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Autore: Frulli_    01/03/2018    3 recensioni
Inghilterra, 1911. L'Europa sta attraversando un periodo di serenità e ricchezza, la "Belle Epoque". E se Parigi è il fulcro della moda e del divertimento, Londra certo non è da meno! Lo sanno bene i membri della famiglia Norton e dei suoi servitori, che per la Stagione londinese vengono catapultati in un mondo di divertimenti e finzione, dove tutti sono un pò "sottosopra", e rischiano di perdere di vista le cose vere e reali della vita, come i sentimenti e l'amicizia...
Genere: Romantico, Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
Capitoli:
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5. Music to my ears


 
Londra, 13 Febbraio 1911
 
«Sei sicura che vuoi provarci? Voglio dire...se ti fai male non dare la colpa a me»
«Si presuppone che tu debba aiutarmi, Conti, non farmi cadere di proposito»
«E chi ha detto che ti farò cadere di proposito?»
«Io, perchè ti conosco»
Marco ridacchiò divertito, con la mano che teneva i lacci dei pattini appesi sulla spalla come un sacco di patate. Charlotte faceva altrettanto, non potendoli prendere con più grazia: quella lama sotto la suola la terrorizzava.
«Devi ancora dirmi dove accidenti hai preso i pattini da ghiaccio»
«Ehi, guarda che i soldi li ho, mica sono un poveraccio. Li ho comprati!»
«Li hai comprati...solo per oggi»
«Beh, speravo che dopo oggi potessimo pattinare ancora tante volte. Se non ti rompi una gamba ovviamente»
«Idiota» brontolò Charlotte divertita, spingendolo via appena. Marco ridacchiò, prima di circondarle le spalle con il braccio.
«Ah Murphy, ma chi ti fa ridere più di me!»
«Il fatto che tu mi faccia ridere non è proprio...una vittoria, lo sai vero?» chiese la ragazza, spostandolo con garbo.
«Beh almeno non ti faccio piangere» precisò lui, divertito.
Charlotte sorrise, scrollando le spalle. «Eccovi arrivati» annunciò poi, in prossimità del lago ghiacciato e di un gazebo di pietra «sediamoci lì, così possiamo infilarci questi cosi»
Si avvicinarono al gazebo, posto praticamente sulla riva del Serpentine Lake, completamente ghiacciato e già occupato da gente che vi pattinava sopra, chi con grazia e chi con “spirito di avventura”. Si sedettero sulle panchine di pietra, sfilandosi le calzature e infilando quelle da ghiaccio: sarebbe bastato fare un passo e “tuffarsi” sulla pista ghiacciata.
«Aspetta, ti aiuto» annunciò prontamente Marco vedendola in difficoltà a stringere i lacci. Si inginocchiò davanti a lei, facendole poggiare il piede sul proprio ginocchio, ed abile strinse i lacci.
«Non mi serviva aiuto veramente...» precisò Charlotte imbarazzata, cercando di guardare altrove.
«Non fare la forte, Murphy, non ti si addice dato quanto sei alta» commentò il ragazzo sfottendola «pensa solo a non infilazarmi questa lama nel ginocchi. Ecco fatto! Andiamo?»
«Ha parlato il gigante...» brontolò Charlotte, colpita nell'orgoglio da quella battuta. Poggiò incerta i piedi a terra e si alzò, rifiutando l'aiuto di Marco che, con un paio di passi, scivolò con grazia sul ghiaccio. Fece una piccola pattinata davanti a lei, prima di fermarsi ed aspettarla.
«Forza Murphy, che il ghiaccio non morde!» esclamò divertito.
«Idiota...» brontolò ancora Charlotte, rossa in viso, mentre si aggrappava disperata alla colonna del gazebo per scendere nella pista. Ma piuttosto che dargliela vinta, avrebbe pattinato col sedere. Alla fine vinse, poggiando incerta i piedi sul ghiaccio. La lama era troppo sottile, tuttavia, per stare ferma in piedi e senza muoversi: se ne accorse dopo due secondi, rischiando di crollare a terra, perdendo l'attrito giù labile sul ghiaccio. Si slanciò istintivamente in avanti e Marco la prese al volo, tirandola su da sotto le braccia.
