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Autore: Bluelectra    12/02/2018    5 recensioni
Sequel de "IlDestinoNonÈUnaCatenaMaUnVolo".
Dal Caos primordiale, in cui nessuna forma di vita poteva essere ospitata, nacquero le stelle. E solo grazie alla loro luce e al loro calore fu possibile concepire la vita.
Il Caos dentro di sé, i dolori a stento sopportabili, le peggiori cose della vita possono essere trasformate in gocce di splendore, in stelle in grado di illuminare la notte più buia e riportare a casa i dispersi.
Ritornano dopo quattro anni Angelique, Albus, James, Scorpius e tutti gli altri.
Dal Cap.16:
“Avanti Gigì, ora devi iniziare a comportarti in modo carino. Insomma deve essere almeno possibile il fatto che tu sia attratta da me!” ribatté James sporgendosi oltre il tavolino che condividevano.
Angie fece lo stesso, avvicinandosi a lui fino ad avere il suo viso molto vicino.
“E che cosa dovrei fare?” chiese sorridendo in modo delizioso.
“Beh per esempio potresti darmi un bacio, ci sono giusto quattro o cinque ragazzine che ci stanno guardando proprio adesso…” mormorò lui continuando a fissarla con i suoi occhi magnetici.
“Oppure potrei darti un pugno sul naso.” propose Angelique inclinando il capo.
“Oh Gigì, ma questo non è per nulla carino.”
“Io lo troverei adorabile!”
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Famiglia Weasley, James Sirius Potter, Nuovo personaggio, Scorpius Malfoy
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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Cap.33

Cap. 33 Rifiorire.

Voglio fare con te ciò che la primavera fa coi ciliegi.
Pablo Neruda

La primavera in Inghilterra era pigra. La stagione della rinascita faticava a uscire dallo stato letargico in cui l’inverno faceva cadere tutta la natura, come un adolescente assonnato, riluttante ad alzarsi per affrontare l’ennesima giornata di lezioni.

Per questo quando le gemme si decidevano ad aprirsi, rivelando tenere foglioline, e i primi fiori facevano capolino sui rami gli studenti di Hogwarts si riversavano nel Parco con entusiasmo per godere finalmente dell’arrivo della bella stagione, anche se il clima non era dei più temperati.

Non tutti sapevano che vicino alla capanna del Guardiacaccia, in punto del Parco abbastanza remoto, si ergevano un paio di mimose, le quali fiorivano in un tripudio di rami dorati dal profumo tanto intenso che bastava avvicinarvisi per venire avvolti dall’aria dolce.

James, parte del folto gruppo di ignari studenti fino a quella mattina, osservò meravigliato i grandi alberi. Erano i primi fiori a sbocciare dopo quell’inverno dalle temperature polari e dall’abbondante neve, i boccioli eroici che nonostante il sole ancora timido imponevano la loro presenza.

Le foglie verdi, lobate in modo minuzioso come un merletto, si accostavano in uno splendido contrasto con i grappoli gialli rigogliosi.

Un paio di mani bianche si alzarono verso l’albero, con delicatezza recisero qualche rametto. Dopo un istante la ragazza si voltò verso di lui e da sotto il cappuccio del mantello sbucarono i lunghi ricci biondi, lasciati sciolti sul petto.

Angelique alzò lo sguardo: i begli occhi erano cerchiati da profonde occhiaie, il colorito pallido come avorio, il rametto di mimose dorate stretto in un nastro tra le sue dita.

Quando l’ennesima folata di vento gli portò nei polmoni l’aria profumata, James ebbe un’illuminazione. Riuscì a identificare l’odore, oltre alla lavanda dei suoi capelli, che da mesi attribuiva a lei e che non aveva mai riconosciuto.

Angelique sapeva davvero di Primavera, dei primissimi fiori a inondare di colore i giardini. Aveva il profumo delle mimose e i loro colori. Oro e verde.

“Li ho presi per Elena…” gli disse, ma pronunciando il nome dell’amica la voce le si incrinò, così abbassò il capo verso il terreno.

James sentì il cuore stringersi in una morsa di dolore e si chiese in preda al panico se fosse autorizzato a toccarla. Ricordava le due volte in cui l’aveva abbracciata, entrambe situazioni disperate, in cui accoglierla contro il proprio petto gli era sembrato naturale come respirare. Ma lei la pensava allo stesso modo o non gli avrebbe consentito di avvicinarsi?

Da sotto il cappuccio scuro si intravedevano i suoi denti affondati nel labbro inferiore con una forza che avrebbe potuto ferirlo da un momento all’altro. Tutto in lui urlava di correre da lei, sostenerla, cullarla, mormorare parole che la calmassero, eppure sapeva quanto delicato fosse l’equilibrio tra loro. Quanto poco bastasse a farla allontanare come un animale selvatico.

Un sussulto sconquassò le spalle della ragazza, solo dopo un istante James capì che era un singhiozzo soffocato.

Smise di considerare i pro e i contro e si avvicinò a lei. Prese tra le braccia Gigì, in uno slancio di iniziativa che gli causò una tachicardia spaventosa, le cinse con una mano il capo appoggiandoselo alla curva sotto la clavicola, un luogo che sembrava essere stato disegnato per ospitarla alla perfezione. Le mani di lei si aggrapparono alla sua schiena con forza.

Angelique tentò di trattenere le lacrime, ma dopo paio di singulti, si lasciò andare. Pianse tra le sue braccia, seppellendo il volto contro il suo petto, mentre anche lui sentiva le lacrime premere per esondare. Non era una ragazza minuta o dall’aspetto esile, ma lì nel suo abbraccio gli sembrò delicata come cristallo, tanto preziosa quanto fragile.

Quella mattina si erano incrociati in Sala Grande, forse non in modo del tutto casuale doveva ammettere James, che l’aveva intercettata grazie alla Mappa del Malandrino. Lei gli aveva proposto in modo sbrigativo e abbastanza brusco se gli andasse di camminare nel Parco. Aveva parlato con il tono dietro cui, James ormai lo sapeva, nascondeva la sua insicurezza, il bisogno di non essere lasciata sola. Aveva accettato senza quasi farle fine la frase.

Per quanto la situazione fosse disperata e non ci fosse assolutamente nulla di cui gioire, James non poté far a meno di bearsi di quell’abbraccio, così urgente e rigenerante. Stringerla a sé gli dava la sensazione di poter fermare il mondo e racchiuderlo nelle sue mani per offrirlo a lei. Le accarezzò dolcemente la testa, mormorò qualche parola confortante ma la sua voce venne coperta da un verso acuto.

Gigì staccò il viso bagnato di lacrime dal suo petto e i suoi occhi lucidi si indirizzarono immediatamente al cielo. Un pallido sorriso le inarcò le labbra, così anche James alzò lo sguardo.

Antares stava volando in cerchio sopra le loro teste. Le grandi ali vermiglie erano spiegate, immobili nel delicato equilibrio di correnti d'aria. Quella macchia rosso fuoco si stagliava maestosa nel cielo grigio.

Si rese conto che erano ancora abbracciati quando Angie si allontanò da lui e tese l’avambraccio destro in aria, fischiando per richiamarla.

L’uccello scese in picchiata verso la padrona e si arrestò vicinissima a lei spalancando le ali, tanto che una raffica di vento fece socchiudere gli occhi a James. Con una grazia sovrannaturale si posò sul braccio di Angie, per poi piegare dolcemente la testa verso la guancia della ragazza, lasciandole una carezza.

“Bravissima, piumino da cipria.” Mormorò Gigì grattandole delicatamente le piume sotto al becco. Antares emise un gorgoglio soddisfatto scrollando la testa con eleganza. In seguito lo fissò con i propri occhi neri, piccoli e inaspettatamente saggi.

James incantato tese una mano, desideroso di poter toccare quella creatura bellissima, ma la fenice si spostò con uno scatto verso la spalla di Angie, guardandolo in modo tanto ostile che sembrò dirgli “Sta’ nel tuo, bello.”

Angelique emise quel suono buffo, a metà tra una risata e uno sbuffo, che caratterizzava il suo divertimento celato. Prese la mano di James, le sue dita sottili ma decise si intersecarono agli spazi lasciati dalle sue ben più grandi. Come quando l’aveva abbracciata, provò la sensazione che fossero in grado di combaciare in modo perfetto.

Il tocco freddo di Gigì gli mozzò il respiro nei polmoni.

“Antares è un po’ diffidente, ma non preoccuparti, non ti farebbe mai del male.”

“Non ho paura.” Rispose in un sussurro, mentre lei conduceva le loro mani verso il capo della fenice, ancora abbarbicata sulla sua spalla.

“Lo so.” Angelique guardò con affetto infinito Antares e quella piegò il lungo collo per annusare sospettosa la mano di James.

L’animale con delicatezza posò il muso contro il suo palmo lasciandosi accarezzare. James sorrise estasiato per quel contatto; era tiepida nonostante l’aria di inizio primavera che intirizziva le dita e soffice. Toccandola avvertì un’ondata di positività farsi strada in lui, come se i pensieri gravosi degli ultimi giorni si fossero sollevati di colpo dalla sua mente.

Ispirò stupito e proprio quando stava per ritirare la mano, Antares spiccò un piccolo balzo atterrando sul suo braccio. James, impacciato, provò ad accarezzarla come aveva visto fare ad Angelique. L’animale lo lasciò fare per qualche istante, prima di prendere lo slancio e spiccare il volo.

