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Autore: Damnatio_memoriae    22/02/2018    5 recensioni
Andrea è una studentessa che ama scrivere.
Vittoria è una studentessa che ama leggere.
Sembra già tutto preparato a tavolino e lo sarebbe ancora di più se entrambe si rendessero conto di chi è la persona che hanno vicino. Ma fraintendersi è facile, troppo facile, e le parole possono far male, soprattutto quelle scritte. Sono gli opposti che si attraggono o i simili che si pigliano?
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Universitario
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On my own
 
Capitolo VI
 
Every little thing that I’ve know
Is every thing I need to let go
You’re so much bigger than the world I’ve made
 

Andrea scrisse in stampatello minuscolo, sui margini lasciati vuoti del libro di Arte, qualche dialogo che sperava le sarebbe tornato utile quando si sarebbe finalmente decisa a completare il capitolo che aveva iniziato più di una settimana prima.
 
«E così…» le sussurrò Sasha quando Noemi si sedette al fondo del suo letto. Fuori dalla stanza che era stata preparata per lei, gli infermieri si affannavano per i corridoi trasportando barelle e spingendo carrozzine, mentre i dottori leggevano le cartelle cliniche dei loro pazienti «Tu saresti una mia amica».
«Così parrebbe» le rispose, strofinandosi i palmi delle mani nel tentativo di scaldarle «Ma non ne sembri affatto convinta».
«Scusami. È che oggi sono venute davvero molte persone a trovarmi…» le venne spontaneo guardarsi intorno, circondata com’era da vasi e mazzi di fiori.
«Si, lo vedo». Noemi seguì il suo sguardo con fare contrariato.
«A quanto sembra sono amica di parecchia gente».
«Già…» provò ad assecondarla senza riuscire a mascherare il suo contrariamento.
«Che c’è?».
«Nulla».
«Guarda che ti vedo».
«Abbiamo un’idea dell’amicizia molto differente, io e te».
«Illuminami».
Noemi posò lo sguardo prima su Sasha, poi sulla profusione di rose, margherite, gigli che facevano odorare quella camera come un vivaio, quindi di nuovo sulla ragazza. «Tu odi i fiori» spiegò semplicemente «E il freddo. E il vento. E la montagna. Non mangi nessun tipo di verdura, sei allergica alle arachidi, alle noci e alle nocciole. Ti piace l’acqua frizzante, ma tua madre continua a comprare quella naturale. Porti sempre con te il franco che tuo nonno ti ha regalato quando è tornato dalla Svizzera e non esci di casa se prima non hai controllato di averlo nel portafoglio. Hai preso la patente l’anno scorso e hai fatto tre errori all’esame di teoria, ma agli altri hai detto di non averne fatto nessuno. Non sopporti l’odore del sigaro, né quello della pipa. A volte bevi, ma non reggi molto l’alcool, quindi cerchi di farlo con moderazione. Non vedi bene da lontano ma ti ostini a portare gli occhiali solo quando sei a casa, perché dici che ti stanno male» si strinse le mani nelle mani «Anche se non è vero. Ti piace leggere, riesci a studiare con la televisione accesa e guardi male quelli che al bar ordinano caffè d’orzo. Vuoi fare l’architetto, ma da piccola volevi diventare poliziotto.  Dici sempre di volerti iscrivere in palestra ma non lo fai mai. E poi…» la voce le si incrinò. Due rughe le si formarono agli angoli della bocca quando provò a trattenere il pianto.
«E poi?».
«E poi continui a chiamare amici quelli che ancora ti portano i fiori. E non ti ricordi di me, anche se io ricordo tutto di te. Troppo di te».
 