«Niente male, ancora non cadi Murphy!» esclamò il ragazzo, ridendo divertito.
«Ridi ridi, aspetta che prendo confidenza e vedi tu» precisò lei cercando di allontanarlo. Tutto inutile: Marco le stringeva forte le mani, con decisione, e cominciò a trascinarla. La lama dei pattini tagliava il ghiaccio, facevandola avanzare. Sentiva l'equilibrio incerto, e si ritrovò a stringere le mani del ragazzo con una disperata necessità. Il busto inclinato appena in avanti, che dondolava per cercare di calibrare l'equilibrio, invano.
«Scivola in laterale, una gamba alla volta. Destra, sinistra, destra, sinistra...brava, così! Compi tutto il movimento, come se stessi danzando. Bravissima...»
Le dritte di Marco funzionarono in fretta e dopo qualche minuto Charlotte potè beneficiare del piacere e del divertimento di pattinare su ghiaccio: sembrava di volare.
«Come faccio a frenare?»
«Buttati addosso a me...»
«Dai, stupido!» esclamò lei, ridendo.
«Tutti questi complimenti sono musica per le mie orecchie, Murphy! Comunque per frenare basta che giri appena su te stessa, formando con i piedi una specie di...mezzo cerchio. Inclina appena i piedi, brava così, ecco. Vedi? E' facile. Vogliamo provare a pattinare un po', anziché arrancare come due animali morenti?»
Il paragone fece ridere Charlotte di nuovo, che annuì alla sua proposta. Si tenevano saldamente per mano, scivolando insieme lungo il ghiaccio. Era troppo concentrata sui movimenti che faceva per notare gli sguardi felici di Marco, che lentamente stava lasciando la presa della ragazza.
«Non guardare i piedi! Prendi il ritmo, Murphy, destra, sinistra! E rilassati!» esclamò, superando il vociare della gente, prima di lasciarle le mano.
«No, Conti, aspet...» troppi tardi, era da sola. Cercò di non impanicarsi e proseguì, come se il ragazzo fosse lì con lei. Aggirò lentamente una statua di ghiaccio, facendosi superare per ben due volta da una mamma con una bambina in braccio. Superò la vergogna e continuò dritta -e lenta- per la sua strada.
«Brava!» esclamò Conti dietro di lei, prima di raggiungerla e cingerle la vita con entrambe le mani. Si sorrisero divertiti.
«Devo ancora migliorare...»
«Migliorerai» precisò il ragazzo, stringendola appena a sè.
«Ci stai provando con me, Conti?»
«Non potrei mai Murphy, lo sai» precisò subito il ragazzo, staccandosi da lei. La banda che suonava vicino al lago cominciò a interpretare un allegro walzer. Marco, in tutta risposta, s'inchinò come un abile cavaliere, allungando la mano verso di lei.
«Mi concede questo ballo, milady?»
«Quanto sei stupido, Conti...» brontolò in imbarazzo Charlotte.
«Accetti, signorina, io un bel ragazzo così non me lo farei scappare!» esclamò a sorpresa una signora sulla cinquantina che passava di là, pattinando con una grazia che Charlotte non avrebbe mai raggiunto.
«Sentito, Murphy?»
«Va bene, va bene...accetto, ma non farmi cadere!» precisò subito Charlotte quando già il ragazzo l'aveva presa per la vita. Non furono gli unici a improvvisarsi ballerini: molte coppie, anche le più improbabili, presero a danzare sul ghiaccio, vorticando come fiocchi di neve.
«Sono una discreta ballerina e una pessima pattinatrice, lo sai Conti no?»
«Lo vedo» Marco rise divertito, stringendola più a sé. «Ti tengo io, Murphy» sussurrò poi, sorridendo gentile.