“Non capisco… Ho sbagliato qualcosa?” chiese deluso vedendola allontanarsi.

Gigì scosse il capo chiandosi a raccogliere il rametto di mimose che era caduto quando l’aveva abbracciata.

“No, affatto. Anzi, sono proprio stupita dal fatto che Antares ti sia venuta tanto vicino! Le fenici sono animali molto misteriosi, la maggior parte dei loro comportamenti può sfuggire alla nostra comprensione. Tutto ciò che sono stati in grado di studiare riguarda i rari casi di fenici addomesticate. Non puoi nemmeno immaginare quanto sia stato complicato cercare informazioni per far schiudere il suo uovo. Pensavo che non ci sarei mai riuscita, ero disperata.”

“E poi?”

Angelique gli sorrise in modo così radioso che a James mancò il respiro.

“E poi feci un sogno. Sognai di correre nella foresta, sognai una fenice che precipitava al suolo ed esplodeva in un grande incendio. Le fiamme non mi bruciavano, anzi mi coccolavano e mi sussurravano delle cose. Quando iniziai a capire il significato delle parole provai un dolore indescrivibile, come se la mia carne stesse bruciando e i miei nervi strappandosi millimetro per millimetro. Non so come, ma ho avuto un’intuizione e ho lanciato l’uovo di Antares nel camino di Hagrid. Il resto poi lo sai, c’eri anche tu.”

“Kiwi.”

Risero entrambi al ricordo di come la neonata fenice avesse imbrattato di escrementi il maglione di Angelique.

“Sono convinta che non fosse il mio sogno, ma quello di Martha. Credo che i suoi poteri fossero ancora in una fase di latenza e non ne avesse alcuna percezione, che quella volta lei abbia trasferito su di me la sua visione, senza rendersene conto. Ecco perché è stato così doloroso, come quando succede a lei… Comunque sia, veder emergere quel pulcino spelacchiato dalle ceneri è stata uno dei doni più belli che abbia mai ricevuto.”

Lei si rigirò il rametto di mimose tra le dita pensierosa.

“So che ti sembra stupido, ma Antares mi aiuta a ritrovare equilibrio, a ritrovare me stessa. Le fenici sono in grado di percepire i nostri stati d’animo e di trasmettere sensazioni positive. Sì esatto, come quello che ti è successo prima, ho visto che faccia hai fatto! È qualcosa a metà fra la serenità e il coraggio… Forse è semplicemente speranza.”

“Speranza?!”

“Non è forse quello di cui abbiamo più bisogno, Jessy?”

***

“Ieri sera ti sei persa una scena fantastica: Emma, la ex di Berty, è entrata in Sala Grande a braccetto con uno del settimo anno di Grifondoro e guardava così insistentemente Bertram, che è inciampata in una panca e per poco non si è spiaccicata per terra.” Raccontò Angie mettendo a le mimose raccolte quella mattina nella brocca d’acqua sul comodino. “Solo che senza di te non è sembrato nemmeno così divertente, solo un po’ patetico.”

Angelique scostò con delicatezza una ciocca azzurra dalla fronte di Elena, rimettendola insieme alla raggera di capelli colorati sparsi sul cuscino.

Nana giaceva sul letto dell’infermeria immobile, il corpo minuto quasi fagocitato dalle coperte, le braccia magre stese lungo i fianchi in una posa composta che, se solo avesse avuto un minimo di energie, non avrebbe mai mantenuto.

“So che mi senti, piccola infame. So che stai ascoltando tutto e stai sghignazzando.” Mormorò dolcemente prendendo tra le proprie mani quella dell’amica.

E ci credeva, lo sentiva sotto la pelle, non lo ripeteva semplicemente a quel corpo che si muoveva appena nel respiro artificiale, indotto dagli incantesimi della Blackthorn.

“Mi ha detto la Chips che verrà anche tuo papà oggi pomeriggio. Sai, forse ti conviene svegliarti domani Nana, non vorrei mai che poi ti toccasse parlargli davvero.” Ironizzò con un mezzo sorriso, anche se pensava tutt’altro.

Ricordava quando il viso di Alain Zabini si era posato sul corpo inerme della figlia. Non avrebbe mai più potuto dubitare del suo amore. Ogni tratto del bel viso dell’uomo si era sgretolato in una maschera di dolore, mentre le sue mani si artigliavano i capelli e l’uomo esplodeva in un pianto disumano, come se gli avessero appena strappato il cuore dal petto.

Qualunque barlume di freddezza che ricordava di aver scorto in lui negli anni passati si era volatilizzato. L’indifferenza, con cui credeva che trattasse Elena, si era sciolta sotto il fiume di lacrime con cui si era chinato su di lei e aveva mormorato mille scuse, baciandole teneramente una mano.

Scuse per non essere riuscito a dimostrarle quanto bene le volesse, scuse per non averle scritto quasi mai perché non riusciva a perdonarsi di aver lasciato morire la moglie, scuse per aver tentato di proteggersi dal dolore chiudendo il mondo fuori e chiudendosi anche a lei, scuse per averla rimproverata e aver cercato di cambiarla. Scuse che avevano commosso anche Angie, involontaria testimone di quelle confessioni mentre riordinava gli armadietti duranti un turno in Infermeria.

E pensando a quello venne investita da altri ricordi.

È ancora in turno sabato quando portano il corpo quasi senza vita di Elena.

Ciò che la fa urlare dall’orrore, che la perseguiterà nei suoi incubi per giorni, è il sangue.
Il sangue della sua amica macchia la tunica della Blackthorn, inonda le braccia di Berty, tinge le dita di Martha, bagna i suoi capelli azzurri rendendoli di un cupo viola. Il sangue di Elena è ovunque.

“Presto! Poppy ho rallentato l’emorragia, ma c’è qualcosa che non va!” urla la Blackthorn priva di tutto il suo contegno, coi capelli mogano scarmigliati.

Angie sente il suo corpo congelarsi, mentre in un angolo della mente registra che Albus sta stringendo tra le braccia Martha e Berty ha le guance rigate di lacrime.

Un corpo non può perdere tanto sangue e rimanere vivo.

“Dursley!” la chiama la Chips ma i suoi occhi non riescono a staccarsi dalla macchia rossa che i capelli di Elena hanno impresso sul guanciale.

C’è troppo sangue.

“Angelique.” La voce della Blackthorn è più bassa ma non meno urgente, e qualcosa in quel tono le consente di sbloccarsi. I suoi occhi trovano quelli blu della sua insegnante, della donna coraggiosa che le ha mostrato le proprie cicatrici per consentirle di curare le sue.

“Dursley, decidi se farti da parte o se aiutarci. Non puoi stare lì in mezzo.” Scandisce mentre le sue mani sono già immerse nella bacinella piena di disinfettante.

“Nella vita ci sono scelte irrevocabili. Spesso bisogna prenderle in pochi istanti, attorniati dal caos, privati della lucidità necessaria, bisogna scegliere e basta. I conti si fanno dopo, quando c’è tempo per considerare i danni fatti.”

Le parole della stessa Blackthorn le tornano in mente e la spingono a muoversi. Verso Elena.

I minuti successivi sono un delirio di ordini e contrordini da parte delle due donne, di bende per ripulire la ferita, di incantesimi, di boccette passate, di pozioni, di mani che si muovono sul corpo di Elena come se fosse una bambola rotta, di imprecazioni perché i parametri vitali non si riprendono.

Sono minuti in cui la mente di Angie si svuota di qualunque pensiero che non sia obbedire. Smette di pensare e si muove con efficienza, silenziosa.

Non vuole pensare, non vuole ricordare il sorriso di Elena, i suoi disegni appesi dovunque in camera loro, la sua risata, le sue battute sboccate. Non può, altrimenti si accuccerebbe in un angolo a piangere e ora non se lo può permettere.

“Dobbiamo farle bere la Pozione Rimpolpasangue, ma non riusciamo a svegliarla. La pressione è bassa, ha perso troppo sangue, siamo a rischio di danni cerebrali…” Esclama la Blackthorn passandosi una mano sulla fronte.

“Possiamo provare con un Innerva congiunto, forse una doppia azione potrebbe funzionare.” Propone Madama Chips senza troppa convinzione.

La Blackthorn annuisce dubbiosa, infatti nonostante il doppio incantesimo Elena non si riprende.

E mentre le viene passata l’ennesima garza macchiata del sangue che sta abbandonando la sua amica, il sangue di cui ha disperatamente bisogno, il cervello di Angelique si riaccende.

Non possono fare trasfusioni di sangue, non hanno gli strumenti adatti e anche se trovassero un donatore non avrebbero comunque tempo… Che possono fare? Come farebbe sua mamma che non ha una bacchetta per risolvere i problemi? Come si può far ingerire una pozione a qualcuno che non riesce a deglutire?

“Una sonda…” mormora con voce strozzata.

“Come?” le chiede la Chips sbattendo le palpebre.

“Serve una sonda per farle arrivare la pozione direttamente allo stomaco!” dice con più sicurezza ma davanti allo sguardo perplesso dell’anziana donna ricomincia: “Un tubo di silicone da infilare fino al suo esofago!”

