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Autore: Echocide    20/01/2018    1 recensioni
Dai lombi fatali di questi due nemici
toglie vita una coppia d'amanti avventurati,
nati sotto maligna stella,
le cui pietose vicende seppelliscono,
mediante la lor morte...

Agreste e Dupain sono due famiglie nobili di Paris, una città ricca di mistero e magia.
Una notte, il patriarca degli Agreste condanna i Dupain alla morte e dalla strage della famiglia, una bambina si salva: il suo nome è Marinette.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Altri, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: Inori
Personaggi: Adrien Agreste, Marinette Dupain-Cheng, Altri
Genere: fantasy, romantico, drammatico
Rating: PG
Avvertimenti: longfic, AU
Wordcount: 2.310 (Fidipù)
Note: Un po' in ritardo, ma ecco qua un nuovo capitolo di Inori e, con questo, posso dire che mancano cinque capitoli alla conclusione della storia che, vi ricordo, avrà cadenza settimanale fino a conclusione. E non sto tanto a tormentarvi con chiacchiere senza senso, passando subito alle solite informazioni di servizio: come sempre vi rimando la pagina facebook per ricevere piccole anteprime e restare sempre aggiornati e al gruppo facebook Two Miraculous Writers, gestito con la bravissima e talentuosa kiaretta_scrittrice92, per tutto i miei social, invece, vi rimando alle note del mio profilo.
Per concludere, voglio dire grazie a tutti voi che leggete, commentate e inserite le mie storie nelle vostre liste!


 

 

Marinette si portò il cucchiaio alle labbra, azzardandosi a dare un'occhiata al ragazzo seduto davanti a lei e trovandolo con lo sguardo completamente rivolto verso il proprio piatto, per nulla intenzionato a mangiare la propria cena: Adrien stava muovendo la posata, creando onde nella minestra quasi come se stesse giocando: «Va tutto bene?» gli domandò, guardando lo sguardo verde spostarsi dal piatto a lei: «E-ecco, io…» cominciò, stringendo le labbra e deglutendo, trovandosi a corto di parole: «Sembri pensieroso…»
Adrien stirò le labbra in un sorriso appena accennato, che non arrivò agli occhi, posando il cucchiaio e lasciando andare un sospiro: «Oggi sono stato in città con Nino…»
«Lo so.»
«Ho visto tua madre» mormorò Adrien, osservando lo sguardo di Marinette sgranarsi appena e la luce della sorpresa illuminarle lo sguardo: «Non mi ha visto e quindi…» si fermò, allargando le braccia: «Beh, puoi vederlo. No? Sono ancora vivo.»
«Lei…»
«Sta istigando il popolo di Paris a rivoltarsi contro Gabriel» continuò Adrien, osservando la ragazza e annuendo: «Ma immagino che tu lo sapevi. Vero?»
Marinette annuì, poggiando anche lei le posate e prendendo il bordo del tavolo con entrambe le mani: «Era il piano di mia madre fin dall'inizio, anche se colei che doveva istigare il popolo, che doveva essere il suo portavoce…»
«Eri tu. La figlia perduta dei Dupain» dichiarò Adrien, annuendo e comprendendo il progetto che era stato creato all'inizio: «Avrebbe avuto senso, ancor più di tua madre, tu saresti stata un simbolo contro l'egemonia degli Agreste, un qualcosa in cui riporre le speranze…»
«Non sarei mai stata all'altezza di tutto ciò…»
«Alle volte, basta semplicemente la presenza» Adrien sorrise, poggiandosi contro lo schienale della sedia e osservando la ragazza: «Perché non avete messo in atto quel piano? Considerato lo stato in cui è Paris, sarebbe bastata qualche tua apparizione per avere il controllo del popolo e assaltare tranquillamente il castello.»
«Fu dice che non sono pronta.»
«Per cosa? Per comandare una rivoluzione o per governare?»
«Penso entrambe» mormorò Marinette, alzando appena lo sguardo e sorridendo: «Insomma, fino a qualche tempo la mia vita era fatta solamente di pane e brioche…» si fermò, bloccata dal mugugno di Adrien e l'osservò, aggrottando lo sguardo: «Che ho detto?»
«Quelle brioches. Le sogno ancora. Erano buonissime.»
Marinette ridacchiò, portandosi una mano alla bocca e scuotendo il capo: «Beh, visto quante ne hai comprate quel giorno…»
«Il giorno del nostro compleanno» Adrien sorrise, allungando una mano e sfiorando le dita di Marinette, di sua moglie: «E' strano essere nati lo stesso giorno dello stesso anno, non è vero?»
«E pensare che odiavo il fatto di essere nata lo stesso giorno del principe.»
«Sì. Ricordo che mi hai detto qualcosa del genere…»
Marinette sgranò gli occhi, portandosi le mani alla bocca e Adrien sorrise, mentre le guance di lei diventavano di una tonalità rossa: «Io…io…oddio, cosa ho detto?»
«Niente di irrecuperabile, principessa» decretò lui, muovendo una mano per aria come per relegare così la questione: «Che cosa hai in mente di fare con tua madre?»
Marinette lo fissò, scuotendo il capo e lasciando andare un sospiro: «Non lo so. Io non so…» si fermò, passandosi la lingua sulle labbra e voltandosi di lato: «Lei vorrebbe che fossi io a guidare il tutto e…»
«Fu non lo permetterebbe. Non ora che abbiamo…»
«Ed io non vorrei farlo.»
Adrien la fissò, osservando lo sguardo di lei e la decisione che vi leggeva dentro: sì, Marinette non avrebbe mai istigato il popolo contro gli Agreste, lo poteva dire con assoluta certezza, ma Sabine…
Beh, la donna era tutta un'altra questione.



