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Autore: Happy_Pumpkin    28/01/2018    3 recensioni
Iwo Jima - 19 febbraio 1945
Loro erano la prima ondata. I primi, appunto, a sbarcare sulle coste, a saggiare il terreno dopo i bombardamenti serrati dei mesi precedenti e a dover correre avanti, senza fermarsi, ripetendo nella propria testa:
FachenonsiaioFachenonsiaioFachenonsiaio.
Chiunque, ma non io.

[WWII!AU - Vaghi accenni SasuNaru]
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
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S.N.A.F.U.


Situation Normal, All Fucked Up






Parte Seconda

The reason why



18 marzo 1945



Da quanti giorni erano in quelle gallerie? Naruto aveva perso il conto: a volte gliene sembravano due, altre dieci, altre ancora un’infinità, passata a scandagliare ogni singola diramazione in cerca di un passaggio, ma anche di acqua e cibo da razionare, quando fuori il conflitto proseguiva. Ogni tanto i soffitti sorretti da travi e una mescola di sabbia e calcestruzzo tremavano, per i colpi delle granate dei soldati giapponesi che contravvenivano agli ordini iniziali e si facevano saltare in aria.
Allora crollava polvere sottile e le luci ancora collegate al generatore rabboccato con il gasolio tremolavano, sempre in procinto di spegnersi.
All’inizio i due soldati avevano deciso di comune accordo di muoversi separatamente, anche se Sasuke aveva dovuto stare fermo e medicarsi con la tintura di iodio per arginare il più possibile il rischio elevato d’infezione, mentre Naruto aveva cominciato ad addentrarsi più avanti per recuperare nei vari bunker di collegamento qualche scorta di sopravvivenza. Lungo la strada aveva trovato due soldati giapponesi morti che non erano riusciti a scappare: senza indugiare oltre li aveva trascinati assieme al cadavere del suo commilitone deceduto. Già dopo poche ore infatti i corpi avevano cominciato a puzzare e i sopravvissuti non potevano permettersi di soggiornare a lungo nella stessa zona con dei ricettacoli di larve.
Il secondo giorno Sasuke stava controllando le lattine e le taniche d’acqua, raccolte evidentemente prima del crollo da una delle cisterne installate in preparazione all’invasione americana, ma si fermò per osservare Naruto intento a spogliare i soldati delle loro divise; non fece troppo caso alla maniera pragmatica con cui agiva, però non se ne spiegava il motivo.
“Che stai facendo?”
Gli domandò, fissandolo.
L’americano si interruppe per girarsi e dirgli: “A loro queste cose non servono più. Noi invece non sappiamo per quanto dovremo avanzare nelle gallerie: avere del tessuto di scorta anche solo per cambiarti le bende o in caso di emergenza è sempre meglio, per quanto non siano esattamente pulitissimi. Anzi – si alzò in piedi, appoggiando sulla cassa parte delle divise – mentre continuerai a sistemare le scorte che ho trovato, mi occupo di seppellire per quanto possibile questi poveracci. Oltre a non poterli bruciare perché ci servirà ogni sorta di combustibile per i generatori, moriremmo soffocati per il fumo nel giro di breve e... no, dopo tutto il casino per far vivere entrambi, direi che proprio non mi va.”
Sasuke fu stupito della pragmaticità delle sue scelte: dato l’approccio iniziale avuto con quel tizio si sarebbe aspettato meno considerazione delle problematiche da parte sua; gli anni di guerra dovevano aver sicuramente contribuito a plasmare il carattere di chiunque, persino del proprio a ben pensarci. Nonostante la riflessione, inarcò ugualmente un sopracciglio:
“Da quando esattamente io dovrei seguire le tue direttive o, peggio ancora, ipotizzare di fare qualcosa che implichi il prolungamento della tua compagnia? Appena mi reggerò in piedi io andrò per la mia strada, tu per la tua come avevamo pattuito.”
Naruto roteò gli occhi:
“Certo, mi sta benissimo, ma non credo che sarà così facile: ci sono tante diramazioni, però ho già visto che due sono bloccate dal crollo e una porta al bunker da cui ho preso le scorte. Quindi non è che ci rimanga molta scelta su dove andare o separarci, ti pare?”
Sasuke lo fissò. Mentre Naruto parlava fu colto da un presentimento terribile. Lui sommariamente conosceva quelle gallerie, anche se non era la zona in cui aveva scavato in prima persona, essendo stato dislocato in un’altro settore del Suribachi: per logica sapeva che non esistevano più di quattro o cinque diramazioni al massimo, in modo da consentire una via di fuga senza però minare la stabilità della terra.
“E se fossero tutte bloccate? Le gallerie, intendo.”
Naruto tacque un istante. Si sedette a terra di fronte al giapponese, tirò un sospiro, poi fece un mezzo sorriso:
“Vorrà dire che bisognerà scavare fino a che non ne usciremo. In quel caso... non potremo davvero andare molto distanti l’uno dall’altro.”
Rise e Sasuke ebbe l’impulso di chiedergli che cazzo avesse da ridere in una situazione simile ma lasciò perdere, la mente già concentrata a conteggiare le scorte, l’acqua, il tempo atmosferico, il gasolio... quantità, tante quantità da considerare prima di rischiare di morire di fame, sete, malattia, passando gli ultimi giorni al buio, senza nemmeno un fiotto di luce.
Piuttosto che finire così, la morte dignitosa della spada rappresentava un’alternativa decisamente più appetibile. Sollevò gli occhi dalle latte e si domandò, guardando quel tizio dai capelli biondo scuro e qualche tratto vagamente orientale, se Uzumaki sapesse come impugnare una katana e aiutarlo nel seppuku. Già solo l’idea di doversi rivolgere a uno come lui lo rivoltava, probabilmente sarebbe stato meglio tagliare solo le quattro estremità del ventre e aspettare la morte in quel modo.
“Ehi.”
Sasuke si riscosse, sentendosi chiamare dal soldato che, in piedi, lo fissava.
“Che vuoi?”
“Ce la faremo – replicò l’altro sollevando il pollice, ignorando le sue risposte brusche – basta un po’ d’organizzazione e arriveremo vivi alla fine di questa guerra.”
Che sembrava volgere comunque a favore degli americani, decisamente in superiorità numerica e d’armamenti, ma anche questo Sasuke lo tenne per sé, consapevole che in caso di sconfitta non sarebbe caduto nelle mani del nemico.
Ma persino adesso, Sasuke, il nemico ce lo hai davanti. Eppure... siete ancora vivi entrambi.
In quei primi giorni il pensiero fu dominante e terribile, lo martellava soprattutto quando Naruto cambiava il bendaggio con le divise strappate, medicandolo alla buona e sorrideva nel non vedere segni di cancrena o pus: lì era così umano da dargli persino fastidio, perché gli rendeva più difficile pensare di ucciderlo, in futuro.
Poi, però, più passava il tempo, più i pensieri cambiavano, volti istintivamente a collaborare per quella famosa sopravvivenza.
Avevano cominciato ad avanzare nelle gallerie, spostandosi di volta in volta oltre gli ammassi di calcinacci caduti dopo il crollo, per collocare una sorta di campo base nel bunker da cui Naruto aveva preso le prime provviste. I cadaveri erano stati sommariamente coperti con il terreno sabbioso, anche se in quel punto l’odore di decomposizione era comunque forte, mentre in un’altra galleria senza via d’uscita avevano scavato delle buche da usare come latrina, in modo da mantenere per quanto possibile un ambiente salubre.
Erano riusciti a suddividere le poche scorte e a centellinare l’acqua, consapevoli di aver dovuto eliminare del tutto l’igiene personale; spesso era una tortura sapere di puzzare ma, allo stesso tempo, si stavano abituando talmente tanto da non farci ormai nemmeno caso.
Più proseguivano, però, più realizzavano di essere effettivamente rimasti bloccati dal crollo.