Seduta alla cattedra, la professoressa Amatuzzi dettava ai suoi studenti qualche cenno biografico per contestualizzare l’attività del Verrocchio, ma Andrea quel giorno non riusciva proprio a mantenere la giusta concentrazione per prendere appunti.
Non poteva farsene una ragione. Ancora non si capacitava di quello che le aveva detto Vittoria e le sue parole le rimbombavano nella mente riempiendola di dubbi.
Perchè aveva dovuto farle tornare in mente Claudia? Che cosa c’entrava con loro? Era convinta di essere riuscita a confinarla nell’angolo più remoto della sua coscienza, di aver tenuto debitamente sottochiave tutti i ricordi che la riguardavano; era riuscita ad imporsi di non pensarla, di non cercarla, addirittura di non sognarla e ci era riuscita! Ci era riuscita così bene da sentirsi quasi orgogliosa della sua forza d’animo.
Davvero un grande risultato. E una immensa fatica.
Poi Vittoria le aveva detto che Claudia si trovava in ogni suo personaggio e tutto si era ridotto in nulla. Nessun risultato se davvero, quando scriveva, la pensava. Nessun risultato se davvero, quando scriveva, ne metteva nero su bianco i ricordi. Nessuna guarigione se davvero, quando scriveva, la raccontava.
Ora non riusciva più a provare diletto nel fare quello che le era sempre piaciuto. E, d’altronde, come sarebbe stato possibile se ad ogni riga doveva fermarsi per chiedersi se davvero Claudia le avesse mai fatto o domandato quello che Sasha stava facendo o domandando a Noemi?
Forse Claudia era veramente una pallottola, come l’aveva sempre immaginata. Una pallottola senza un foro di uscita. Perché alcune persone ti rimangono dentro, come i bossoli nel petto dei soldati da telefilm. Si incastrano tra i muscoli, scavano a fondo e fanno infezione. E non ha poi molta importanza se ci guarisci o se ci muori: continui a portarteli dentro.
Estrasse con cautela il cellulare dallo zaino, prestando attenzione che né il suo compagno di banco né la professoressa potessero coglierla in flagrante. Sfogliò le immagini alla ricerca dell’ultima immagine della galleria, l’unica foto – in mezzo a tante – che ancora non era riuscita a cancellare e prima ancora di vederla a schermo intero sentì un nodo prenderla alla bocca dello stomaco. Strano come a certe cose non ci si abituasse mai.
L’arrivo di un messaggio la distrasse dai suoi pensieri e il breve testo di quel whatsapp si sovrappose alla foto che per troppo tempo Andrea aveva inutilmente utilizzato come sfondo.
 
  • Solito posto. Ti aspetto. Non sarebbe educato farmi aspettare.
 
Andrea alzò gli occhi al cielo, oscurò lo schermo e rimise il cellulare al suo posto. Si sedette più compostamente sulla sedia, costringendosi a prestare attenzione almeno per quella manciata di minuti che rimanevano prima del suono della campanella, ma inutilmente.
Alzò la mano, attendendo che l’Amatuzzi le desse la parola.
«Si, Della Torre?».
«Scusi, non mi sento troppo bene. Potrei uscire?».
 