Fu osservò la donna davanti a lui, studiandone i movimenti: teneva le dita strette attorno al calice, mentre se lo portava alle labbra con un movimento lento del braccio e buttava giù, in un unico sorso, il vino speziato, schioccando poi le labbra e posando il bicchiere sul tavolo: «Di cosa volermi parlarmi, Fu?» gli domandò, la voce che graffiava da quanto era stata dura.
«Che cosa ti è successo, Sabine?»
«Sai bene cosa mi è successo…» la donna sorrise, voltandosi di lato e facendogli domandare, per l'ennesima volta, quando fosse avvenuto quel cambiamento: Sabine non era mai stata così desiderosa di vendetta e sangue, come nell'ultimo periodo.
Da quando Marinette aveva compiuto diciotto anni, Sabine si era trasformata completamente.
«Ho saputo quel che stai facendo a Paris» commentò, stringendo le mani e fissandola: «Non penso che questa sia la soluzione.»
«E quale sarebbe?»
«Paris non ha bisogno di una rivolta, non ha bisogno di altro sangue che macchi le sue strade.»
«E cosa te lo fa dire?»
«Il fatto che ci siano troppe morti, Sabine. A che cosa pensi che porterà il tuo gioco? Ad altro dolore e ad altre morti. Tu non eri così…»
«Sono stati loro a farmi diventare così, il giorno in cui hanno ucciso mio marito!»
«Sabine…»
«Tu non vuoi muoverti, non vuoi fare assumere a mia figlia il ruolo che le spetta» Sabine si alzò, stringendo le labbra in una smorfia: «Ma io non rimarrò in silenzio, non ora che il popolo sa che i Dupain non sono stati annientati completamente e Gabriel Agreste avrà ciò che si merita.»



