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Autore: Adeia Di Elferas    21/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare Borja si stava grattando il collo con un'espressione corrucciata a stravolgergli i lineamenti del viso.

Sua madre Vannozza, che stava ricamando vicino alla finestra, alla luce di quel 13 giugno, gli dedicò uno sguardo preoccupato: “Che c'è?”

Il figlio la sentì, ma non aveva dato ascolto alle sue parole, perciò, continuando a tormentarsi l'attaccatura del capelli, disse: “Cosa?”

“Ti ho chiesto che hai...” ribadì la madre, mettendo da parte il ricamo e cominciando a fissare Cesare con più insistenza.

Il giovane Borja era arrivato nella casa della madre per confermare la sua presenza alla cena della sera seguente e per aggiornarla sulla condizione di Lucrecia, che restava ancora chiusa in convento.

Con un gesto infastidito della mano, l'uomo lasciò intendere che non era il caso di fargli domande del genere, ma la donna insistette, con la medesima testardaggine che aveva passata, in misura variabile, ai suoi figli: “Vuoi dirmi che cos'hai, oggi?!”

“Che ne so!” sbottò Cesare, infastidito, dandosi un'ultima scrollata al colletto: “Avrà preso le pulci, oppure questa storia mi sta facendo venire l'orticaria..! In entrambi i casi, sarebbe l'ultimo dei miei problemi...”

L'ultima parte, il giovane l'aveva sputata come un commento tra sé, ma Vannozza non aveva intenzione di mollare la presa.

“Stai ancora così per la storia di Juan? Ormai è passato del tempo, e poi tuo padre ha fatto bene a far impiccare...” cominciò la donna, assumendo il tono pedante che spesso assumeva quando parlava del papa.

“Ha fatto impiccare un uomo – precisò Cesare, interrompendola – solo perché ha fatto delle battutacce contro Juan, dopo che lui l'ha provocato.”

“Ha parlato male di vostro padre!” fece Vannozza, a mo' di difesa del figlio assente.

A quelle parole, il figlio che era invece presente, sbuffò in modo sonoro e poi disse: “Va bene, madre, ci vediamo domani sera. Vi prego, fate qualcosa anche voi per convincere Lucrecia a uscire da quel convento. Non mi fido a saperla a San Sisto.”

Vannozza annuì e salutò il figlio, che uscì di fretta e montò a cavallo, alla volta del palazzo del padre.

Mentre attraversava a gran velocità le strade di Roma, stipate di mendicanti, pellegrini e perdigiorno, Cesare dovette trattenere a stento le lacrime. Perfino sua madre, che pure li conosceva meglio di quanto non li conoscesse il papa, preferiva Juan a lui e lo difendeva anche quando difese non c'erano.

Avevano tutti messo in fretta a tacere la brutta storia seguita al banchetto voluto da Ascanio Sforza, ma Cesare no. Juan aveva passato tutta la sera a bere e fare parole grosse, prendendo pesantemente in giro tutti i presenti. Dopo un po' uno di questi aveva osato reagire con frasi salaci che, a quanto dicevano, avevano come nodo cruciale la dubbia paternità del pontefice per via dei costumi frivoli di Vannozza Cattanei. Il giorno appresso, Juan era corso a piagnucolare dal padre, che aveva fatto fare irruzione in casa di Ascanio Sforza e aveva catturato il commensale linguacciuto, mettendolo subito a morte.

Vedendo già il profilo dei palazzi vaticani oltre le case di Roma, Cesare diede di speroni al cavallo, non curandosi di quelli che quasi restavano travolti dalla sua corsa.

Quando arrivò a destinazione, lasciò la bestia agli stallieri e andò a cercare il fratello, per dirgli che la loro madre aveva confermato l'invito per il giorno dopo. Per la prima volta in vita sua, Cesare voleva davvero sedere alla stessa tavola del fratello per una cena...

“Sembra che sia nei giardini con madonna Sancha...” spiegò uno dei valletti del Borja preferito dai genitori.

