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Autore: Uudenkuu    05/12/2017    4 recensioni
Un breve racconto di una fenice, di una morte e di una rinascita dalle ceneri.
“Devo proprio dirtelo, la tua musica mi ha cambiato la vita. Non esagero, dico sul serio. La mia vita era senza uno scopo, sai,” e Yoongi non capì il motivo di quel bisogno d’aprirsi così tanto perciò strizzò le labbra fini in una smorfia di disappunto, “Ma l’ho trovato. La tua musica me lo ha fatto trovare. Ci credi? Che ho capito di non poter fare l’avvocato? Devi credermi. Sono Park Jimin.”
“Min Yoongi.”
Un barlume di speranza invase le iridi languide del più piccolo.
“Ho trovato un senso, Min Yoongi!”
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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After the Show
Part 2
 
Yoongi si assentò dalle visite per un bel po’ di tempo. Smise anche di contare i giorni in cui avrebbe potuto salutare il suo amico e invece non lo faceva, per timore di sentirsi troppo male e di mandare il progetto a farsi benedire. E sapeva che si stesse comportando malissimo, ma non c’era altra soluzione: doveva prendersi il suo tempo, sgobbare, raggiungere una meta finale ben prestabilita. Aveva persino messo da parte l’orgoglio, quando gli venivano rimproverate cose che lui in realtà non aveva fatto. Tutto ciò che fosse stato in grado di rallentare l’algoritmo doveva essere eliminato. Tutto ciò che non fosse stato necessario, doveva scomparire. Operazione 1 eseguita, operazione 2 eseguita, operazione 3 eseguita… while operazione 1, repeat. Finché l’obiettivo non fosse stato raggiunto, doveva continuare a svolgere le azioni che ripeteva, ormai completamente alienate dal suo stesso essere. Avvertiva l’inizio di una metamorfosi in un automa, ma non gli importava più di tanto. Si sarebbe annichilito in antimateria pur di portare a termine il compito che si era prefissato, perché gli sembrava l’unica soluzione. L’unica cosa che potesse fare.
Yoongi aveva pensato intensamente alla danza di Jimin. Dopo l’ultimo discorso che avevano avuto, almeno un paio di mesi prima, aveva cercato di estrarre i concetti dall’oggetto per riuscire a trasporlo su un altro. Stava tentando di costruire una metafora concettuale, lui che di metafore non sapeva granché perché non aveva mai seguito una lezione del corso di letteratura. La trovava per femminucce, infatti a Jimin piaceva da matti. Comunque, nel suo tentativo di trasposizione, cercava di innalzare la danza di Jimin a qualcosa che non fosse più una danza, ma fosse un elenco di caratteristiche. Se solo avesse identificato qualcosa con le stesse caratteristiche, lo avrebbe subito detto all’amico. Ho trovato qualcos’altro che puoi fare fino allo sfinimento, gli avrebbe confidato, così puoi uscire da questo ospedale e ritornare da me. Possiamo persino vivere insieme ufficialmente, posso portarti a cena fuori, al cinema. Qualsiasi cosa tu voglia. E si rendeva sempre conto che i pensieri viaggiavano più veloci di quanto non volesse, ma era tutto necessario per il completamento della trasposizione. Quando si trattava di Jimin, non aveva paura di realizzare di provare dei sentimenti profondi nei suoi confronti, un attaccamento al di fuori del definibile umano. Era forse amore? Ma, no, no, le caratteristiche. Doveva pensare alle caratteristiche. Cosa sentiva quando Jimin danzava? Era elegante, quasi acuto, pieno di passione, energia, furioso, incalzante. Ogni movenza era come il tocco veloce, brutale e delicato, di un archetto su una corda. Un archetto su una corda… Dalle tonalità soavi ma alte, come quelle della sua voce… Uno strumento per di più solista, di accompagnamento in rare occasioni, in grado di spiccare per il suo suono un po’ stridulo, un po’ coinvolgente. Che potesse comunque avere a che fare con la sua musica… E fu subito eureka. Capì immediatamente cosa dovesse fare, ma si rese conto di non avere abbastanza soldi per farlo. E che avrebbe dovuto lavorar sodo per ottenere ciò che voleva, quindi fece partire l’algoritmo. Operazione 1, operazione 2, operazione 3… while operazione 1, repeat.

