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Autore: Vegethia    24/11/2017    4 recensioni
La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo: soprattutto di venerdì 17.
Con questa filosofia il superstizioso Jabura rifiuta di partire insieme ai colleghi del CP9 per la missione di massima urgenza indetta dal direttore Spandam, un massacro ai danni di pirati e filibustieri su un'isola poco distante da Enies Lobby.
Scoprirà però che anche restando chiusi in casa nel giorno maledetto, dalla Sfortuna non si è mai davvero al sicuro...
Genere: Comico, Commedia, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cipher Pool 9, Jabura, Kaku, Rob Lucci, Spandam
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il weekend arrivò con uno dei temporali più intensi e fragorosi degli ultimi sei mesi, oscurando il cielo fulgido di Enies Lobby e rubando alla sede governativa, durante tutta la giornata di venerdì, l’appellativo di Isola senza notte.
Era solo novembre, ma dal freddo pungente e dall’intensità del vento pareva già inverno inoltrato. La pioggia tempestava i tetti degli edifici e scuoteva le finestre del Palazzo di Giustizia come se dovesse sfondarle; il vessillo del Governo Mondiale, simbolo di utopistiche promesse di pace e stabilità, sbatacchiava impazzito sotto la spinta violenta delle raffiche, minacciando di squarciarsi e cedere all’unica forza naturale cui nessuna legge terrena avrebbe mai potuto opporsi.
Erano appena le 22:00 e alla torre principale la maggior parte delle luci erano spente. Parecchie stanze erano vuote; alcune in via occasionale, quasi tutte come ogni giorno a quell’ora: lavorare nel Cipher Pol, del resto, significava abituarsi alle trasferte in terre straniere e alla vita senza fissa dimora.
Faceva però eccezione una sala ai piani più alti del Palazzo, dove la luce tremula di una lampada ad olio baluginava sul soffitto e si diffondeva sulle pareti, proiettando le ombre simmetriche di un ponticello in legno e quelle sinuose dei bonsai piantati per tutto il perimetro.
Immerso in questa semioscurità, Jabura se ne stava steso sul prato che tappezzava interamente la sua camera, bottiglia di Baijiu in una mano e rivista a luci rosse nell’altra.
Non c’era modo migliore di trascorrere il giorno della Scalogna se non in casa, nella sua ampia, accogliente tana —più simile alla dimora di un monaco Zen che a quella di un predatore, in verità— distante con il corpo e con la mente da ogni preoccupazione.
O quasi.
Nonostante i 50 gradi alcolici del liquore ingurgitato e le forme generose delle “100 FOCOSE MERAVIGLIE DI ALABASTA” a sollazzarlo, infatti, i suoi pensieri erano da un’altra parte, più pressanti di quanto non fosse disposto ad ammettere.
Avvertiva ancora l’inquietudine provata il pomeriggio prima, quando il resto dei suoi colleghi rompiscatole era partito per la missione su Duma, ma amplificata a mille: gli si era annidata dentro, era cresciuta nella notte piantando malevoli radici tanto più lunghe e profonde quanto più s’ingrossavano il mare e la tempesta ad Enies Lobby, e pareva chiaro, ormai, che niente l’avrebbe sradicata fino all’alba del nuovo giorno.
Tracannò un ultimo sorso d’alcol e si rigirò la bottiglia vuota tra le mani, pulendosi la bocca sull’avambraccio libero. Ne aveva scolata una intera, ma non poteva essere abbastanza per i suoi standard, non in quella particolare combinazione di giorno e numero sul calendario.