L’ultima diramazione, collegata a un bunker nel quale avevano trovato altre provviste, una radio non funzionante e un generatore con del carburante, era sigillata da strati di terra e calcinacci rimovibili con un lavoro attento, ma questo avrebbe comunque comportato interi giorni senza vedere la luce del sole, con ossigeno ridotto che passava dalle scarse fessure del crollo e i beni primari contati. Il tutto sperando di non venir seppelliti vivi da un nuovo bombardamento o dagli echi dei combattimenti che ancora imperversavano per il resto del Suribachi.
“Rimuoveremo il crollo.” Aveva semplicemente detto Naruto, portandosi le mani ai fianchi. Quello era il quarto giorno passato assieme, il 18 marzo del ’45, e nemmeno sapevano se fosse realmente giorno o notte, anche se avevano segnato sommariamente le tacche su una delle casse in legno.
“Non ti passa nemmeno per l’anticamera del cervello che se uno di noi due morisse l’altro avrebbe più possibilità di sopravvivere con le scorte che abbiamo?”
Domandò Sasuke realistico e una nota aspra nella voce.
“E come decretiamo chi deve morire? Poi, non so te, ma io non intendo scavare quest’ammasso di calce e sabbia da solo. Se uno di noi tirasse le cuoia avrebbe più cibo, vero, però... a cosa servirebbe prolungare la propria esistenza per qualche giorno in più se tanto si rimane incastrati qui?”
“E tu credi che in due riusciremo a uscirne?” ribatté asciutto e crudelmente scettico Sasuke.
“Sì.”
Fu tutto quello che Naruto replicò e il giapponese si ritrovò, stupidamente, a sperare che avesse ragione.
Non sprecarono altre parole, ciascuno riprendendo a scavare, a volte a mani nude per togliere il grosso, altre con le pale corte recuperate d’emergenza, anche se il metallo era di scarsa qualità e si piegava persino troppo facilmente.
Nel frattempo la battaglia continuava; a loro arrivava l’eco dei proiettili, delle granate e delle urla, con la polvere di calcinacci e sabbia che cadeva sulle teste quando scavavano o si accoccolavano sul terreno scomodo, l’uno distante dall’altro.
Con grande spirito pratico, poche ore dopo la prima rimozione del crollo Naruto aveva recuperato dalle schegge delle casse ormai vuote delle sorta di stuzzicadenti e ogni tanto li usava per cercare sommariamente di pulirsi dei residui di cibo. Dopo averli testati con successo, si era messo per terra con le gambe, la schiena appoggiata al suo zaino e un braccio dietro la testa.
Si passò la lingua tra i denti mentre Sasuke finiva di mangiare e a un certo punto disse:
“Mia madre e mio padre si sono conosciuti a New Orleans. E’ stato un caso, uno di quegli incontri voluti dal destino. In realtà mia mamma è irlandese, è mio padre quello giapponese, anche se sostiene che mia nonna paterna si fosse innamorata di un americano; per questo secondo lui ho preso tanto dall’Occidente e poco dall’Oriente.”
Rise, grattandosi i capelli.
Dopo qualche istante Sasuke gli domandò di getto, seduto con le ginocchia piegate:
“Hai dei parenti Uzumaki in Giappone?”
“Sai che non lo so? Con il fatto che sono un sansei, il terzo della mia generazione nato negli Stati Uniti, abbiamo perso i contatti. E di sicuro con lo scoppio della guerra l’ultima cosa che mio padre voleva era generare sospetti, specie dopo che ha lottato con le unghie e con i denti per non far deportare nei campi di reinsediamento i nonni.”
“Voi americani non vi fidate nemmeno di voi stessi.” Commentò secco Sasuke, guardando Naruto negli occhi chiari.
Però gli dispiacque sapere che anche i nisei venivano visti con sospetto. Forse il matrimonio era l’unico motivo per cui il padre del ragazzo non era stato deportato.
“Namikaze.” Disse all’improvviso Naruto, sorvolando su argomenti spinosi e sterili.
Sasuke reclinò appena la testa: “Namikaze?”
“E’ il mio cognome, in realtà. Ma quando mi sono arruolato l’esercito mi ha obbligato ad adottare il cognome di mia nonna, Uzumaki. Namikaze ricordava troppo kamikaze e, come potrai ben immaginare, la cosa poteva generare un po’ di scompensi nei miei colleghi.”
Mimò un’esplosione e Sasuke, suo malgrado, fece un mezzo sorriso, colpito forse dalla mimica facciale dell’altro che sembrava non sapere cosa significasse mostrarsi di cattivo umore.
Soldato Kamikaze. No, decisamente non prometteva bene.” Convenne Sasuke.
Si fissarono un istante, poi incapaci di trattenersi tutti e due risero. Una risata breve, ma spontanea. Sasuke si ricordò di avere dei muscoli facciali che non usava da molto tempo.
Dopo qualche istante Naruto osservò, gettando a terra lo stuzzicadenti:
“Non mi hanno fatto prendere il cognome di mia madre per ricordarmi le mie origini, anche quand’ero qui nel Pacifico, e fare in modo che avessi ben presente lo schieramento che ho scelto nel combattere. L’esercito sa fotterti il cervello molto bene.”
“E’ quello di cui necessitate per avere disciplina. L’identificazione in un gruppo è fondamentale.” Ammise Sasuke.
“L’hai letto da qualche parte o è tutta una tua teoria?”
“Non c’è teoria, è così e basta: è sempre stato così – replicò, spazientito, per poi sospirare e aggiungere più moderato – funziona in questo modo per tutti. L’ho realizzato pienamente frequentando le università di cui andate tanto fieri.”
Deviò lo sguardo, aggrottando le sopracciglia.
“Wow! Devi essere ricco per aver studiato in America. Che università?” domandò l’americano, stendendo di più le gambe.
Sasuke si alzò, impilando in maniera quasi compulsiva la latta svuotata di fianco ad altre latte già usate: era un modo come un altro per tenere il conto dei giorni che passavano, due per ogni giorno. Presto avrebbero dovuto ridurre le razioni a una.
“Harvard. Ho vissuto a Boston per due anni, poi c’è stato l’attacco a Pearl Harbor e sono dovuto rientrare per arruolarmi – lo fissò dall’alto, apparentemente impassibile – sì, ho una famiglia che tu definiresti benestante. E che ha compiuto sacrifici per permettermi di studiare all’estero, con la speranza di portare innovazioni occidentali nell’industria di mio padre. Ma, come potrai immaginare, tutto questo non è servito a un cazzo.”
Dopo giorni di silenzi, di frasi ridotte al minimo indispensabile, era la prima volta che quel soldato giapponese parlava così tanto e con un’onda di sentimenti improvvisa.
Naruto si alzò a sua volta, mettendo le mani in tasca per prendere dell’acqua e metterla nella ciotola di alluminio che usavano per bere. La versò, poca, e la porse al suo nemico che la guardò senza fare il gesto di prenderla:
“Dai, bevi. Possiamo anche non mangiare, ma la disidratazione è peggio e schiodiamo prima. Possiamo fingere che questo tavolo metallico del bunker sia un bancone da bar e io il barista che ti offre da bere dopo una giornata storta. Quindi per logica dovremmo ubriacarci ogni giorno.”
Rise.
Sasuke lo fissò un istante, poi prese il contenitore, pensato per incastrarsi nella borraccia data in dotazione all’esercito americano. Bevve senza svuotarlo e lo appoggiò sul tavolo:
“Non farmi prendere la sbronza da solo.”
Naruto ridacchiò e scoprì un abbozzo di sorriso anche sul volto dell’altro; bevve a sua volta.
Dopo qualche istante, Sasuke si appoggiò appena al bordo del tavolo e ammise, di getto:
“Uchiha. E’ il cognome della mia famiglia: hanno un’industria tessile. Sasuke... è il mio nome.”
Incrociò le braccia, fissando Naruto con uno sguardo appena corrucciato, come pronto a ritrattare quanto detto o a chiudersi definitivamente in un nuovo silenzio.
Naruto lo guardò qualche secondo, poi abbassò la testa:
“Beh, piacere di conoscerti, Sasuke Uchiha.”
Sorpreso, quest’ultimo non si chinò subito, fissando stupito il capo e il busto piegato in avanti dell’altro.
“Pensavo mi avresti teso la mano.”
Naruto lo sbirciò, sollevando appena lo sguardo: “Siamo in Giappone, non in America.”
Allora, Sasuke si chinò a sua volta.