Cesare strinse il morso e ringraziò, ripromettendosi di cercarlo nel pomeriggio. Tentò di non pensarci più, ma tutto ciò che la sua mente riusciva a pensare era solo: 'Perfino Sancha lo preferisce a me...'

 

Caterina stava tornando alla rocca, dopo un controllo approfondito del quartiere che ospitava gli appestati. Con lei c'erano anche il marito e la figlia, mentre il medico di corte e la manciata di monatti che li avevano seguiti si erano fermati a controllare ancora delle cose.

“Sarà necessario, prima di aprire le porte, sanificare tutte le case.” spiegò la Contessa, guardando prima Giovanni e poi Bianca: “Ci vorrà un po', ma non voglio rischiare ricadute di massa. La peste deve finire qui e basta.”

I due annuirono e così la Tigre continuò, rivolgendosi questa volta solo alla figlia: “Più tardi, se vuoi, potresti venire con me in laboratorio. Abbiamo un po' di misture e olii da preparare, se vogliamo purificare tutta Forlì.”

La ragazzina annuì e poi, mentre arrivavano ormai in vista della statua bronzea di Giacomo Feo, trovò il coraggio di chiedere una cosa che da giorni aveva in mente: “Quando saremo più tranquilli, potrei riprendere le lezioni di ricamo?”

Caterina si accigliò, cadendo dalle nuvole davanti a una simile richiesta. Stava per schiudere le labbra per dire qualcosa, ma la figlia l'anticipò.

“Non pretendo che assumiate un'insegnante per questo... Conosco un paio di serve che potrebbero insegnarmi molto. Però so che mi toglierà tempo per le altre cose... E che ne toglierà anche alle serve, che passerebbero tempo con me, invece di lavorare...” disse Bianca, già tentata di ritirare la proposta, vedendo una linea dura disegnarsi in mezzo alla fronte della madre.

“Certo, non c'è problema.” assicurò la Contessa, cercando di sorriderle: “Ti sei data molto da fare, in queste settimane. È giusto che ti dedichi a qualcosa che ti piace, adesso.”

Benché volesse mostrarsi controllata, la ragazzina non riuscì a contenere del tutto l'eccitazione, tanto che arrivò a dire: “Posso andare a dirlo subito alle mie amiche?”

La madre sapeva che le 'amiche' di cui parlava erano le due serve che avrebbero impartito lezioni di ricamo, e per un fugace istante fu tentata di metterla in guardia su quel genere di amicizie, tuttavia non aveva voglia di raggelare l'allegria che si era dipinta sul viso di Bianca, così annuì e basta.

Come se non attendesse altro, la giovane Riario partì di corsa verso la rocca, ripetendo: “Grazie, grazie!” e alla Leonessa non restò che scambiare uno sguardo con Giovanni.

Il fiorentino stava sorridendo e, con un'alzata di spalle, commentò: “Non ha neanche compiuto sedici anni... È giusto che sappia passare così facilmente dalla serietà alla gioia...”

Caterina sospirò e sussurrò: “Hai ragione, è fortunata a poterlo fare, malgrado tutto.”

Il Medici scalciò un pezzetto di fango che gli si era attaccato alla suola. Erano sotto la statua del Barone Feo e la terra in quel punto era particolarmente viscida.

Aveva smesso da piovere da poco e le strade erano conciate così male che dopo pochi passi ci si trovava coperti di malta almeno fino alle ginocchia.

“Appena avrò chiaro quanti forlivesi sono sopravvissuti e quanti torneranno in città una volta riaperte le porte – disse la Contessa, accelerando impercettibilmente il passo, come se volesse passare vicino alla statua il minor tempo possibile – farò riprendere anche i lavori al mastio. Se le mie casse lo permetteranno...”

Il Popolano, una volta giunti al ponte, le mise un braccio attorno alle spalle, ignorando gli sguardi delle guardie che stavano accanto al portone: “Il re di Francia mi versa ancora duemila scudi l'anno di rendita. Nella mia lettera, ho chiesto a mio fratello di farmeli avere.”