Avvertiva ancora con troppa lucidità il vento che fischiava su per le grondaie e i flash abbacinanti dei lampi che cadevano in picchiata sul mare color dell’abisso.
Non che avesse paura, naturalmente. Lui era un lupo: la paura la conosceva solo attraverso gli occhi delle sue prede. Poteva incuterla, fiutarla nelle membra dei poveri diavoli a cui dava la caccia, ma provarla in prima persona? Mai.
Considerò comunque l’idea di andare in camera di Rob Lucci a sgraffignare qualcos’altro da bere; poteva essere divertente: lo stronzetto, al suo ritorno, si accorgeva sempre se qualcosa era fuori posto —lui s’impegnava a fargli trovare le cose fuori posto— e montava su un casino dell’altro mondo.
Ridacchiò al ricordo dell’ultima presa con cui lo aveva messo al tappeto dopo un acceso scambio di vedute circa la “violazione di proprietà privata”, quindi rifletté che probabilmente, a quell’ora, il collega era nel bel mezzo di uno sterminio di massa.
Un poco lo invidiò.
Se la sarebbe spassata a giocare con quei pirati da strapazzo, su Duma, a promettere che non li avrebbe fatti soffrire, che avrebbe risparmiato le loro patetiche vite; solo per rincorrerli un attimo dopo, tramutato in lupo, affondargli le zanne alla gola e sentirli spirare tra le sue fauci, poco a poco, tra le strida soffocate e il caldo fiotto del sangue.
Non gli sarebbe neanche importato della missione indetta per puro tornaconto personale di Spandam
pur di fare bella figura con gli Astri durante la sua visita a Marijoa si sarebbe venduto il culo, figurarsi quello dei suoi sottoposti!
Ma quello era venerdì 17.
La festa di compleanno della Sfortuna, il giorno in cui le sciagure si davano appuntamento e le disgrazie ti prendevano per mano e ti tallonavano fino al cesso di casa per tutte e 24 ore; finché la mezzanotte, la santissima mezzanotte del sabato 18, non ti accoglieva nella sua benevola, amabile normalità.
Jabura credeva fermamente in quella che per molti era futile superstizione, perché la sfiga nei suoi venerdì 17 ci aveva sempre lasciato la firma: il giorno in cui si era beccato il primo provvedimento disciplinare per “brutalità aggravata e non richiesta”? Venerdì 17; il giorno in cui Rob Lucci era stato promosso nel CP9 e si era trasferito nella stanza accanto? Venerdì 17; e il giorno in cui gli avevano sfregiato la faccia, che per poco non ci rimetteva anche l’occhio? Beh, quello non se lo ricordava, ma era pronto a scommettere che fosse un dannatissimo venerdì 17.
Un tuono spezzò il filo dei suoi pensieri, rombando tutt’attorno alle mura che sembrarono rabbrividire in sincrono con le sue ossa.
Lanciò un’occhiata delusa alla bottiglia vuota. «Bah. Sono troppo forte per questa roba!»
La scagliò via, spense la lampada e si distese su un fianco, chiudendo piano gli occhi. Una bella dormita era ciò che ci voleva; la soluzione perfetta per dimenticare la iella e non pensare alla noia che lo attendeva l’indomani, nella terra inviolabile dei capoccia del Governo.
Fuori il temporale non dava tregua, ululando come un demone in permesso d’uscita dall’inferno. Tentò di escludere quel rumore concentrandosi sui suoni a lui familiari: il brusio delle foglie smosse dagli spifferi di vento, lo scroscio placido del ruscello che lambiva le pareti di roccia artificiale, il colpo secco e ritmico dello Shishi odoshi sulla pietra.
Stava finalmente per assopirsi quando qualcosa —qualcosa di agghiacciante— levò un gemito nel buio.
«-O... OIIII...!»