21 marzo 1945

"Non abbiamo mangiato né bevuto da cinque giorni. Ma il nostro spirito combattivo vola ancora alto. Combatteremo valorosamente fino alla fine"

Quel giorno, o notte, di quello che almeno secondo i calcoli doveva essere il 23 marzo, Sasuke e Naruto erano seduti l’uno di fronte all’altro. Il bunker puzzava di gasolio perché avevano da poco rabboccato il generatore con l’ultima tanica, il che lasciava loro solo più pochi giorni di luce; inoltre avevano aperto la latta di fagioli rossi che si erano equamente divisi.
Naruto aveva appena finito di divorarla, mentre Sasuke era capace di mangiare con maggiore calma il cibo, come per farselo durare di più e placare i morsi allo stomaco. Occhieggiarono entrambi la latta destinata all’indomani, ma subito ritornarono a guardarsi, scoprendosi smagriti, sporchi eppure ancora vivi e, a modo loro, capaci in quei giorni di prigionia l’uno al fianco dell’altro di parlare molto di più, anche perché non c’era molto altro da fare, oltre a scavare, mantenere la latrina in uno stato dignitoso e tentare di dormire. Persino la ferita di Sasuke si era rimarginata, anche se la cicatrice sarebbe divenuta davvero orribile, con i punti cuciti e tolti sommariamente; però... andava bene, tutto meglio dell’infezione.