I mesi scorrevano anche per il povero Jimin che, senza la sua perfetta metà, aveva incominciato a deperirsi. Eseguiva gli ordini dei suoi dottori, si nutriva, prendeva le sue medicine, acconsentiva a fare passeggiate nel giardinetto della struttura, eppure il suo corpo si rifiutava di sostenerlo. Si stava lentamente spegnendo, per nessuna ragione biologica effettiva, si stava abbandonando ad uno stato di calma placida che nascondeva una progressiva degenerazione dei parametri vitali. Il battito del suo cuore diminuiva, il tessuto adiposo si consumava, la circolazione era meno efficiente, le ossa si rompevano con estrema facilità, le unghie si rifiutavano di rimanere attaccate, i capelli cadevano, i denti si spezzavano. Era come se avesse innescato un meccanismo di senescenza per l’intero organismo. Solo perché aveva smesso di vedere Yoongi per un paio di mesi. Non gli aveva lasciato nulla, né un biglietto, né una lettera, non l’aveva più salutato. Da quella conversazione, in cui aveva tentato di scusarsi per il tentato suicidio, lui era sparito. Jimin era convinto che la colpa fosse solo ed esclusivamente propria: aveva forse spaventato troppo il ragazzo con quel gesto stupido e così avventato? L’aveva allontanato irreversibilmente, nonostante gli avesse chiesto la sua vicinanza e il bisogno della sua musica? L’aveva ferito? Oppure Yoongi si era stancato di vederlo, di stargli accanto, di portare pazienza fino a quando non fosse stato meglio? Aveva esagerato nello star male? Doveva mica fingere di stare bene, nonostante tutto il resto recitasse il contrario? Era stato abbandonato? Prima il padre, poi Jimin… e quando socchiuse gli occhi, nel bel mezzo di un turbine doloroso di pensieri, si rese conto che persino le ciglia si rifiutavano di rimanere attaccate al suo corpo.

Quello che però Jimin non sapeva è che Yoongi non l’aveva abbandonato. Non l’avrebbe mai fatto, dato che il suo cuore era rigonfio – quasi rischiava di esplodere – dalla galassia di sentimenti che provava nei confronti del minore. Come avrebbe potuto abbandonarlo, dopo tutte quelle emozioni condivise? No, non l’aveva di certo abbandonato. Stava solo lavorando per lui, si stava sforzando di essere una persona migliore, per poterlo salvare dall’abisso.

Mentre metà delle ciglia si staccarono dall’occhio destro e colmo di lacrime di Jimin, Yoongi ricevette l’ennesimo scappellotto del capo che gli rimproverava di aver sbagliato tavolo.

“Ma che hai oggi?” ringhiò, “Finirai per farci perdere tutti i clienti!”

Avrebbe preferito ritornare sulla tredicesima, ma ormai i posti erano tutti occupati e il suo ex capo, a malincuore, aveva dovuto accompagnarlo alla porta. Il ristorante sulla quindicesima era l’unica opzione che gli fosse stata offerta in una settimana di ricerche e di certo non si sarebbe tirato indietro, nonostante i turni fossero disumani e altrettanto lo fossero i colleghi e i capi.

“Mi scusi.” Mormorò.

Eppure, lui non aveva sbagliato proprio niente. Avendo perso la spavalderia con cui si faceva rispettare, assieme alla sua anima ormai quasi completamente distrutta, era diventato come il vecchio Jimin. I colleghi avevano trovato in lui una valvola di sfogo, l’anello debole da poter tirare e tirare fino a quando non si fosse allentato abbastanza per poterlo gettare via. A Yoongi non importava.

Avrebbero potuto dire qualsiasi cosa, avrebbero potuto fargli qualsiasi cosa, lui non avrebbe provato nulla. Non c’era posto per nient’altro che non fosse l’amore per Jimin e sarebbe persino morto in suo onore. Ormai la strada era spianata, vedeva la luce in fondo al tunnel – nonostante la percorrenza non fosse delle più piacevoli. Nient’altro contava.

“Vedi di non fare altri errori, o finirò per licenziarti!”

“Nossignore.”

“Stupido Yoongi…”

“Mi scusi, signore.”

 
“Ho perso delle ciglia.” Disse Jimin al suo dottore, durante la ronda pomeridiana delle visite.

