Inghilterra scosse il capo e gli camminò affianco, superando sia lui che Mister Puffin. “Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro su quali sarebbero state le condizioni fra me e te,” gli disse. “E ti avevo anche già spiegato che non mi sarei fermato, a prescindere da chi si sarebbe trattato di colpire.”

Islanda lo inseguì e inasprì il tono di voce. “Perché colpire mio fratello dovrebbe fermare l’avanzata dei convogli?”

“Perché la guerra è crudele.” Inghilterra gli rivolse un’occhiata sbrigativa e raggelante da sopra la spalla, e gli indicò una delle pareti del corridoio con un cenno del mento. “Va’ a farti un giro sul ponte, schiarisciti le idee con dell’aria fresca, e prega che i bombardamenti riescano a fermare le due navi prima che escano dal fiordo.” Tornò a girare lo sguardo, si lisciò di nuovo la giacca nera, e accelerò il passo stringendo le mani dietro la schiena. “Fatti trovare per il rapporto dopo l’ora di cena.”

Mister Puffin rizzò le piume sulla nuca, assottigliò gli occhietti in uno sguardo più minaccioso, e spiccò il volo per andare incontro a Inghilterra e beccargli la testa. Islanda lo acchiappò al volo con entrambe le mani, lo tirò indietro resistendo a una sua starnazzata di protesta, e se lo strinse al petto. Si aggrappò al suo calore familiare, al suo profumo di mare, al battito del suo cuoricino inferocito, e per la prima volta nella sua vita pregò a favore del nemico. 

   
 
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