“Non posso continuare a lasciare che tu copra i buchi del bilancio con i tuoi soldi.” si oppose Caterina, senza comunque divincolarsi dalla mano del marito che si era stretta protettiva sulla sua spalla: “Anche se sei un Medici, non puoi far fronte alle spese di uno Stato tutto da solo. Faremo i lavori a Bubano e poi, con le nuove tasse che ne ricaveremo, finanzieremo la chiusura del mastio.”

“Io, comunque, i miei soldi glieli ho chiesti a mio fratello. Quando me li farà recapitare, vedremo come usarli.” ribadì Giovanni.

 

La sera del 14 giugno, alla casa di Vannozza Cattanei si erano presentati solo i tre figli maschi: Cesare, Juan e Jofré.

Lucrecia, benché avesse ricevuto un'ambasciata improvvisa di Cesare, aveva rifiutato di presentarsi, spaventata all'idea che qualcuno potesse convincerla a non rientrare a San Sisto, con qualche sotterfugio.

Il fratello era arrivato da lei in un'ora tranquilla, da solo con appena un paio di uomini al seguito, evitando le piazzate che suo padre aveva fatto fare dal bargello. Secondo lui, mandare l'esercito al convento, era stato un errore grossolano e non degno di un uomo come Rodrigo Borja. L'ennesimo errore, come l'impiccagione dell'ospite di Ascanio Sforza, fatto da un vecchio troppo sanguigno per ragionare con mente fredda. Se suo padre voleva davvero costruire un impero, era su una testa gelida come quella di Cesare che doveva puntare.

E se ne sarebbe accorto molto presto.

“Va bene – aveva ceduto Cesare, quando la sorella l'aveva implorato di lasciarla a San Sisto – ti lascerò stare qui. Ma allora voglio che Perotto resti qui con te, a farti da guardia. Non mi interessa se hai già il tuo codazzo di dame e cantori. Perotto è fidato. Non ti perderà di vista un momento.”

A quelle parole, Pedro Calderon, uno dei due di scorta al Borja, si era fatto avanti e aveva sorriso a Lucrecia, esibendosi in un profondo inchino.

“E cosa credi che potrei fare, sentiamo, in un convento guidato da una badessa come suor Girolama Pichi?” aveva chiesto Lucrecia, con un filo di ironia.

'Partire per Pesaro di nascosto, per esempio', pensò tra sé Cesare, ma poi disse solo: “Non è di te che ho paura, ma per te. La nostra famiglia non è vista bene in tutta Roma. Potrebbero cercare di farti qualcosa, credendoti lontana dalla protezione di nostro padre e dei tuoi fratelli.”

A quel punto la giovane non aveva avuto più nulla da dire. Perotto si era messo nell'angolo della stanza, ritto in piedi e silenzioso, già immerso nel suo ruolo di guardiano.

Quando Cesare aveva provato un'ultima volta a convincerla a presentarsi alla cena, Lucrecia aveva ribadito che non ne aveva alcuna voglia e che avrebbe passato ogni sera a pregare.

Quando il fratello era ormai sulla porta, la ragazzo lo aveva fermato e gli aveva sussurrato: “E mio marito? Che ne sarà di lui?”

“Per quanto ci riguarda – aveva risposto Cesare, con voce fredda e abbastanza alta da farsi sentire anche da Calderon e dalle suore che aspettavano di là dalla porta – il tuo matrimonio con quel parassita di Giovanni Sforza è finito il giorno stesso in cui lui è scappato da Roma come uno stupido tordo inseguito dai falchi.”

“Fratello, stai bene?” chiese Jofré, guardando di traverso Cesare.

Il prelato, che quella sera indossava il suo giubbone preferito, si risvegliò dalle sue congetture e guardò il fratello minore un po' stranito.

“Lascialo perdere...” si intromise Juan, acido: “Nostro fratello non fa altro che pensare a Lucrecia, nemmeno fosse la sua sposa...”

“E la tua, di sposa? Sicuro che qualcuno non la stia consolando, data la tua prolungata assenza?” si fece avanti Cesare, occhieggiando verso il fratello preferito dai genitori.

