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Autore: Alchimista    27/11/2017    1 recensioni
Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo, l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.
«È ora, Shirabu», si sentì chiamare dal capitano.
No. Aveva bisogno ancora di qualche istante, solo un paio, il tempo necessario a pensare ancora una volta, magari da solo…
«Solo un secondo, vi raggiungo subito».
Quarta soulmate della raccolta | Ushishira | Semiten | IwaOi
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu, Tendo Satori, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fate don't know you like I do'
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Pairing: Ushishira | TenSemi |IwaOi

Parte: 7/9.

Avvertimenti: Soulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | (Per comprendere le parti che riguardano gli IwaOi è necessario leggere la prima soulmate della raccolta, che trovate qui.)

Alla mia parabatai Luna.



Don’t let me be gone.

Parte settima.









Fu come vedere un burattino a cui tagliano improvvisamente i fili crollare sul pavimento del palcoscenico senza più vita, irrimediabilmente rotto. Finito. Fu come colpire in pieno un uccello in volo col pallino di un fucile e vederlo crollare rovinosamente al suolo senza possibilità di riprendere quota.

Ushijima stava camminando lungo uno dei corridoi dell’Accademia: quella mattina i ragazzi del terzo anno avevano concluso le lezioni con un’ora di anticipo e per questo il ragazzo, insieme agli altri compagni di squadra, si stava avviando alla mensa. Ricordava precisamente di star parlando con Semi: discutevano delle università a cui avevano fatto domanda e del fatto che avrebbero dovuto spostarsi permanentemente a Tokyo dal prossimo anno. Ricordava anche che, nonostante tutto, era stato piacevole conversare in quel modo, con la tranquillità e la spensieratezza che avrebbero dovuto avere sempre – Tendou aveva aggiunto qualche frase sull’aver dovuto scegliere una facoltà diversa da quella di Eita e che di conseguenza si sarebbero visti di meno e il compagno aveva ribattuto che quelli più in difficoltà sarebbero stati Ushijima e Shirabu, dal momento che l’alzatore aveva ancora un anno di superiori da affrontare.

Wakatoshi aveva annuito, senza sbilanciarsi: dopo aver affrontato il cancro, la mera lontananza fisica gli pareva una sciocchezza, qualcosa di tremendamente banale.

D’un tratto aveva sentito il bisogno impellente di trarre il fiato, quasi fosse finito in apnea senza rendersene conto. S’era ritrovato per terra, in ginocchio, completamente instabile, ed aveva realizzato con crudele lucidità che Kenjirou aveva smesso di respirare. Il dolore era arrivato con quella consapevolezza – Ushijima s’era sentito strappare la pelle di dosso e poi i muscoli e le ossa finché di sé non restava niente. Aveva gridato, stringendosi il petto con le braccia, tirando la testa all’indietro e crollando sul pavimento; aveva gridato come se lo stessero trapassando con tanti, infiniti, lunghi aghi: poteva sentire il dolore che causava ognuna di quelle coltellate, ognuna delle ferite che la morte del suo compagno gli infliggeva.

Ma non voleva che finisse: se il dolore, quel dolore, era l’ultima cosa che gli restava del suo compagno di vita, allora Wakatoshi non voleva che finisse. Voleva provarlo per sempre, passare la sua vuota esistenza nelle grida e nella disperazione della perdita. O morire. Morire era una prospettiva forse vigliacca, ma la sola che riusciva a concepire in quel momento.

«Lasciatemi morire», aveva sussurrato, prendendo fiato tra le grida «Lasciatemi solo morire».

Poi il suo corpo aveva smesso di contorcersi ed era arrivata l’incoscienza. Ushijima aveva sperato fosse la morte.

Quando si riprese, non era più nel corridoio in cui era crollato. La prima cosa che notò fu il silenzio. C’era tanto silenzio e lui aveva gridato così tanto ed aveva provato sentimenti così forti che quel silenzio quasi lo disturbava – non sembrava giusto. La seconda cosa ad attirare la sua attenzione fu il calore: sentiva qualcosa di caldo contro la sua schiena, qualcosa che lo avvolgeva e lo faceva sentire protetto. Provando a muoversi, Ushijima si accorse che quel qualcosa era Satori, che lo teneva stretto contro il suo petto abbracciandolo con forza e dolcezza. Davanti a lui poteva scorgere i volti preoccupati di Semi, Reon e Hayato, in piedi al capezzale del letto dell’infermeria che ormai conosceva fin troppo bene.

Per qualche istante li guardò senza dire nulla, annichilito. Non sapeva che cosa fare, non sapeva che cosa provare. Anche il dolore lo aveva abbandonato e Ushijima si sentiva completamente perso. Sospirò, tremante, sconfitto come mai avrebbe creduto di poter essere: nulla nella sua figura ora poteva ricordare lo sprezzo e la forza del capitano della Shiratorizawa, di cui tutti avevano timore e rispetto. Senza Shirabu, non era più nulla.

«Come ti senti?»

Quella domanda gli fece male. Vide Hayato pronunciarla e restò a fissare il suo volto, cercando in quei lineamenti tirati una risposta che non conosceva. Non aveva alcuna possibilità di conoscere le proprie emozioni perché non provava nulla di preciso, nulla a cui sapesse dare un nome: si sentiva stordito e pesante, la testa gli pareva un fardello troppo grave da sostenere e il corpo una zavorra senza significato. Avrebbe preferito continuare a dormire e non sapere che cosa ne sarebbe stato di se stesso.

«Abbiamo parlato con Kawanishi». La voce di Semi era lontana, Ushijima la percepiva a stento. «Ha detto che si è trattato di un infarto, che è stata una cosa improvvisa».

Una minuscola parte di sé, in Wakatoshi, avrebbe voluto ribellarsi alla passività con cui Semi gli stava dando quella notizia; quella minuscola parte avrebbe voluto gridare che era della morte del suo compagno che stava parlando, che a ruoli invertiti avrebbero scambiato la sua classica schiettezza per mancanza di tatto. Ma Ushijima mise a tacere quella parte piccolissima perché niente aveva senso.

«Appena te la senti di muoverti, andiamo tutti quanti», aggiunse Tendou, così vicino ad Ushijima che questi quasi sussultò. «Kawanishi ha detto che i medici lo hanno tenuto in stretta osservazione per qualche ora, ma che adesso lo hanno spostato in stanza e sembra stare meglio».

Ushijima non si rese conto di aver preso a respirare con forza, marcando il respiro che entrava ed usciva dai suoi polmoni quasi a voler che l’aria lo ferisse nel suo passaggio. Non si accorse neanche di aver preso a piangere perché ormai era completamente distaccato dalla sua sfera emotiva e dalle reazioni che essa gli faceva avere. Ma era certo di aver sentito Satori dire che Shirabu sembrava stare meglio. Ed era assurdo perché lui, invece, lo aveva sentito chiaramente morire.

«Kenjirou è morto», mormorò con voce rotta, tra i primi singhiozzi. «Perché mi fai questo, Satori? Kenjirou è morto».