23 marzo 1945

In piedi a torso nudo, con addosso soltanto i pantaloni che gli cadevano perché era quasi scheletrico, Sasuke contemplò il cumulo di calcinacci dal quale si intravedeva un ampio fiotto di luce provenire dall’esterno. Non era comunque ancora grande abbastanza da passarci attraverso; abbassò poi gli occhi per contemplare inespressivo le mani rovinate, con le unghie spezzate e in alcuni punti saltate, visto che aveva passato tutti quei giorni a scavare a mani nude: più terra toglieva, più a volte se ne accumulava scivolando infida dalle crepe.
Si dovette sedere. Avevano ridotto a un pasto al giorno le loro misere porzioni di cibo e la fame era ormai una compagna ben conosciuta.
Fissò poi la sua katana appoggiata al muro, inutilizzata.
“Naruto.”
Chiamò. Ormai era diventata un’abitudine anche rivolgersi all’americano per nome.
Questi, al suo fianco, si girò a guardarlo. Anche lui aveva le mani rovinate ed era dimagrito; faceva effetto vedere tanto deperito quel ragazzo abbastanza ben messo, un tempo energico in un turbinante miscuglio di etnie. Per qualche mistero sembrava comunque trascinato da una forza più grande, come se credesse davvero di spaccare quel cumulo rimanente di macerie e uscirne fuori.
Durante la notte avevano sentito dei messaggi trasmessi in giapponese dagli Stati Uniti per ordinare la resa, ma sembrava che nessuno di essi avesse avuto effetto, perché più volte i soffitti tremarono e si sentirono riecheggiare le urla di cariche banzai.
“Dimmi.” Disse l’altro, guardandolo con le mani appoggiate sui fianchi.
“Non ho provato vergogna a passare dei giorni in prigionia forzata con te: nonostante tu sia americano hai un tuo orgoglio e una dignità. In fondo.”
Naruto inarcò giusto un sopracciglio nel sentire la precisazione in fondo, ma passò oltre e ironico replicò:
“Non ho ben capito se devo prendere il tutto come un complimento o meno.”
“Fa’ come credi.” Tagliò corto l’altro, mettendosi in ginocchio.
Uzumaki sbirciò un istante il buco ottenuto con tante fatiche, infine tornò a guardare l’uomo e lo incalzò:
“Quindi? Stavi per dirmi altro o sbaglio?”
Si sedette a sua volta di fronte, per non guardarlo dall’alto.
Sasuke puntò lo sguardo verso la sua katana, ma chiese al soldato:
“Sai cos’è il seppuku?”
L’americano portò le mani avanti, quasi oltraggiato, offeso e allo stesso tempo dispiaciuto, esclamando:
“Vuol dire togliersi la vita! Sasuke non...”
Anche lui aveva preso a chiamarlo liberamente per nome e a Uchiha nemmeno dispiaceva.
Questi gli afferrò il polso, sentendo le ossa al di sotto, guardando le sue stesse mani altrettanto scheletriche. Forse non si erano mai toccati prima. Si bloccarono entrambi, ma fu Sasuke a parlare per primo:
“Il seppuku è la dignità che mi è rimasta.”
Puntò l’altro indice verso il fiotto di luce, in seguito aggiunse: “Là fuori il Giappone sta perdendo. Se anche riuscissi a uscire da qui non voglio cadere prigioniero del nemico. Lo capisci?”
Ogni traccia di sorriso si cancellò dal volto di Naruto.
Fuori per lui c’era così tanta vita, al di là della guerra, dell’essere americani, giapponesi o di qualsiasi altra provenienza. Dopo tutti quei giorni passati chiusi in gallerie polverose, dopo anni di guerre e battaglie alle quali erano sopravvissuti per caso fortuito, per bravura o per destino, davvero era necessario togliersi la vita perché... ci si trovava dalla parte dei perdenti?
“Lo capisco.”
Non disse altro.
Sasuke gli lasciò il polso per afferrare la katana e mettersela sulle cosce. L’americano lo trovò dignitoso e pieno di gloria, nonostante le costole sporgenti e lo sporco attaccato alla pelle.
“Vorrei poterlo fare da solo, ma non credo di avere le forze sufficienti per praticare i due tagli nel ventre e finirei per creare un lavoro a metà – sollevò gli occhi scuri verso Naruto che lo fissava, immobile – quando apriremo quella breccia nel crollo, io non ti servirò più: potrai uscire da solo. Ma prima di farlo, mi aiuterai a fare seppuku. Chinerò la testa e tu me la taglierai con questa katana: ho avuto modo di usarla poco da ufficiale, la lama è ancora affilata e farà il suo dovere.”
Fece un inchino e gli porse la spada nella sua fodera.
Naruto lo guardò. Guardò la sua schiena con le vertebre in evidenza simili a colline che squarciavano la pelle, il capo con i capelli scuri ancora folti, poi la katana che teneva tra le mani.
“Tienila tu – gli disse il sottotenente della Marina Imperiale giapponese – per non dimenticare quello che ci siamo detti.”
Quella era la più grande dimostrazione di rispetto che un uomo di poche parole e scarsa espansività come Sasuke potesse fare, soprattutto rivolgendosi al nemico americano. Naruto ne era consapevole, reduce dai discorsi del nonno e della cultura che in qualche modo era passata fino a lui, nel tempo e nelle distanze.
Si chinò a sua volta con il dorso e prese la spada usando entrambe le mani.
Rimasero proni entrambi quando replicò:
“Non lo dimenticherò. Non ti farò cadere nelle mani del nemico come prigioniero.”
Dopo quelle parole non ritornarono più sul discorso. Rimasero seduti ancora per diversi minuti, poi ripresero il lavoro con i detriti, attenti come sempre a sentire eventuali rumori provenienti da fuori; improbabile, perché il conflitto da diverso tempo si era spostato da tutt’altra parte del Suribachi e dell’isola.
Andarono avanti così finché ne ebbero le forze ma Sasuke, orgoglioso, arrabbiato, dovette fermarsi prima perché il braccio cominciò a tremare e i muscoli avevano finito per non rispondere più ai comandi.
Naruto gli aveva impedito di muoversi ancora, continuando con ritmo lento perchè a sua volta era stanco; con la coda dell’occhio vide Sasuke stringere i denti e tenere le mani abbandonate sulle cosce, intento a fissare un punto indefinito per contenere la frustrazione di dover star fermo.
Allora, l’americano domandò, all’improvviso:
“Sai che il giorno dello sbarco a Iwo Jima c’erano anche degli Indiani Navajo?”
Sasuke sembrò non ascoltarlo, né aprì gli occhi.
Naruto continuò a togliere i calcinacci e a chiacchierare, parlando di segreti militari con il nemico che gli aveva chiesto di ucciderlo.
“Già, non so come sia andata esattamente ma mi è stato riferito che i soldati reclutati dalle riserve hanno mandato codici per ore e ore ininterrottamente, senza sbagliare. Perché la lingua Navajo non è americano, né tedesco, né giapponese ed è difficile. Una minoranza, chiusa nelle riserve, arruolata in una guerra così lontana da ciò che conoscono; perché... servivano. Ogni uomo, anche il più piccolo e umile, in guerra può fare la sua parte, avere la dignità di essere umano che non gli è mai stata riconosciuta.
Persino io sono stato reputato indispensabile per la causa, a differenza di quando ero ancora all’università e il Giappone aveva dichiarato guerra: mi avevano pestato dicendo che ero una spia di merda infiltrata nel loro paese. Per il mio cognome, nonostante non abbia mai nemmeno messo piede in Giappone e i miei stessi genitori siano nati in America.
Ma qui... servivo. Qui mi è stato dato uno scopo, anzi, era un bene che fossi di origini giapponesi e conoscessi la lingua. Tutti i messaggi di resa che abbiamo sentito avrei potuto pronunciarli io; ci ha pensato un nisei o un sansei come me.
E’ tremendo sapere che debba esserci una guerra per far credere alle persone di poter venire finalmente accettate dalla società. Ed è altrettanto tremendo vedere quanto una lingua possa unire, oppure separare inesorabilmente.”
Loro, ad esempio, in quelle settimane avevano parlato in giapponese.
Sasuke aprì gli occhi. Incrociò quelli di Naruto che, guardandolo, gli chiese: “Se non avessi saputo il giapponese... saremmo qui, assieme, a quest’ora?”
Uchiha assottigliò le labbra.
“Non credo. Probabilmente saremmo morti entrambi.”
“Allora sono contento che il proiettile si sia inceppato, così abbiamo avuto occasione di parlare e di arrivare vivi fino a qui.”
Replicò l’altro, continuando poi a scavare.