“Parli proprio tu, di consolare le mogli altrui?” ribatté Juan, sporgendo in fuori il mento e mettendo così in vista anche la cicatrice sulla guancia.

“Se è per questo, forse è vero: l'esperto qui sei tu...” convenne Cesare, con cattiveria.

Jofré guardava i due fratelli fingendo di non capire, quando la madre arrivò nel salotto e, battendo le mani, esclamò: “Basta, bambini! Non siete cambiati di una virgola! Litigate come quando eravate piccoli... Avanti, vi aspetto di là. La cena è pronta.”

Il banchetto era iniziato da poco, e attorno alla tavola imbandita, oltre ai figli di Vannozza si avvicendavano cortigiani, illustri ospiti e lontani parenti.

Come già altre volte, quella prima parte della serata fu dedicata interamente a intrattenere gli ospiti esterni.

In realtà, solo Juan era in vena di dare spettacolo. Cesare, praticamente muto, se ne stava al suo posto, il fisico non indifferente fasciato dal velluto, e Jofré faceva quasi la stessa cosa, ascoltando con aria un po' annoiata le parole del maggiore.

Juan, infatti, non taceva quasi mai, ripercorrendo – con dettagli del tutto nuovi e immaginari – la sua esperienza in guerra e dipingendosi come un autentico Marte disceso in Terra.

“Questa – disse a un certo punto, mostrando a tutti la cicatrice sulla guancia – me la sono procurata mentre portavo in salvo il povero Muzio Colonna...”

Poiché quasi tutti i presenti avevano sentito una storia ben diversa da parte dei colonnesi, quell'esclamazione passò un po' sotto silenzio e in breve anche Juan comprese il suo scivolone e passò oltre.

“Che ne è stato, poi, del povero Muzio?” chiese uno dei commensali a Cesare.

Il Borja sospirò e, giocherellando con un pezzo di pane ormai ridotto in briciole, rispose: “Pare sia fuori pericolo, ormai, ma di certo non potrà montare a cavallo per un anno o due...”

L'altro rise, leggendo in quella frase, che invece era stata detta con grande serietà, un doppio senso.

Cesare sorrise appena, fingendo di trovare anche lui la cosa divertente, e poi tornò a guardare Juan che si dava delle arie.

Nemmeno Vannozza sembrava accorgersi della figura da fanfarone che stava facendo e che stava facendo fare a tutta la famiglia.

A un certo punto, quando i liquori erano già scorsi a fiumi, i commensali cominciarono ad alzarsi e avvicinarsi all'uno o all'altro, per discutere di argomenti licenziosi o anche di politiche non troppo morali.

Mentre un amico del padre si avvicinava a Cesare per chiedergli notizie di questa Sancha d'Aragona di cui tutti parlavano, una figura strana, dal volto mascherato, comparve per qualche istante accanto a Juan.

Alcuni commensali la notarono. Era certamente un uomo e si era chinato accanto al Duca di Gandia, ma era difficile capire se gli avesse detto qualcosa o meno, visto che Juan era andato avanti a tracannare il suo vino come nulla fosse.

Appena la figura mascherata era sparita, qualcuno si era già lanciato a fare ipotesi sulla sua identità e, tra tutte le voci, quella di un possibile amante – perché dal figlio di Rodrigo Borja ci si aspettava qualsiasi tipo di conquista amorosa – che fosse arrivato lì per dargli un appuntamento.

La cena si avviò in fretta alla fine e, siccome s'era fatto molto più tardi del previsto, Vannozza rinunciò a tenere presso di sé i figli per parlare ancora un po' in tranquillità e li lasciò liberi di andare a riposarsi.

Così uscirono assieme agli ospiti, che lasciavano la villa a piccoli gruppi. Cesare guardò Juan andarsene con un manipolo di invitati che conosceva bene. Non si lasciò impensierire. In fondo, Roma di notte era sempre una certezza, quando si volevano fare certe cose. Anche i più temerari tra loro, non avrebbero seguito Juan, a un certo punto...

“Ti vedrò, domani?” chiese Vannozza, baciando Cesare sulla guancia.