“Piccolo Jimin, il tuo corpo si sta disintegrando. Si può sapere cosa succede? Stai seguendo tutti i programmi di recupero alla perfezione, eppure mi pare ci sia qualcosa che non va… Siamo tuoi amici, qui, puoi fidarti di noi. Ti prego di confidarti, o non saremo in grado di salvarti. Te lo chiedo un’altra volta: cosa c’è che ti turba? C’è qualcosa che ti manca?”

“No, dottore. È tutto okay. Va tutto bene.”

C’era la morte.

Ma non poteva finire così, perché Yoongi era consapevole che una fenice ha bisogno di ridursi in cenere per poter rinascere dalle scorie di sé stessa. Era così che percepiva Jimin: una fenice in via di decomposizione, una battaglia necessaria per poter risorgere nella gloria del proprio amore e della propria determinazione. Proprio per questo, passati i tre mesi di lavoro forzato, si costrinse a ritornare dal suo caro compagno per fargli visita, con un gran pacchetto regalo ad occupargli entrambe le braccia. Queste ultime erano coperte da un cardigan leggero, ovviamente scuro, nonostante la stagione cominciasse a indurirsi dal freddo, ed un paio di pantaloni neri ad alta vita che mostravano, con timidezza, un paio di caviglie pallide. Al di sotto, delle basse converse nere pestavano il fogliame secco e turgido di brina del ciottolato che l’avrebbe accompagnato all’ingresso della casa di cura come una bestia alata. Ad ogni passo che faceva, sentiva il cuore tamburellare nel petto. La pressione sanguigna gli si era innalzata così tanto che, oltre ad avvertire gli occhi appena fuori dall’orbita, poteva percepire l’eco dei propri battiti nelle cosce. Yoongi non aveva davvero mai subito alcun trauma, era nato storto – o perlomeno così dicevano i suoi genitori. Nessuna infanzia rovinata, adolescenza normale – per quanto un’adolescenza possa davvero essere considerata normale – fino ai diciott’anni, momento in cui la sua mente venne inquinata da pensieri indegni. Depressione, sindromi compulsive-ossessive, forte ansia sociale che lo costringeva a chiudersi nei bagni quando la gente tentava di interagire con lui avevano dipinto lo scenario della sua età neo-adulta, senza che lui potesse capirne il motivo né la sorgente. Sono malattie che vengono, gli aveva detto lo psichiatra, ti cureremo ma tu devi cercare di stringere almeno un legame. Almeno con i tuoi genitori. Gli stessi genitori che lo guardavano dall’alto verso il basso, insistendo di non riuscire a capirlo. Poi era arrivato l’allegro in la, era arrivato Park Jimin con le sue guance paffute, era arrivata la scarica di gioia che aveva sempre sognato. L’aveva raccolto con un cucchiaino dall’abisso più profondo, lo aveva condotto verso lande di serenità che non poteva dire di aver mai immaginato, nemmeno nei sogni più selvaggi. E nonostante mantenesse un’aria dura per proteggersi dal mondo esterno, aria che era comunque crollata dopo la caduta di Jimin, quest’ultimo aveva toccato un nervo sensibile nella sua parte più intima. Aveva firmato la sua presenza e gli aveva sorriso. È per questo motivo che non tintinnò più di tanto quando oltrepassò la soglia di quel dannatissimo ospedale. La 107, la camera era sempre quella. Sentì lo sguardo severo e di rimprovero di dottori e infermieri scalfirlo con violenza e un amaro senso di colpa tentò di trascinarlo verso il basso, ma non poteva. Non nel fatidico momento. Non aveva ignorato Jimin per tutto quel tempo. Aveva lavorato per lui.

“Jiminie…”