Ed è Berty a capire prima di tutti le sue intenzioni e le sue parole, forse perché come lei è cresciuto coi babbani, o forse perché tra loro è quello che si sta dissanguando insieme a Nana. Berty sfodera la bacchetta e trasfigura immediatamente una benda in una sonda di silicone, cosa che lei non avrebbe mai saputo concretizzare.

“Va bene o è troppo grande?” domanda il ragazzo guardandola con una determinazione che le schiaccia il respiro nei polmoni. Si fida di lei, di una sua idea.

“Non ne ho idea! Dobbiamo farla passare dalla narice…”

“Dalla narice?” domanda la Blackthorn.

“Negli ospedali babbani si fa così… Ma non so come…”

“È un’ottima idea. Avanti Poppy, riduci il diametro di quell’affare e smussa la parte anteriore.” Ordina la pozionista e solleva il capo di Elena per posizionarla correttamente, estendendo il collo per facilitare il passaggio della sonda.

Provano un paio di volte senza trovare il passaggio corretto, finché il tubicino rapidamente attraversa la gola della ragazza.

E nel momento in cui ce la fanno, in cui riescono a far fluire fino allo stomaco di Nana la pozione Rimpolpasangue e la sua pressione si rialza, in cui il cuore si stabilizza; nel momento in cui Angie si concede per un istante di provare sollievo, si rendono conto che Elena non riesce a respirare da sola.

La Blackthorn ha appena sciolto l’incantesimo che aveva applicato su di lei quando l’avevano trovata nel corridoio, ma Nana non reagisce.

Non respira.

Elena non respira.

La Blackthorn dopo qualche secondo di valutazione decide di eseguire nuovamente la ventilazione artificiale. La donna si concentra e percorre con la bacchetta l’aria sopra al corpo di Elena, mormorando a mezza voce una lenta cantilena. Una luce azzurrognola si diffonde dalla punta della sua bacchetta e cala sulla ragazza, come una polverina scintillante.

Il petto di Nana finalmente si solleva in una lunga inspirazione e poi si abbassa lentamente.

Sente Berty sospirare di sollievo e poi scoppiare in singulti, sente la voce di Albus rincuorare Martha. Sente i suoi amici, ma non può raggiungerli perché sa che Elena non è fuori pericolo, lo sa da come le due donne si guardano, lo sa dall’angoscia dilagante negli occhi blu della Blackthorn.

L’incubo infatti prende forma quando proprio lei sentenzia con voce rotta dalle lacrime:

“È in coma.”

Angelique sente quelle parole, ma non vuole crederci. Non può crederci. Ed è per questo che continua a raccogliere le bende sporche e gettarle, che riordina le pozioni che sono state usate, che non riesce a fermarsi. Non può fermarsi.

Sono invece le mani di Beatrix Blackthorn a fermarla. La prendono per le braccia e la costringono a guardarla, in quegli occhi che incutono timore in tutti gli studenti e che invece sono specchio di mille emozioni velate dalla riservatezza del blu.

“Angelique, fermati.”

“Non posso, devo…”

“Basta, fermati.” Le sussurra con dolcezza.

A quel punto le sue ginocchia si piegano e si ritrova per terra, stremata e tremante, mentre si cinge con le sue stesse braccia e si concede di piangere. Piange e vorrebbe urlare che non può essere successo davvero, vorrebbe urlare che non è giusto, ma riesce solo a emettere gemiti inarticolati. Saranno altre braccia a raccoglierla dopo, le braccia di chi sa sempre come mantenerla integra quando tutto dentro di lei si disintegra. Le braccia di Al.

Nelle ore successive alcuni Medimaghi avevano esaminato il suo corpo e sentenziato che aveva subito uno Schiantesimo molto potente, da cui derivava la ferita alla testa, e un Oblivion scagliato quando aveva già perso conoscenza. Il coma era derivato dalla debolezza indotta dall’emorragia e dalla violenza dell’incantesimo con cui i suoi ricordi erano stati presi alla sua mente indifesa.
Li avevano informati che, non conscendo l’entità del danno, non si poteva dire quanto la memoria di Elena fosse stata danneggiata. Forse, avevano detto, avrebbe perso molti dei suoi ricordi.

Forse, aveva concluso Angelique, avrebbero perso Elena in ogni caso. E se si fosse svegliata e non avesse conservato i ricordi che la rendevano Nana, quelli di sua madre che custodiva gelosamente, quelli dei loro primi anni insieme, quelli della sua infanzia? Il solo pensiero la atterriva.

Tuttavia i medici avevano spiegato che il coma l’aveva salvata. Si trattava di una strategia disperata da parte del corpo per autoconservarsi, per abbassare le proprie funzioni fino quasi ad annullarle, per poter sopravvivere. Avevano quindi deciso di rafforzare lo stato di coma naturale con ulteriori incantesimi appositi per sedare Elena, dandole in questo modo la possibilità di riprendersi lentamente da ciò che le era stato fatto.

Elena dormiva, congelata a metà fra la vita e la morte, solo quando e se fosse stata pronta si sarebbe risvegliata. Loro nel frattempo la stavano attendendo.

In ogni minuto lasciato libero dalle lezioni era vegliata a turno dai giovani Serpeverde, anche da Octavius Goyle, che continuava a portare sul comodino di Nana merendine rubate ai ragazzi del primo anno, come ex voto. Merendine che si sbaffava sistematicamente Scorpius.

Guardando l’amica in quelle condizioni si chiedeva come fosse possibile che qualcuno l’avesse deliberatamente attaccata e lasciata a dissanguarsi in un corridoio, come se la sua vita non contasse nulla. Se non fosse stato per la visione di Martha, di cui non aveva voluto parlare con nessuno, Nana probabilmente non sarebbe sopravvissuta.

La scuola intera era stata scossa profondamente dalla notizia che una studentessa fosse stata aggredita senza apparenti ragioni. Molti genitori erano andati a colloquio dalla McGranitt, alcuni avevano perfino minacciato di ritirare i figli.

Le indagini su chi fosse l’aggressore non avevano dato alcun risultato significativo. L’esame delle bacchette condotto su tutti gli studenti della scuola per la positività sia all’Oblivion sia allo Stupeficium era stato un buco nell'acqua. Quasi che fosse stato un fantasma ad aggredirla.

Dopo sabato Martha era scesa in uno stato di mutismo e assenteismo esasperanti, che nemmeno le attenzioni e le premure di Albus riuscivano a spezzare. Sembrava che stesse continuamente pensando ad altro.

Lei invece non riusciva a darsi pace. Aveva scritto a sua madre raccontandole l’accaduto, chiedendole consigli su come poter aiutare la coscienza di Elena a riemergere dall’oblio in cui era caduta. Sua madre aveva risposto che non ci fosse molto da fare se non parlarle e restarle vicini, tenere vivo il legame flebile che ancorava Elena a loro.

Come aveva detto a Jessy quella mattina, quando l’aveva accompagnata nel Parco, ciò che restava nelle loro mani impotenti era solo la speranza. E le merendine di Octavius.

***

Se a undici anni gli avessero detto che un giorno avrebbe pianto per Elena Zabini, che le avrebbe portato un mazzo di fiori freschi, che si sarebbe persino premurato di leggerle un romanzo ad alta voce, avrebbe riso tanto da stare male. Invece nelle ultime due settimane aveva fatto tutte queste cose.

La conosceva da sempre vista l’amicizia tra i loro genitori, in particolare tra le loro madri, già allora era la più bassa e magra di tutti i bambini. Già allora battibeccavano come cane e gatto.

Ricordava i dettagli dei loro litigi, delle ripicche, di quanto lei lo contrastasse senza problemi, al contrario degli altri che accondiscendevano alle sue richieste. Elena anche a cinque anni non aveva peli sulla lingua e lui si ritrovava sempre con le spalle al muro quando aveva a che fare con lei.

Una volta arrivati ad Hogwarts e smistati nella stessa Casa, non era stato poi nemmeno così faticoso costruire un territorio franco per convivere pacificamente. Avevano stipulato una tregua più o meno bellicosa che passava attraverso frecciatine, battute, sarcasmo e patate arrosto, l’unico elemento su cui andassero d’accordo.

In quei giorni l’assenza di Nana lo aveva portato a comprendere che era davvero sua amica, non semplicemente perché facendo parte dello stesso gruppo si erano dovuti adattare per circostanza. Era sua amica e gli diceva in faccia ciò che nessun’altro avrebbe mai avuto il coraggio di dirgli. Era sua amica e stava lottando a nemmeno sedici anni per sopravvivere. Era sua amica.

Scorpius si alzò dal tavolo della biblioteca a cui stava fingendo di studiare, con un colpo di bacchetta rispedì allo scaffale di provenienza il libro di Trasfigurazione che aveva consultato.

Era una giornata infruttuosa, doveva semplicemente arrendersi all’evidenza dei fatti e tornarsene in Sala Comune a cercare qualcuno dei suoi amici con cui lamentarsi. Ovviamente in modo molto signorile.

Stava per uscire svogliatamente dall’aula studio quando un lampo rosso attraversò la sua vista periferica.

Voltò la testa inseguendo quel movimento e si ritrovò a fissare le ombre del corridoio formato da alti scaffali di mogano, su cui erano ordinatamente impilati i volumi di Incantesimi. Aggrottò le sopracciglia perplesso. Misurando i passi per non fare rumore, percorse l’aula studio fino a imboccare l’entrata ad arco di quella sezione.