Si girò nel letto, muovendosi lentamente per non svegliare la moglie che dormiva profondamente e osservò il buio che regnava nella camera: le parole di Sabine l'avevano segnato, gli avevano instillato mille dubbi e provocato altrettante domande. La donna sembrava avere un certo ascendente sul popolo, sapeva dove toccare per scatenare la rabbia nascosta di persone ormai alla fame, che si erano visti portare via tutto.
Se tutto continuava così, presto ci sarebbe stata una sommossa e il popolo avrebbe combattuto contro l'esercito: era incapace di predire chi avrebbe vinto, se il primo con la forza della sua disperazione o il secondo, forte delle armi.
Non riusciva a trovare un modo per bloccare tutto ciò, non c'era una via che impedisse quello spargimento sicuro di sangue: Sabine sembrava cieca a ogni richiamo, ed era impossibile che avrebbe ascoltato lui, il figlio del suo nemico.
Forse il suo stesso sangue?
Da come Marinette si era comportata, aveva compreso che neanche lei aveva gran voce in capitolo sulle decisioni della madre.
E allora come fare? Come proteggere il popolo e fare qualcosa perché quella situazione cambiasse, si evolvesse?
Inspirò, tirandosi su e passandosi una mano sul volto, portandosi indietro la frangia: suo padre l'avrebbe ascoltato? Sarebbe stato capace di uscire dal suo mondo e rendersi finalmente conto di ciò che lo stava circondando?
Poteva essere una soluzione, forse l'unica nella sua mano, ma parlare con lui significava anche tornare al castello e non era certo di potersene andare una seconda volta: se era riuscito nell'impresa la prima volta, lo doveva anche a Nino.
Se fosse andato, se fosse tornato da suo padre, c'era la possibile che non sarebbe più potuto tornare indietro.
Tornare da Marinette.
Socchiuse gli occhi, inspirando e lasciando andare l'aria, voltandosi poi e scivolando fuori dalle coltri: si era abituato al buio e ciò gli permise di muoversi per la stanza senza particolari intoppi, avvicinandosi alla sedia e infilandosi le braghe e la camicia velocemente.
Doveva agire adesso, sotto l'impulso del momento.
Se avesse continuato a pensare, a tergiversare, non avrebbe combinato nulla e questo non se lo poteva permettere: ancor più di non poter tornare da lei, era preoccupante il pensiero di vederla invischiata maggiormente in quella faida.
Doveva fare la sua mossa.
Si allungò verso il tavolo vicino e afferrò un pezzo di carta che fuoriusciva da uno dei libri di Marinette e, allungando la mano, prese la piuma, intingendola nella boccetta dell'inchiostro e vergando veloce il proprio messaggio.
Non se ne sarebbe andato silenziosamente.
Piegò la carta e poi tornò verso il letto, posando il biglietto nel suo posto, certo che Marinette lo avrebbe trovato appena sveglia: sorrise, guardandola dormire e rimase un attimo fermo, quasi deciso a non seguire quell'idea.
Scosse il capo, tornando indietro e si infilò la giubba, allacciando alla bell'e meglio i nastri e poi afferrò il cinturone, poggiandoselo attorno ai fianchi e chiudendo la fibbia con un gesto secco; gli stivali lo attendevano vicino la porta della camera e, silenziosamente, attraversò la stanza e li infilò.
Veloce. Doveva essere veloce, se non voleva tornare ai ripensamenti.
Un mugolio lo fermò, mentre stava tornando verso la sedia e gli ultimi suoi indumenti, facendolo voltare verso il letto e osservare sua moglie: si era mossa nel sonno, girandosi verso la porta e aveva biascicato alcune parole senza senso.
Nelle poche notti che avevano trascorso assieme, aveva imparato quella sua abitudine, trovandola adorabile. Come tutto in lei.
Si avvicinò al letto, osservandola mentre era distesa, completamente ignara di ciò che lui aveva deciso, e sentendo il cuore pungolargli nel petto: non voleva lasciarla sola, ma sapeva anche che non aveva altra soluzione. Se voleva trovare un modo per risolvere tutta quella situazione doveva andare a parlare con suo padre.
Non c'era nient'altro.
Si avvicinò, accucciandosi accanto a lei e fissandola mentre dormiva, ignara di tutto, e cercò di imprimersi il volto di lei nella sua memoria, già piena di lei: il loro primo incontro nella panetteria, il suo sguardo durante la festa dove le aveva comprato gli orecchini, la sua espressione quando si erano rivisti a palazzo, la sua figura quando l'aveva rivista lì, proprio in quella casa, e il suo sorriso il giorno in cui si erano sposati.
«Sarai sempre il mio unico amore» bisbigliò, allungando una mano e scostandole una ciocca dal viso, portandola verso l'orecchio, osservandola storcere la bocca ma continuando a dormire ignara: «Qualsiasi cosa mi succederà, io non amerò nessun'altra che te.»
Socchiuse gli occhi, inspirando e alzandosi, facendo vagare lo sguardo nella stanza e posandolo sulla sua spada e il mantello, abbandonati sull'unica sedia; si avvicinò e si assicurò l'arma al cinturone, indossando poi il mantello e lasciando andare un sospiro.
Doveva andare.
Doveva farlo, ma i suoi piedi lo tenevano ancorato lì.
Strinse le mani, facendo un passo e sentendo il corpo affaticarsi, quasi come se quel semplice gesto gli avesse prosciugato ogni energia; s'impedì di non girarsi verso il letto, mentre un passo dopo l'altro, si avvicinava alla porta della camera: se si fosse girato, ogni sua buona intenzione sarebbe scemata, alla vista di lei.
No. Non poteva.
Appoggiò la mano sulla maniglia, abbassandola e aprendo così la porta, uscendo nel corridoio e richiudendola dietro di sé; si fermò, voltandosi e poggiando la fronte contro il legno, socchiudendo gli occhi: «Avevo…» mormorò, scuotendo il capo e allontanandosi dalla stanza. Percorse velocemente l'abitazione, aiutato dal semplice fatto che tutti erano a letto, e raggiunse le stalle, sorridendo al proprio cavallo: Plagg sembrava quasi attenderlo, battendo nervosamente uno zoccolo per terra e muovendo il capo.
«Ehi, amico» si avvicinò all'animale, recuperando l'occorrente per sellarlo e cominciando il lavoro, mentre il cavallo si girava, picchiettando il muso contro la sua spalla: «No, non ho camembert per te» dichiarò Adrien, stringendo le cinghie della sella e assicurandosi il tutto.
Serrò la presa delle dita attorno alle cinghie, carezzando l'animale con la mano libera: «In verità non voglio andare, Plagg» bisbigliò, scivolando sul manto scuro: «Ma è l'unica cosa che io posso fare. Se parlo con lui, se provo a farlo ragionare, forse c'è ancora una speranza per questa città. Senza…» si fermò, lasciando andare il respiro e guardando il muso del cavallo: «Senza che ci sia bisogno di arrivare alle armi. Non credi, amico?»