Ethel risalì lentamente le scale, stanca...esausta. Dannato ciclo mestruale, pensò. Non le dava pace nemmeno una volta sparito, lasciandole un senso di stanchezza e confusione. Aveva chiesto a Miss Rossi di servirle il pranzo nel salotto rosso, ed era lì che si stava dirigendo con ancora il cappotto addosso.
Aprì la porta, ritrovandosi dentro l'accogliente ambiente. Sorrise tra sé: non c'era un posto più bello di quella piccola e semplice stanza. Era quadrata, e veramente di dimensioni ridotte. Le pareti rosse davano il nome alla sala, illuminate dalla luce elettrica e i candelabri dorati. Un tappeto persiano a terra, il camino acceso, due alte finestre davano sulla strada principale. Una poltrona con poggia piedi, un tavolino con sopra la sua cena, e uno scaffale con qualche romanzo leggero.
Era il posto preferito di Lord Norton, ricordò con una leggera fitta al cuore. Pensava a lui ogni giorno, come avrebbe potuto fare con un padre. Lord Norton aveva accolto lei e George come dei figli quando avrebbe potuto semplicemente mandarli in orfanotrofio. Invece li ha accolti, educati, trattati come sangue del suo sangue. Era stato lui a insistere che Ethel prendesse lezioni di pianoforte, o che George ormai adulto si occupasse della tesoreria della servitù e della gestione economica della famiglia.
Si sfilò scarpe e cappotto, si sedette e prese a mangiare lo stufato di carne lasciatole lì dalla servitù. Era delizioso oltre ogni dire. Mangiò e bevve con un certo appetito, quindi suonò la campanella. Qualche minuto dopo Miss Rossi bussò ed entrò nel salotto.
«Claire, cara...prima che mi addormenti, volevo chiederti un paio di cose: puoi prepararmi l'abito per questa sera, per il teatro?»
«Certamente miss. Volete che vi faccia portare qui il thè alle cinque?» commentò l'altra, sorridendo.
«Si Claire, grazie, vorrei riposarmi prima di prepararmi per il concerto» annunciò la ragazza, sorridendo con dolcezza alla governante.
«Nessun problema, Miss» annunciò l'altra, prima di lasciarla sola.
Ethel poggiò le gambe sul poggiapiedi, incrociando le caviglie e sistemando bene la vestaglia per coprirsi. Si rilassò, sospirando, e si mise a fissare il fuoco, incantata. Avrebbe voluto leggere un po' i romanzi preferiti di Lord Norton, lì sullo scaffale. Avrebbe voluto pensare a come sarebbe stata la sera imminente, a come sarebbe stato chiacchierare con Alfred e Candice, a come si sarebbe sentita Lady Maud...non ebbe tempo, la testa crollò di lato e la mente si tuffò nei suoi sogni più profondi.
 
1 Gennaio 1888
I passi di Alexander erano veloci e concitati mentre la domestica, pallida come un cencio, lo guidava verso la stanza maledetta. La porta era spalancata e dava su una scena agghiacciante: i corpi di Edward ed Eloise erano riversi a terra e stretti tra loro, in un ultimo abbraccio. I visi irriconoscibili, gonfi e bluastri per via del veleno ingerito. Sulle guance di entrambi c'erano lacrime. Alexander si fece il segno della croce, quindi si avvicinò e chiuse loro gli occhi.
«Possiate riposare in pace, almeno ora...» mormorò.
«Milord...che dobbiamo farne dei bambini...» sibilò la domestica, spaventata.
Alexander si alzò lentamente, ricordandosi solo ora di quei poveri bambini. «Portatemi da loro, per favore, Miss Rossi»
La giovane cameriera obbedì e svelta si diresse nella camera accanto. Aprì lentamente la porta, mostrando al nobile i visi di due creature pallide e spaventate, con due grandi occhi pieni di paura che lo fissavano. Il cuore di Alexander si strinse in una morsa di ferro, e poteva percepire il respiro quasi assente della cameriera al suo fianco, come se cercasse di non piangere.