26 marzo 1945

La notte tra il 25 e il 26 marzo ci fu l’ultima, grande, carica banzai delle poche forze giapponesi rimanenti, ormai con da difendere solo più un minuscolo spazio vitale rispetto all’isola e al Giappone, la terra per cui combattevano che non aveva più niente da offrire: cibo, acqua, vita.
Naruto si svegliò di soprassalto: sentì più vicini i rumori di spari e di esplosioni; sebbene a corto di forze si alzò in piedi, consapevole che anche Sasuke si era svegliato, e corse a guardare attraverso la feritoia che avevano ricavato. Tossì brevemente, scrollandosi i calcinacci dalla testa, e senza esporsi troppo attraverso l’apertura capì che in qualche modo qualcuno di uno dei due schieramenti doveva aver aggirato l’altro. Il conflitto sembrava non essere la solita toccata e fuga, bensì pareva destinato a continuare perché i colpi non cessavano nemmeno dopo quelli che dovevano essere interi minuti.
Sentirono urla strazianti, seguite poi da esplosioni e altri spari, come se tutto il Giappone si fosse riversato in un’ultima disperata ondata.
“E’ finita.”
Naruto si girò e vide Sasuke in piedi. Parte del corpo era appena illuminata da un fiotto di luna, intervallato da nuvole passeggere.
L’altro tacque. Sapeva cosa Sasuke intendesse dire. Si girò verso la breccia e replicò, scrollando le spalle:
“Mica tanto, c’è ancora da buttare giù parte del muro. Pensi di potertene andare prima, eh?”
Era una bugia, ormai l’apertura era grande abbastanza da consentirgli, in poche ore, di togliere il residuo per passare attraverso. Ma... come altro poteva guadagnare più tempo, per impedire a Sasuke di morire?
Deglutì, anche se aveva la gola secca e sete, una sete infernale da giorni. L’acqua stava per finire. Il giorno prima avevano bevuto la loro urina, per razionare le scorte qualche ora in più.
Sasuke non disse nulla. Camminò, fino a portarsi al fianco di Naruto. Lo scostò con un gesto secco ma non forte e cominciò a togliere altra terra.
Naruto sgranò gli occhi e gli prese la mano, bloccandolo. Si sentiva gli occhi lucidi, all’improvviso.
“Fermo, fermo. Aspetta.”
Sasuke strinse la roccia con rabbia, per poi lasciarla brutalmente andare e vederla rotolare ai propri piedi. Oltre, gli spari continuavano e lui... esplose:
“Non riesco nemmeno a stare in piedi, a lavorare, i denti mi fanno male e cago liquido, mentre là fuori la gente muore! Muore, per il proprio fottutissimo paese! Per cosa sono ancora vivo? Per cosa sto arrancando trasformato in un abbozzo di essere umano? Mi hai parlato di utilità per ogni uomo, in guerra, ma io... qual è la mia utilità ora?”
Aveva urlato e si era ritrovato delle lacrime di rabbia sulle guance scavate; aveva gridato non per sovrastare gli spari e le esplosioni, semplicemente perché era stanco e si vergognava di se stesso, di quello in cui si era trasformato, anche se c’erano stati dei momenti, quei giorni, in cui aveva creduto che gli andasse bene e che potesse ancora sentirsi felice, di essere vivo.
Naruto lo guardò, ma non con compassione. Sentì che quelle domande terribili avrebbero potuto essere rivolte benissimo a se stesso.
Io ho parlato di scopo. Non di utilità. Lo scopo ci permette di andare avanti, anche se non sappiamo quanto effettivamente possiamo essere utili agli altri e a noi stessi per arrivare dove vogliamo.
Nessuno può permettersi di giudicare l’utilità di una persona nel mondo: non può la società, non la guerra, nemmeno tu nei confronti di te stesso. Nessuno. Ciascuno di noi è bravo in qualcosa e fa schifo in altro.
Per questo la società stessa porta l’uomo ad avere degli obiettivi, perché è in base a questi e ai risultati che ci portiamo dietro che essa può materialmente giudicarci. Quando vogliono uccidere un uomo, gli tolgono il suo scopo. Ed è qui che si deve essere forti: bisogna trovare il proprio obiettivo, anche quando sembra che non rimanga più nulla.
Fino a oggi siamo stati vivi, Sasuke. Abbiamo lottato, qui dentro, per questo – puntò il dito verso la breccia – per uscire fuori da qui. E’ lo scopo, non la società, a farci sentire veramente utili o a sperare di esserlo. Ed è proprio grazie alla tua utilità, se io sono ancora vivo.”
Sasuke si nascose il volto, all’improvviso.
Sigillò gli occhi umidi con i palmi delle mani secche, ossute, e scoprì di non avere più lacrime, quando avrebbe voluto piangere, piangere e dimenticare tutto l’odio, la rabbia, il dispiacere che provava, annegato nel senso di colpa.
“E’ stato un buono scopo, allora.” Disse alla fine.
“Assolutamente.”
Sasuke si pulì sommariamente il volto. Si alzò in piedi appoggiandosi alla parete e indossò la parte superiore della divisa, con i suoi gradi. Dovette però sedersi per abbottonarla, le mani tremavano per lo sforzo e la vista ogni tanto cedeva.
Inconsapevolmente si lisciò il petto della divisa lisa passando il palmo della mano, infine si mise composto in ginocchio e annunciò:
“Sono pronto.”
Naruto aveva tolto altra terra e ora lo guardava.
Occhieggiò la katana.
“Te l’ho promesso, giusto?”
Sasuke annuì con un cenno della testa.
“Mi hai dato uno scopo, in queste settimane. L’ho capito. Ora in qualche modo l’ho raggiunto e sono contento, di andarmene dignitosamente. Ho tenuto in vita un americano ma... prima di tutto un essere umano. Ho compreso anche questo.”
Naruto annuì, sentendo un labbro tremare.
Sasuke si chinò, appoggiando la testa su una scatola, il collo esposto, le mani che tenevano il contenitore in legno. Aveva socchiuso gli occhi, sembrava più sereno dopo aver parlato.
“Grazie.” Gli disse, alla fine.
Naruto gli appoggiò brevemente una mano sul collo, sfiorando le vertebre sporgenti. Poi si alzò in piedi, mentre fuori si sentivano gli echi della battaglia, come se l’inferno fosse sceso direttamente a Iwo Jima. Forse era sempre stato lì e loro non se n’erano accorti.
Prese la katana, poi guardò l’apertura del crollo riflettendo velocemente. Annuì, avrebbe potuto uscirne scavando un altro po’. Il vantaggio di essere magri, giusto?
Sfilò la lama dalla fodera e lesse gli ideogrammi incisi sul metallo ancora tagliente. Infine osservò Sasuke immobile ai suoi piedi.
Perdonami.
Sussurrò. Poi sollevò il manico, l’elsa in metallo, e colpì.


27 marzo 1945

Naruto era seduto vicino alla barella stipata accanto ad altri feriti, tutti accatastati sul ponte di una delle navi incaricate di far evacuare le ultime divisioni americane dall’isola, dopo la vittoria sul Giappone, per fare sbarco temporaneo alle Hawaii e riorganizzare la marina. Aveva una coperta addosso e un senso di nausea dovuto allo stomaco che doveva riabituarsi a processare il cibo. Si era centellinato la porzione più abbondante che gli era stata data per pranzo ma sapeva, a differenza di molti, che se si fosse ingozzato come avrebbe desiderato probabilmente sarebbe morto per indigestione o avrebbe finito per vomitare tutto.
Osservò la sua fascia medica e deglutì a vuoto, respirando l’odore del mare e della salsedine, mentre cercava di non farsi pesare sulla coscienza i lamenti dei commilitoni feriti. In tasca, in emergenza, aveva ben nascoste altre due dosi di morfina visto che in quei giorni d’inferno a Iwo Jima non aveva dovuto utilizzarle.
“Ehi, non ti riposi? Sopravvivrà anche se non lo guardi ogni secondo.”
Naruto sussultò, per poi volgere lo sguardo verso un altro medico.
Elaborò una sorta di sorriso per replicare:
“No, sono a posto. Non sono nemmeno ferito, devo solo riprendere a ricordare come funziona correttamente il mio corpo. Tutti loro – spaziò con lo sguardo – sono messi peggio, non mi costa nulla dare un’occhiata per vedere se hanno bisogno di qualcosa.”
L’altro fece un cenno, in seguito proseguì il giro.
Inconsapevolmente il soldato Uzumaki sospirò e scorse l’uomo sdraiato vicino a lui muoversi. Il soldato su cui aveva vegliato fino ad allora, che aveva trascinato ferito lungo le pendenze del monte e ancora sulla spiaggia, con la sua divisa americana recuperata giorni prima da un cadavere e parte del volto bendato, in tasca un proiettile inceppato, poi i capelli sudici, esattamente come lui.