Mormorò, prima di entrare nella stanza, e non appena vi fu dentro una morsa acida gli divorò metà del sistema digerente tutto in una volta. Jimin era in condizioni davvero pietose: aveva un respiratore infilato nel naso, un sostegno che teneva le sue gambe sollevate – probabilmente per permettere una buona circolazione – un massaggiatore dietro la schiena, attivo, che scricchiolava per evitare la formazione di piaghe da decubito, i capelli più radi, quasi biondi – erano persino riusciti a perdere il pigmento, in tutto quel dolore – il viso magro e scavato. L’espressione addolorata e desolata. Sembrava un fiore in inverno, che si abbandona all’idea di dover morire da solo. Una lacrima scivolò lungo la guancia del maggiore. Aveva lavorato per lui, eppure era riuscito a distruggerlo. La sua mancanza lo aveva ridotto in fin di vita eppure lui era lì, a donargli quello sprazzo di speranza di cui aveva bisogno per tirarsi su. Aveva finalmente capito come salvarlo.
Quando Jimin si voltò per seguire la sorgente sonora, sembrò illuminarsi. Nonostante la finestrella fosse stata sbarrata per impedire al freddo di abbracciare il piccolo ambiente e non ci fosse alcun raggio di sole capace di penetrare la densa coltre di nuvole, il viso del malato brillò di luce propria. Di speranza, di vita. Un leggero incoraggiamento, la mano gentile di un bambino che costruisce un piccolo riparo per quel fiore prima che possa soccombere. Era talmente debole che non riuscì nemmeno a biasimarlo per la lunga assenza, né ad accusarlo per il suo stato attuale. Yoongi era Yoongi, conosceva bene il suo carattere così incostante, così immaturo, ma sapeva che la parte premurosa in lui non l’avrebbe abbandonato, non in un momento come quello.

“Ho lavorato sedici ore al giorno per sette giorni alla settimana in questi tre mesi. Dormivo il resto delle ore. Non sono venuto per quello, perché volevo comprarti un regalo. Scusa… Scusa il ritardo.”

Era la prima volta che l’ormai moro Yoongi chiedesse scusa. La prima volta che dicesse la pura verità. La prima volta che parlasse così tanto di fila. E poi continuò.

“Ti ricordi la nostra ultima conversazione? Ecco, io ho trovato la soluzione. So cosa puoi fare al posto della danza, perché sono riuscito a paragonarla a qualcos’altro. E ho lavorato per comprarti quel qualcos’altro. Per permetterti di vivere ancora, accompagnando la mia musica. Niente ha più senso senza di te, nemmeno quello che suono. Nemmeno quello che sono. Jimin, io…”

“Ti amo anche io.” Soffiò il minore, abbozzando un sorriso timido, sapendo di aver risparmiato a Yoongi una gran fatica, “Ti… Ti perdono. Cosa mi hai por…portato?” chiese allora, tossendo fra una parola e l’altra.

Yoongi scartò il regalo al posto di Jimin, troppo debole per poterlo fare da sé, e mise in grembo del secondo un bellissimo violino fatto a mano, curato nei dettagli, con un archetto lucido ed un kit per tenerlo pulito. Gli occhi di Jimin ripresero vita soltanto per strabordare d’emozione, accesi di una commozione etera.

“La tua danza mi ricordava il suono di un violino,” spiegò il più anziano, sedendosi con cura sul letto dell’altro, “Ho lavorato per comprartene uno. Devi solo impegnarti tanto, imparare a suonarlo decentemente e continuare ad accompagnare la mia musica.”

“Mi hai…” Jimin si tirò a sedere, impedendo all’amico di fermarlo, e appoggiò la pallidissima mano ormai magra sul volto del suo amato, “Hai…donato un altro senso. Hai lavorato per… per donarmi un altro senso.”

“Jimin, io…”

Ma la frase venne interrotta da un bacio lieve, casto, quasi a fior di labbra, che fece implodere i cuori dei due giovani che per la prima volta si abbandonavano all’idea di essersi innamorati. Irreversibilmente.

E forse Park Jimin non ce l’avrebbe fatta, tanto il suo corpo era stato indebolito dalla malattia. Forse avrebbe trovato la morte che un tempo cercava, ma in quel momento non era importante. Aveva ritrovato il senso, con quel violino. Aveva ritrovato il suo Min Yoongi. Jimin, allora, si accorse di non avere nemmeno paura della morte.
Perché dopo c’era la rinascita.





Note dell'autrice
Sniff sniff, ragazzi miei, siamo arrivati alla fine. Le tre sezioni sono state smembrate e pubblicate tutte quante. Mi dispiace se l'avventura è stata troppo corta, purtroppo è nata per essere così. Ringrazio infinitamente chi ha letto questa storia, chi l'ha messa fra i seguiti o i preferiti. Anche chi ha avuto voglia di dare una sbirciatina. Per me scriverla è stato un grande impegno e una gran sofferenza, perché vivo sulla mia pelle alcune delle tematiche trattate. Spero di risentirvi presto! Grazie per tutto!
   
 
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