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Autore: ntlrostova    11/12/2017    1 recensioni
Afferrò la mano del Maji. Era calda, era vita, era giustizia.
“Come ti chiami?” gli chiese.
“Bokuto Koutarou.” Sorrise di nuovo e questa volta gli occhi di Akaashi si riempirono di lacrime.
Genere: Angst, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Lasciarsi andare dopo anni in cui non aveva fatto altro che trattenersi, combattendo contro quella tensione continua che lo forzava da dentro e gli mozzava il respiro, accelerandogli il battito cardiaco era stato più che liberatorio.

Era stato come volare.

Almeno all’inizio.

Adesso Bokuto aveva freddo, un freddo glaciale che gli partiva dal cuore e si espandeva in tutto il corpo, paralizzandolo in un dolore sordo, atrofizzante.

Viveva nel buio da sempre, ma aveva imparato a fabbricarsi la luce da solo: la risata di sua madre, il sapore del pane caldo, il debole tintinnare delle perline di vetro del sonaglio di quando era bambino e il particolare odore agrodolce delle sere d’inizio inverno.

Le sue piccole, ostinate fiammelle.

Ma ora neanche quelle erano abbastanza per riscaldarlo.

Sentiva la magia fluire fuori dal suo corpo e spandersi tutto intorno e non ricordava di aver mai provato una sensazione come quella. Era vuoto, era angoscia, era agonia.

Bokuto e sua madre avevano sempre coltivato il sogno di scappare da Kodoku e raggiungere la città leggendaria al di là del mare, quella di cui parlavano Noriko, Akihiro e tutte le altre persone che vivevano con loro nel Palazzo. Era una cosa che avrebbero dovuto fare insieme, come tutte le altre.

Lei gli aveva insegnato a tenere a bada il suo potere, a nascondersi all’ombra dei Dansei in modo che loro non si accorgessero di lui e così avevano vissuto in precaria sicurezza per qualche tempo. Fino a quando la magia di Bokuto si era fatta pressante, urgente, impetuosa.

Aveva cominciato a fuggire di nascosto quando lei, con la scusa di andare al mercato, usciva a cercare la via più semplice per raggiungere una delle porte della città.

Quante volte Bokuto era rimasto seduto in casa, da solo, ad aspettare che lei tornasse? Quante volte era stato quasi annientato dal terrore che le fosse successo qualcosa, che l’avessero uccisa o catturata, che fosse andata via senza di lui? Quante volte aveva tremato, tormentato dall’impazienza di sentire la sua voce?

Sono tornata, sto bene.

Bokuto usciva di soppiatto quando lei non c’era e quando l’impeto della magia gli tendeva la pelle e i muscoli allo stremo. Cercava a tentoni i vicoli ciechi, senza staccare mai la mano dal muro, così sarebbe potuto tornare indietro. Poi lasciava fluire la magia, sempre a tratti, lentamente, mai tutta insieme.
Oggi, però, stava per esplodere e aveva tolto la mano dal muro. Nel momento stesso in cui l’aveva fatto, Bokuto aveva capito di essersi condannato. La magia aveva ruggito e si era ribellata, graffiando e pungendo e scorrendo via da lui e Bokuto aveva accettato il suo inevitabile destino.

Dopo era arrivato il soldato. Akaashi Keiji. Dansei fino al midollo. Una voce come acciaio, con una punta di rimorso.

Una domanda inaspettata, sorprendente, premurosa. Ti hanno mai detto di che colore è la tua magia?

Bokuto aveva la luce. La cosa che gli mancava nello sguardo era ciò che gli scorreva nelle vene.

Akaashi aveva promesso di parlare con sua madre, anche se non l’aveva mai conosciuta. Akaashi lo aveva portato all’uscita dalla città, senza sapere che così realizzava lo scopo di una vita intera. Akaashi non l’aveva ucciso, neanche se avrebbe dovuto.

Perciò Bokuto doveva andare avanti, anche se il dolore al petto lo costringeva a piegarsi in due, anche se camminare diventava difficile, anche se il tempo e lo spazio si dilatavano attorno a lui in maniera allucinante, come sempre accadeva quando non c’era nessuno a tenerlo ancorato alla realtà. Doveva continuare per sua madre e per se stesso.

Doveva continuare per Akaashi.

Quindi, ancora, fece un passo e poi un altro, sentendo sempre più freddo e continuando a perdersi nel nulla che lo circondava.

Aveva una paura folle e solo grazie a quella sapeva di essere vivo.

Secondo le storie che sua madre gli raccontava c’era una città, al di là del mare, in cui il cielo brillava, l’aria danzava e i Maji erano liberi.

La mitica Jyu, dove la natura e gli uomini vivevano vicini, dove non c’erano schiavi né razze. Dove non c’era nessuno da uccidere. Dove si trovava la sede della Rivolta.