Più lo ripeteva, più faceva male e forse Ushijima lo voleva quel dolore, perché aveva capito che non poteva vivere senza di esso.

Tendou si mosse, svincolandosi dall’abbraccio in cui ancora lo teneva stretto e facendo in modo di guardarlo dritto negli occhi, i due volti vicinissimi e le sue mani che prendevano quello bagnato del migliore amico.

«Shirabu ha avuto un infarto, Wakatoshi. È vero lui era… morto, ma solo per qualche minuto. Lo hanno rianimato ed ora è ricoverato nella sua stanza. Shirabu adesso è vivo».

Ushijima guardò Tendou per qualche istante, lasciando che le sue parola gli si posassero nell’anima e risvegliassero il legame. Aveva ragione, poteva sentirlo – lieve, affievolito dalla paura, come una fiammella che dopo aver rischiato di spegnersi del tutto, prova a riprendere timidamente vigore, memore dell’incendio che è stata. Il legame lo portò a Shirabu e Ushijima seppe che era ancora vivo, che stava meglio.

«Andiamo ora», disse con tono serio – era lo stesso che riservava ai suoi avversari, lo stesso che usava per farsi rispettare dai primini o quando la situazione era abbastanza  grave da richiederlo. Lasciò andare il tocco di Tendou ancora sul proprio viso e si mise in piedi: la testa gli girò come non aveva mai fatto, ma Ushijima la ignorò, mettendo un piede davanti all’altro senza chiedere l’aiuto di nessuno. Dietro di lui, la squadra, se possibile, era ancora più preoccupata di quando lo aveva soccorso straziato dal dolore.

Contrariamente a quello che aveva provato qualche sera prima, quando era corso da Shirabu in piena notte, questa volta il viaggio verso l’ospedale a Wakatoshi sembrò durare un’eternità. Senza riuscire a pensare, ancora una volta, il tempo non aveva modo di passare e il ragazzo fissava il vuoto essendo a malapena consapevole di sé, completamente svuotato.

In ospedale, non notò i dottori, non notò le lacrime di Goshiki, lo sguardo perso di Kawanishi, i genitori di Shirabu che si stringevano l’uno all’altro per farsi forza. Entrò nella stanza del suo compagno senza sentire niente, ma quando fu dentro, quando lo vide con la mascherina dell’ossigeno e il corpo collegato ai monitor perché tenessero sotto controllo il suo cuore, si sentì come se lo avessero gettato a picco tra le onde dell’oceano in tempesta.

Kenjirou lo guardava, gli occhi un po’ spenti ma lucidi, il viso pallido ed affaticato. Cercò di sorridergli, perché poteva solo immaginare ciò che aveva passato nelle ultime ore a causa sua, ma il sorriso tremò di fronte all’espressione che assunse Wakatoshi non appena lo mise bene a fuoco.

«Ti sei arreso. Mi avevi promesso che avresti resistito e invece ti sei arreso». Il tono era serio, fermo, forse anche arrabbiato. Shirabu avrebbe voluto dirgli che non lo aveva fatto di proposito, che non s’era accorto di nulla, che morire per lui era stato facile come respirare. Che avrebbe voluto mantenere la sua promessa con tutte le forze e semplicemente il suo corpo lo aveva tradito, come quando s’era ammalato.

«Ti ho sentito… ti ho sentito ed è stato…».

Kenjirou non aveva mai visto Ushijima piangere in quel modo. Anche quando avevano perso la finale contro la Karasuno, anche quando gli aveva confessato di avere il cancro, Ushijima non aveva mai pianto così. Ora, invece, le lacrime scendevano copiose lungo le sue guance e lo rendevano meravigliosamente sconfitto, in un trionfo di dissonanza che aveva il fascino dell’impossibile.

Con pochi passi, Wakatoshi fu al capezzale del suo letto e Shirabu lo vide crollare in ginocchio, col viso nascosto dalle lenzuola, accanto alla sua mano inerte. La sua grossa schiena era scossa dai singhiozzi che il ragazzo soffocava nel letto, così come le grida che in quel modo erano attenuate fino a dei sussurri strozzati. Nel silenzio della stanza, però, erano strazianti.

«Portami con te. Se non vuoi, se non puoi resistere, ti prego Kenjirou portami con te. Io non posso-».

Shirabu lo guardava col più malinconici dei sorrisi ad allargargli le labbra. Quanto erano tristi i legami, quanto era triste l’amore: sentirsi tanto connessi ad una persona da pensare di non poter più vivere senza di essa… quanto era potente e triste una convinzione del genere. Si tolse per qualche momento la mascherina dell’ossigeno in malo modo.

«Va tutto bene, Wakatoshi», lo rassicurò con voce strozzata, accarezzandogli i capelli, mentre questi teneva ancora il volto nascosto nelle lenzuola del letto «Oggi è una giornata così bella, non dovresti passarla qui dentro. Sono sceso nel giardino stamattina. Lì si sta bene, dovresti andarci».

Ushijima alzò il capo e lasciò che la mano di Kenjirou scivolasse lungo la sua guancia bagnata.

«Che importanza vuoi che abbia il Sole, quando tu sei qui dentro? Potrebbe anche piovere o nevicare e non cambierebbe nulla: non ha senso stare lì fuori, quando è il nostro tempo ad essere guasto».

«Il dolore ti rende fin troppo dolce. Non lo sapevo», constatò Shirabu – parlava con calma, come se dopo essersi fermato il suo cuore si fosse anche alleggerito, o forse erano solo i medicinali che i dottori gli avevano somministrato per tenere sotto controllo la sua pressione «Quando sarò morto, potrai tornare a conoscere il Sole».

«No. Quando usciremo da qui, ti mostrerò di nuovo il Sole».

Ushijima si sporse a baciarlo, perché non aveva altro modo per fargli capire che non esisteva una vita dopo di lui. Ed inconsciamente, egoisticamente, era tutto ciò che Shirabu stava chiedendo: rendersi conto di essere morto, anche solo per qualche istante, aveva fatto in modo che l’alzatore mettesse nuovamente in discussione ogni cosa – il suo legame, l’amore che Ushijima gli dava con tanta devozione, il suo futuro. Le labbra del suo compagno contro le proprie, le lingue che si sfioravano con dolcezza, la vita che passava da una bocca all’altra – quel bacio ebbe il potere di dare nuovo equilibrio a Kenjirou, di concedergli un po’ di energia per sperare ancora.

Fuori dalla stanza, Reon teneva fra le braccia Goshiki. Il ragazzo aveva il volto pallido e tremava da testa a piede; sembrava essere tornato bambino ed aveva cercato l’abbraccio del più grande come nei primi tempi, come quando ancora non riusciva a realizzare il fatto che Shirabu fosse malato. Ora aveva la nausea ed era poco stabile sulle proprie gambe, tanto che Reon era certo che sarebbe svenuto da un momento all’altro; quello che era successo nella sua mente restava vago ed indefinito, come gli ultimi pensieri prima di addormentarsi e che al mattino dopo finiscono per essere scambiati per sogni. Tsutomu ripensava al fatto che Shirabu avesse avuto un infarto e non riusciva a concepire qualcosa di tanto drammatico e definitivo.