*

Sasuke sentì un odore. Non era quello di morte, di zolfo, di sudore, piscio e feci. Era l’odore del mare. La cosa lo colpì, pensò di star sognando, forse di essere morto e proiettare nella sua testa qualcosa di bello. Quasi per esperimento provò ad aprire gli occhi e mettere a fuoco; scoprì che una palpebra faceva fatica ad aprirsi, qualcosa la copriva, forse la sabbia in cui era stato sepolto, ma l’altra... l’altra si aprì e lui vide il cielo.

Con le sue nuvole e il vento che le faceva correre.
Poi scorse un viso guardarlo dall’alto. Gli sembrava famigliare: gli aveva parlato un sacco, con quelle labbra capaci così fastidiosamente a lungo di sorridere.
Cercò di aprire la bocca e la sentì secca, come se ci fosse sabbia dentro, mentre lo stomaco gli dava delle fitte lancinanti. Provò a muovere il corpo, però lo sentì immobile, stanco, terribilmente stanco, ogni muscolo si opponeva ai pensieri rallentati che il cervello cercava di trasmettere.
Qualcosa gli martellò la nuca, delle fitte sconnesse.
Ho male. Ho fame. I morti non provano né dolore, né vogliono mangiare, o bere, né sentono l’odore del mare e... il fischio di una nave?
Sbatté lentamente le palpebre, provò a dire qualcosa, ma vide una mano accarezzargli appena la fronte. Sembrava rassicurante e, se da un lato si sentiva bene, dall’altro prendeva maggiore consapevolezza di sé, con un senso d’inquietudine crescente.
Dove sono?
“Va tutto bene. Ti sto dando regolarmente dell’acqua zuccherata, il corpo deglutisce per riflesso – parlava e aveva un bel suono, la sua voce, anche se non capiva del tutto le sue parole, le orecchie erano lente come la testa – mi sto occupando di te.”
Sasuke avrebbe voluto chiedere altro, cercò ancora di parlare, biascicò, ma scorse a malapena l’americano muovere una mano e avvertì una puntura di spillo, leggera, quasi impercettibile.
Infine le sue parole, le ultime che udì prima di chiudere ancora gli occhi e dormire.
“Te l’avevo promesso. Di non farti cadere nelle mani del nemico come prigioniero.”