Il Lupo riaprì le palpebre. Si guardò attorno muovendo solo gli occhi.
«Niwatori?» chiamò, poco convinto.
Il gallo non rispose. Per forza: a quell’ora dormiva chiuso nel chiosco, e comunque, anche da sveglio, non avrebbe fatto rumore; se l’era scelto così apposta. L’ultimo temerario pollastro che aveva osato svegliarlo all’alba nel suo giorno libero era finito al forno con un contorno di patate, giù alla mensa, senza troppe remore.
Allora ci fu un altro rumore, simile ad un cigolio, e un’ombra innaturale apparve nella parete confinante con la stanza accanto.
Jabura era, di fatto, mezzo sbronzo e fece fatica a mettere a fuoco le immagini nonostante la vista notturna amplificata dai poteri del Dog Dog. Dopo che vide, però, volle appellarsi con tutte le sue forze all’idea di essere completamente stordito dall’alcol.
C’era una cosa nella parete.
Un’escrescenza che sbucava dal muro... un ammasso immondo di tentacoli. No.
Capelli.
Attaccati al cranio di Kumadori.
«YOOOO... YOOOOI!»
Jabura sussultò, sgranando gli occhi per la sorpresa.
La testa di Kumadori —solo la sua testa!— usciva dal muro e ruotava lentamente, come se qualcuno l’avesse impalata ad uno spiedo, mentre i lunghi capelli fradici di sangue e pioggia si protendevano verso di lui, per afferrarlo.
«Kumadori...!? Perché sei qui??»
A Duma c’erano almeno cinquecento pirati, ricordò il Lupo bisognoso di una spiegazione razionale, cinquecento dannati avanzi di galera sparpagliati in lungo e in largo per l’isola, pronti a darsela a gambe e a nascondersi appena realizzato di avere il reparto più cazzuto del Governo Mondiale alle calcagna: era troppo presto perché i suoi fossero di rientro dalla missione.
Non ebbe tuttavia il tempo di riflettere ulteriormente che lì, accanto alla testa del nativo di Wa, un arto insanguinato sbucò dal muro, cercò un appiglio e trascinò lentamente fuori il resto del suo corpo.
L’agente che conosceva la paura solo attraverso gli occhi delle sue vittime adesso deglutì, impietrito.
Dalla parete illuminata dai bagliori spettrali del temporale, proprio davanti ai suoi occhi —ai suoi occhi di lupo a cui nessuna oscurità poteva mentire— Rob Lucci apparve nella sua stanza, slavato da un pallore cadaverico, i vestiti pieni di sangue e sporchi di terra... attraversando la parete.
Come un fantasma.
«Ma che cazzo...!?» si lasciò sfuggire Jabura, balzando in piedi talmente in fretta che per un attimo la testa gli girò e minacciò di fargli perdere l’equilibrio. «Come hai fatto a...»
«Ja... bu... ra...!» gracchiò la Cosa, gelandogli il sangue nelle vene.
Mano sul cuore, da quando conosceva quello stronzetto, anche dopo averlo conciato per le feste, anche quando era tornato sfinito due anni prima, con la schiena corrosa dai colpi dei cannoni, mai, mai una fottuta volta, lo aveva sentito parlare in quel modo. E non era nemmeno certo che la voce provenisse da lui, dal momento che non aveva schiuso le labbra di un millimetro.
È così che parlano i morti?!
«Vieni con noi, Jabura!»
Un’altra voce.
Più stridula della prima. Più infantile.
E Kaku apparve accanto a Lucci, anche lui vomitato fuori dalla parete, anche lui esangue, la tesa del berretto squarciata e i lacci di una scarpa che strisciavano per terra. Camminava lento verso di lui, caracollando lievemente, gli occhi tondi, vitrei, spalancati come globi bianchi sulla faccia di un burattino senza vita.
«È solo colpa tua» crepitò la voce del morto con le sembianze di Lucci, avvicinandosi.