Il figlio sollevò le spalle e sbadigliò: “Probabilmente sì.”

La donna gli sorrise e poi salutò anche Jofré. Cesare la sentì mentre diceva con il figlio più piccolo di farsi accompagnare proprio da lui, così accelerò il passo, fingendo di non aver udito, e seminando di fatto il fratello minore.

 

Caterina spalancò gli occhi all'improvviso, riuscendo a sottrarsi dall'ennesimo inutile incubo. Le ci volle un po', prima di adattare la vista al buio della camera.

Il rumore rassicurante della pioggia si sposava bene con il tepore che le braci nel camino emanavano. Non doveva mancare molto all'alba.

Non sentendo vicino il calore del marito, la Sforza cambiò fianco e finalmente lo vide. Era alla finestra, voltato di schiena, e pareva che stesse guardando fuori.

“Non riesci a dormire?” chiese la donna, coprendosi un po' di più, per far fronte a un improvviso brivido di freddo.

Il fiorentino si voltò lentamente verso di lei e scosse il capo. La luce molto fioca che arrivava dal camino lo faceva assomigliare a un'ombra nella notte. Aveva un che di impalpabile che per un istante fece vibrare il cuore di Caterina. Era come trovarsi di fronte un fantasma.

Atterrita da quella brutta impressione, la Tigre si mise seduta sul letto, appoggiandosi alla testiera con la schiena, e fece segno al marito di mettersi accanto a lei.

Docile, il Medici si avvicinò subito e, mentre si sistemava vicino a lei, alla Tigre finalmente parve di nuovo fatto di carne e ossa, con sangue bollente che circolava nelle vene e un'anima tutto sommato ancora pura che gli brillava nel petto.

“Come mai non riesci a dormire?” gli chiese.

Era abbastanza certa che non fosse per la gotta, visto che l'aveva trovato in piedi e apparentemente non dolorante.

“Pensieri.” disse Giovanni, laconico.

La sua voce sembrava intristita e anche il modo in cui teneva le spalle un po' curve lasciavano intendere che fosse un po' abbattuto. Caterina gli passò una mano sulla schiena, prima sopra al camicione di stoffa pesante e poi sotto, sentendo la sua pelle liscia e calda sotto le dita.

Quel gesto parve rasserenare un po' il Popolano, ma non del tutto. La moglie non voleva fargli domande. Temeva di essere lei il motivo di quello scoramento.

Dal giorno in cui lui l'aveva vista mentre cercava di buttare nel pozzo l'appestato entrato di nascosto alla rocca, a volte alla Tigre era capitato di trovare il marito assorto nei propri pensieri, con un 'espressione strana in volto, e spesso, mentre era in quello stato, la stava fissando.

“Stavo solo pensando a me... A noi.” sospirò il fiorentino, come capendo che la moglie volesse sapere di più, senza però osare chiederlo: “Mi manca Firenze, ma non posso pensare di stare in un altro posto se non qui con te. Mi manca mio fratello, mia cognata, i miei nipoti... Sono stati la mia unica famiglia per tanto tempo. Eppure, allo stesso tempo, voglio inserirmi in questa, di famiglia. I tuoi figli... Mi piacerebbe che mi vedessero, se non come un padre, almeno come una figura di riferimento...”

il Medici parlava piano, guardando davanti a sé, mentre Caterina gli passava lentamente la mano sulla schiena.

La donna era colpita dalle sue parole. Anche lei avrebbe voluto che un uomo come Giovanni fosse un esempio per i suoi figli, anche se poteva capire quanto potesse essere difficile, per lui, relazionarsi con tutti e sei i suoi figli non essendone il padre.

“E poi, mentre sto pensando a queste cose – riprese l'ambasciatore, facendosi più mesto e accigliandosi – comincio a pensare alla mia condizione e...”

Mentre il marito si portava una mano agli occhi, con il respiro che si faceva più irregolare, la Contessa ebbe la tentazione di accendere qualche candela. Quel buio, in quel momento, non le piaceva per nulla.