Muovendosi di soppiatto, e sentendosi anche abbastanza stupido, superò il primo incrocio deserto, poi al secondo sbirciò con circospezione verso sinistra.

Rose Weasley era appoggiata con un certo abbandono al mobile di legno, la testa riversa indietro contro una colonnina, mentre i suoi occhi azzurri fissavano il soffitto, spalancati. La osservò meglio: respirava molto velocemente, come se avesse corso per arrivare fin lì.

“Che fai ti nascondi Weasley?” le chiese uscendo allo scoperto.

La ragazza trasalì con un mezzo urlo, soffocato quasi subito dalla propria mano contro la bocca. Scorpius le sorrise mentre lei riprendeva abbastanza contegno per rispondergli sferzante.

“Non direi proprio, invece tu non hai ancora perso il vizio di seguirmi a quanto pare.”

Si avvicinò e posò la spalla contro lo stesso mobile su cui anche lei si era sostenuta. “Visto che scappi in continuazione a me tocca l’ingrato compito di ritrovarti. In ogni caso con il colore di capelli che ti ritrovi non è proprio semplice passare inosservata. Ti si vede come un semaforo di notte.”

“Che hai contro i miei capelli?!” si infiammò immediatamente Rose.

“Nulla, li trovo bellissimi a dirla tutta.” Commentò Scorpius con un sorriso.

Gli occhi azzurri della giovane si spalancarono per il complimento inatteso e dalle sue labbra sfuggì un lieve: “Oh…”

Rose abbassò il viso verso il pavimento, in evidente imbarazzo. Solo dopo qualche secondo, con un profondo respiro, lo rialzò.

“Ho saputo di Elena Zabini, mi dispiace tanto. È una ragazza meravigliosa, non so come abbiano potuto farle una cosa così crudele. Come stai?”

Le sue parole, che sulle labbra di qualunque altra persona sarebbe sembrate solo mere formalità, giunsero dritte dentro Scorpius, con la forza della semplicità di cui Rose riusciva a permeare qualunque cosa la riguardasse. Lei, così pulita e diretta, gli concedeva il respiro libero che da giorni stava agognando. E si concesse di essere altrettanto diretto.

“Sono molto preoccupato e sotto pressione. E quando sono stressato mangio. Sto ingrassando per colpa di tutte le merendine che Goyle mi fa trovare sul comodino di Elena.” Borbottò ricordando quanti zuccotti di zucca si fosse fatto fuori il pomeriggio stesso.

La risata di Rose gli inondò le orecchie, si ritrovò a fissare il suo volto raggiante come un ebete. Le sue labbra ben disegnate e dolci erano dischiuse per lasciargli intravedere la fila perfetta di denti candidi, le sue guance spruzzate di lentiggini erano leggermente arrosate, ancor più irresistibili. Il desiderio di baciarla all’istante, cogliendo sulle sue labbra quella risata per farla propria, si fece intenso al punto che dovette conficcarsi le unghie nei palmi per riprendere il controllo.

“Vorrà dire che suggerirò ad Albus di farti correre di più agli allenamenti.” replicò Rose sempre sorridendo.

“Se continuiamo a restare senza Cercatore, potremmo tranquillamente convertire la squadra in un club di maratoneti.”

Rose si morse le labbra, ma non riuscì comunque a contenere del tutto la nuova risata.

“Angie verrebbe a farvi lo scalpo con un cucchiaino se lo sapesse.”

Anche Scorpius si ritrovò a sorridere per l’immagine assolutamente realistica di Angelique che li minacciava di morti orribili armata di solo cucchiaio.

Quando si ritrovarono a fissarsi in silenzio, estinto il barlume di allegria che li aveva coinvolti, l’imbarazzo dilagò. Restavano sospesi tra loro il bacio nel Parco e le parole con cui Scorpius l’aveva accompagnato, la consapevolezza di non essere più semplici conoscenti.

Nonostante la sua indole gli urlasse a pieni polmoni di non esporsi e continuare ad agire tramite i sotterfugi che gli erano congeniali, quegli immensi occhi azzurri piantati dritti nei suoi gli suggerirono tutto l’opposto.

“Senti Weasley, che fai la prossima uscita ad Hogsmeade?” si stupì che la sua voce fosse risultata tanto limpida, quando per l’agitazione la lingua subito dopo gli si era impastata al punto da incollarsi al palato.

Negli occhi di Rose si allargarono a dismisura illuminati e la sua bocca si spalancò, ma dopo pochissimo riprese immediatamente il suo contegno e gli rivolse un’occhiata dispiaciuta, che gli risucchiò il respiro dal petto.

“Io… Sono impegnata.” Mormorò fuggendo il suo sguardo.

Scorpius sentì il rifiuto bruciargli come se fosse stato acido lungo la gola e nel cuore.

“Immagino che anche se non lo fossi stata, avresti mentito in ogni caso.”

Nonostante fosse sua intenzione essere più educato possibile, la voce tradì una freddezza che non sfuggì alla Weasley, la quale lo guardò in modo molto più fermo di prima.

“Non ho tempo per…”

“Per cosa, Rose? Per divertirti? Per ridere come facevi poco fa? Per vivere?” sbottò esasperato dall’atteggiamento di lei.

Sembrava che volesse a tutti i costi imporsi una disciplina che non le apparteneva davvero. Sembrava ancora una volta che stesse cercando di fuggire.

“Per uscire con te.”

Per innamorarmi di te.

Furono le parole che lei non pronunciò, ma che si riverberarono tra loro comunque, a far desistere Scorpius. Per quanto fosse attratto da lei, per quanto desiderasse la sua compagnia, per quanto volesse risolvere l’enigma che lei costituiva, non aveva alcuna intenzione di farsi del male a quel modo.

Ne aveva già avuta una di ragazza incapace di ricambiare i suoi sentimenti, aveva già affrontato una volta il dubbio di non essere abbastanza per qualcuno. Non aveva alcuna voglia di ripetere l’esperienza.

“Ho capito. Non ti importunerò più.” Disse con voce calma e bassa, sperando che non tremasse quanto le sue mani.

Voltò le spalle alla ragazza ma quella lo rincorse subito afferrandolo per un braccio.

“Scorpius! Scusami, non volevo essere brusca, ma davvero non è un buon periodo…Mi dispiace.”

La mano della ragazza lasciò il suo avambraccio, sul suo viso comparve un'espressione di turbamento che quel contatto aveva suscitato. Lo rifiutava e poi lo rincorreva. Lo guardava come se non desiderasse altro che baciarlo ancora, ma non voleva uscire con lui. Lo esasperava.

Si mosse rapido per non darle tempo di ritrarsi, con un braccio le avvolse la vita e la premette contro il proprio petto, tenendola tanto vicina da poter contare le screziature degli occhi.

Qualcosa a metà fra un ansito e un verso di sorpresa irruppe dalle labbra di Rose e i suoi occhi azzurri lo guardarono, limpidi, ardenti, innocenti, colmi del suo stesso desiderio. Sentì il respiro fresco di lei accarezzargli le labbra e ricordò come fossero accoglienti.

Le accarezzò la guancia col pollice, posando poi il palmo aperto sul suo collo, dove percepì il battito furioso del cuore contro la pelle diafana. Rose si concedeva di liberare le proprie emozioni solo quando lui la intrappolava, come se avesse bisogno di una scusa, di un attenuante per ricambiarlo.

Lo esasperava decisamente.

“Continui a scappare Weasley. Continui a mentire.”

Studiò il viso di lei mentre le si avvicinava, i tratti che mutavano da tesi in estasiati, il mento che si sollevava per offrirsi a lui, le palpebre che calavano languide sugli occhi cerulei. Bellissima, tra le sue braccia, in attesa del suo bacio.

E la lasciò andare.

Rose barcollò destabilizza fino a trovare uno scaffale a cui si aggrapparsi. Lo guardò confusa, probabilmente anche ferita, ma Scorpius le rivolse un sorriso insolente.

“Non sottrarrò più il tuo tempo prezioso Weasley, visto che sei così oberata di impegni. Buona giornata.”

Questa volta si allontanò con passo deciso e mentre raggiungeva l’aula studio udì chiaramente:

“Cazzo!”

Non sarebbero andati a Hogsmeade insieme, ma comunque Scorpius uscì dalla biblioteca sogghignando.

*** 

Martha ripiegò la coperta sul letto di Elena, appena portata pulita e profumata dalle lavanderie, e si guardò attorno. L’ordine che regnava nella stanza era, a volte, più doloroso dell’assenza stessa di Elena, uno dei mille segnali che le gravitano attorno ricordandole che lei non c’era. Che forse non ci sarebbe più stata.

E Martha si lasciava flagellare da questi pensieri, lasciava che qualunque ricordo le si conficcasse così a fondo nella carne da perdercisi.

Evitava il contatto coi suoi amici e il conforto che ne sarebbe derivato, evitava ormai anche gli esercizi di Occlumanzia, in una consapevole punizione. Si sentiva come un involucro vuoto a cui non fosse rimasto altro che lo strazio, il senso di colpa per ciò che non aveva fatto.

Non aveva dato ascolto prima alle visioni che per mesi le avevano lanciato immagini e sensazioni inquietanti, tentando invano di avvertirla, non aveva ancora trovato il modo di controllare un potere che avrebbe potuto salvare Elena.

