Capitolo 31
Le colpe dei padri non ricadano sui
figli
“Arriva
un momento in cui i figli ti si staccano dalle mani, come sull’altalena, quando
li spingi per un pezzo e poi li lasci andare. Mentre salgono più in alto di te,
non puoi fare altro che aspettare, e sperare che si reggano saldi alle corde.
L’oscillazione te li restituisce, prima o poi, ma diversi e mai più tuoi”.
Paolo
Giordano
Città di Fürstenberg/Havel, 2 agosto
1969
Käthe si lasciò cadere lentamente davanti
all’armadio spalancato e rimase lì, confusa e impaurita, a guardare in faccia
una verità che in cuor suo intuiva già da tempo ma che non poteva accettare:
suo figlio era un neonazista. A decretare la sua sconfitta di madre erano quei
cimeli, bandiere con i simboli della svastica e dell’aquila, spille e medaglie,
piastrine e uniformi appese con estrema cura, un busto del führer e una
fotografia del suo defunto marito che, con quel ghigno nascosto sotto il
berretto da ufficiale, sembrava deriderla vittorioso. Anche da morto continuava
a farle del male, a distruggerla, prendendosi un altro pezzo di lei, il più
importante, ragione del suo esistere, sostegno nei naufragi della sua vita. La
scoperta del ruolo di suo padre durante il regime nazista non aveva provocato
nel giovane Radolf un senso di rifiuto, di vergogna o di dispiacere, bensì un
pericoloso atteggiamento di emulazione che ormai era giunto al limite. Si
accasciò sul pavimento, chiedendosi disperata dove avesse sbagliato e nella
testa rimbombava la voce di suo marito che, come in passato, le ripeteva quanto
fosse una buona a nulla. Esplose in lacrime, mentre quel ghigno diventava
sempre più una risata sarcastica e irrisoria.
“Käthe!” Quella voce preoccupata arrivò alle sue orecchie come un suono
ovattato e non riuscì a riportarla alla realtà presente. Solo il tocco di due
mani, che dapprima la fecero sussultare impaurita nel tentativo di sollevarla,
ne fu capace. Erano le mani del suo vero amore quelle che ricercavano un
abbraccio nel desiderio di confortarla, di afferrare il suo dolore per
condividerne il peso, che le accarezzavano il viso per raccogliere le sue
lacrime, che pazientarono aperte nell’attesa che lei vi poggiasse il cuore.
“Dov’è che ho sbagliato?!” La domanda di Käthe fuoriuscì come un urlo
disperato, soffocato dai singhiozzi, segnando la fine di una felicità appena faticosamente
conquistata. “Non è colpa tua.” rispose l’uomo, stringendola fortemente a sé e
guardando con apprensione l’interno dell’armadio. “Vedrai che tutto si
sistemerà.” aggiunse ma lei non ci credette e pianse più forte.
A nulla erano valse le lacrime
supplichevoli di sua madre e le ostinate paternali di suo zio, Radolf aveva già
scelto di continuare per la strada sbagliata. “Guardami! …” gli aveva urlato
Kurt, prendendolo di petto “… Guarda come mi hanno ridotto i tuoi eroi!” “È
stata un’ebrea a ridurti così.” ribatté il giovane, sfoderando un’aria di
strafottente incoscienza e prendendosi uno schiaffo che non lo scalfì
minimamente. Per Radolf non c’era niente da fare, nessuno avrebbe potuto
salvarlo dal baratro in cui stava volontariamente precipitando. “Sappi che ti
farai del male.” aggiunse Kurt, puntandogli un dito contro e cercando nei suoi
occhi un accenno di ripensamento che non comparve affatto. Gli occhi di Radolf
non rimandavano più al ragazzo sensibile e solare che era stato fino a qualche
mese prima. Plagiato dagli ideali di un padre che non aveva nemmeno conosciuto,
era diventato improvvisamente cupo e arrogante, proprio come lui. Kurt aprì le
braccia in segno di resa e, volgendosi a sua sorella che sull’uscio della
camera soffocava i singhiozzi in un fazzoletto, disse: “Perdonami, Käthe, ma io
non so più che fare.” Suo fratello l’aveva abbandonata. Käthe si sentì
sprofondare nel più profondo abisso della solitudine e ricercò le braccia del
suo compagno di vita mentre Kurt andava via a testa bassa, rassegnato e
arrabbiato.
Dopo mesi trascorsi a piangere, cercando
una risposta ai suoi perché, Käthe si ritrovò davanti ad un bivio. Seduta nella
penombra della cucina, accompagnata dallo sguardo empatico di Nadine, fissava,
girava e rigirava tra le dita il pezzo di carta sul quale erano scritti un
indirizzo e una data. Il suo istinto di madre non poteva sbagliarsi: il giorno
seguente Radolf e i suoi amici avrebbero preso d’assalto l’abitazione di un
noto avvocato ebreo della città di Zehdenick. Käthe si trovava
quindi davanti ad una scelta difficile: proteggere suo figlio per paura di
perderlo, facendo finta di niente e divenendo sua complice in un atto di
violenza oppure denunciarlo, perdendolo forse per sempre nel tentativo di
salvarlo dal male dell’ideologia nazista. “Cosa faresti al posto mio, Nadine?”
chiese la donna in un sussurro disperato. “Farei di tutto perché non gli
accadesse qualcosa di più grave. Potresti perderlo sul serio, Käthe.” rispose e
gli occhi di entrambe si velarono di grosse lacrime. Le parole di Nadine,
cariche di determinata apprensione, risvegliarono in lei la forza di alzarsi e
fare ciò che in cuor suo aveva già deciso, ancor prima di sfogarsi con la sua
amica, per il bene di suo figlio. Prese allora la cornetta del telefono e
compose un numero. Nell’attesa di risposta, regolò il respiro e il battito del
cuore, poi emise un sospiro tremante. “Pronto, polizia? …”
All’alba del mattino seguente, Radolf e
i suoi amici neonazisti fecero irruzione nell’appartamento dell’avvocato ma non
vi trovarono una famiglia indifesa, bensì manette e pistole puntate contro.
Figlio,
chi ti ha tolto il sentimento?
Non
so di che parli, non lo sento.
Cosa
sta passando per la tua mente?
Che
non credo a niente.
Figlio,
figlio, figlio,
disperato
giglio, giglio, giglio,
luce
di purissimo smeriglio,
corro
nel tuo cuore e non ti piglio,
dimmi
dove ti assomiglio
figlio,
figlio, figlio.
Roberto
Vecchioni, Figlio, figlio, figlio