«Buonasera, cari ragazzi...»
«Buonasera, milord» rispose pacato il maschio, fissandolo con aria severa.
«E' stato lui a...» fece intendere la cameriera, in un sussurro. Povero bambino, pensò Alexander, così piccolo e già con un tale peso nel cuore.
«Mi riconosci, George?»
«Si signore...lei era amico del mio papà»
«Esatto, George. Vorrei...portarvi a casa mia, per qualche giorno, vi piacerebbe? Ho un figlio quasi della vostra età, sai, e molti giochi e...ed anche dei pony. Potreste stare con noi qualche giorno, se vi va»
Il bambino lo fissò con due occhi grigi e piatti, poi annuì. La bambina al suo fianco non diceva nulla, assonnata e stanca. Chissà se si era resa conto di quel che era successo, pensò Alexander.
«Molto bene...Miss Rossi, prepari i bagagli di questi bei bambini e li faccia caricare sulla carrozza. Io ho già chiamato la Polizia, dovrebbe essere qui a momenti, anche se temo che l'esito sia palese...»
«I bambini hanno ben poco, signore, faccio subito le valigie» annunciò la cameriera che fece per uscire. Nemmeno il tempo di varcare la soglia che la bambina scoppiò in lacrime, disperata, chiamandola a gran voce. La cameriera fece dietro front, dando alla bambina la priorità. La prese in braccio e la strinse forte a sé, sussurrandole dolci parole per cercare di farla calmare.
Alexander li osservò tutti e tre, deglutendo a fatica. «Miss Rossi, prego...venga con noi, a casa, deve essere scossa anche lei. Andiamo tutti sulla carrozza»
«Io, milord?»
«Si, lei Miss Rossi, prego...» mormorò Alexander, invitandola a uscire. Tese la mano al piccolo George che, composto, scese dal letto e si avviò da solo, stanco, trascinando i piedi.

Il giorno dopo, Alfred fu svegliato da una strana sensazione. Come se qualcuno lo stesse fissando. Aprì lentamente gli occhi, ritrovandosi davanti una figura minuta, sul lato del letto, illuminata dal sole che penetrava dalle pesanti tende rosse. Era forse un angelo?
«Chi sei...?» mormorò Alfred, assonnato. La bambina non rispose, continuando a fissarlo. Era proprio una bella bambina, pensò Alfred, ma aveva sul viso un'aria triste e calma allo stesso tempo.
«Perchè sei entrata nella mia camera?»
«Perchè in quella di fianco c'è mio fratello che russa»
Alfred era troppo assonnato per poterla capire del tutto. Sbadigliò e, senza fare domande, sollevò appena le coperte accogliendola sotto di esse.
«Tu russi?» chiese la bambina, girandosi di schiena.
«Non credo, ma tu dammi un calcio se lo faccio, ok?»
«Ok»
Quando, dopo qualche ora, Lady Maud andò a svegliare il figlio, si fermò alla vista di quello spettacolo: Alfred e la figlia degli Herbert abbracciati, a dormire uno contro l'altro. Sorrise tra sé, gioiosa: portare quei due bambini dentro la loro casa era stata la cosa più bella che Alexander avesse mai fatto. Si accarezzò il ventre rigonfio sotto l'abito, dove il loro secondo figlio -o figlia- cresceva in attesa della fine della gravidanza. Alla sua nascita, avrebbero avuto ben quattro figli, e nessuno poteva dirle che quelle due piccole creature non sarebbero potute diventare col tempo sangue del suo sangue...


«Ethel...Ethel...? Lulù!»
Aprì di scatto gli occhi, sgranandoli tanto da fare sobbalzare il ragazzo al suo fianco, che l'aveva appena svegliata.
«Tu si che hai il sonno pesante...»
«S-scusami, ero esausta, stavo sognando...che ore sono?» chiese, confusa, poggiando i piedi a terra.