Marinette aprì gli occhi, osservando la stanza immersa ancora nell'oscurità della notte: che ore erano?
Si portò una mano al volto, scostandosi alcune ciocche e trattenendole contro l'orecchio, socchiudendo di nuovo le palpebre e cercando di trovare nuovamente ristoro nel sonno. Anche se c'era qualcosa di diverso nella stanza…
Inspirò, voltandosi nel letto e allungando una mano verso Adrien, tastando solo il materasso freddo: si alzò di scatto, accigliandosi e cercando di vedere nel buio, toccando il letto e trovando solo il nulla.
Adrien non era lì.
Fece scivolare le dita sul letto, carezzando solo il lenzuolo e le coperte, fino a che il suo mignolo non toccò qualcosa di diverso; posò la mano su quell'elemento stonante, avvertendo la consistenza familiare della carta: strinse la presa sul foglietto e corse verso il tavolo, accedendo con non poca fatica la candela e, una volta riuscita, divorò le poche righe vergate.
Riconosceva la scrittura, aveva imparato a farlo nel poco tempo in cui erano stati assieme, e rilesse più e più volte quell'unica parola, vergata nero su bianco.
Tornerò.
Non c'era nient'altro. Solo quella parola.
Si portò una mano all'addome, massaggiandoselo e avvertendo un dolore sordo che si stava propagando in tutto il corpo, non comprendendo il perché di quel messaggio.
Dove era andato?
Perché era andato via?
Quando sarebbe tornato?
Fece un passo indietro, e poi un altro ancora, continuando a tenere lo sguardo su quell'unica parola, quel messaggio breve, che lui le aveva lasciato: «Adrien…» mormorò, continuando a indietreggiare e cozzando contro il letto: «Adrien. Che cosa…?»



Gabriel osservò il caminetto spento, le braci ancora odoravano di fumo e un poco di calore si levava da queste; la porta alle sue spalle si aprì e lui si voltò, osservando la figura ammantata di nero, rimasta ferma sulla soglia: lo sguardo verde, quello che aveva ereditato da lei, lo fissava con serietà, mentre entrava nella camera e si portava le mani alla gola, slacciandosi il nodo del mantello: «Dobbiamo parlare, padre.»
   
 
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