14 marzo 2000

Sarada camminava guardando con attenzione suo padre intento a proseguire davanti a lei, leggermente curvo. Al fianco, la donna scorse sua figlia con il nipotino in braccio e accanto il marito. Sospirò, poi si strinse la giacca a vento e, nonostante le scarpe un po’ serie che, visti i cinquant’anni d’età, aveva ritenuto opportuno indossare in simili circostanze, aumentò il passo per accostarsi al padre.
“Vuoi darmi il braccio?” domandò lei, sistemandosi gli occhiali con già la risposta in testa.
Sasuke Uchiha, testardo giapponese di ottant’anni e sopravvissuto a Iwo-Jima, la guardò un istante poi si fermò e, con stupore, anche la figlia fece lo stesso.
Poco più avanti si ergeva in tutta la sua splendida austerità il monumento commemorativo ai caduti, affacciato sul mare ventoso.
Sarada vide il labbro di suo padre tremare appena. Aveva i capelli bianchi sottili scossi dalle folate gentili e sotto le rughe, poche rispetto all’età sulle sue spalle, gli occhi scuri erano ancora vivaci, pieni di quella forza che lo avevano sempre contraddistinto. Sembravano lucidi, forse per il vento, forse c’era altro.
“Va bene.” Acconsentì alla fine l’uomo.
Felice, Sarada sporse il braccio e osservò la mano nodosa del padre infilarsi con un gesto misurato. Era così leggera la sua presenza da risultare inconsistente. A passo ponderato avanzarono lungo la strada, mentre la nipotina di Sarada pronunciava le prime parole e sua figlia teneva il marito per mano.
Sasuke non sentiva davvero il bisogno di un sostegno, giunto a quel punto. Ma erano il suo cuore e i ricordi a necessitare di un appoggio, della presenza di sua figlia, mentre sua moglie era dovuta stare a casa per riprendersi da una brutta polmonite. D’altronde era quello che capitava alle persone anziane: s’indebolivano e facevano fatica ad avanzare, ogni singolo giorno, perché portavano sulle spalle più pesi e più memorie, quando la vita era clemente e regalava loro il dono del ricordo.
Arrivò di fronte al memoriale.
La sua testa era piena appunto di quei ricordi, della guerra, ma anche di quello che c’era stato dopo e dell’uomo che l’aveva salvato. Quanto l’aveva odiato, allora.
Al collo, però, nonostante gli anni Sasuke portava ancora ciò che il soldato Uzumaki gli aveva restituito, di nascosto, infilandolo in una delle tasche della divisa americana che gli aveva messo addosso per mimetizzarlo.
Scorse un uomo, poco distante. Anche lui aveva dei figli e una moglie, accanto c’era una signora anziana con i capelli bianchi raccolti.
Strinse più forte il braccio di Sarada che lo guardò, preoccupata, anche se non gli chiese nulla. Sua figlia aveva sempre saputo attendere i suoi silenzi, senza mai essere invadente.
Per qualche istante i capelli, gli occhi, il viso del signore… gli ricordarono lui. Anche se con gli anni l’immagine di quel soldato era diventata sempre più evanescente, al punto che Sasuke non sapeva esattamente quanto del ricordo fosse fantasia rielaborata dalla sua testa. Quell’uomo, in un certo senso, gli somigliava talmente tanto da fargli credere di avere Naruto Uzumaki davanti, che gli parlava dei suoi ricordi in America, della bellissima mamma irlandese o della nonna che ricordava l’americano di cui era innamorata.
Non disse nulla, né si mosse. Guardò il mare, sentendo che non c’era davvero niente da dire, nemmeno a se stesso.
Non si erano più cercati, da dopo la guerra; o meglio, Naruto l’aveva fatto, ma lui non aveva mai risposto o ricambiato. Era troppo arrabbiato con lui, con il mondo su cui si ritrovava suo malgrado a camminare senza più nulla in mano, obbligato a dover ripartire con addosso gli incubi per ciò che aveva visto e nelle orecchie il rumore degli spari.
L’anno scorso aveva ricevuto una lettera. Naruto…
“Sasuke Uchiha?”
Girò lo sguardo. La donna anziana, al fianco dell’uomo dai capelli biondi spruzzati comunque di bianco, gli aveva rivolto la parola. Aveva un accento americano, anche se aveva parlato in giapponese.
“Sono io.” Rispose dopo un istante, guardando gli occhi chiari della signora.
Quest’ultima fece un inchino e si presentò:
“Sono Hinata Hyuuga, moglie di Naruto Namikaze. E’ un onore conoscerla – sollevò lo sguardo, elaborando un sorriso tra le labbra adornate da rughe – mio marito parlava sempre di lei.”
Sasuke sentì gli occhi più lucidi. Dette la colpa al vento.
Si inchinò a sua volta e avvertì la mano di Sarada intrecciarsi alla sua.
“Mi spiace non aver mai risposto alle sue lettere.” Disse all’improvviso, ancora chinato.
Dopo un istante la donna raccontò, con voce serena:
“Diceva che l’importante era che lei le leggesse, Signor Uchiha. Sosteneva che lei non fosse un uomo di molte parole, dunque doveva pensarci lui a parlare per entrambi. Era felice, sapeva che dopotutto quest’anno lei sarebbe venuto a Iwo Jima, se lo sentiva.”
Sasuke la guardò, rialzandosi.
“Il giorno in cui siamo sopravvissuti entrambi, il 14 marzo del 1945.”
“Così mi ha detto anche lui.” Confermò la signora, per poi volgere appena la testa verso il mare, stringendo più forte il bastone con cui si sosteneva.
Naruto Uzumaki era morto dopo una battaglia con il cancro da cui, quella volta, non era uscito vincitore. L’ultima lettera che Sasuke aveva ricevuto proveniva dalla famiglia dell’uomo, ma in parte egli sentiva che era anche di Naruto, perché c’era la sua forza nell’invito a vedersi a Iwo Jima uno dei prossimi anni.
Rivedere le spiagge, il monte Suribachi, i luoghi difesi con tanta ostinata disperazione e tutti i soldati, americani, giapponesi, morti nel fare ciò in cui credevano.
Sarada vide suo padre allontanarsi con la signora dai capelli bianchi, la moglie dell’uomo da lui chiamato Naruto Uzumaki, ne parlava così poco ma lo ricordava ancora tanto, a distanza di tutti quegli anni. Non seppe di cosa parlassero, immaginò che per la prima volta conversassero di quell’uomo ostinato verso cui Sasuke sembrava sempre tanto arrabbiato e allo stesso tempo riconoscente in maniera contraddittoria.
Nell’attesa, lei scambiò due parole con il figlio di Uzumaki, più vecchio di lei di qualche anno da quanto aveva potuto capire, mentre il vento scompigliava i capelli a entrambi e portava il leggero odore di zolfo mischiato a quello del mare.
Dopo diverso tempo Hinata e la sua famiglia si allontanarono, salutando con scambi di cortesie i presenti, così che Sarada rimase a guardare suo padre, fermo in piedi.
“Papà? Andiamo anche noi o vuoi rimanere un altro po’?”
L’uomo fece un cenno con la mano, per poi replicare:
“Vorrei restare un istante solo. Voi cominciate a scendere, vi raggiungo.”
“Testone…” mormorò Sarada, ma acconsentì.
Lei rimase più indietro, casomai alla fine il suo amato genitore avesse avuto bisogno, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Sasuke a sua volta sapeva che Sarada l’avrebbe comunque aspettato, ma andava bene ugualmente. Aveva lo stesso bisogno di solitudine, in quel momento.
Guardò i nomi incisi sulla pietra. Ovviamente non c’era quello di Naruto e nemmeno il suo. Però non aveva altro luogo in cui parlargli: si erano conosciuti lì e soltanto lì. Al di fuori di quella linea di terra non c’era stato più nulla, se non le conseguenze della guerra e dell’essere ancora vivi.
Tirò fuori la collana e con essa il monile che vi era appeso: il proiettile, quello che non gli aveva perforato il petto perché si era inceppato nel fucile. Sì, quel proiettile avrebbe dovuto ucciderlo, il 14 marzo del 1945.
“E così alla fin fine sei diventato veramente Dottore, eh? – rise appena, una risata triste, rivolta a nessuno perché Naruto non era più su quella terra – Ma nemmeno ti sei scomodato a essere uno di quei ricchissimi e illustri primari d’ospedale, no, dovevi distinguerti e girare tra i poveracci, sottopagato per tutto quello che facevi. Il solito stupido.”
Tacque.
Sentì un fastidioso groppo in gola. Strinse le dita, affondando le unghie nei palmi rugosi.
Espirò, sbattendo una volta le ciglia.
“Ti avevo chiesto di aiutarmi a fare seppuku, Naruto Uzumaki – alzò lo sguardo, fissando il mare – invece mi hai colpito alla testa, facendomi svenire; poi, assurdo, mi hai vestito con la divisa dell’esercito statunitense, ne avevamo... una. Proveniente dal soldato che avevo ucciso prima che arrivassi tu.
Dimmelo: l’avevi deciso prima, figlio di puttana? Con quel tuo gioco di parole della promessa, era una cosa pianificata? Mi sono ritrovato su di una nave diretta alle Hawaii piena di Americani, tra i quali c’eri anche tu. Mi hai imbottito di morfina per farmi dormire, sapevi che forse avrei cercato di ucciderti, vero? Mi hai dato da bere, mi hai cambiato come facevi con gli altri feriti quando mi sono sporcato di merda e piscio sdraiato in quella barella sul ponte, schizzato dal mare.
Nel momento in cui siamo sbarcati non hai nemmeno voluto scaricarmi da qualche parte, no, troppo facile. Mi hai tenuto lontano dall’esercito, hai parlato con i locali e con i nisei reclutati come linguisti e stanziati alla base, li hai convinti da darmi un buco in cui vivere, un lavoro come garzone in quei mesi di transito dell’esercito. L’albino, mi chiamavo gli hawaiani, perché avevo gli occhi a mandorla come loro ma ero pallido e magro, più pallido degli altri nisei americani. Ma mi hanno nutrito, fatto lavorare, dato quel poco che mi serviva per sopravvivere e pensare di andare avanti, così da riprendere in mano la mia vita. Devi averli stressati terribilmente prima di ritornare in America, vero?”
Tacque ancora.
Deglutire era diventato più difficile. Si portò una mano sulla bocca secca, sentendo le rughe che scavavano la pelle asciutta.
“Hai cercato di salutarmi quando ti hanno congedato dopo quelle settimane di permanenza nelle isole. Ma io ti ho insultato e me ne sono andato; credevo che ti sarebbe bastato, per capire ciò che avevi fatto. Evidentemente non è stato sufficiente, perché hai sempre cercato di raggiungermi, con le parole di qualche stupida lettera. Sei arrivato al punto da chiedermi scusa per avermi fatto vivere, nonostante tutto – espirò, piantando le unghie sulla guancia, mentre sussurrava oltre la mano – perché hai voluto farmi vivere? Perché non mi hai ucciso quando te l’ho chiesto?”
Gridò più forte e la mano finì per cascare lungo il braccio.
Le sue parole si persero assieme al suono della risacca del mare.
“Sai come ci si sente, Naruto? Lo riesci a capire? Un giapponese fuggito dalla morte, a differenza dei suoi commilitoni che si sono sacrificati fino all’ultimo, quando sarei dovuto morire, tentare, dopo il fallimento mio e della mia nazione. Te lo avevo chiesto, dannazione! – si portò una mano al petto, sentendo una lacrima e il cuore anziano che pulsava più forte, arrancando – Mi sono ritrovato invece a vivere in un posto diverso, con gente diversa, solo, con le mie colpe e i miei incubi. Gli stessi che avevi tu, le notti in cui eravamo prigionieri assieme.
Ho pensato tante volte di togliermi la vita, eppure… non l’ho fatto.”
Guardò il proiettile e lo strinse tra le mani.
“Mi sono reso conto che potevo ancora darmi uno scopo, esattamente come quando non sono rimasto ucciso da questo proiettile e ho continuato ad andare avanti. Sei stato tu a parlarmi di scopo, di trovare una ragione per andare avanti. E ho finito per farlo, perché forse c’era davvero qualcosa oltre la morte, la guerra, le sofferenze patite: dipendeva da me, non avevo un esercito a cui rispondere, una nazione, un obbligo.
Sono tornato in Giappone. Ho ripreso in mano e risollevato l’azienda di famiglia, superando la crisi. Mi sono sposato con una donna che amo e che comprende i miei silenzi, i miei incubi che ci svegliano la notte, ho avuto una figlia, la quale a sua volta ha avuto una figlia e adesso sono bisnonno.
Sono invecchiato, le articolazioni mi fanno male, cerco di non camminare con il bastone e sto vivendo una vecchiaia serena. Morirò nel mio letto, a casa mia.
Tutto questo… per colpa tua, Naruto Uzumaki. Che credevi più di me nella mia vita, nei figli che avrei avuto e nei sogni che avrei realizzato.
Io ho fatto fatica, davvero fatica, ad accettare tutto questo, ad accettare che tu avessi deciso al mio posto, ma ho realizzato solo di recente che ti sei limitato a fare quello che andava fatto: mi hai dato la possibilità di avere ancora uno obiettivo e, con esso tra le mani, scegliere se davvero volessi cercare di andare avanti o, piuttosto, uccidermi.
Hai rischiato quello che avevi, la tua stessa vita, per darmi questa possibilità.
In tutti questi anni… non ti ho mai ringraziato. Per avermi fatto vivere e per avermi ricordato che potevo avere ancora uno scopo – aprì le braccia – guarda cos’ho realizzato, la famiglia che ho avuto, l’amore che ho ricevuto. Tu sei morto e io non ho potuto riportarti indietro, né ricambiare il favore. E mi dispiace, immensamente.
Al momento… posso solo ringraziarti. Bada che lo dirò solo questa volta, quindi farai bene ad ascoltare:
grazie, Naruto Uzumaki.”
Si tolse la collana e staccò il proiettile. Poi, lentamente, si chinò, sfiorando con i polpastrelli la terra.
“Pianterò il proiettile che si era inceppato qui, a Iwo Jima. Tu me l’hai messo in tasca per ricordarmi della vita che ho avuto la fortuna di ricevere, quando sarei dovuto morire, e di come io in quei giorni abbia lottato per sopravvivere, nonostante tutto.
Ormai sono vecchio. Ho vissuto bene, con dignità.
E’ giusto che questo proiettile ritorni da dov’è partito, accanto a coloro che non ce l’hanno fatta e che, a differenza mia, non hanno conosciuto il medico che mi ha salvato la vita, ogni giorno della mia esistenza.”