Non era riuscita a vedere in tempo ciò ce le stavano facendo per aiutarla.

Non riusciva nemmeno a spiegarlo agli altri. Dio solo sapeva quante volte avesse tentato di raccontare ciò che la prosciugava da dentro, ma ogni volta la sua gola si era serrata in una morsa e non era più riuscita a parlare.

Martha si sedette sul letto. Allungandosi verso il comodino di Nana prese tra le dita la pergamena posata lì sopra. Era uno dei carboncini bellissimi di Elena che ritraeva il Lago Nero attorniato dagli alberi, ma era ancora solo un abbozzo. Le linee di definizione delle sfumature si interrompevano chiaramente verso la metà del disegno, quando lei stessa probabilmente aveva minacciato Elena di fare i compiti o le avrebbe tolto il budino a cena.

“Adesso basta.”

La voce di Angelique la fece voltare di scatto verso l’ingresso della stanza. La ragazza avanzò con passo militare, seguita subito dopo da Albus, che con espressione mortificata chiuse la porta della camera.

“Vedi, te l’avevo detto che non dovevamo lasciarle tutto questo spazio per autocommiserarsi.” Sbottò Angelique mettendosi una mano sul fianco e indicando lei con l’altra.

“Oh certo! Invece la tua idea di metterle il Veritaserum nel tè era grandiosa.” Rispose a tono Albus.

Martha sbatté più volte le palpebre chiedendosi se fosse un’allucinazione, ma Al e Angie rimasero al loro posto davanti a lei.

“Ragazzi non capisco…”

“Strano, di solito è Albus quello che non capisce nulla… Non è standoci insieme ti immerluzzi anche tu?”

“Ehi!”

“Mi immerluzzo?” domandò perplessa Martha.

“Sì, diventi una merluzza. Comunque, spero tu ti sia goduta questi giorni di solitario dolore, ora basta. Sputa il rospo.”

Martha sentì la mandibola calare sotto il peso dello stupore. Non vedeva da molto tempo Angelique così vitale e dittatoriale. Tutta colpa di Potter…

“Quello che Angelique vorrebbe dirti è che sappiamo che c’è qualcosa che non va.” Iniziò Al umettandosi le labbra. “Tu non ne vuoi parlare, ma non puoi chiuderti in te stessa proprio ora. Abbiamo bisogno più che mai di affrontare questa cosa insieme. È da… Da quando abbiamo trovato Nana che non parli quasi più.” Aggiunse in un soffio e arrossì al ricordo di che cosa avesse preceduto la visione.

Martha si focalizzò su di lui e vide la rigidità della sua postura, il modo in cui le mani erano serrate in pugni, la tensione che emanava in modo tangibile. Tuttavia quando finalmente i loro occhi si incontrarono, Albus le rivolse uno dei suoi sguardi comprensivi, colmo di quella gentilezza che esprimeva nei gesti goffi, carico di speranza e di tenerezza.

Nel modo in cui la guardò trovò la forza per sciogliere il nodo enorme che le opprimeva il cuore.

Sputa il rospo.

Doveva loro la verità.

“Angie potresti andare a chiamare anche Scorpius e Berty, per favore?” si sentì chiedere.

Continuò a osservare Albus e gli sorrise, quando i suoi occhi verdi brillarono di felicità e di un pizzico di malizia.

Angelique pestò un piede per terra, comprendendo perfettamente che cosa fosse avvenuto in quello scambio silenzioso di occhiate.

“Ma come?! Sono io il capitano di questa spedizione, non posso essere declassata solo perché non ho un pene!”

Albus divenne paonazzo ma non interruppe il contatto visivo con lei.

“Angelique ci vediamo fra un quarto d’ora.” Confermò il ragazzo con tono deciso.

“Solo?”

“ANGIE!” urlò voltandosi verso di lei.

“Ok, me ne vado.”

La bionda alzò i palmi in alto in segno di resa e batté in ritirata verso l’uscita, proprio mentre Albus si sedeva accanto a lei.

“Merluzzi. Tutti e due.” La sentirono borbottare prima di sbattere teatralmente la porta.

Quando calò il silenzio tra loro si osservarono indecisi sul da farsi.

Come doveva iniziare? Da che punto esattamente della loro situazione ingarbugliata dovevano cominciare a chiarire? Poteva fregarsene delle conseguenze e stenderlo sul letto senza troppe remore?

Albus socchiuse le labbra, per parlare per primo, ma Martha istintivamente vi posò sopra le proprie dita delicatamente.

“Aspetta.” Sussurrò chiamando a raccolta quei pochi neuroni disponibili che le restavano essendo così vicina ad Al. “Lasciami parlare. Ho bisogno di dirti alcune cose.”

Lui annuì e Martha lasciò a malincuore la sua bocca. Quel tratto così dolce, quasi femmineo, del suo viso che le faceva andare in pappa il cervello…

“In questi giorni non ti ho evitato per quello che è successo prima della mia visione. Non sto bene per altri motivi. Voglio che sia chiaro.”

Albus annuì nuovamente, come un bambino diligente, attentissimo ad ogni sua parola o espressione.

“Quello che mi hai detto mi ha… ehm… parecchio stupita. So che eri sincero e mi dispiace di averti risposto in quel modo.” Un sorriso impertinente le inclinò le labbra al pensiero della faccia di sua nonna, la Duchessa Eugenia, se avesse saputo quale risposta aveva dato ad una dichiarazione d’amore.

“Però non mi fido. Non mi fido di me stessa, perché basta che mi guardi esattamente come stai facendo ora per dimenticarmi di qualunque cosa sensata… Smettila di guardarmi così!”

“Scusa.”

“E non mi fido nemmeno di te, perché sei sempre andato via, Al. Tu te ne sei sempre andato via.” Mormorò ricordando le mille schegge dolorose dei mesi passati pensando che lui non la ricambiasse. Il viso di Albus si incupì.

“Ma voglio imparare a farlo, lo voglio davvero. Quindi Albus dobbiamo fare le cose con calma, un passo alla volta.”

Si alzò in piedi per darsi un tono. E chiaramente per allontanarsi dal suo odore, che le stava facendo girare la testa.

“Quali cose?” chiese candidamente lui con occhi spalancati.

“Che ne so, le cose che fanno tutti! Tipo uscire, parlare, conoscerci...”

“Ci conosciamo da quattro anni.”

“Lo so, ma come amici, non come… ehm…”

“Coppia?”

“Esatto.”

“Va bene.” Disse Albus alzandosi a sua volta.

“Bene.” Decretò lei, cercando di ignorare il modo in cui Albus aveva ricominciato a guardarla, mentre si avvicinava.

Chissà quanti di quei minuti concessi ad Angie rimanevano ancora…

“Martha?”

“Mmm?”

“Posso baciarti? Con moltissima calma, si intende.”

Beh, d’altronde dovevano pur cominciare da qualche parte, no?

***

Quando Angelique bussò alla porta della propria camera, cercò di ignorare la dolorosa fitta di nostalgia che il dipinto di Antares lì sopra le suscitava ogni volta.

Le mani piccoline e agili di Nana che sferzavano col pennello il legno scuro, il sorriso ancora incontaminato dall’ombra della morte della madre che non avrebbero mai più rivisto, la felicità semplice e immensa del giorno in cui era nato Arthur Weasley…

Dall’interno della stanza provennero alcuni rumori attutiti e dopo qualche secondo la voce di Martha li invitò ad entrare.

Li trovarono entrambi in piedi e sospettosamente lontani. La linea perfettamente dritta della schiena di Martha, come se stesse portando una pila di libri sulla testa, e le guance rosse di Albus furono una dichiarazione di colpevolezza così palese che Angie alzò gli occhi al cielo. Li lasciava soli a parlare e quelli pomiciavano fino a consumarsi le labbra!

Come biasimarli d’altra parte, pomiciare era meraviglioso, faceva sentire leggeri come lanterne di carta pronte a volare via, elettrici e allo stesso tempo intorpiditi.

Angie si scambiò un’occhiata complice con Scorpius, il quale smise momentaneamente l’espressione cupa con cui lo aveva trovato in Sala Comune per assumerne una molto più sardonica.

“Martha ci hai chiamati a raccolta per spiegare finalmente ad Albus che la storia della cicogna è un falso storico?” chiese infatti col solito tono strascicato buttandosi sul letto di Angie.

Un cuscino colpì in pieno viso Malfoy e questi venne apostrofato da Al con un epiteto poco lusinghiero.

“No, in verità vi devo parlare della mia visione.” Disse lapidaria Martha.

Angie si accomodò accanto a Scorpius sentendosi improvvisamente molto meno leggera. Bertram invece si mise accanto all’oblò; quando era teso non riusciva a sedersi. Ad Angie sembrava di vederlo costantemente in piedi in quei giorni.

Berty aveva il viso di un incarnato tendente al grigio, su cui i riflessi verdi del lago lanciavano ombre cupe, tormentate. I suoi occhi nocciola, normalmente molto dolci ed espressivi, erano squarci scuri che rivelavano una disperazione così sottile e incessante da non dargli mai tregua. Li volse su Martha con un gesto lento del capo, stanco.

“Direi che hai la nostra attenzione, Prefetto O’Quinn.” Mormorò Scorpius mettendosi a sedere in modo molto più composto.

“È stata colpa mia.” Esordì la rossa con un’espressione contemporaneamente fiera e colpevole, come se si presentasse stoicamente al cospetto di un giudice per il proprio crimine.