Poco lontani, Semi e Tendou s’erano seduti accanto a Kawanishi. Tendou s’era trovato a pensare che era stata una fortuna avere Taichi sul posto quand’era successo: Goshiki era estremamente emotivo e probabilmente non sarebbe riuscito a fare molto da solo.

«I medici hanno detto altro?» chiese Semi, guardando Kawanishi.

Taichi aveva gli occhi fissi puntati davanti a sé, ma parevano vacui e persi nel vuoto. Non rispose alla domanda del più grande ed Eita si sporse per guardarlo meglio. Era, se possibile, ancora più pallido di Tsutomu e soprattutto non sembrava minimamente cosciente del fatto che non fosse più solo nel corridoio.

«Kawanishi? Mi senti?» provò a chiamarlo, stringendogli con forza una spalla. Il ragazzo continuò a non dar segni di reazione.

«Chiamo un dottore», scattò in piedi Tendou. Tutta quella storia gli pareva solo un lunghissimo incubo da cui avrebbe fatto di tutto per svegliarsi. Cos’altro avrebbero dovuto affrontare, che cosa ancora sarebbe dovuto capitare prima di poter tornare alla tranquillità o anche solo alla loro normalità?

Taichi mosse molto lentamente la testa all’indietro, fino a toccare la parete che aveva alle spalle. E restò così, a fissare la nuova prospettiva che gli occhi gli facevano vedere. Semi si scambiò uno sguardo sconvolto con Reon e Goshiki provò ad alzarsi per avvicinarsi a Kawanishi – le lacrime sul viso del primino erano quasi asciutte.

«Kawanishi?» lo chiamò con voce sottile e per un attimo gli parve vedere una reazione negli occhi del ragazzo. Ma fu brevissima e non portò a nulla. Goshiki tremò: che cosa gli stava succedendo? Era arrabbiato con lui? Ma allora perché non gli gridava contro? Perché era così lontano, assente?

Quando Tendou tornò seguito da un giovane medico, questi impiegò pochissimo ad informarli che, semplicemente, Kawanishi era in stato di shock per l’accaduto. I ragazzi lo guardarono senza essere sicuri di quanto fosse grave una situazione del genere, ma il fatto che l’uomo non avesse chiamato con urgenza qualche collega doveva significare che il pericolo non era immediato. Non era come con l’infarto di Shirabu - Taichi non era così in pericolo.

«Bisogna che controlliamo la sua pressione sanguigna, dal momento che è molto pallido, e va fatto stendere per facilitare la circolazione del sangue», disse ancora il dottore, prendendo gentilmente ma con una certa decisione il ragazzo per le spalle in modo che si alzasse. Semi si mosse con lui, deciso a seguirlo. Si sentiva stanco e allo stesso tempo il suo corpo pareva muoversi al di là del suo controllo, come una macchina che andava avanti anche se lui non voleva.

«Kawanishi…» mormorò ancora Goshiki, impaurito. Voleva fare qualcosa, dire qualcosa prima che il ragazzo andasse via. Sentiva il bisogno di raggiungerlo.

Solo allora il ragazzo reagì. Si fermò, mettendo un po’ più di forza nelle sue gambe, e voltò la testa nella direzione dell’altro ragazzo con lo sguardo più vuoto che Tsutomu avesse mai visto. Era lì, ma allo stesso tempo fin troppo lontano - tutto sembrava avvolto da una patina incolore che lo isolava.

«Lo hai lasciato morire. Se avessimo aspettato te, Shirabu ora sarebbe morto».



Per la prima volta Tachi aveva capito davvero per quale motivo, nei primi tempi della sua degenza, Shirabu fosse sempre così nervoso con tutti: essere al centro dell’attenzione era orribile. Essere al centro dell’attenzione perché si era stati poco bene era anche peggio. Perché non si poteva mandare a quel paese chi era gentile con te? Doveva esistere qualche sorta di inibitore, forse la gentilezza rilasciava nell’aria qualche repellente per la maleducazione, perché Taichi normalmente non avrebbe avuto alcun problema a mettere a posto chi lo infastidiva, eppure erano giorni che sopportava quella situazione davvero sgradevole.

I suoi compagni di squadra avevano deciso che Kawanishi non potesse rimanere da solo neanche per un istante e questa cosa stava rischiando di far uscire di testa il ragazzo. Erano stati giorni difficili, di questo Taichi si rendeva conto: a mente lucida, s’era accorto di non avere quasi alcun ricordo delle ultime quarantotto ore, da che Shirabu era stato male. Quando s’era ripreso, s’era ritrovato in Accademia, nella sua stanza, circondato dai ragazzi del terzo anno e i loro volti corrucciati erano valsi più di mille parole.

Avevano dovuto raccontargli di Shirabu e dell’infarto, specificare che ora stava bene - per quanto si potesse stare bene nella sua condizione - e alla fine Semi gli aveva spiegato che era stato come assente per quasi due giorni, che i suoi genitori al momento erano alla mensa per mangiare qualcosa, che aveva allarmato tutti.

Kawanishi non aveva potuto fare a meno di pensare che quella sua condizione gli avrebbe portato solo seccature. Conoscendo i suoi genitori, sarebbero passate settimane prima di riuscire a rassicurarli almeno un po’ sul fatto che stava bene ora. Perché stava bene, questo era quello che aveva continuato a dire a tutti dal momento in cui s’era ripreso.

La verità, però, era che neanche lui sapeva come si sentisse o cosa sentissee. Shirabu aveva avuto un infarto e lui non ricordava quasi niente degli ultimi due giorni. Erano cose così grandi, situazioni così importanti che solo a pensarci un po’ di più Kawanishi si sentiva annientato, come se fosse stato improvvisamente lanciato al centro dell’universo e fosse perso nella sua immensa oscurità.

Sospirò, lasciando la scrivania e stendendosi sul letto - concentrarsi, quel pomeriggio, era davvero impossibile. Forse non s’era ancora del tutto ripreso dallo stato di shock e quei pensieri, che continuavano a tormentarlo, erano davvero una seccatura. Taichi era un ragazzo semplice, la sua filosofia di vita era “vivi e lascia vivere”, perché il mondo non poteva pensarla allo stesso modo?

Nei mesi in cui era rimasto solo in stanza, dopo il ricovero di Kenjirou, s’era trovato a dover ridefinire se stesso e davvero non credeva potesse esistere qualcosa di più fastidioso. Taichi amava la solitudine. No, Taichi amava la solitudine che poteva condividere con Shirabu. Taichi amava non dover parlare più del dovuto, perché Shirabu lo capiva; amava rispondere in modo piccato ai suoi compagni di squadra perché puntualmente Shirabu la prendeva sul personale; amava non doversi preoccupare di un’azione sin dal momento in cui la palla passava all’alzatore, perché Shirabu non sbagliava.