«E' l'ora del tuo thè, milady, ho sollevato Miss Rossi dal gravoso compito di consegnartelo» annunciò Alfred, posando il vassoio sul tavolino e sedendosi sul poggiapiedi. Ethel sorrise, assonnata.
«Grazie...nel caso ti dovesse servire in futuro, sei un ottimo cameriere»
Alfred rise divertito. «Oh beh grazie, bella scienza che ci vuole a posare un vassoio sul tavolino. Mi ha detto Miss Rossi che sei tornata stanca. Che hai combinato all'orfanotrofio?»
«Stiamo solo preparando per l'arrivo della Regina, ma c'è tanto da fare, tutto qua. Dove sono gli altri?»
«Daisy e Candice ancora in giro per negozi, suppongo. E George ancora non è tornato»
«E tu dove sei stato?»
«In Parlamento, ovviamente»
«Oh già vero, ora sei uno importante» precisò Ethel, alzandosi lentamente dalla poltrona e stiracchiandosi con un sonoro sbadiglio.
Alfred rise, e questo non fece che attirare l'attenzione della ragazza: gli occhi del ragazzo erano quasi del tutto chiusi, e delle rughe si concentrarono intorno ai suoi occhi, come sempre quando sorrideva.
«Certo, importantissimo. Chi sognavi, a proposito?» chiese il ragazzo, alzandosi a sua volta.
Ethel prese la tazza del thè, soffiando appena sopra di essa. «Tuo padre...il primo giorno che l'ho incontrato. Intendo...per davvero. Sembrava un angelo venuto a salvarmi»
«Anche tu sembravi un angelo quando mi hai svegliato, il giorno dopo che siete venuti ad abitare qui» rispose Alfred, sorridendo divertito.
«Si, immagino...» commentò Ethel ironica, prima di affacciarsi fuori dalla finestra. I suoi genitori abitarono a Londra, non lontano da lì. Era strano come quella città potesse comunicarle sentimenti così contrastanti: ricordi belli e brutti, reali e immaginari. Poggiò la testa contro il vetro, prima di sentire il braccio del ragazzo stringerle le spalle.
«Non voglio vedere quell'espressione triste, stasera, ok? Stasera ci facciamo belli, andiamo a teatro, ascoltiamo il tuo Beethoven...e magari ti troviamo anche marito» elencò Alfred, sapendo che l'avrebbe fatta ridere.
«Ancora con questa storia? E' un mese che perseguiti me e George» esclamò Ethel, divertita. Alfred aveva il grande dono di farle passare ogni tristezza, ogni angoscia. Come aveva fatto negli ultimi quattro anni senza la sua allegria?
«E' un'urgenza! Senti, siete due persone belle e intelligenti, non è possibile che siate ancora senza nessuno» precisò il ragazzo, solleticandole il fianco.
«Alfie» rispose lei, ridacchiando «ti dimentichi un piccolo particolare, e cioè che non abbiamo il soldo di un quattrino»
«Sciocchezze, Lulù. Siamo nel ventesimo secolo, alla gente non importa più nulla di titoli o proprietà»
«Ma importa dei soldi»
«Quelli si possono sempre guadagnare»
«Ti chiedo solo di non mettermi in mostra come merce da vetrina, o come un animale da zoo ai tuoi amici ricchi, mh?» precisò Ethel, sorridendo.
«Ehi, così mi offendi. Lo sai che non potrei mai fare una cosa del genere...alla mia gallinella!» precisò Alfred, cominciando a scappare ancor prima di finire la frase.
«Non chiamarmi così!» gridò divertita Ethel, inseguendolo per la stanza.



Il foyer del Queen's Hall era affollato più che mai. Era una delle prime serate della Stagione, e ricchi e nobili sfoggiavano gli abiti migliori, i gioielli più brillanti, le acconciature più elaborate. Dal canto suo, aveva fatto del suo meglio ovviamente. D'altronde era una contessa, era una Norton, non poteva presentarsi come una sciacquetta. Indossava uno splendido abito di Worth, gonna rossa e busto nero, con sopra una stola trasparente rossa che mostrava le spalle nude. I rubini splendevano intorno al collo nudo, in un tripudio di argento e rosso. Era semplicemente splendida, e aveva speso l'intero pomeriggio per diventarlo. Si osservò un istante, passando davanti il grande specchio del foyer: era snella come un giunco. Aveva la vita così stretta che in confronto Ethel sembrava una mucca.