“Io non voglio morire.” disse il Medici, ritrovando una certa fermezza nella voce e nella postura, voltandosi verso la moglie: “Non adesso.”

“Non stai mica morendo...” fece la Sforza, tentando di alleggerire il tono della conversazione, per quanto le risultasse molto difficile: “Non hai nemmeno preso la peste. Sei stato male qualche giorno, ma non sei l'unico ad aver sofferto la malattia della pietra...”

“Lo sai che ogni crisi potrebbe essermi fatale.” si ostinò lui, stringendo poi i denti, come a darsi la forza di proseguire: “Ogni volta che sto male, ho un sintomo in più. Mi sto aggravando a una velocità allarmante. Mio cugino era in questo stato a quarant'anni passati. Io non ne ho ancora compiuti trenta.”

Quell'evidenza lasciò la moglie senza parole per un po'. Avrebbe voluto dirgli qualcosa che lo facesse sentire meglio, fargli notare che, quando non aveva crisi, stava bene, che, attacchi acuti a parte, conduceva una vita normale. Però, quando ci provò, non riuscì a dire proprio nulla.

“La cosa che non riesco a sopportare, è sapere che finirò per rallentare te. Sono una zavorra, ecco cosa sono...” concluse Giovanni, scuotendo il capo e sollevando l'angolo del labbro con una certa sofferenza.

“Papa Alessandro è una zavorra. Mio figlio Ottaviano è una zavorra. Pandolfo Malatesta è una zavorra.” elencò la Sforza, con voce tanto leggera da lasciare il marito sconcertato per qualche istante: “Dunque, se hai qualcosa in comune con uno spagnolo gran bestemmiatore, una serpe in seno o un pazzo che si vende al miglior offerente, allora sei una zavorra. Per quanto mi riguarda, tu sei solo un uomo, un uomo vero, intendo. Un uomo che stimo e di cui mi fido. Un uomo che mi terrei accanto in battaglia.”

“Sempre molto dolce, nelle tue dichiarazioni, eh?” sorrise Giovanni che, malgrado tutto, stava cominciando finalmente a distrarsi dai fantasmi della sua mente.

Anche la Contessa si trovò a sorridere: “Viene da chiedersi come mai mi ami...”

Il marito rise per un momento, poi, dopo un breve silenzio, la Tigre si rifece seria e domando: “No, davvero, Giovanni... Ho provato a capirlo, ma non ci riesco. Perché mi ami?”

L'uomo la guardò. Nel buio, i suoi occhi brillavano appena. Schiuse le labbra, ma, prima di parlare, le diede un bacio.

Con un ampio sorriso tranquillo, senza più ombra del patimento di poco prima, rispose con sincerità: “Non lo so.”

Alla Leonessa tornarono in mente le parole che suo cognato Tommaso le aveva rivolto qualche anno addietro. Era come farle riemergere da un pesante strato di polvere.

Quando lei gli aveva chiesto perché la amava, lui aveva risposto che in amore non ci sono 'perché', le aveva detto che se si cercano motivi, allora non è vero amore. Nel tempo, Caterina era scesa a patti con una verità ben diversa. La vita l'aveva messa dinnanzi all'evidenza che ad aver ragione era sua madre Lucrezia, e non Tommaso.

Come aveva detto sua madre, infatti, non esiste un solo tipo di amore. Esistono amore senza motivo, tanto inspiegabili, quanto potenti, come quello che l'aveva spinta tra le braccia di Giacomo.

E poi c'erano amori diversi, più ragionati, più razionali, anche se non per forza meno violenti o sinceri.

“E tu?” fece Giovanni, dopo averle dato un altro bacio, accompagnato dal suono della pioggia che si stava intensificando, sbattendo con forza contro la finestra: “Perché mi ami? Sempre che tu mi ami, ovvio...”

“Non fare lo stupido, adesso...” lo riprese la Contessa, con un breve sorriso: “Comunque... Per gli stessi motivi per cui ti ho sposato.”

Il marito andò con la memoria alla prima notte che avevano passato insieme, all'elenco di motivi che la Tigre aveva sciorinato quando era arrivato il momento di dirgli perché lo voleva sposare.