Kawanishi amava le abitudini che Shirabu aveva creato intorno a lui e quei mesi erano stati un inferno. Non lo avrebbe mai ammesso a nessuno, ma adattarsi era stato difficile. Adattarsi è ciò che si fa per sopravvivere e Kawanishi era abbastanza disinteressato da permettere il più delle volte che vita gli scorresse intorno senza destare la sua attenzione. Ma la sua squadra importava. Shirabu importava. E ora che ci pensava davvero, Taichi non aveva alcuna voglia di adattarsi ancora alla sua assenza.

Quando gli avversari parlavano della Shiratorizawa come di una squadra che privilegiava l’individualità non sbagliavano. La Shiratorizawa era estremamente individuale, ognuno aveva il proprio ruolo, ognuno giocava per sé, ma allo stesso tempo ognuno era consapevole della forza e della debolezza degli altri. Erano sei individualità che sul campo si addizionavano, senza perdere i propri contorni, ma perfettamente consci di dove fossero gli altri. Non dovevano amalgamarsi, bastava che unissero le proprie singole forze.

Taichi sospirò, sentendosi giù di morale per la prima volta da mesi. C’era qualcosa che ancora lo infastidiva, qualcosa che per la prima volta sembrava dargli pensiero in modo consapevole. Kawanishi non s’era preoccupato quando Shirabu era stato ricoverato: stava male per lui, stava male per quello che aveva dovuto affrontare, ma era riuscito a tenere la preoccupazione al minimo, perché non serviva, perché non avrebbe aiutato Kenjirou o reso la situazione migliore. C’era stato per lui, ogni istante, in qualunque momento l’alzatore avesse avuto bisogno della sua presenza. Ed aveva atteso, aveva semplicemente atteso che le cose facessero il proprio corso. Non era uno dei suoi medici e non era il suo compagno: quello che poteva fare era aspettare.

Ora però qualcosa lo turbava. Ora qualcosa pareva essersi risvegliato. Non sapeva se fosse colpa del fatto che Shirabu era morto (per un minuto, forse meno, ma comunque morto), o per il tempo (due giorni, quarantaquattro ore per essere precisi) che al suo cervello era servito per realizzare appieno quello che aveva fatto per salvarlo, ma Taichi si sentiva fragile, incrinato, fuori fase. Quelle sensazioni lo innervosivano, lo facevano muovere sul posto con stizza, come un forte prurito, la puntura di un insetto.

Qualcuno bussò alla porta e la prima volta Kawanishi non se ne accorse. Avrebbe potuto fingere di star dormendo o di avere la musica, ma non gli importava poi molto di avere una scusa, quindi quando sentì bussare per la seconda volta, semplicemente si alzò e andò ad aprire.

Davanti a lui se ne stava Goshiki Tsutomu, in tutto il suo metro e ottantuno, il viso appena arrossato, l’aria seria e tesa come quando in partita si rendeva conto che la sfida si faceva dura. Kawanishi lo squadrò con una certa cattiveria, restando fermo sul posto senza dirgli nulla – sapeva che Goshiki non sarebbe entrato nella sua stanza senza permesso e la stizza che provava era troppo per non cedere a quella piccola meschinità.

Ricordava l’ultima cosa che s’erano detti, lui e Goshiki. O meglio, l’ultima cosa che lui gli aveva detto, mentre erano in ospedale. Era, probabilmente, il solo ricordo saldo che la mente gli aveva restituito di quegli ultimi giorni e Kawanishi lo aveva trovato divertente – non voleva assolutamente dimenticare la rabbia che aveva provato verso il primino. Non aveva fatto nulla per aiutarlo: Shirabu aveva smesso di respirare e Goshiki se n’era rimasto a guardarlo, con gli occhi spalancati e il corpo fermo, senza essere in grado di darsi una scrollata e fare qualcosa. Taichi credeva fermamente in quello che gli aveva detto: se fosse stato da solo, se lui quella mattina non lo avesse accompagnato, ora si troverebbero ad un funerale.

Tsutomu aveva provato a parlargli quando s’era ripreso – nell’ultima settimana, in realtà, non aveva fatto altro che provare a parlargli, a chiarirsi. A quanto pareva, quella frase lo aveva turbato molto e, di nuovo, Kawanishi ne era stato divertito. Si rendeva conto che era una cosa cattiva, ma non poteva farne a meno – dopotutto, era ferito. Lo aveva evitato. Anzi, gli aveva espressamente detto che non avevano nulla di cui parlare e poi aveva preso a comportarsi come se non esistesse: quando si incrociavano tirava dritto e in palestra faceva come se il primino non fosse con loro. Se un’azione, durante le partite, passava dall’uno all’altro era per puro caso: Taichi si rifiutava di riconoscere la presenza di Goshiki accanto a lui.

Reon gli aveva parlato. O almeno aveva provato a farlo. E Kawanishi era stato tremendamente seccato per quella cosa: sul momento aveva disprezzato il ragazzo del terzo anno per aver preso le sue parti e per essere venuto a parlargli.

«Non sapevo avessi intrapreso la carriera giuridica», aveva detto, piccato, quando Reon aveva cominciato a parlare in difesa del comportamento di Goshiki, e in breve gli aveva fatto capire che non sarebbe cambiato nulla, che in realtà delle ragioni di quel ragazzino a lui non importava niente.

Credeva che in questo modo Tsutomu avrebbe semplicemente smesso di provare, ma a quanto pareva aveva sottovalutato la sua testardaggine.

«Visto che fingi di non vedermi nei corridoi o in palestra, ho pensato di venire qui», disse quello – Taichi era sorpreso dal fatto che fosse riuscito a parlare: a giudicare dal suo viso, era anche molto in imbarazzo.

«Posso entrare?» continuò il più piccolo, mostrandosi deciso.

«Preferirei di no», rispose con prontezza Kawanishi, senza spostarsi dalla porta.

Goshiki stette a guardarlo per qualche istante, prima di trovare il coraggio per ignorare quelle parole e scivolare nella stanza. Taichi lo guardò genuinamente sorpreso per l'intraprendenza: alle volte dimenticava che Goshiki era anche il ragazzo che aveva deciso di diventare l'Asso della Shiratorizawa dopo Ushijima.

«So che sei arrabbiato con me», esordì, al centro della stanza.

«Io invece non sapevo che tu potessi essere tanto perspicace!» esclamò Kawanishi, fingendosi sorpreso e chiudendo la porta della sua stanza ormai rassegnato a quella seccatura.

Tsutomu cercò di non farsi scoraggiare dall'atteggiamento del compagno di squadra. Dopotutto, si era ripromesso che avrebbe sistemato le cose con tutti e quello era l'ultimo passo che gli mancava per completare la sua opera: non si sarebbe di certo dato per vinto tanto facilmente.