“Senza nulla togliere ai tuoi possibili poteri divini, Martha, ma dubito che tu abbia il dono dell’ubiquità.” commentò Scorp sollevando un sopracciglio scettico.

Angie a volte si domandava come avesse fatto Scorpius a sviluppare quella capacità di linguaggio. Se lo figurava a sei anni a chiedere alla madre Astoria in quale alloggiamento avesse ubicato i suoi giocattoli per dilettarsi nel tempo libero.

“Non capite. È stata colpa mia perché avrei potuto vederlo molto prima. Avrei potuto salvare Elena mesi fa.”

I tratti da bambola si contrassero, prima che riprendesse a parlare con voce ferma come il granito.

“La prima volta che ho avuto una visione riguardante questa faccenda è stato a ottobre. Il giorno dell’anniversario della morte della mamma di Nana. Ti ho mentito Angie, ho mentito a tutti voi. Ricordavo e ricordo quello che vidi quel pomeriggio.”

Angelique ebbe un tuffo al cuore tanto violento da socchiudere le labbra per riprendere fiato.

La profezia.

Aveva avuto ragione a pensare che Martha sapesse cose che non voleva dirle.

“La seconda volta è stato in Sala Comune, quando Elena parlava di Divinazione. La terza è stata due settimane fa, mentre Nana veniva aggredita. Se solo avessi capito, se solo avessi imparato a gestire i flussi invece che bloccarli, avrei visto molto prima!” La sua voce aveva toni spietati, quelli di una condanna.

“E che cosa hai visto Martha?” chiese Albus, facendo risultare quelle parole intrise di gentilezza e dolcezza. Come solo lui riusciva a fare.

La O’Quinn chiuse gli occhi e la sua voce si ammorbidì notevolmente quando, immobile al centro della stanza, parlò.

“C’era sempre il fuoco, in tutte e tre. Un fuoco orribile, divoratore e spietato che faceva di tutto per prendermi. Dal fuoco emergevano figure scure, che gioivano di quella devastazione. A ottobre ho visto un corridoio buio, pieno di celle con sbarre incandescenti, e cadaveri. Cadaveri ammucchiati come spazzatura in un angolo. La seconda volta…”

La voce le si spezzò, così lei aprì gli occhi e li puntò su Angelique.

“La seconda volta, invece, c’eri anche tu Angie in una di quelle celle. Ho visto il tuo sangue sgorgare dalla pelle della tua schiena e tingere i tuoi capelli di rosso. Era un avvertimento che saresti stata colpita alle spalle mentre eri indifesa.”

Angelique si rese conto di star tremando quando sentì una mano di Scorpius afferrare la sua. La strinse forte. Tutto in lei si era congelato in un freddo innaturale e inquietante, penetrato nelle sue ossa insieme alle parole della sua amica.

“Due settimane fa ho capito che Elena era in pericolo perché qualcuno mi ha parlato.” Martha esitò per qualche istante guardandoli incerta. “Una donna è arrivata dopo quegli uomini, splendeva di luce bianca e ha spento il fuoco. Mi ha detto di salvarla, di salvare la sua bambina. Aveva gli stessi occhi di Nana.”

“Hai visto sua madre?” la voce di Scorpius era flebile.

Martha annuì. Mai come in quel momento ad Angie era sembrata fragile e potente della magia che le scorreva nelle vene.

“Sua madre mi ha detto dove andare. L’abbiamo trovata in quel corridoio solo perché sono stata guidata, ho percepito la sua presenza anche mentre ero vigile.”

“Non avevo idea che potesse succedere una cosa simile.” Sussurrò Albus.

“Ormai è un po’ di tempo che studio le tecniche di divinazione, cercando un modo per controllare i miei poteri. Leggendo quei libri ho incontrato più di una volta riferimenti all’evocazione dei morti. Si sfruttano le tracce che essi lasciano sulla terra, sono come delle orme della loro energia che vengono manipolate per richiamarne altre e altre ancora, finché non si plasma in un’entità abbastanza solida per interagire con essa. È Magia Nera, potente, imprevedibile, pericolosissima se l’evocatore non è più che esperto. Ma sono sicura che non sia il caso della mamma di Elena. Non l’ho richiamata io, è venuta lei da me e non so come sia possibile.”

Il silenzio scese su tutti, troppo scioccati per dire qualunque cosa sensata.

“C’è qualcos’altro?”

Alla domanda gentile di Al, Martha scosse il capo.

“Ci sono solo sprazzi, frammenti incoerenti con tutto il resto. Sono tutti presagi, tutte le mie visioni parlano di oscurità, ombre e terrore. Capite perché è colpa mia? Se solo avessi lasciato che il flusso di magia si liberasse prima, ora Nana non sarebbe in fin di vita.”

Angie capì che Martha non voleva accettare alcun tipo di clemenza. Voleva anzi il riconoscimento dei suoi peccati.

Invece loro le avrebbero offerto l’assoluzione senza alcuna esitazione.

“Forse, ma probabilmente saresti morta tu. Ho visto come ti ha ridotta la prima di queste visioni, Martha. Non oso immaginare che cosa sarebbe successo se avessi lasciato spalancate le porte della tua mente, lasciando la visione a farsi un giretto tra i tuoi neuroni. Non sei stata tu a fare del male a Elena. Non è colpa tua.” Angie riuscì a tirare fuori le parole, nonostante la voce arrochita dallo shock che le graffiò la gola.

“E invece sì!” sbottò Martha afferrandosi angosciata i capelli, i rossi viticci che rispecchiavano quanto mai la sua anima confusa e splendente.

Berty si fece avanti prima degli altri e con fermezza le districò le mani, prendendole nelle proprie.

“No. È colpa di chi ha scaraventato Elena contro un muro, abbandonandola in quel corridoio. È colpa di chi le ha rubato i suoi ricordi. Tu l’hai aiutata, Martha. Smettila di farti carico di cose che non ti appartengono.”

L’assoluzione, per essere completa e catartica, doveva provenire dalla persona giusta, rifletté Angie. Da chi aveva parole semplici per esprimere grovigli emotivi, da chi li proteggeva silenziosamente e con lealtà da sempre, da chi stava perdendo l’altra parte della sua anima. Da Berty, l’angelo custode.

“Perché ho questa cosa, se non posso aiutare nessuno? Perché serve solo a rendermi debole?” domandò Martha mentre i suoi occhi scuri si riempivano di lacrime.

“Non sei debole Martha. Sei una delle persone più forti che abbia mai conosciuto. Tu trasformi il tuo dolore in bellezza e ne riempi il tuo mondo, il nostro mondo.”

Berty le lasciò andare delicatamente le mani. Martha si asciugò gli occhi, da cui cadevano una dopo l’altra lacrime liberatorie, come una pioggerella leggera sulle sue guance. Dopo qualche istante di silenzio si Al si alzò e la affiancò.

“Ci deve essere un motivo se ti sono state mandate queste visioni e sono sicuro che ci sia un motivo se qualcuno ha attaccato Elena. Noi scopriremo il perché. Insieme.” Le disse deciso prendendole una mano e baciandole il dorso. Martha gli sorrise attraverso le lacrime.

Quel gesto fece sorridere anche Angie, che si sentì investita da una strana gioia. Una sorta di sorriso che spuntava anche in mezzo alle lacrime, come quello di Martha, derivante dalla forza di ciò che c’era di bello e di vivo nel mondo, ciò che trovava la forza di emergere anche quando c’erano tante, troppe ombre di disperazione all’orizzonte.

Insieme.

La stessa bellezza di una mimosa che rifioriva ad ogni primavera nonostante l’inverno crudele e la neve gelida, di quei fiori che sentiva germogliare dentro di sé nonostante il dolore.

Perché quando giungeva il momento nessuno poteva fermare la pianta che doveva rifiorire. Nessuno poteva negarle il diritto ai suoi fiori.

Passò qualche istante di calma rarefatta, dopo di che Scorpius prese parola.

“Quindi ora state insieme voi due?”

La risposta fu un altro cuscino dritto sulla faccia ghignante di Malfoy.

***

Benji uscì dal suo ufficio stiracchiandosi indolenzito.

Aveva passato tutto il pomeriggio alla scrivania a controllare carte, ripercorrere gli spostamenti dei suoi uomini e programmare nel dettaglio lo scambio del sabato successivo. Le Menadi al completo si sarebbero coordinate coi suoi per consentire la massima efficienza.

Dal piano sottostante provenivano i rumori discreti dei primi avventori, quel cicaleccio confortante che gli riempiva le orecchie e gli consentiva di perdersi nei propri pensieri.

Era teso sin da quando le amiche di Lucy si erano presentate alla Taverna delle Lucciole e gli avevano rivelato i loro timori. Non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che Lucy fosse in pericolo, che fosse tutta colpa sua, per averla coinvolta in una relazione che aveva fatto abbassare a entrambi la guardia.

Perché l’amore che provava per lei lo spogliava dei sotterfugi con cui si era abilmente nascosto per tutta la vita e che lo avevano protetto. E Lucy gli aveva concesso sé stessa con pari intensità, senza risparmiare nulla, senza tirarsi indietro mai.

Si erano disarmati per smettere di ferirsi, si erano abbandonati tra le braccia dell’altro pensando che nessun posto fosse più sicuro e si erano distratti.