Anche la Rivolta stessa era una leggenda.

Si diceva, a voce bassa e mormorante, che qualunque Maji fosse riuscito a uscire dalle mura di Kodoku sarebbe stato salvato dai rivoltosi e portato a Jyu. Da lì, un giorno sarebbe partito una rivoluzione che avrebbe raso al suolo il governo dei Dansei e portato la pace nel mondo.

Ma Bokuto non era mai riuscito a spiegarsi perchè la Rivolta non avesse già attaccato la città o perchè non facesse nulla per aiutare i Maji oppressi a uscirne.

Secondo le storie, quando un Maji si ritrovava fuori da Kodoku, uno dei capi l’avrebbe trovato in poco tempo, se non subito.

Si diceva che fossero dei Maji portentosi, tra i più potenti della loro comunità. Si diceva che riuscissero a comandare la magia, a tenerla a bada.

Secondo le storie, avevano avuto più tempo per praticarla in libertà e per questo erano tanto allenati da riconoscerne le tracce da distanze impressionanti e da individuare immediatamente la posizione di un Maji in difficoltà.

Secondo le storie si dicevano molte cose, ma in quel momento Bokuto le mise tutte in dubbio.

Continuò a dubitare anche quando sentì una voce urlare: “L’abbiamo trovato!”

“E’ a terra!” replicò un’altra, più vicina.

“Respira?” Una terza, eccessivamente squillante.

Solo allora Bokuto si rese conto di essere caduto e che la sua guancia fosse a contatto con il suolo.

Qualcuno gli toccò le spalle, lo girò sulla schiena e lo sostenne, aiutandolo a mettersi seduto. La testa gli ciondolò in avanti. Tremava.

“Dobbiamo portarlo via” Ancora un’altra voce. Sembrava preoccupata, “Si sta prosciugando.”

Lo tirarono in piedi a fatica e cominciarono a trasportarlo in spalla, come un sacco.

“Siete voi?” Chiese, la voce riarsa e incredibilmente distante alle sue stesse orecchie.

Ci fu silenzio.

Per qualcuno che viveva nell’oscurità da sempre l’assenza di suoni era terrificante, un pugno freddo che serrava lo stomaco. Era come affondare e non trovare un appiglio, come dover essere costretti ad accarezzare il volto della propria madre per avere una vaga idea di come fosse fatta.

Bokuto era terrorizzato dal silenzio.

Ma poi uno di loro parlò: “Sì, siamo noi.”

“Ci avete messo tanto tempo.”


Era in un letto, adesso, sotto una coltre di pesanti coperte, immerso fino al collo.

Bokuto non aveva mai dormito su un materasso tanto morbido e si stupì di trovarlo piuttosto scomodo dopo un po’.

Questo lo riportò con la mente a tutti i vagheggiamenti che aveva mai fatto sognando un letto come quello, in cui potesse sprofondare fino a venire sommerso.

Cigolio di cardini che ruotavano, spostamento d’aria tiepida. Passi. Leggeri e attenti.

Qualcuno era appena entrato.

Delle dita gli picchiettarono sulla spalla, incerte e titubanti, come il remoto tintinnio di campanelli spinti dalla brezza.

Bokuto si mosse, ma farlo gli provocò dolore. Strinse i denti, inspirando l’aria, e si accartocciò su un fianco.

“Sei sveglio.” La voce non assomigliava a nessuna di quelle che aveva sentito mentre lo portavano qui.

Questa era posata e asciutta, non aveva inflessioni particolari e assomigliava a un sussurro. In una stanza piena di rumori nessuno l’avrebbe sentito.

Ma qui non c’erano rumori.

“Dove ti fa male?” riprese la voce. Era un ragazzo.

“Ovunque,” rantolò Bokuto.

“Hai passato un bel po’ di tempo là fuori.” Il ragazzo prese ad armeggiare con qualcosa alla sinistra del letto. Bokuto sentì lo sciabordio familiare dell’acqua e, dopo un istante, una mano fredda e umida gli si posò con la leggerezza di una piuma sulla fronte.

Sembrò come se un groviglio di lana si sciogliesse e che tutti i pezzi di una storia sconclusionata venissero riordinati in maniera logica.

Bokuto emise un verso di sorpresa. Non si era accorto di quanto la sua mente fosse confusa. Era stato come avere la febbre alta, con ricordi di voci che si sovrapponevano l’una all’altra in un ronzio indistinto.

Adesso, invece, era tutto calmo.

“Dammi le mani,”disse il ragazzo, con voce gentile.

Bokuto le protese entrambe e il ragazzo gli sfiorò i palmi con i suoi. Il dolore che gli torceva le viscere e gli stringeva il petto si dileguò, lasciandosi dietro una scia di calore quasi piacevole.