Grandioso! Ho la sbornia allucinogena!, imprecò mentalmente il Lupo, ma l’istinto lo portò a muovere un passo indietro. «Fermi dove siete! O vi giuro che...»
«Ci ammazzi?» Il faccino di Kaku si deformò in un ghigno malefico. «Siamo già morti. Sbudellati!»
Jabura ricordò con una stretta alla gola l’ultima conversazione avuta coi due colleghi e all’improvviso tutto ebbe senso.
Gliel’aveva mandata lui, la Iella. Doveva andare lui in missione a Duma.
Doveva morire lui, al posto di Rob Lucci.
Un lampo illuminò a giorno la stanza e nella luce intermittente le due figure scomparvero, per riapparire subito dopo ad un palmo di naso da lui.
«Ho detto FERMI, maledizione!!»
Ma i morti non ascoltavano, non intimidivano di fronte alle minacce. Cercavano solo vendetta.
«Oggi morirai anche tu, Jabura.»
«Anche tu!» rise Kaku. «ANCHE TU!» Allungò le braccia, pronto a stringerlo in un abbraccio mortifero.
Jabura vide per la prima volta la paura con i suoi occhi, e questo a Lucci e Kaku sarebbe potuto bastare.
Sarebbe potuta finire lì, al loro segnale: con Fukuro che saltava fuori dal Door Door di Blueno e immortalava la faccia terrorizzata del Lupo con uno scatto fotografico; con Jabura che realizzava —imprecando in ogni lingua nota nel Vecchio e nel Nuovo Mondo— che tutta quella situazione paranormale era solo scaturita da un buon Soru, dalle doti da ventriloquo di quello stronzo addomesticapiccioni di Rob Lucci, e —in minima parte, certo— dalla sua suggestione.
Tutti i membri del CP9 avrebbero potuto ricordare, a distanza di anni, quello stupido scherzo come un grande trionfo sul primo esperto di bugie e tiri mancini, e rinfacciarglielo per il resto dell’esistenza.
Ma quello era venerdì 17, e la festeggiata non mancò all’appuntamento.
Fu un attimo.
La porta d’ingresso si spalancò con uno stridulo cigolar di cardini nell’esatto momento in cui una folgore, gravida delle sue centinaia di milioni di volt, impattò sul Cancello della Giustizia.
Il tuono deflagrò con una violenza assordante, inaspettata. Tutto si accese di un rosso vivo: in quell’attimo sembrò che persino dal cielo piovesse sangue.
Jabura sentì la morte incombere su di sé come una mannaia vibrata in aria, annunciata dal grido di terrore di una giovane donna
troppo occupata a tener chiusa la zip di Fukuro per poter coprire la sua, di bocca.
Semplicemente perse il controllo.
Come una fiera impaurita si voltò verso la porta, caricò il colpo e ruggì, con tutto il fiato che aveva nei polmoni: «RANKYAKU!»
Il lampo azzurro squarciò l’aria, falcidiando ogni stelo d’erba sul suo passaggio. Distrusse l’intonaco, tranciò qualche alberello sfortunato che aveva messo radici vicino all’ingresso e finì col travolgere in pieno il suo bersaglio.
Veloce com’era arrivata, la Sfortuna levò le tende, spegnendosi nell’eco surreale della tempesta elettrica.
«J-J-ah...haaaaa-»
Jabura deglutì.
Non capiva.
Non ci capiva assolutamente nulla, e la luce calda e guizzante dei candelabri fissati alle lesene del corridoio che ora illuminava il corpo disarticolato del direttore Spandam, stecchito sulla soglia della sua stanza, non era d’aiuto.
«Oh... merda!»
Kaku era sempre stato un bambino educato e obbediente, e col senno e la calma del poi, Jabura avrebbe ricordato con soddisfazione quella prima volta in cui gli sentì pronunciare una parolaccia.
«Questo non era previsto...»