Vittoria appoggiò la schiena alle piastrelle fredde del bagno, impaziente. Si rigirò tra il pollice e l’indice l’ultima sigaretta del suo pacchetto, proprio quella che si era conservata per tutta la mattinata in vista dell’ultimo intervallo e che, lei già lo sapeva, non sarebbe durata tanto.
Tra sé e sé, mentre la accendeva, pensò che prima o poi avrebbe dovuto farla finita con le marlboro, ma di certo non sarebbe stato quello il giorno.
Dopo la prima boccata – sempre la più soddisfacente – si sentì subito meno irritabile e nervosa, ma ancora il fastidio che aveva provato non sembrava volerla lasciar andare.
Il cellulare, immobile nella stretta tasca dei jeans, vibrò e Vittoria, sbuffando, lo afferrò bruscamente, sospettando già l’arrivo – insieme al messaggio di Giorgio - di un brutto mal di testa. A malapena lesse le prime parole, senza nemmeno prendersi la briga di visualizzare il testo completo prima di cancellarlo.
Ormai erano settimane che Giorgio le sembrava più ripetitivo di un disco rotto, sempre pronto a ricordarle – anzi, a intimarle – di prepararsi adeguatamente per il test d’ammissione, come se da quella università, per quanto rinomata e all’avanguardia, ne dovesse dipendere la sua intera esistenza. Anzi, la loro intera esistenza. Mai un pronome era riuscito a darle così tanto l’orticaria.
“Lo faccio per noi”, “Non vuoi stare insieme a me?”, “Non voglio che sprechi un’opportunità”, “Ne va della tua carriera”, “E’ quello che hai sempre voluto fare”, “Non ti stai impegnando”.
Che i suoi genitori fossero dello stesso parere di Giorgio era una cosa che aveva imparato a prevedere (un po’ meno ad accettare). Ma che la stessa erba l’avesse mangiata anche Matteo – proprio lui, l’amico di una vita, quello che avrebbe sempre dovuto supportarla e indicarle una via d’uscita – no, era intollerabile. Avrebbe preferito che lui e Giorgio avessero continuato tacitamente a detestarsi, perché adesso che facevano fronte comune lei si sentiva isolata.
Soffiò fuori dalla bocca il fumo della sua sigaretta e si formò una piccola nube che subito si dissolse. Era un sollievo sapere che nessuno si sarebbe mai preoccupato di andare a controllare quel bagno durante le ore di lezione. Non era facile, in mezzo al trambusto della sua vita, trovare un nascondiglio silenzioso.
Quando la porta si aprì Vittoria non si scompose e Andrea fece capolino dal corridoio. Sgusciò all’interno della toilette svelta e circospetta, richiudendosi subito la porta alle spalle come se fosse inseguita da un branco di cani da caccia. Indossava una maglia pesante e i pantaloni, troppo lunghi, le si erano arricciati sugli stivali. Gli occhiali spessi le erano scivolati quasi sulla punta del naso ed Andrea provvide subito a sistemarli prima che le cadessero per terra.
Ancora Vittoria non si capacitava di come una ragazza anonima come quella, incontrata forse decine di volte in giro per la scuola senza che ciò avesse mai destato in lei il minimo interesse, riuscisse ora a passarle così poco inosservata. Le domandò: «Hai mai preso in considerazione l’idea di darti allo spionaggio? Riusciresti a far sentire in gamba anche il peggiore agente della CIA».
«Buongiorno anche a te» ne sembrò risentita la mora.
«Ce ne hai messo di tempo» picchiettò la sigaretta facendo cadere la cenere nel lavandino «Iniziavo a credere che mi avessi scaricata».
«Ci sono andata vicino».
«Purtroppo per te non abbastanza. Ma non farne un fatto personale: deve ancora nascere chi riesce a resistermi».
«Spero davvero che venga messo al mondo presto, non vorrei perdermi la scena».
«In ogni caso pensavo di essere un motivo sufficiente per farti correre».
«Non fino a quando non diventerai una Windsor e io non mi aggirerò per i corridoi di Buckingham Palace vestita come un pinguino!».
«In mia difesa posso dire che a volte cammini come un pinguino. Non sei molto aggraziata».