“L’effetto svanirà tra un paio d’ore.” Bokuto sentì la voce del ragazzo allontanarsi, “Tornerò più tardi.”
Cigolio di cardini che ruotavano, stavolta nel verso opposto. “Benvenuto a Jyu.”


“Quando pensi che si sveglierà?Eh?”

Il tramonto, piccolo mio, è arancione. Ma anche l’alba. L’arancione è il colore di un arrivederci e di un salve. Il colore del saluto del sole al mondo.

“Non essere impaziente, Hinata.”

L’erba è verde. Il colore della cura e dell’attenzione. Il colore della fragilità, ma anche di una ferrea determinazione.

“Lascialo in pace, sono curioso anche io.”

No, tesoro, i tuoni non hanno un colore. Solo il rumore. Ma li precede sempre un fulmine, un lampo abbagliante. I tuoni si fanno annunciare dalla luce.

Bokuto si svegliò, sollevandosi su un gomito.

Stava sognando di sua madre, del sole e dei tramonti, dell’erba e dei temporali.
Ritornato cosciente, venne investito da un travolgente senso di nostalgia.

Si alzò a sedere, meravigliato dal fatto che non sentiva dolore.

“Ciao!” L’arancione del salve. “Ti senti meglio? Kenma ha passato ore a curarti.”

“Ci hai quasi lasciato le penne.” Un tuono basso, borbottante. Non aveva bisogno che la luce lo precedesse.

“E di chi è la colpa, Kuro?” Il verde della determinazione.

“Te l’ho detto e ripetuto: non è stato facile individuarlo,” disse Kuroo, “La sua magia era ovunque. Il cielo sembrava illuminato a giorno.”

“Non è possibile.”

“Invece sì.”

“Esagerato.”

“Ti sto dicendo che è così.”

“No.”

“Sì.”

“No.”

“A dire la verità anche a me il cielo pareva innaturalmente luminoso,” li interruppe la terza voce, forte e cristallina “Considerato com’è di solito là fuori.”

Ci fu una breve pausa nella conversazione, larga abbastanza da contenere un sospiro prolungato.

“Non ci credo comunque.”

“Lo stai facendo apposta!”

“Può darsi.”

Bokuto si schiarì la gola con circospezione, temendo di essere stato dimenticato e, stavolta, il silenzio che seguì fu molto più pesante e improvviso. Riuscì ad avvertire tutti i presenti girarsi verso di lui, i loro sguardi bruciavano sulla pelle.

“Sono davvero a Jyu?” chiese, “E voi siete davvero nella Rivolta?”

“Sì,” rispose Kuroo, “E sì, anche se qui ci chiamano soldati.”

“Soldati?” Bokuto sentì le spalle afflosciarsi dalla delusione.

“Qui è tutto diverso. Vedrai, ti troverai bene.”

“Mia madre è ancora lì,” sussurrò, improvvisamente sicuro che Akaashi non avrebbe fatto niente di quello che aveva promesso. Perchè avrebbe dovuto? Come avrebbe potuto?

Non c’era modo di salvarla.

Ora Bokuto era solo, nel posto in cui avevano sempre sognato di andare insieme.
Chissà lei come stava. Era sicuramente in preda alla preoccupazione e avrebbe fatto qualcosa di imprudente per trovarlo, conoscendola. Si sarebbe avventurata da sola di notte e non per cercare una via di uscita, ma per suo figlio. Il suo stupido figlio cieco che l’aveva lasciata. Avrebbe potuto imbattersi in un Dansei con facilità.

E non si sarebbe trattato di uno come Akaashi.

Non credeva che qualcuno avesse potuto sentirlo, ma si sbagliava.

“Se tu sei ce l'hai fatta ci riuscirà anche lei.” La voce squillante e irrequieta. Il colore dell’alba. Adesso era pregna di una certezza incrollabile. “Comunque io sono Hinata.”

Bokuto accennò un sorriso, sperando che Hinata riuscisse a vederlo. “Bokuto,” disse.

“Ora che stai bene dovremmo andare,” dichiarò Kuroo, “Il Chiji vuole vederti.”

Bokuto sentì i peli della nuca rizzarsi a quale parole. I Chiji non portavano a nulla di buono. A casa sua, i Chiji ordinavano di uccidere, sterminare, massacrare.

“Tranquillo, non ti farà niente.” Il ragazzo che lo aveva curato, Kenma, gli strinse delicatamente tra le dita qualcosa di morbido.

Un fazzoletto.

Solo allora Bokuto si accorse di star piangendo.

Asciugò le lacrime come meglio poteva, poi annuì.

A sè stesso, a sua madre, ad Akaashi e ai tre ragazzi che erano lì.

Era pronto.
   
 
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