Eccolà lì, Miss Herbert, nel suo abito di seta grigia e viola, di seconda classe, tanto da sembrare la figlia di un avvocato. A chiacchierare serenamente con Candice e Alfred, cercando di farsi amica la prima e turlupinare il secondo, cercando di rubargli più soldi di quanto già non avesse fatto: l'orfanotrofio, la ristrutturazione, uno stipendio minimo per le ragazze madri che ci lavoravano...non bastava?
Odiava quel suo comportamento perbenista, da finta onesta, da finta ingenua. La verità però era che loro non sapevano cosa ci facesse con quei soldi. Certo non il guardaroba, pensò Daisy con disprezzo: almeno per il teatro poteva indossare qualcosa di più bello che un singolo minuscolo smeraldo al collo. Ma lei no, lei doveva sempre sembrare quella controtendenza, rivoluzionaria. E si stupiva che a ventotto anni era zitella? Lei, Daisy Norton, non avrebbe fatto quella fine. Avrebbe sposato un “nuovo ricco”, magari americano, e sarebbe stata la vicina di casa di Alfred e Candice.
«Contessa, buonasera...Siete incantevole questa sera. Siete pronta per il concerto?» annunciò con garbo il Duca di Wellington, facendole poi il baciamano.
«Troppo gentile, Lord. Sì, come sempre ascoltare della buona musica è sempre un piacere. Siete con vostra moglie? Non la vedo»
«Oh no, la Lady mia moglie è purtroppo malata. Nulla di grave, i soliti malanni di stagione. Sono qui solo, come sono stato creato dal buon Dio. E vostra madre, la cara Contessa?»
«Mia madre non si sentiva molto bene, purtroppo, e ha deciso di non venire questa sera. Vi manda tuttavia i suoi più cari saluti»
«Che ricambio con sincerità, contessa. Mi chiedevo, a questo punto...se aveste piacere ad assistere al concerto dal mio palchetto. E' proprio vicino al palco reale, sapete, e si gode di una vista ideale per l'acustica. Sempre se non mi reputiate troppo insolente nel farvi questa domanda, Contessa...»
«Assolutamente, Lord, sono oltremodo onorata del vostro invito!»
Il Duca le porse il braccio e Daisy accettò, passando davanti ai nobili e ai presenti, Ethel compresa. Oh come avrebbe voluto leggerle i pensieri! Era sicuramente invidiosa, ne era sicura. Il quarto Duca di Wellington non aveva nemmeno salutato Ethel, figuriamoci poterla invitare nel suo palchetto privato. Sì, era sicuramente invidiosa.

«Oh che fortuna che ha avuto Daisy, essere invitata ad assistere allo spettacolo insieme al Duca! E guardate, il palco reale è proprio lì vicino!» esclamò Candice per la quarta volta da quando era cominciato lo spettacolo. La fortuna voleva che era l'ultima pausa, quella, prima dell'ultima esecuzione: la quinta sinfonia di Beethoven.
«Senza offesa, Miss Williams, ma non so davvero cosa ci trovate di così entusiasmante. Sapete quanti anni ha il Duca? Sessantadue, e gli puzza terribilmente il fiato» precisò Ethel, con calma, facendo ridere Alfred e sorridere George.
«Oh sopporterei volentieri, Miss, davvero. E' un Duca!»