«Mi basta essere intelligente».
«E senza dubbio modesta».
«Scusami, il tuo pulpito è così alto che da quaggiù non riesco a sentirti».
Vittoria finse di applaudirla. «Brava, questa era carina. Sottile come un baobab, come quasi tutte le tue battute. Dubito persino sia tutta farina del tuo sacco».
«L’ho rubata al tuo mulino».
«Vecchia volpe».
«Io almeno so che nei bagni della scuola non si fuma».
«Oh, ragazzina» la vezzeggiò «Io lo so, è solo che non mi interessa».
«Sbagli sapendo di sbagliare».
«Diciamo più che delinquo sapendo di delinquere».
«Una vera cittadina modello».
«La parte della brava ragazza la lascio a te, ti sta così bene» la guardò di sbieco.
«Esilarante». Andrea ricambiò l’occhiata di Vittoria con aria truce. Appoggiò una mano sulla maniglia, pronta a tornare in classe appena la campanella l’avesse avvisata della fine della lezione. «Perché mi hai fatta venire?».
La bionda si sistemò il colletto della camicia. «Non c’è un motivo» le confessò con indifferenza, avvicinando di nuovo la sigaretta alla bocca «Ne avevo voglia e basta. E la mia lezione era estremamente noiosa».
«Non potevi distrarti insieme ai tuoi amici?» ribattè «Per i corridoi mi saluti a stento quando sei con loro».
«I miei amici non ti piacciono e non cerchi nemmeno di nasconderlo. Il venerdì faccio quasi fatica a sentire la tua voce. E poi… mi piace tenere le cose separate».
«Quali cose?».
«Te. Da tutto il resto».
«Dovrei esserne lusingata?».
«Non lo so, dimmelo tu. Quanto ti piaccio da nove a dieci?».
«Quanto alla neve piace il sole».
«Lo so che ti sciogli per me ragazzina, ma non darmela vinta così facilmente».
«Non dire scemenze!» arrossì e Vittoria rise.
«Vuoi fare un tiro?» le chiese, allungando la sigaretta nella sua direzione.
«Sono asmatica» rispose controvoglia.
«Certo. E io narcolettica».
«No…» continuò, abbassando lo sguardo «Dico davvero. Soffro d’asma».
«Ah…» riuscì solo a dire dopo qualche istante Vittoria, la mano ferma a mezz’aria. «Ops. Scusa». Aprì il rubinetto più vicino e spense la sua sigaretta, poi aprì la piccola finestra per far uscire il fumo e gettare la cicca. «Una gran bella coppia. Un’asmatica e una fumatrice cronica entrano in un bagno…».
«Io avrei detto più il diavolo e l’acqua santa».
«Non devi avere una considerazione così bassa di te, non sei poi così cattiva».
«Quanto sei spiritosa!».
«Gli opposti si attraggono, no?».
«O si respingono».
«Non in fisica».
«Bhe, in antropologia sì».
Vittoria fece schioccare la lingua sul palato. «Qualcosa in comune dovremo pur avercelo. Oltre ai cromosomi, intendo».
«Ne sei convinta, eh?».
«In realtà…» bisbigliò stancamente, indietreggiando di qualche passo e tornando ad appoggiare la schiena al muro. «Più ti guardo e meno lo sono. Convinta».
Andrea aprì la bocca per replicare, ma non le affiorò alla mente nessuna battuta, nessuna frase pungente da poter sputare come se fosse acido, e qualcosa, nell’espressione di Vittoria, la fece vacillare.
«Smettila di fissarmi così» riuscì solo a dirle.
«Così come?».
«Come se fossi un indovinello da risolvere. È fastidioso. E imbarazzante»
 «Perché ti imbarazza tanto essere guardata?».
«Mi imbarazza essere guardata da te».
«Allora permettimi di riformulare la mia domanda: quanto ti piaccio da dieci a dieci?».
«Non mi fa ridere questo gioco».