Benjamin si passò una mano sugli occhi stanchi stropicciandoli leggermente e scese gli ultimi gradini della scala, entrando nello spazio buio prima dell’arco che conduceva alla Taverna.

Udì la risata squillante di Tyra e anche quella di alcuni dei suoi uomini, alzò il viso pronto a sentire le battute di pessimo gusto o gli argomenti scabrosi che costituivano i loro dialoghi, e si arrestò nella penombra, col fiato sospeso.

Lucy, seduta al tavolo tra Tyra e il Guercio, stava ridendo coprendosi la bocca con la propria mano. I suoi corti capelli rossi erano come un papavero in mezzo a un campo di grano, ondeggiavano leggeri nei movimenti della testa, si riflettevano come fuoco tra tutte le altre teste anonime. Non poteva vederli da così lontano, ma era sicuro che i suoi occhi scuri scintillassero nelle luci soffuse della taverna, profondi quanto le ombre che la costituivano.

Come avrebbe mai potuto difendersi da qualcuno che lo sbaragliava senza nemmeno rendersi conto della forza con cui gli rubava il respiro? Come avrebbe potuto rifiutare tutto quello?

Che Dio avesse pietà della sua anima, se non era riuscito a non innamorarsi di lei con ogni brandello del proprio cuore.

Lucy fu la prima a intravederlo nell’ombra del suo rifugio. I suoi occhi si addolcirono per salutarlo, prima che la sua espressione assumesse un’espressione irriverente e si accomodasse meglio sulla sedia, sfidandolo a interrompere anche quella volta la sua conversazione con Tyra.

Immaginò le proprie mani sulle sue gambe bianche e lunghe, immaginò la propria bocca sulla pelle del suo ventre, le unghie di lei che scavano solchi nelle sue spalle… Sorpassò l’arco di muratura ed entrò nella Taverna, restituendole uno sguardo in cui cercò di imprimere tutto il desiderio che in quel momento gli stava torcendo le viscere. Lucy lesse chiaramente il suo viso e dischiuse le labbra arrossendo, mentre anche lui si accomodava al tavolo proprio di fronte a lei.

“Oh sei già qui, che peccato! Speravo di poter tenere Lucy per me ancora per un po’.” Tyra assunse uno dei suoi bronci collaudati, di quelli che di solito convincevano gli uomini a rimanere per il doppio del tempo in sua compagnia, pagando il quadruplo.

“Non ho mai conosciuto nessuno che mi facesse sentire ben accolto come te, Tyra.” ribatté lui.

Si allungò verso Lucy e le rubò il bicchiere di Firewhisky. Con quel gesto le sfiorò volutamente le dita, riconoscendo il lampo che attraversò gli occhi scuri, il desiderio di trattenerlo e di sentire ancora il suo tocco. Ciononostante lei non mosse nemmeno un muscolo, anzi inarcò un sopracciglio contrariata per il furto del suo whisky.

“Di che parlavate?” chiese dopo aver bevuto un sorso dal bicchiere di cristallo.

Allungò le gambe in un gesto casuale, rilassandosi contro lo schienale della sedia, e sentì vicino ai propri piedi le caviglie di Lucy.

Le caviglie sottili che aveva sentito infinite volte incrociarsi alla base della propria schiena, per trattenerlo, per consentirgli di affondare ancor di più dentro di lei.

“Oh stavo raccontando a Lucy un paio di cosette sul tuo conto…” Tyra si strinse nelle spalle con fare innocente.

“Quindi posso fare altrettanto?”

Tyra emise un verso oltraggiato. Lui continuò a rivolgere la propria attenzione alla donna, ma nel frattempo accarezzò col collo del piede il polpaccio di Lucy. Lei si raddrizzò sulla sedia e lo guardò con gli occhi assottigliati, in una muta minaccia di restituirgli la pariglia appena possibile.

“Non so proprio come faccia a sopportarti questa povera ragazza.” esclamò Tyra alzando altezzosamente il naso.

“Lucy ti vuoi fermare a cena? Cucina Anthony, è bravissimo a fare le polpette.” mentre Oswald parlava il suo occhio sano si era letteralmente illuminato di speranza. Uno spettacolo teneramente raccapricciante.

La Ragazzina lo guardò. Nei suoi occhi non c’era la minima richiesta o necessità di consiglio, anzi semmai si scorgeva in essi la sfida aperta. Gli domandava silenziosamente se avrebbe fatto un’altra scenata oppure se avrebbe declinato con garbo. Lucy lo aspettava al varco sicura della sua reazione.

Ma se Benji da un lato peccava di impulsività tipicamente latina, dall’altro era sempre stato molto bravo a imparare dai propri errori.

Qualunque vincolo significava per Lucy strenua opposizione e guerra senza quartiere. La Ragazzina andava lasciata libera, per ritrovarla ancora più vicina a dove l’aveva lasciata.

“Ti fermerai Lucy?” Adorava pronunciare il suo nome, quella manciata di lettere che racchiudevano in sé sia suoni cupi che chiari, ombre e luci in armonia, come lei. Le sorrise al pensiero di vederla a tavola con Darren che ruttava e il Bruschetta che osservava affasciato i vetri dei bicchieri.

“Sì.”

Benjamin osservò il viso raggiante della sua Ragazzina mentre tutti attorno esultavano entusiasti. Pensò quanto fosse connaturato a lui amarla, la cosa più semplice del mondo nonostante si scontrassero spesso, spessissimo. Pensò che pur di sentire dalle sue labbra quell’unico monosillabo, ripetuto all’infinito, avrebbe fatto qualunque cosa.

E seppe da come lei lo guardò a sua volta, che anche se non glielo avrebbe mai detto, Lucy lo amava.

***

James pensò che Angelique avrebbe fatto esplodere l’intera aula per la frustrazione.

I suoi occhi dal taglio a mandorla guardavano con un tale odio la propria bacchetta che il giovane temette di vederla andare a fuoco.

“Gigì…”

“Non dire nulla, Potter. Non dire nulla di gentile o di confortante.” sibilò lei, poi prese lo slancio e diede un calcio ad un banco, facendolo ribaltare a terra con un gran baccano.

Respirava affannosamente, cercando di far rientrare nei ranghi quella rabbia che emanava come elettricità nell’aria.

Erano fermi da tre lezioni sulla trasfigurazione dei capelli e Gigì, che aveva fatto ottimi progressi nella trasfigurazione classica, non riusciva a eseguire correttamente gli incantesimi. Una volta sbagliava la lunghezza, un’altra il colore, un’altra ancora non riusciva a farli tornare del suo consueto color grano. Come in quel momento in cui aveva un caschetto di capelli rosso intenso.

“Beh, in realtà potresti considerare un cambiamento permanente, Dursley. Stai bene rossa.” James si chinò per raccogliere il banco e le lanciò un sorriso sghembo.

Le sue spalle si rilassarono all’improvviso, come se fosse stata un palloncino bucato.

“Se rimanessi così, potrei passare per la sorella stupida di Rose.” borbottò Gigì sedendosi su un altro banco.

James afferrò la propria bacchetta.

“Posso?”

Angelique sospirò e annuì con aria malinconica. In un secondo i suoi lunghi ricci biondi tornarono a coronarle il capo come la soffice criniera di un leone. I capelli, che anche a quella distanza profumavano di lavanda, gli facevano venire un desiderio spasmodico di passarvi le dita in mezzo, rendendo ancora più selvaggio il loro aspetto.

“Forse dovrei semplicemente rinunciare. Forse questo è un segno che non posso diventare Medimaga, che sto solo gettando via energie e tempo e li sto facendo sprecare pure a te.”

Le sue parole furono lievi, come se fosse sfuggire dalle sue labbra insieme al respiro. Gli occhi erano distanti e privi di espressività, ricordavano in modo preoccupante l’aspetto che Angelique aveva avuto sul volto nel periodo orribile tra Gennaio e San Valentino.

“Che cosa c’è che non va? Perché ti risulta tanto difficile?”

Gigì voltò il viso verso di lui. L’aveva vista truccata e vestita in modo da sembrare perfetta quanto un dipinto, eterea persino. Ricordava mille altri momenti in cui la felicità l’aveva resa radiosa, eppure mai come in quell’istante gli parve bella.

Bella con le spalle ricurve, con il viso eburneo e teso dalla stanchezza, con le mani contratte, con la camicia fuori dalla divisa, bella con le labbra martoriate.

Così bella che gli fece male, del dolore antico e consolidato che era intrecciato alla presenza di lei.

“Sono stanca, James.”

Doveva essere già successo che lo chiamasse col suo nome intero, doveva per forza nel corso di quei cinque anni, quindi non capì perché quell’unica parola gli fosse affondata nella carne fino a raggiungergli il cuore e farlo fermare.

James.

Non riusciva a ricordarsi di un’altra volta in cui lo avesse pronunciato con tanta dolcezza.

Era davvero stanca, notò. Non di quella stanchezza che con un paio di giorni di ozio avrebbe potuto recuperare. Era quella che si insinuava sotto pelle e germogliava fino a lasciare senza più nulla. Quella che rischiava di riportarla indietro, verso il vuoto in cui Angelique aveva la tentazione di lasciarsi andare da quando lo aveva sperimentato la prima volta.

Non glielo avrebbe permesso.

James balzò in piedi e la prese per un polso, obbligandola a fare altrettanto.

