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Autore: Nadine_Rose    16/01/2018    0 recensioni
Nadine ballava, rideva ed era viva.
[Continuo di “Un amore diviso da un filo spinato”]
Nadine e Werner sedettero vicino alla riva del lago all’ombra di un’alta conifera e restarono lì, stretti l’uno all’altra, avvolti dall’aria fresca dell’estate berlinese mentre dentro di loro scoppiava la primavera. Una nuova stagione era cominciata per la loro vita ma i due contavano ancora i loro inverni.
[Capitolo 33: Il dono della vita]
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopoguerra
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Capitolo 31

 

Le colpe dei padri non ricadano sui figli

 

“Arriva un momento in cui i figli ti si staccano dalle mani, come sull’altalena, quando li spingi per un pezzo e poi li lasci andare. Mentre salgono più in alto di te, non puoi fare altro che aspettare, e sperare che si reggano saldi alle corde. L’oscillazione te li restituisce, prima o poi, ma diversi e mai più tuoi”.

Paolo Giordano

 


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Città di Fürstenberg/Havel, 2 agosto 1969

 

Käthe si lasciò cadere lentamente davanti all’armadio spalancato e rimase lì, confusa e impaurita, a guardare in faccia una verità che in cuor suo intuiva già da tempo ma che non poteva accettare: suo figlio era un neonazista. A decretare la sua sconfitta di madre erano quei cimeli, bandiere con i simboli della svastica e dell’aquila, spille e medaglie, piastrine e uniformi appese con estrema cura, un busto del führer e una fotografia del suo defunto marito che, con quel ghigno nascosto sotto il berretto da ufficiale, sembrava deriderla vittorioso. Anche da morto continuava a farle del male, a distruggerla, prendendosi un altro pezzo di lei, il più importante, ragione del suo esistere, sostegno nei naufragi della sua vita. La scoperta del ruolo di suo padre durante il regime nazista non aveva provocato nel giovane Radolf un senso di rifiuto, di vergogna o di dispiacere, bensì un pericoloso atteggiamento di emulazione che ormai era giunto al limite. Si accasciò sul pavimento, chiedendosi disperata dove avesse sbagliato e nella testa rimbombava la voce di suo marito che, come in passato, le ripeteva quanto fosse una buona a nulla. Esplose in lacrime, mentre quel ghigno diventava sempre più una risata sarcastica e irrisoria. “Käthe!” Quella voce preoccupata arrivò alle sue orecchie come un suono ovattato e non riuscì a riportarla alla realtà presente. Solo il tocco di due mani, che dapprima la fecero sussultare impaurita nel tentativo di sollevarla, ne fu capace. Erano le mani del suo vero amore quelle che ricercavano un abbraccio nel desiderio di confortarla, di afferrare il suo dolore per condividerne il peso, che le accarezzavano il viso per raccogliere le sue lacrime, che pazientarono aperte nell’attesa che lei vi poggiasse il cuore. “Dov’è che ho sbagliato?!” La domanda di Käthe fuoriuscì come un urlo disperato, soffocato dai singhiozzi, segnando la fine di una felicità appena faticosamente conquistata. “Non è colpa tua.” rispose l’uomo, stringendola fortemente a sé e guardando con apprensione l’interno dell’armadio. “Vedrai che tutto si sistemerà.” aggiunse ma lei non ci credette e pianse più forte.

 

A nulla erano valse le lacrime supplichevoli di sua madre e le ostinate paternali di suo zio, Radolf aveva già scelto di continuare per la strada sbagliata. “Guardami! …” gli aveva urlato Kurt, prendendolo di petto “… Guarda come mi hanno ridotto i tuoi eroi!” “È stata un’ebrea a ridurti così.” ribatté il giovane, sfoderando un’aria di strafottente incoscienza e prendendosi uno schiaffo che non lo scalfì minimamente. Per Radolf non c’era niente da fare, nessuno avrebbe potuto salvarlo dal baratro in cui stava volontariamente precipitando. “Sappi che ti farai del male.” aggiunse Kurt, puntandogli un dito contro e cercando nei suoi occhi un accenno di ripensamento che non comparve affatto. Gli occhi di Radolf non rimandavano più al ragazzo sensibile e solare che era stato fino a qualche mese prima. Plagiato dagli ideali di un padre che non aveva nemmeno conosciuto, era diventato improvvisamente cupo e arrogante, proprio come lui. Kurt aprì le braccia in segno di resa e, volgendosi a sua sorella che sull’uscio della camera soffocava i singhiozzi in un fazzoletto, disse: “Perdonami, Käthe, ma io non so più che fare.” Suo fratello l’aveva abbandonata. Käthe si sentì sprofondare nel più profondo abisso della solitudine e ricercò le braccia del suo compagno di vita mentre Kurt andava via a testa bassa, rassegnato e arrabbiato.

Dopo mesi trascorsi a piangere, cercando una risposta ai suoi perché, Käthe si ritrovò davanti ad un bivio. Seduta nella penombra della cucina, accompagnata dallo sguardo empatico di Nadine, fissava, girava e rigirava tra le dita il pezzo di carta sul quale erano scritti un indirizzo e una data. Il suo istinto di madre non poteva sbagliarsi: il giorno seguente Radolf e i suoi amici avrebbero preso d’assalto l’abitazione di un noto avvocato ebreo della città di Zehdenick. Käthe si trovava quindi davanti ad una scelta difficile: proteggere suo figlio per paura di perderlo, facendo finta di niente e divenendo sua complice in un atto di violenza oppure denunciarlo, perdendolo forse per sempre nel tentativo di salvarlo dal male dell’ideologia nazista. “Cosa faresti al posto mio, Nadine?” chiese la donna in un sussurro disperato. “Farei di tutto perché non gli accadesse qualcosa di più grave. Potresti perderlo sul serio, Käthe.” rispose e gli occhi di entrambe si velarono di grosse lacrime. Le parole di Nadine, cariche di determinata apprensione, risvegliarono in lei la forza di alzarsi e fare ciò che in cuor suo aveva già deciso, ancor prima di sfogarsi con la sua amica, per il bene di suo figlio. Prese allora la cornetta del telefono e compose un numero. Nell’attesa di risposta, regolò il respiro e il battito del cuore, poi emise un sospiro tremante. “Pronto, polizia? …”

All’alba del mattino seguente, Radolf e i suoi amici neonazisti fecero irruzione nell’appartamento dell’avvocato ma non vi trovarono una famiglia indifesa, bensì manette e pistole puntate contro.

 

Figlio, chi ti ha tolto il sentimento?

Non so di che parli, non lo sento.

Cosa sta passando per la tua mente?

Che non credo a niente.

Figlio, figlio, figlio,

disperato giglio, giglio, giglio,

luce di purissimo smeriglio,

corro nel tuo cuore e non ti piglio,

dimmi dove ti assomiglio

figlio, figlio, figlio.

 

Roberto Vecchioni, Figlio, figlio, figlio

   
 
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