Il nome, i soldi, la posizione, la protezione, il benessere nello stare insieme e il senso di pace che sapeva darle. Anche se sulla veridicità dei primi punti il fiorentino non era ancora certo.

Mettendosi a coricare, il Medici sospirò e disse: “Sai, Caterina, io credo di amarti nello stesso modo in cui tu ami Giacomo.”

La Sforza deglutì. Non le era sfuggito l'uso del presente scelto da Giovanni. Chiuse un momento gli occhi e poi si stese anche lei, cercando l'abbraccio del marito.

“Adesso ci sei solo tu.” gli disse, quasi a ricordarlo anche a se stessa.

L'uomo la strinse con forza a sé e poi, in un sussurro, ripeté: “Adesso ci sono solo io...”

Caterina inspirò a fondo l'odore della pelle del marito e mentre le sue mani cominciavano a cercare di più, il Medici capì che la moglie stava cercando delle conferme. Ben lungi dal volersi sottrarre a quell'esame improvvisato, Giovanni rispose subito al suo richiamo e fece del suo meglio per farle dimenticare Giacomo, anche se solo fino all'alba.

 

Il gruppetto che accompagnava il Duca di Gandia si era fermato su sua richiesta all'altezza del rione Ponte, quasi sotto al palazzo di Ascanio Sforza.

Quando Juan chiese un palafreno ai suoi compari questi, troppo ubriachi per far altro se non dirgli di andarsi a prendere una scorta armata, glielo lasciarono.

Come se fosse spuntato dal nulla, l'uomo mascherato che era stato alla festa con loro arrivò al fianco del Duca e salì in sella alle sue spalle.

Qualcuno dei presenti rise malizioso, dicendo che la nuova conquista dell'eroe di guerra era arrivata a pretendere la sua ricompensa. Altri si affrettarono ad allontanarsi, forse suggestionati dalla notte romana, dal venticello che spirava verso il Tevere, o dalla maschera scura che celava il volto di quello strano figuro.

“Dai, vieni anche tu...” disse Juan, prima di partire, indicando il palafreniere che si occupava del cavallo: “Ci seguirai e poi ti occuperai di questa splendida bestia...”

“State attento, Duca!” disse ancora una volta qualcuno, ma il figlio di Alessandro VI rispose con una risata spavalda, che riecheggiò nella via anche quando fu lontano.

Arrivati in piazza degli ebrei, Juan fermò il palafreniere e, smontato da cavallo assieme all'uomo mascherato, gli diede le redini: “Se entro un'ora non saremo tornati... Be', riportate pure il cavallo nella stalla da cui è arrivato.”

L'uomo, un po' impensierito all'idea di restarsene solo lì in mezzo alla piazza, nelle tenebre di Roma, annuì e guardò il Duca di Gandia e il suo strano amico allontanarsi.

Aspettò, fissando intimorito le case dalle finestre chiuse e il cielo con poche stelle che stava sopra la sua testa. C'erano pochissime luci, un paio di torce su un muro, un paio su un altro... E faceva anche freddo, benché si fosse ormai a metà giugno.

Non passò nessuno per strada, nemmeno qualche ubriacone ritardatario. Il palafreniere aspettò con ansia che l'ora passasse.

A un certo punto, dopo aver sentito scoccare il campanile, perse la cognizione del tempo e probabilmente restò fermo al suo posto quasi per il doppio di quello che era stato pattuito.

Se non fosse stato per la presenza viva del cavallo, probabilmente l'uomo sarebbe morto di paura, quella notte. Non era mai stato un cuor di leone e restare lì in mezzo con solo le stelle come come compagnia non era esattamente il suo ideale di nottata tranquilla.

Facendosi un segno della croce, nella speranza di non imbattersi in nessun brutto ceffo lungo la strada del ritorno, affidò le sorti del Duca di Gandia a Dio e si mise a camminare, il palafreno tenuto per le redini e l'immagine vivida di Juan Borja che si divertiva chissà con chi in chissà che bettola impressa nella mente.

 
   
 
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