“Vieni con me.”

***

“Guido io.”

“Manco morta. Guido io!”

“Solo tu puoi porre condizioni in momenti in cui dovresti solo ringraziare.”

“Se solo avessi capito che cosa volevi fare sarei passata dal dormitorio e avrei preso la mia Winterwind. Così ora non dovremmo litigare su chi debba guidare.”

Gli occhi di James si assottigliarono sospettosi.

“Com’è possibile che tu abbia una Winterwind?”

Angelique si morse la lingua, imprecando mentalmente. Litigare con Jessy le veniva talmente bene che si dimenticava delle delicate architetture di bugie su cui si reggeva la segretezza delle Menadi.

Fece le spallucce e lo guardò dritto in viso, ricordando le parole di Roxanne.

Quando menti, guarda sempre negli occhi.

“Avevo dei soldi da parte.”

“Gigì, non prendermi per il culo. Quello è un manico di scopa fatto su misura e in edizione limitata. Per la Winterwind non bastano un po’ di soldi, servono un mucchio di galeoni.”

“Davvero? Pensavo bastasse sorridere e sbattere le ciglia per ottenere tutto.”

“Quello funziona solo se sei Dominique.”

“Sono dolente di non rientrare in questo parametro. Ora, vuoi continuare a cincischiare o mi lasci salire?!”

“No. Visto che stiamo parzialmente infrangendo il divieto della Chips di farti volare, per lo meno voglio fare in modo che tu sia al sicuro.” disse ostinato allontanando dalla sua portata il suo manico di scopa.

“Ma sto benissimo! Per favore Jessy, per favore lasciami guidare.”

Angie gli rivolse uno degli sguardi lacrimevoli che aveva imparato da Estelle, quelli che solitamente la facevano sentire un mostro per non averle dato i biscotti, come se le stesse negando la sua unica ragione di vita.

Il campo da Quidditch attorno a loro era illuminato dalla luce del sole calante, le alte torri decorate con gli stendardi delle quattro case erano investite dai raggi aranciati del tramonto.

Potter distolse lo sguardo da lei e parve riflettere un attimo facendo scorrere le sue lunghe dita sul manico della scopa. Aveva delle belle mani, grandi e affusolate, su cui le vene del dorso di diramavano in percorsi articolati.

“Va bene, piccola vipera. Ti avviso, al primo segno di stanchezza torniamo a terra.” la minacciò con l’indice a pochi centimetri dal viso.

Angelique esultò saltellando e pregustò la vertigine del volo. Le era mancato da morire volare. Il fatto che Jessy avesse deciso di farle quella sorpresa le aveva fatto dimenticare tutta la pesantezza di quella giornata.

Acchiappò la scopa dalla presa di Potter e con una risata si mise a cavalcioni, aspettando che la imitasse. Lui scosse la testa incredulo per poi mettersi dietro di lei.

Le mani di James afferrarono i suoi fianchi. Le si fece vicino tanto da sentire i contorni del suo petto contro la propria schiena, i rilievi dei muscoli sotto al maglione, il calore che emanava come una stufa a legna. La bocca dello stomaco le si chiuse sentendo quanto le dita di lui riuscissero a circondarla senza sforzo, immaginando un attimo dopo come potesse essere sentirle sulla propria pelle.

“Che c’è non ti ricordi più come si fa?” le mormorò all’orecchio sbeffeggiandola. Il suo respiro era una brezza tiepida contro l’aria pungente della sera; pur non vedendolo percepì il suo sorriso strafottente dal tono della voce. Sorrise a sua volta.

Si diede una spinta molto più energica del necessario, così che la scopa schizzò verso l’alto in linea perfettamente verticale. Jessy imprecò e si aggrappò ancora di più a lei per non perdere l’equilibrio. Lei scoppiò a ridere euforica.

Angelique attese di essere ad un’altezza adeguata prima di volare davvero.

Il manico di scopa di Jessy era di ottima fattura, rispondeva rapido e sicuro nonostante il carico doppio, si manteneva stabile quando accelerava. Il corpo di Potter vicino al suo era quasi un appiglio nell’ebrezza del volo. Non le era mai capitato di salire in due su una scopa, eppure notò come si coordinassero alla perfezione, senza scatti o disarmonie nei movimenti.

Girarono attorno alle tribune, si lanciarono in picchiata sentendo il vento sferzare le guance, zigzagarono tra gli anelli, mentre il sole calava definitivamente oltre la linea dell’orizzonte lasciando dietro di sé la linea rossa del crepuscolo.

Angelique rise insieme a James per l’esaltazione di sentire l’aria gonfiarle i capelli e scuoterli come le chiome degli alberi della foresta. Chiuse gli occhi godendosi la sensazione unica di leggerezza che solo volare sapeva donarle. Aprì le braccia a un certo punto immaginandosi di potersi librare come Antares oltre quel campo, oltre le nuvole, finalmente libera.

Non seppe quanto tempo passarono sospesi in quella bolla di aria profumata di primavera e di luce morbida, solo a un certo punto notò che dove prima predominavano l’arancione e il rosa degli ultimi raggi era ormai diventato di un azzurro cupo, la tonalità che precedeva l’arrivo della notte.

Inspirò lentamente, mentre faceva rallentare la scopa fino a farla planare dolcemente, fluttuando nella sera. La sua testa si reclinò spontaneamente indietro rilassata e incontrò la spalla di James, urtandola.

“Oh scusami.” esclamò raddrizzandosi subito, ma il palmo caldo di James le circondò la nuca. Come facesse ad avere sempre le mani calde era un mistero.

“No, rimani. Non preoccuparti.” la sua voce era pastosa, melodica persino.

Angie, talmente in pace col mondo, talmente felice per quel volo inaspettato, si lasciò andare e posò la testa contro la sua spalla. La mano di Jessy la abbandonò delicatamente e quasi ne provò dispiacere.

“Dovremmo ritornare Gigì.” mormorò lui.

“Dovremmo, ma non vogliamo.”

“Ancora un minuto.”

Solo quando toccarono terra, smontando entrambi dala manico di scopa, Angie poté voltarsi verso di lui. Vide che quel giro serale gli aveva spettinato ancor di più di capelli, che le sue labbra piene avevano una piega rilassata e le sue guance erano arrossate per il freddo.

Rimase immobile sotto lo sguardo che lui le rivolse.

Lo stesso di quando in infermeria lo aveva medicato, quello che le fece sentire un vago intorpidimento lungo le gambe e caldo, caldo dovunque.

“Grazie, Jessy. Grazie di tutto.” Si rese conto di avere la voce roca.

Jessy non le rispose.

Si chinò su di lei e le avvolse una guancia con la mano sinistra, quella con cui tirava la pluffa e da essa resa leggermente callosa. La colse di sorpresa depositando un bacio sull’altra guancia, morbido e delicato come non si sarebbe mai aspettata.

Il contatto con le sue labbra bollenti le fece balenare per la testa la voglia di voltarsi, di saggiarlo con le proprie, dischiudere con la lingua e esplorare la sua bocca, senza alcuna gentilezza. Ebbe voglia di trattenere tra i denti la carne tumida del suo labbro inferiore, così irresistibile, così…

Si voltò di scatto e si dileguò velocemente dal campo da Quidditch. Appena riuscì a ripararsi tra i basamenti delle tribune si appoggiò al legno di una delle travi, vi si aggrappò come una naufraga.

Il cuore le batteva come un tamburo da guerra nel petto, sentiva il rombo del sangue nelle orecchie, le gambe erano malferme e il suo stomaco era ridotto a una nocciolina. Si passò sconvolta una mano sul viso, interpretando le emozioni.

Era attratta da Jessy.

Porca vacca, era attratta da James Potter!

Doveva correre da Martha.

 

Arriva la Primavera e con essa il miracolo della fioritura.

Fiori che caricano i rami, fiori a grappoli, singoli e opulenti, piccoli e delicati, di tutti i colori immaginabili. Fiori che incoronano le frasche lussureggianti dei parchi e dei boschi. Fiori che colorano il mondo, fiori che potranno dare frutti e nutrire altri. I fiori che sono il principio di tutto e che per gli stolti sono solo ornamento.

Il fiore è essenza.

E non importa quali tragedie possano colpire il tuo albero, impara a curare le tue radici, impara a dare loro il giusto nutrimento ed esse terranno salda la tua vita su questa terra. Non importa quanto duro possa essere l’ inverno.

La vita vede oltre la morte delle cose.

La vita è più forte.

L’albero rifiorisce.

 

Note dell’autrice:

Sono molto legata a questo capitolo, forse perché Rifiorire è il motto della mia esistenza e trarne un capitolo intero non è stato semplice.  O forse perché l’ho scritto quando dovevo ripetermi questa parola come un mantra tutti i giorni, per ricordarmi che, anche quando fa male, questa vita è mia e mia soltanto.

Credo nella bellezza che deriva dal dolore, credo nella forza di riscattare il proprio retaggio buio e nefasto, credo nella speranza di poter fare la differenza.

Vorrei ringraziare come sempre chi ha recensito lo scorso capitolo: Cinthia988, umaroth, leo99, vale_misty e Rarity 94. Grazie davvero, siete fantastiche.

I miei ringraziamenti sono rivolti anche a tutti coloro che leggono silenziosamente la storia.

Vi abbraccio.

Bluelectra.

  
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