Da quando erano tornati in Accademia, la sera dell'infarto di Shirabu, Goshiki non aveva fatto altro che pensare alle parole che gli aveva rivolto Kawanishi: aveva avuto ragione, se ne rendeva conto anche lui. Non era stato in grado di aiutare Kenjirou nel solo momento in cui aveva davvero avuto bisogno di loro e si vergognava terribilmente di quella cosa. Non sapeva che cosa gli fosse preso, perché in un momento tanto fondamentale il suo corpo si fosse irrigidito in quel modo e la sua mente non avesse fatto altro che pensare che Shirabu non sarebbe mai più tornato a casa. Era rimasto a fissarlo e s'era sentito irrimediabilmente perso.

La mattina seguente aveva saltato le lezioni ed era andato in ospedale. Ovviamente, Ushijima era lì e quando Goshiki era entrato nella stanza di Shirabu vi aveva trovato anche Hayashi Yotaro. Non era la prima volta che vedeva quel ragazzo e per qualche ragione non era mai stato molto a suo agio in sua presenza; per questo avrebbe preferito non ci fosse.

«Shirabu dorme?» aveva chiesto dopo aver salutato tutti, ma l'alzatore aprendo gli occhi s'era voltato verso di lui e lo aveva guardato, rispondendogli con quel silenzioso gesto.

«Dovresti essere a lezione», lo aveva ammonito Ushijima «È forse successo qualcosa?»

Goshiki aveva negato col capo ed era rimasto in silenzio per qualche istante, senza saper bene da dove cominciare. Non voleva piangere. Avvertiva già un nodo stringergli la gola ed era così stanco di piangere e di stare male, davvero non voleva più sentirsi tanto distrutto.

«Sono venuto per chiedere scusa», disse, guardando prima Shirabu e poi Ushijima. «Mi dispiace di non essere riuscito a fare nulla mentre tu...». Si stava rivolgendo a Kenjirou e le parole gli erano morte fra le labbra.

«E devo delle scuse anche a te, Ushijima. Lo avevi affidato anche alla mia custodia ed io non ho saputo fare niente», aveva concluso poi, deglutendo a fatica.

«Ed io? Niente scuse per me?» era intervenuto Yotaro, con un sorriso sfacciato. Goshiki lo aveva odiato d’istinto per essersi intromesso ed essersi preso gioco di lui, ma quando anche Shirabu aveva sorriso, aveva capito che forse smorzare la tensione in quel modo non era stata una cattiva idea. Non s’era reso conto di quanto fosse rigido, con le braccia lungo i fianchi e la schiena dritta, finché Ushijima non s’era alzato e, fermandosi davanti a lui, gli aveva posto una mano sulla spalla.

«Non sapevo che oltre ad essere un seccante primino, tu avessi anche potere sugli infarti altrui», aveva detto con tono divertito e appena affaticato Shirabu e Goshiki era stato costretto a staccare gli occhi dal capitano per guardarlo, senza capire a cosa si stesse riferendo.

«Dico, avessimo saputo prima di questo tuo superpotere, avremmo potuto sfruttarlo durante il torneo di qualificazioni», aveva continuato l’alzatore.

Tsutomu lo aveva guardato ancora un po’ frastornato dalle sue parole e alla fine Yotaro non era più riuscito a trattenere uno scoppio di risa che era risuonato forte nella stanza.

«Hai dei compagni di squadra così spassosi, Kenjirou!» era riuscito a dire una volta preso fiato.

«Ti stanno prendendo in giro», aveva poi aggiunto Ushijima, intuendo, come di rado avveniva, la sfumatura ironica delle parole del compagno e in quelle di Hayashi. «E sappi che né io né Kenijirou siamo arrabbiati con te per quello che è successo».

«M-ma se Kawanishi non fosse stato con me-», aveva protestato Goshiki.

«Se Kawanishi non fosse stato con te, forse tu non ti saresti paralizzato. Ad ogni modo, sono solo felice che lui ci fosse, che qualcuno abbia aiutato Kenjirou».

C’era stata una sfumatura così dolce e così triste nelle parole di Ushijima, che il primino non aveva saputo trovare un modo per continuare la conversazione ed aveva annuito, abbassando la testa.

«Anche io sono felice che Shirabu stia bene», aveva mormorato, dopo del tempo.

Quando era andato via, Yotaro aveva voluto accompagnarlo - il che in qualche modo s’era rivelato ridicolo, perché Goshiki era stato preoccupato per tutto il tempo che l’altro potesse avere qualche problema e alla fine poteva dire di aver piuttosto accompagnato lui Hayashi fino all’uscita. Ma gli era servito passare del tempo con lui, anche se s’era trattato solo di qualche minuto.

«Sai che Ushijima era sincero, vero?» gli aveva chiesto il ragazzo quando erano entrati in ascensore.

«C-certo», s’era affrettato a rispondere Tsutomu - la differenza di età lo teneva in allerta, voleva essere quanto più formale ed educato possibile.

Yotaro aveva riso a quella reazione tanto veloce e nervosa; poi aveva sentito le porte dell’ascensore aprirsi e affidandosi al bastone era uscito con la sua solita sicurezza. Goshiki non vi era abituato e si affrettò ad affiancarlo, preoccupato dei rischi di un andamento tanto spavaldo.

«Quando ho saputo quello che era successo, mi sono precipitato da Kenjirou», aveva continuato Yotaro, consapevole della presenza del ragazzo accanto a lui. «E l’ho trovato furibondo».

Tsutomu trasalì, ma non disse niente.

«Quel ragazzo è terribile: ce l’aveva con se stesso per aver avuto un infarto, se la stava prendendo col proprio corpo come fosse qualcosa di separato dalla sua coscienza». Yotaro sembrava sinceramente colpito, ma Goshiki non era stato sorpreso di sentirlo: Shirabu aveva sempre messo molta pressione su se stesso, forse più di quanta gliene mettessero i professori o il coach - era fatto per spezzare ogni suo limite, per ridefinirsi continuamente in base ai traguardi che volta dopo volta si prefissava. Non morire era solo un nuovo traguardo, vincere il cancro solo la sua nuova sfida. Ed aveva rischiato di perdere.

«Ma in nessun modo ha detto di avercela con te per questo», aveva ripetuto Yotaro «Nessuno può sapere come reagirà in una situazione di improvviso bisogno. Il massimo che possiamo fare è imparare dalle esperienze e provare ad essere meno impreparati la volta successiva».

Per quanto la sola idea che Shirabu potesse avere un nuovo infarto dava la nausea a Goshiki, il primino non aveva risposto, bloccato dall’espressione di malinconia che aveva trovato sul volto di Yotaro. Non sapeva perché quello sconosciuto avesse deciso di essere tanto gentile con lui ed avrebbe voluto fare qualcosa in cambio, chiedergli se volesse sfogarsi o se potesse fare qualcosa per farlo stare meglio, ma in un attimo i lineamenti di quel viso tornarono rilassati e radiosi.

«Quindi non darti troppi pensieri, d’accordo? Non ti fa bene, sei ancora troppo piccolo».

Hayashi gli aveva scompigliato i capelli, come si fa con i bambini e lo aveva salutato, raccomandandogli di stare attento sulla strada del ritorno.