«Sarà morto?»
«Tanto vivo non è più di sicuro...»
Le luci della stanza si accesero, restituendo il verde brillante al prato, il bianco candido alle piume di un sonnecchiante Niwatori e il rosso vermiglio alla faccia martoriata di Spandam.
«Cosa diavolo... »
Più i minuti passavano, più Jabura non ci si raccapezzava. Di certo, vide solo che dal muro della sua stanza, là dove era sicuro non esserci alcuna porta o finestra, ora erano saltati fuori Fukuro, Kumadori —tutto intero—, Califa e Blueno.
«Ma che cazzo sta succedendo??» proruppe, fuori di sé.
«È il mio nuovo frutto del diavolo. A dopo le spiegazioni...» spiegò telegrafico Blueno, per avvicinarsi subito a Spandam col resto dei colleghi.
«Tu... hai... COSA...?!!» Ora Jabura cominciava a capire —no: fiutava limpidamente la puzza di presa per il culo— e la cosa non gli piaceva affatto. «EHI!! Com’è che non sono stato informato?!»
Si voltò furente verso Lucci, che se ne stava in piedi a contemplare Spandam con la stessa pietà che avrebbe riservato a una lumaca di mare spappolata su un selciato. Lo vide storcere appena le labbra: «Bravo, idiota, hai ucciso il capo!»
Jabura formulò così tanti insulti tutti in una volta che il risultato fu un’implosione di massa dei suoi centri nervosi. Un preoccupante tic gli comparve all’occhio sinistro, mentre sobbolliva e boccheggiava dalla rabbia.
Stavolta lo avrebbe massacrato! Lo avrebbe ridotto in pezzetti così piccoli che ci avrebbero potuto fare la carne in scatola con Rob “NATO STRONZO” Lucci, così finalmente avrebbe compiuto un gesto altruista verso l’umanità!
«DISONORE!!! REPRIMENDA!! DI CHE COLPA CI SIAMO MACCHIATI??!» si disperò Kumadori, sguainando la katana «URGE IL MIO SACRIFICIO! ...SEPPUKU!!»
«Non è che se muori risolviamo qualcosa...»
«...TEKKAI!»
«ALMENO FALLO COME SI DEVE, IMBECILLE!!»
«Chapapapa!! Siamo licenziati, è così?»
«Calmatevi» sospirò Blueno «È... Credo sia ancora vivo.»
Spandam, in effetti, rantolò qualcosa di incomprensibile.
«Sono i versi di un maniaco sessuale. Dobbiamo dargli il colpo di grazia!»
«No, no» Constatò amareggiato Kaku, sentendo il battito irregolare del direttore sotto le dita. «Penso che possa cavarsela...»
«E tanti saluti all’occultamento del corpo... Chapapa.»
«Ben vi sta!» Esclamò Jabura. «Vi licenzierà e vi spedirà ad Impel Down seduta stante!»
«Se licenzia noi, licenzia anche te» osservò sdegnoso Lucci «La colpa è solo della tua idiozia!»
«La colpa è di chi non ti ha freddato nella culla!!»
«Basta, voi due!» li separò veemente Blueno. Era davvero seccato, oltre che rassegnato all’imminente punizione, perché lo sapeva che sarebbe finita male. L’aveva detto sin dall’inizio, agli altri, che lo scherzo era una pessima idea, che lui non voleva entrarci nelle loro —stupide, ma guai a dirlo davanti a Rob Lucci— questioni; ma quelli no, lo avevano dovuto tirare in ballo a tutti i costi dopo aver visto il suo Paramisha! «Lo porto in infermeria.»
Prese Spandam tra le braccia robuste e lo sollevò come fosse un fuscello, o un bell’addormentato che di bello non aveva più nulla, dopo l’intervento di chirurgia estetica ad impatto di Cutty Flam e Jabura.
Con la medesima rassegnazione e conturbato dal rammarico di non aver potuto pestare —non ancora— gli autori del complotto ai suoi danni, il collega più anziano lo seguì: «Vengo con te.»
Lucci, Califa, Kaku, Fukuro e Kumadori restarono fermi, impalati sul posto, chi a cercare chiocciole sull’erba, chi a pulirsi le lenti linde degli occhiali su una pezzuola, chi a esaminarsi i lacci delle scarpe.
Jabura investì le facce da gnorri dei colleghi con un’occhiata minacciosa. «Avete bisogno dell’invito??»
«Che spudorato!! Mi stai chiaramente molestando!»
«Mmmm... Mi ritiro nell’intimità del mio rifugio sicché possa scongiurare gli Dèi di perdonare le nostre colpe! Yo-yoooi.»
«Il capo si arrabbierà. Io non vengo. Chapapa.»
«MUOVETEVI O VI SPINGO A CALCI IN CULO PER LE SCALE!!»
Blueno diede due colpi di tosse, schiarendosi la voce, poi guardò l’unica persona davvero in grado di scuotere il gruppo.
Rob Lucci sostenne impassibile il suo sguardo finché il senso di responsabilità e di giustizia che gli avevano inculcato sin dai suoi primi anni di vita non prese il sopravvento.
«Va bene» disse sfilandosi le mani di tasca «Diamoci una ripulita e scendiamo anche noi.»



