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Autore: QueenOfEvil    05/02/2018    3 recensioni
Firenze, 1490.
Lorenzo De Medici guarda fuori da una finestra di Palazzo Medici Riccardi e riflette. Sul passato -remoto-, sul presente -sfuggevole- e sul futuro -incerto-.
« Ci si poteva sentire già così vecchi a quarantun anni?»
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
- Questa storia fa parte della serie 'Ad augusta per angusta'
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Chi vuol esser lieto sia

 

La Via Larga era particolarmente trafficata quel giorno. Seduto alla sua scrivania, proprio sotto la finestra, Lorenzo De Medici poteva osservare con un colpo d’occhio mercanti, artigiani, aristocratici e mendicanti affrettarsi lungo il selciato. Sguardi bassi, pensierosi, presi dalle proprie preoccupazioni momentanee: soli, sulla destra, un gruppo di ragazzi di strada che si guardavano intorno, ridendo e scherzando, appoggiati al muro di cotto di un edificio.

Dovevano avere sedici, diciassette anni: all’incirca la sua età, quando era stato messo in carica del reggimento della sua città1. Ricordava a stento quel periodo, passato -invece che a bighellonare tra gli sporchi vicoli di Firenze- a studiare materia dopo materia, a fianco di Giuliano, sotto lo sguardo severo dei propri precettori: sembravano trascorsi secoli, un’epoca lontana nel tempo quanto nella mente, ed era a tratti spaventoso pensare che, invece, quel lasso di tempo indeterminato si traduceva in poco più di un ventennio.

Ci si poteva sentire già così vecchi a quarantun anni?

Una fitta lancinante alla mano lo colse, obbligandolo a posare la penna e facendo contrarre i suoi lineamenti, già duri di loro, in una smorfia appena accennata: era abituato a quel tormento, oramai, ma di recente gli sembrava che fosse andato peggiorando. Trattenne il fiato per qualche secondo, fino a che non sentì il dolore scemare appena, e, scuotendo la testa, infastidito, si sforzò di riprendere a lavorare: non era un ingenuo, Lorenzo, ed era perfettamente cosciente di quale sarebbe stato il suo destino -ricordava la morte del padre, quella sì, nei minimi particolari e riconosceva i sintomi della malattia meglio di qualsiasi medico che avesse, negli anni, tentato di curarlo-, ma sapeva anche di avere ancora troppo da amministrare, troppo peso da reggere sulle proprie spalle, troppo da portare a termine, per potersi anche solo permettere di autocommiserarsi.

Aveva capito quale sarebbe stato il suo compito fin da bambino, durante le sue lunghe conversazioni con il nonno -compianto quanto e forse più di Piero-, e quando l’occasione era arrivata, quando lui -lui e Giuliano, in realtà- avevano assunto, non di nome, ma di fatto, il titolo di Signori di Firenze si era ritrovato a ricoprire un ruolo per cui, aveva presto scoperto, era quasi letteralmente nato: se qualcuno avesse definito la politica una scienza, una materia da studiare al pari della filosofia, del greco, del latino, egli stesso, in quel momento, avrebbe potuto tranquillamente autoproclamarsi massimo esperto, conoscitore dei meccanismi che regolavano la convivenza -pacifica o meno- degli Stati.

Era l’unico, in quel periodo, che potesse assicurare a Firenze un prospero avvenire. L’unico al di fuori della sua famiglia e anche all’interno di essa: la mente corse veloce al figlio maggiore e subito rigettò l’idea. Non era pronto, ancora, troppo giovane -malgrado avesse oramai diciotto anni-, troppo arrogante, debole, indisciplinato: come avrebbe potuto reggere una città intera, se non aveva nulla per compensare la sua mancanza di carisma? 