Goshiki non avrebbe mai detto che, tra tutti, sarebbe stato quello sconosciuto a rassicurarlo, ma sentirsi dire quelle cose da qualcuno di esterno, qualcuno che non avrebbe avuto motivo di mentirgli o rassicurarlo, era valso tantissimo.

Quello stesso pomeriggio s’era scusato con resto della squadra. Sentiva di doverlo fare e sentiva di dover parlare soprattutto con Kawanishi, ma quando era stato da lui - c’era anche Semi con loro - il ragazzo lo aveva guardato appena e poi aveva voltato la testa dall’altro lato. Eita gli aveva detto che non era colpa sua, che semplicemente Taichi stava reagendo così con più o meno tutti e aveva solo bisogno di un po’ di tempo, ma Goshiki lo sapeva, sapeva che il tempo non aveva nulla a che fare con quella reazione, sapeva che Kawanishi lo odiava per non essere stato forte.

Ed aveva avuto ragione, perché anche quando Taichi il giorno seguente s’era ripreso, anche quando finalmente aveva parlato, tranquillizzando tutta la squadra e i suoi genitori, non aveva comunque voluto saperne niente di Tsutomu. Lui gli aveva fatto di nuovo visita, dopo cena, e Taichi gli aveva detto di andarsene.

«Non ho niente da dirti», aveva sbottato con tono seccato e Tsutomu era andato via, senza avere la forza di controbattere.

Non l’aveva avuta neanche nei giorni seguenti, neanche quando si era reso conto della tensione che inevitabilmente veniva a crearsi durante gli allenamenti: s’era preso le occhiate d’odio, i commenti sarcastici e le porte in faccia ogni volta che provava ad avviare un discorso che, lo sapevano tutti, avrebbero dovuto affrontare. Taichi non voleva saperne e Goshiki non era mai stato il tipo di persona da forzare una conversazione o un confronto. Era combattivo sul campo da pallavolo, ma qui si parlava di sentimenti e la colpa schiacciava ogni cosa.

Aveva resistito fino a quella mattina, quando s’era svegliato madido di sudore e col cuore in gola: aveva sognato l’infarto di Shirabu, aveva sognato di essere da solo, in uno spazio stretto e senza alcuna possibilità di ricevere aiuto. Lo aveva visto, cinereo, e aveva toccato la sua pelle ormai fredda per poi perdersi negli occhi fissi ed opachi. Aveva gridato, aveva gridato con tutto il fiato che gli potevano concedere i polmoni ma non era servito a nulla, era stato troppo tardi. E poi quel volto quasi violaceo aveva aperto la sua bocca e con ancora gli occhi fissi e spenti aveva parlato.

«È colpa tua, Tsutomu. È solo colpa tua se sono morto», aveva detto, con la voce più atona che Goshiki avesse mai sentito. Lui aveva gridato ancora, poi s’era svegliato.

Aveva impiegato tutta la mattinata per riprendersi dalla sensazione di puro terrore che lo aveva avvolto al suo risveglio ed aveva resistito più volte all’impulso di chiamare Ushijima o Shirabu per sapere se l’alzatore stesse davvero bene – sapeva che era sciocco, che quell’incubo era stato solo un modo della sua mente per elaborare ciò che era successo e che se Shirabu fosse stato male lo avrebbero saputo immediatamente, eppure non riusciva a stare tranquillo. Aveva realizzato a pranzo che, probabilmente, il solo modo per stare meglio sarebbe stato parlare davvero con Kawanishi.

Non aveva chiesto aiuto a nessuno, sebbene confidarsi con Reon sarebbe stata una cosa normalissima ormai, dal momento che lo aveva aiutato tanto in quei mesi. Aveva sentito che quello doveva essere un passo da fare da solo, doveva farsi valore e spiegarsi e Taichi lo avrebbe ascoltato stavolta, volente o nolente.

Una volta entrato nella stanza di Kawanishi, Goshiki prese a giocherellare nervosamente con le mani.

Provò a cominciare dall’inizio, nel modo più diretto possibile, per non dare all’altro possibilità di sfuggire all’argomento della conversazione, ma Kawanishi stava di nuovo rispondendo con cattiveria e Goshiki poteva sentire tutto l’astio nei suoi confronti investirlo come un’ondata di energia pura.

«So che mi ritieni responsabile, che pensi che avrei lasciato morire Shirabu se fossi stato da solo, visto il modo in cui ho reagito», riprese, senza lasciarsi intimorire – Taichi aveva chiuso la porta e se ne stava di fronte a lui con volto apatico e braccia incrociate. «E…e probabilmente hai ragione. Non… non so cosa avrei fatto se fossi stato da solo, ma questo non cancella il fatto che sono andato completamente in panico nel vedere Shirabu in quelle condizioni. Non riuscivo a muovere un muscolo, tutto ciò a cui potevo pensare era che sarebbe morto, che non lo avrei mai più rivisto giocare o studiare o semplicemente respirare».

«E questo a me importa perché…?»

Goshiki sapeva che il sarcasmo era l’arma migliore di Kawanishi, che con lui non sarebbe mai stato uno scontro a chi faceva la voce più grossa, ma una guerra di logoramento e resistenza ai colpi bassi e le pugnalate ai fianchi. Ma opporsi era difficile e lui si sentiva a pezzi.

«Perché sei arrabbiato con me ed io sto solo cercando di farti capire che se avessi potuto scegliere non avrei mai lasciato te da solo ad occuparti di Shirabu!» sbottò, trattenendosi a stento dal gridare.

Taichi prese a ridere, una risata isterica che strideva col momento in maniera grottesca.

«Tu credi sia arrabbiato con te perché mi hai lasciato da solo con Kenjirou?» chiese, ancora ridendo.

«Sì, credo sia anche questo. Credo sia la situazione in generale e il tuo stato di shock non ha fatto altro che peggiorare tutto».

«Il mio stato- Quello che mi è successo non ha nulla a che fare con questo. Tu sei un ragazzino emotivo che si riempie la bocca di paroloni, che dice di voler diventare il nuovo Asso della Shiratorizawa – dove stava la tua spacconeria, quando Shirabu ha smesso di respirare? Dov’era l’Asso?» Taichi parlava senza scomporsi, ma avrebbe voluto che Goshiki non fosse mai entrato nella sua stanza.

«Sì, voglio diventare l’Asso della Shiratorizawa e sì, ho reagito in maniera emotiva quando Shirabu si è sentito male. Posso essere entrambe le cose, emotivo e l’Asso. Perché sono un essere umano, Kawanishi, e non tutti siamo freddi e lucidi come te».

Goshiki non aveva saputo di credere in quella cosa finché non l’aveva pronunciata ad alta voce. Fino a quel momento s’era accusato di aver sbaglio, di essere venuto meno ad un suo dovere, e la pensava ancora in quel modo; allo stesso tempo, però, stava cominciando a rendersi anche conto del fatto che non poteva farci niente, che aveva reagito emotivamente ad una situazione di forte stress con cui non s’era mai confrontato. Che poteva ancora essere d’aiuto a Shirabu, a chiunque altro, ed essere l’Asso come aveva sempre detto. Che nulla era scritto ed ogni situazione era qualcosa a se stante, da vivere sul momento.