Note dell'autrice
note dell'autrice
Un minuto di silenzio per Spandam rankyakuzzato da Jabura... grazie!
In questi giorni vado sempre di corsa, ma non posso esimermi dal lasciare alcune note (le ho inserite anche nel primo capitolo, a beneficio dei lettori futuri), perché questo capitolo è il cuore della storia e alcune precisazioni vanno fatte. Non voglio annoiarvi, andrò veloce come il Rocket Man:

- Al CP9 ci si diverte con poco, ossia usi alternativi del Door Door
La chiave di volta della storia che ha reso possibile lo scherzo ai danni di Jabura, lo avrete capito, è il Door Door che Spandam ha consegnato a Blueno alla fine dello scorso capitolo. Il Lupo non sapeva che l'avesse mangiato, non sapeva neanche dell'esistenza del Frutto stesso, per cui tutto ciò che è accaduto, ai suoi occhi appariva assurdo, inspiegabile, paranormale: ho cercato di farvi immedesimare in lui, ma spero che la situazione vi abbia anche strappato un sorriso. Voi potevate immaginare cosa stava succedendo, Jabura no!

- Lucci, Kaku e la performance da zombi
Tutta la “scena horror" era amplificata dalla suggestione di Jabura e dal fatto che fosse un po' brillo (forse era meglio dedicarsi solo alle Bellezze di Alabasta?), ma nel manga, a Water Seven, Lucci e Kaku hanno dimostrato di essere ottimi attori; non dubito che fossero capaci di certe bastardate anche in tenera età.
Kumadori, invece, è solo rimasto incastrato nel muro.

- Fukuro e le foto compromettenti
Anche se lo scherzo non è andato a buon fine per un colpo di sfortuna (Spandam, che è entrato nella stanza di Jabura al momento sbagliato nel giorno sbagliato, è la vera vittima in tutto ciò), il suo scopo era quello di terrorizzare Jabura e immortalarlo con una foto. In un contesto completamente diverso, l'espediente della foto è stato usato da kymyit, mia partner di role oltre che scrittrice meravigliosa, in un GDR che scrivo con lei. Il particolare è secondario nel capitolo, ma ci tenevo a precisarlo!

- Citazioni a go go da Stephen King
Solo piccole curiosità, ma magari a qualche fan del Re piacerà trovare conferme: l'isola di Duma cita il nome e l'ambientazione di Duma Key, uno dei miei romanzi preferiti di King, ambientato su una splendida isola della Florida (che non esiste nella realtà, ma appartiene idealmente all’arcipelago delle Keys); mentre l'esclamazione di Kaku a coronamento della scena horror («Anche tu! ANCHE TU!») è una citazione del famoso tormentone di It (di recente uscito al cinema con un remake): «Galleggerai anche tu!»
Non volevo che Jabura galleggiasse, ma Kaku bambino nei panni di un malefico Georgie Denbrough posseduto da It era uno spettacolo troppo bello per non essere concepito, anche solo nella mia testa.

Chiarimenti ulteriori e retroscena sulla vicenda nel prossimo capitolo, che sarà anche conclusivo di questa mini-long.

Grazie per essere arrivati fin qui!

Vegethia
  
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