“The medics were the most popular, respected, and appreciated men in the company. Their weapons were first-aid kits, their place on the line was wherever a man called out that he was wounded.”
― Stephen E. Ambrose, Band of Brothers: E Company, 506th Regiment, 101st Airborne.





Sproloqui di una zucca

Ho deciso di postare prima della settimana che tanto mi sembrava assurdo prolungare ancora XD
Che dire... spero che questa storia vi abbia lasciato qualcosa dentro. E' realistica, parla di tematiche importanti che ho voluto portare in luce, primariamente lo Scopo e ciò che ci spinge ad andare avanti (questo, assieme al concetto di Tempo, Morte e Occasioni Mancate rientra nelle mie Best Tematiche Ever che adoro trattare in quello che scrivo). Si affronta anche l'idea diversa dell'onore e del suicidio.
Come sempre, amo Sasuke e Sarada, nemmeno qui ho potuto fare a meno di rappresentarli assieme (adoro anche Sakura ma, aò, nemmeno in questa storia c'era modo di inserirla adeguatamente).
Se desiderate fermarvi a condividere il vostro pensiero ne sono come sempre felice. Grazie per aver letto fino a qui, alla prossima puntata di: riscopri la storia con Zucca! (dopo Lady Oscar è il modo più divertente XD)

Appunti:
 
Navajo. Siccome già Hitler allo scoppio della guerra aveva inviato antropolgi a studiare il linguaggio nei nativi americani, i Navajo vennero inseriti e 'scoperti' in sostituzione di altre tribù come i Choctaw usati nella Prima Guerra Mondiale perché si trattava di un linguaggio davvero difficile da apprendere. Erano i cosidetti Code Talker, addestrati per comunicare sul campo nella loro lingua mediante messaggi in codice. Furono usati a Iwo Jima, per esempio, dove comunicarono ininterrottamente e senza sbagliare per i primi giorni dallo sbarco.
Hanno fatto un film sui Code Talker Navajo, Windtalkers, nulla di che ma può rendere l'idea.

Seppuku. Fare suicidio per il disonore. Ci si taglia il ventre alle quattro estremità e uno spadaccino molto bravo assiste il suicida tagliandogli la testa per porre fine alle sue sofferenze. E' una morte onorevole. Improbabile che, nel caso, Naruto sarebbe stato davvero in grado di recidere la testa di Sasuke al primo colpo ma quest'ultimo non aveva molte alternative XD I soldati giapponesi compivano spesso seppuku, oltre a cariche banzai, si trattava comunque di ufficiali, gli unici che avessero una katana.

Campi di reinsediamento. I giapponesi in America vennero ghettizzati all'interno di campi di lavoro, in condizioni non sempre ottimali. Non si parla di campi di concentramento, perché avevano una vita dignitosa, ma dovettero comunque abbandonare tutto ciò che avevano e venire rinchiusi. Combinazione qualche anno fa l'Allende ha pubblicato un romanzo, l'Amante Giapponese, in cui vagamente si parla della prigionia in uno di questi campi

Giapponesi all'università americana. Era prassi abbastanza diffusa che i rampolli di famiglie facoltose andassero in America a studiare, proprio per scopi di comprensione del sistema occidentale. Lo stesso generale Tadamichi Kuribayashi, il principale attore nella difesa di Iwo Jima, era andato a studiare in America.

"Non abbiamo mangiato né bevuto da cinque giorni. Ma il nostro spirito combattivo vola ancora alto. Combatteremo valorosamente fino alla fine" pronunciata dal generale Kuribayashi proprio il 21 marzo del 1945, in risposta alle richieste di resa americane.





   
 
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