Neanche Kawanishi si aspettava una reazione del genere. Aveva sempre giudicato Goshiki come fin troppo esuberante, fin troppo estroverso, fin troppo emotivo e irritante, come un buon primino poteva essere certo, ma per questo fin troppo lontano dai suoi standard. Vederlo tanto serio, tanto maturo, così all’improvviso, lo aveva colpito. Tutto il quel periodo pareva volerlo colpire.

«Perciò», stava continuando Tsutomu «Non ti chiedo di non avercela con me o di perdonarmi. Ma voglio che tu capisca che l’emotività che mi ha paralizzato, l’emotività per cui abbiamo rischiato di perdere Shirabu, è parte di me. Non chiederò scusa per questo. Posso migliorare. Migliorerò. Farò in modo che non mi paralizzi mai più, che mi spinga a lottare come ha spinto te a chiedere aiuto. Ma non rinuncerò ad essa, anche se tu ritieni che sia un intralcio. È l’emotività che mi renderà un ottimo Asso».

Taichi non rispose. Improvvisamente, non sapeva più perché ce l’avesse tanto con Goshiki. Sentiva ancora la rabbia divorarlo da dentro, più di quanto aveva mai provato o fosse disposto ad ammettere di sentire, ma era contro ogni cosa, contro quel primino, contro la situazione di Shirabu, contro se stesso e le ore che lo shock gli aveva rubato per sempre.

Senza dire nulla, aprì la porta della sua stanza, indicando a Tsutomu di uscire. Il ragazzo non fece una piega, né aggiunse altro prima di lasciarlo solo e quando Kawanishi poté chiudersi dentro, finalmente di nuovo nel silenzio dei suoi pensieri, scivolò lungo una delle pareti, senza più forze, e pianse.



***



Shirabu ed Ushijima non avevano fatto che discutere da quando avevano saputo la data esatta dell’intervento. Ogni cosa s’era ridotta ad un conto alla rovescia, a quanti giorni mancavano, a cosa potevano fare fino ad allora e, soprattutto, a che cosa avrebbe fatto Wakatoshi nel periodo in cui Kenjirou sarebbe stato in sala operatoria.

«Possono sedarti: possono darti un tranquillante e farti riposare per tutto il tempo. Non sentirai niente», aveva detto più volte l’alzatore, cercando di far ragionare il suo compagno.

«Non passerò quelle ore dormendo, Kenjirou», aveva puntualmente tagliato corto il capitano della Shiratorizawa, cambiando argomento o spostandosi alla finestra perché la conversazione non continuasse.

Shirabu aveva pensato più volte a cosa sarebbe successo se fosse morto: da che aveva avuto l’infarto, non s’era più mosso dal suo letto e tenere lontani quei pensieri era diventato difficile. Voleva gridare, voleva scalciare via le lenzuola e correre lontano da quel posto ed a quella situazione - dopo l’iniziale accondiscendenza, il suo animo si era risvegliato anche se il corpo ormai non sembrava volerlo più seguire. Avrebbe voluto anche proteggere Ushijima, ma non sapeva come.

Dopo l’infarto, Wakatoshi non s’era più ripreso - ancora più di Shirabu pareva portare addosso i segni del pericolo scampato, sul volto pallido, nella perdita di peso, nella stanchezza, nei sospiri, nelle lacrime nascoste. Shirabu non lo aveva mai visto tanto logorato: gli sembrava più piccolo, gli sembrava indifeso e provava una repulsione totale per ciò che lo aveva fatto diventare.

Se n’era reso conto una sera, mentre abbracciato a lui non riusciva a prendere sonno. Aveva guardato a lungo la figura del suo volto appena scandita dalla luce fioca di un abat-jour accesa ed aveva realizzato che se fosse morto, Ushijima sarebbe morto con lui. Non per un senso di possessività, né per uno strano slancio di romanticismo: Shirabu osservava i fatti e Ushijima non avrebbe retto nuovamente il dolore che aveva sentito quando lui era stato male. Gli si era stretto contro, con tutta la forza che ancora le braccia gli concedevano di avere, ed aveva respirato il suo odore, così familiare, pregando di sopravvivere per entrambi.

Non aveva mai avuto tanta paura del loro legame perfetto.

Non ci aveva mai pensato davvero, non fino al momento in cui s’era ammalato. Era sempre stato grato per il legame che aveva, perché era la cosa più completa che avesse mai provato e lo aveva unito alla sola persona di cui si fosse innamorato a prima vista, al di là della sua concezione dei sentimenti e del suo carattere tanto complicato. Eppure, ora che era malato, pensava a quanto sarebbe stato fortunato Ushijima se fosse stato legato a qualcun altro, se non fosse stato suo. Shirabu avrebbe sofferto, non poteva negarlo a se stesso, ma col senno di poi sarebbe stata una benedizione, perché non esisteva pena maggiore che ferirlo in quel modo.

Quindi ora, in qualche modo, si pentiva di quel legame tanto perfetto.

Era per questo che avrebbe voluto che Ushijima dormisse nelle ore del suo intervento: l’idea che potesse consapevolmente soffrire, se qualcosa non fosse andato bene, lo spaventata quasi più dell’operazione stessa e tutto, in sostanza, gli metteva addosso così tanta ansia da impedirgli di respirare per bene. Ma capiva anche il punto di vista di Wakatoshi: se la situazione fosse stata inversa, lui non avrebbe mai voluto trascorrere quelle che potevano essere le ultime ore della vita di Ushijima sedato per paura di non reggere il dolore.

Per questo alla fine aveva lasciato perdere, aveva accettato la decisione del compagno e aveva diretto tutti i propri pensieri sul riprendere quanto più possibile le forze. Doveva stare bene, doveva stare al meglio. I chirurghi avrebbero asportato il suo tumore e lui sarebbe tornato alla sua vecchia vita con Ushijima. Era tutta una questione di pensieri positivi: Shirabu non era mai stato bravo in questo, perché ai pensieri preferiva i piani d’azione, ma doveva accontentarsi, far diventare quelle ipotesi dalle fragili fondamenta dei progetti a lungo termine.

A due giorni dall’intervento, aveva ripreso a parlare della scuola. Nell’ultimo mese aveva smesso di studiare perché concentrarsi era diventato impossibile, ma adesso voleva pensarci: voleva fare il punto dei mesi che aveva da recuperare, dei programmi da studiare, voleva che i suoi compagni di classe e i professori gli dessero notizie. Kawanishi aveva pensato a tutto: era stato da ogni docente ed aveva recuperato tutte le lezioni; poi con Kenjirou aveva fatto un programma di recupero che gli permettesse di essere pronto per i test finali. Shirabu aveva pensato di poter tornare in Accademia per le vacanze invernali: lo avrebbero aspettato dei mesi intensi.