Già, Piero non si presentava come un De Medici, non nei modi, non nell’intelligenza, non nella cultura, malgrado avesse provveduto e si fosse premurato lui stesso perché seguisse le sue stesse orme: tutto ciò che aveva del regnante era costituito dal bell’aspetto, che era, e a pensarci era quasi divertente, anche l’unica qualità che Lorenzo poteva in tutta onestà affermare di non possedere.

Sapeva di essere brutto, oh, lo aveva sempre saputo e mai gli era importato: era molto più facile raddrizzare un naso storto che uno Stato, e carisma e acume intellettuale avevano sempre ampiamente supplito al suo aspetto non convenzionalmente attraente.

Era strano quanto poco il primogenito gli assomigliasse e quanto, invece, per certi versi, sembrasse rispecchiare Giuliano. Giuliano, che amava la ricchezza, le arti, lo sfarzo, in qualche caso. Giuliano, che era salito con lui -appena quindicenne- al potere e lo aveva aiutato fedelmente per quasi dieci anni. Giuliano, che da altrettanto tempo era sepolto nella Chiesa -ironia della sorte- di San Lorenzo.

Non ripensava spesso a suo fratello, in realtà, non più di quanto non ripensasse alla sua gioventù o alla moglie -morta due anni prima senza che la sua vita quotidiana cambiasse più di tanto-, ma i ricordi dei loro primi anni in politica -niente gotta, niente complotti, tanto lavoro da svolgere e tanta energia per portarlo a termine- erano in qualche modo più vividi di tanti altri, anche avvenuti poco tempo addietro. E ricordava quel ventisei aprile di dodici primavere prima -la Chiesa, l’agguato, le urla, il sangue- e quello che era venuto dopo -la fuga, la rabbia, l’umiliazione, la vendetta, ancora una volta il sangue- con una nitidezza sconcertante.

Giuliano era stato una delle poche persone di cui si fosse potuto fidare2 in quella prima fase del suo governo e, si ritrovò a considerare, in un momento di riflessione, non avrebbe troppo disperato se, per qualche motivo, fosse stato lui a governare Firenze al posto suo.

Ripensandoci, una differenza fra il suo primogenito e il fratello, in fondo, c’era.

Ma erano riflessioni vane, come vano era perdere tempo quando lo sentiva sfuggire dalle sue mani con una velocità crescente: la sua gioventù era passata, così come anche gli anni in cui lui e Giuliano governavano insieme, e non avrebbe vissuto il futuro se non vivendo. Il presente, invece, era certo e poteva essere piegato a suo volere.

Forse, come suo fratello, non avrebbe avuto la possibilità di portare a termine i suoi progetti, ma ci avrebbe provato.

Riprese a scrivere la lettera su cui stava lavorando -senza più badare alle urla dei ragazzi in strada, ai mercanti sotto di lui o alle memorie di un’era remota, distante-, poche parole, in rima, che, malgrado tutto, gli si affacciavano nella mente con tenacia:

 

«Quant’è bella giovinezza

che si fugge tuttavia.

Chi vuol esser lieto, sia

del doman non c’è certezza.»3

 

 

 

 

 

1Lorenzo De Medici divenne Signore di Firenze a diciannove anni, nel 1469, alla morte del padre Piero il Gottoso, affiancato dal fratello quindicenne, Giuliano.

2In una delle sue lettere, Lorenzo affermò di potersi fidare ciecamente del fratello.

3Trionfo di Bacco e Arianna, ritornello. Composto da Lorenzo stesso nel 1490.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sì, sono di nuovo io,

E, sì, Lorenzo De Medici è un altro di quei personaggi storici che mi hanno sempre affascinato molto, per il carisma, l’abilità politica e anche la sfortuna di morire a quarantatré anni quando, forse, a Firenze avrebbe tutto sommato giovato essere sotto le sue direttive ancora per un ventennio. Come al solito, spero di avere fatto un buon lavoro e vi incoraggio a lasciare un commentino per dirmi cosa ne pensiate: positivo o negativo che sia, io sono sempre qui (più o meno).

A presto!

L_A_B_SH

 
   
 
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