«Lo so. Lo vedo. E il tuo problema è proprio questo. Che ti piaccia o meno, io ti vedo. Sei così abituata a fuggire dalle persone, a trincerarti nel tuo silenzio, a nasconderti dietro muri di parole che pensi di essere invisibile. E forse per il resto del mondo lo sei davvero. Ma non per me. Non più, ormai. Non puoi fingere e non dovresti nemmeno provarci. So leggerti meglio di quanto tu non creda, di certo meglio di quanto avresti voluto. E dovresti sul serio lasciarti andare più di quanto tu non stia facendo, perché ci troviamo nella stessa condizione, ma io sono più brava di te a nasconderlo e ad accettarlo. Sai, per mia madre sono sempre stata quella problematica. Per mio padre sono la figlia svogliata, per i miei compagni sono quella da ammirare, per Giorgio sono un trofeo di cui vantarsi e per Matteo sono quella che non riuscirà mai ad avere. O la spalla su cui piangere, nel migliore dei casi. Io non mi sento nessuna di queste cose e, allo stesso tempo, mi riconosco un po’ in tutte. Mi sembra di avere delle sfumature solo quando mi guardi tu» sbuffò «Anche se il più delle volte mi guardi come se ti aspettassi di vedermi sparire da un momento all’altro. Per quel che può valere, non ho intenzione di andare da nessuna parte senza di te. E nemmeno tu, visto che non hai tolto la mano da quella maniglia un solo istante ma non ti sei ancora decisa ad uscire».
Andrea sgranò gli occhi ma non un solo suono uscì dalla sua bocca.
«Dì qualcosa ragazzina» la incalzò Vittoria.
«Che cosa vuoi che ti dica?».
«Dimmi se sto sprecando il mio fiato e il tuo tempo, se condividi almeno qualcosa di tutto quello che ti ho detto, se ti riconosci, se ti lascia indifferente, se…».
«Perché invece non mi dici chiaramente quello che vuoi da me?» la interruppe.
«Voglio sapere se senti quello che sento io».
«Non è così facile».
«Rendilo semplice».
«Non posso essere il tuo diversivo».
«Non potresti esserlo nemmeno se lo volessi».
«Sei fidanzata!».
«Io e te siamo una cosa diversa, non fingere di non saperlo. Mi ritengo troppo orgogliosa per pensare di non essere ricambiata».
«Non giocare a questo gioco con me, Vittoria. Ti prego. Con tutti, ma non con me. Non ho nulla da darti. Non ho più nulla da dare a nessuno. E non ho davvero la forza di assecondare la tua curiosità per poi scoprire che non volevi nient’altro».
Lo sguardo di Vittoria si fece torvo e la voce, solitamente modulata, dura. «Non sono una bestia Andrea, non mi serve un osso da mordere».
«Davvero? E da quando ti piacciono le donne? In due anni non ne hai fatto cenno nemmeno una volta».
«Non mi interessano le donne, mi interessi tu!».
«L’ho sentita talmente tante volte questa frase che sarebbe stupido crederci di nuovo».
«Per chi mi stai scambiando, Andrea? Non ho intenzione di prendermi la colpa degli errori commessi da altri».
La ragazza le diede le spalle. «Non sarei dovuta venire» sussurrò, passandosi una mano sugli occhi e quando Vittoria la raggiunse si scansò, ma non fu sufficiente per tenerla lontana. Cercò inutilmente di ritrarsi quando le posò la fronte sulla sua e quella vicinanza così intima la atterrì. Andrea le tenne fermi i polsi per scongiurare il pericolo che la toccasse con più intenzione. Mai più, si era ripromessa, ma l’odore di Vittoria sembrava la stesse invitando a cedere nei suoi propositi.
«Guardami».
«La devi smettere».
«Sei davvero pazza se pensi che potrei costringerti a fare qualcosa che non vuoi. Ma non mi rimangio una sola parola di quello che ti ho detto. Io gioco a carte scoperte, Andrea. Quando ti deciderai a mostrare la tua mano, sapremo chi avrà vinto».

 
 
Note dell’autrice: Io – come sempre – mi scuso dell’immenso ritardo e dell’assenza completa di regolarità nell’aggiornamento delle storie. Giuro che Andrea l’ho pensata volutamente più ligia al dovere e puntuale di me nella pubblicazione dei suoi racconti! Ringrazio comunque tutti quelli che mi seguono nonostante questo mio difetto cronico e se serve/volete potete riempire il tempo che passa tra un capitolo e un altro provando a leggere altre storie che ho pubblicato – e se pensate che io sia stata regolare almeno nell’aggiornamento di quelle la risposta è: bhe no. A mia discolpa dico che alcune sono complete e altre sono sulla via della conclusione. Una via lunga e tortuosa inframmezzata da esami universitari.
   
 
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