Il giorno prima dell'intervento, invece, aveva voluto farsi raccontare della squadra. Ushijima s’era allenato pochissimo nell’ultimo periodo, ma i ragazzi del terzo anno avevano mandato avanti il club senza problemi. Reon gli aveva parlato degli allenamenti, di come la squadra cercasse di tenere alto il proprio morale diventando sempre più forte così da essere alla sua altezza quando sarebbe tornato. Da che Goshiki e Kawanishi avevano parlato, le cose erano andate meglio ed ora aleggiava un sottile ma sopportabile clima freddo tra i due: si trattavano civilmente ma con distacco e Reon era convinto che sarebbe stata solo questione di tempo prima di tornare alle vecchie abitudini. Shirabu aveva riso: davvero non riusciva ad immaginare Kawanishi tanto determinato a portare avanti un comportamento che non rientrava nella sua routine - normalmente, Taichi avrebbe lasciato correre perché, alla fine, si trattava solo di un dispendio di energie inutile, ma quella volta doveva essere diverso e Kenijirou non sapeva bene come sentirsi a riguardo.

«Con Ushijima, stavamo pensando a chi lasciare il ruolo di capitano», aveva poi detto Reon, guardando Wakatoshi negli occhi, con un sorriso. Il capitano aveva ricambiato lo sguardo, respirando lentamente e avvicinandosi a Shirabu.

«Il prossimo anno sarai tu a dover tenere a bada tutti quanti, capitano. Pensi di farcela?», aveva chiesto al compagno con serietà.

Kenjirou l’aveva guardato, boccheggiando, senza capire, per diversi istanti. Quando aveva realizzato che cosa significava davvero era diventato anche lui estremamente serio.

«Non scherzare con queste cose, Ushijima», aveva detto con tono gelido «La squadra il prossimo anno dovrà vincere i Nazionali. Kawanishi-».

«Hai ragione: la squadra deve riscattarsi. Ma Kawanishi ti darà sicuramente una mano», lo aveva incalzato Reon - Shirabu aveva guardato entrambi ed aveva capito che non c’era possibilità che cambiassero idea. S’era sentito così fiero, così felice, così vivo. Per una volta era riuscito a mettere da parte qualunque pensiero sconveniente e ad immaginare semplicemente il futuro, come guida della squadra nel bel mezzo dei Nazionali. Ed era stato in pace.

Kenjirou aveva sperato che quelle sensazioni durassero fino al giorno seguente, fino al momento in cui sarebbe entrato in sala operatoria, ma quella mattina qualsiasi cosa pareva riuscire ad innervosirlo. L’infermiera che gli stava cambiando la flebo, lo sguardo che di tanto in tanto sua madre o suo padre gli rivolgevano, il volto visibilmente preoccupato di Ushijima, le parole di rassicurazioni del suo medico curante, che a lui parevano così vuote, così prive di qualunque significato.

«Tra mezz’ora arriveranno due infermieri per portarti giù. Ci vediamo in sala operatoria, Kenjirou», concluse il medico, lasciando la stanza dopo aver salutato gli altri presenti con un cenno della testa. Il silenzio che calò fra le mura riusciva ad innervosire, se possibile, ancora di più Shirabu, ma allo stesso tempo il ragazzo non riusciva a pensare ad un qualunque argomento di conversazione potesse cambiare quella situazione.

Ushijima era seduto accanto a lui, senza alcuna intenzione di lasciare il suo fianco: lo avrebbe seguito fino a dove i medici gli avrebbero concesso di accompagnarlo.

Di’ qualcosa, continuava a tormentarsi Kenjirou. Dannazione, di’ qualcosa, potrebbe essere la tua ultima volta, potrebbero non esserci più nuove occasioni. Di’ qualcosa, qualunque cosa.

«Verrò a vedere tutte le partite della Shiratorizawa il prossimo anno».

La voce di Wakatoshi lo sorprese e così com’era cominciata la ricerca maniacale della frase giusta da dire smise di colpo, a quel suono.

«Mi sono reso conto di non averti mai visto giocare dall’esterno, dagli spalti. Mi chiedo come sia». Ushijima sorrideva - il volto appena stanco - e a Kenjirou ricordava molto i sorrisi a cui il ragazzo si lasciava andare durante i time out delle partite, quando era stremato dal gioco ma felice. Sereno.

Non riusciva a credere che in un momento del genere, Ushijima potesse avere quella stessa espressione.

«Non so se ti ho mai detto quando è stata la prima volta che ho pensato che avrei potuto amarti», disse - non era da lui essere tanto romantico, soprattutto perché non erano da soli, eppure improvvisamente sapeva che cosa voleva dirgli.

Ushijima lo guardò con evidente curiosità negli occhi. Se quella cosa meritava di essere specificata, allora doveva essere successa prima che il legame li aveva effettivamente uniti, ma non riusciva a trovare, pensandoci, l’esatto momento in cui era successo - non se n’era accorto.

«Ero alle medie e tu già alla Shiratorizawa. È stata la prima volta che ti ho visto giocare. In un istante, sapevo dove mi sarei iscritto per le superiori e sapevo che avrei fatto di tutto per essere sul campo di pallavolo con te. E poi ho pensato che, sì, mi sarei potuto innamorare dello sguardo che avevi mentre parlavi con i tuoi compagni di squadra, di quegli occhi brillanti e concentrati mentre aspettavi la battuta avversaria, della serietà con cui ti muovevi e dell’accortezza che mostravi verso tutti. Andando via, non potevo pensare ad altro - mi sarei potuto innamorare così tanto facilmente di te, Ushijima Wakatoshi. E amavo e odiavo quella sensazione di vulnerabilità, perché era la prima volta che la sentivo».

Wakatoshi aveva di nuovo sorriso nel modo dolce e genuino di quando si sentiva in pace con se stesso.

«Scusami. Io sono arrivato in ritardo. Me ne sono reso conto quando hai alzato per me per la prima volta in una partita ufficiale. Mi hai guardato negli occhi e ho sentito qualcosa, come se mi avessi colpito. Mi sono sempre chiesto che cosa avessi fatto per meritare uno sguardo tanto intenso».

Kenjirou aveva annuito - era lealtà, la più pura e profonda e sincera lealtà, ciò che aveva visto nei suoi occhi, ciò che Ushijima aveva avuto da lui ancora prima del suo amore. Era l’assoluta dedizione che da sempre li aveva contraddistinti.

«Non lasciare che io scompaia».

Lo aveva detto senza pensarci, senza comprendere il vero peso delle parole che avevano lasciato le sue labbra. Fissò Wakatoshi negli occhi.

«Per favore, non permettere che io scompaia. Comunque andrà a finire questa storia, non arrenderti».

Ushijima non fu certo di aver capito che cosa intendesse, ma poggiò un bacio sulla sua fronte, lungo e semplice, prima di cercare allo stesso modo le sue labbra.









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So di essere stata cattiva con la fine della scorsa parte – spero che questo pezzo non abbia deluso nessuno e che anzi possa essere servito da scuse per tutto l’angst! Alla prossima parte!


   
 
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