Ethel si limitò a sorridere e, mentre Candice sorseggiava il suo brandy, lanciò uno sguardo ad Alfred. Il ragazzo non disse nulla, sembrava quasi non aver sentito. Come se non gli importasse quel che la sua fidanzata avesse detto. Lo fissò qualche istante, interrogativa, ma non disse alcunché al ragazzo. Le luci si spensero lentamente: era il segnale che lo spettacolo stava riprendendo. Si sedettero, Ethel e Candice verso il davanzale del palchetto, George ed Alfred al loro fianco. Durante il primo movimento Ethel non fece che pensare a quanto appena accaduto: nulla di esagerato veramente, ma era rimasta perplessa al commento così schietto di Candice e all'indifferenza di Alfred. Possibile che un innamorato reagisca in quella maniera se la sua fidanzata sogna consciamente la compagnia di un altro uomo, solo perchè ricco? A meno che certo, pensò...a meno che non erano innamorati.
Lì guardò due istanti, con la coda dell'occhio: seduti vicini, guardavano entrambi verso il palco. Lei annoiata, lui completamente preso. Non si tenevano la mano, non si guardavano nemmeno per sbaglio. Aggrottò le sopracciglia, tesa. Non poteva essere, Alfred non si sarebbe mai sposato per interesse. Non ne aveva nemmeno la necessità! Era ricco, di buona famiglia, un futuro brillante davanti: perchè prendere con sé una ragazza che gli era indifferente? L'Alfred che conosceva lei non l'avrebbe mai fatto. Lo fissò un ultimo istante: in presenza di Candice sembrava quasi un altro, senza energia e vitalità.
Sentì George sfiorarle la mano e si girò appena verso di lui, sorridendosi appena l'un l'altro.
«Il Maestro è eccezionale...ma attendiamo il quarto movimento per la conferma?» mormorò George vicino al suo orecchio. Ethel si limitò ad annuire d'accordo prima di tornare a guardare il palco.
E il quarto movimento arrivò, in tutta la sua gioia e allegria. D'altronde tutta la sinfonia, seppur cominciasse con un “bussare al destino” come aveva scritto Beethoven stesso, era un inno alla vittoria e alla gioia. Dimenticò completamente l'episodio accaduto nell'intervallo, e si sporse così tanto che dovette più volte ritirarsi indietro per non cadere. Le dita battevano sul velluto rosso della balaustra, seguendo il tempo perfettamente. A volte muoveva il capo, annuendo con soddisfazione: era un mix perfetto di tecnica e sentimento.
Il finale fu un gran finale, pieno di trombe e tamburi: era la manifestazione massima della vittoria. Era il finale alla Beethoven, come lo definì una volta il suo maestro di pianoforte. Era un finale che faceva commuovere di gioia, che faceva gridare e saltare per aria, in preda all'entusiasmo. Beethoven era stato il musicista più vicino alla gloria di Dio, lei lo sapeva.
Quando l'ultima nota della sinfonia si spense e il direttore d'orchestra fece per voltarsi verso la platea, il pubblico esplose in un fragoroso applauso alzandosi dalle loro postazioni. Il direttore s'inchinò più volte, insieme al resto dell'orchestra.
«Bravo!» gridò Ethel insieme ad un altro centinaio di persone, applaudendo con entusiasmo. Aveva gli occhi pieni di lacrime ed Alfred se ne accorse, al suo fianco, porgendole il suo fazzoletto. Lo ringraziò sorridendo appena, in imbarazzo.
«Oh avanti...piangere per un concerto, dite davvero?» commentò Candice mentre scendevano verso il Foyer, con il suo solito tono pragmatico e spiccio.
«Non si piange di tristezza, anzi: è gioia, è commozione, è...non ditemi che non vi è piaciuta nemmeno un po'?» s'interruppe Ethel mentre il dubbio s'insinuava nella sua mente.
In tutta risposta Candice scrollò le spalle, senza entusiasmo. «Nulla di particolare. A mio parere Beethoven è sopravvalutato»
George dovette prendere sottobraccio la sorella per non farla svenire o, peggio, portarla in prigione per aggressione.
«Beethoven...sopravvalutato...hai sentito...?» sibilò sconvolta Ethel, senza farsi sentire dalla coppia avanti a loro e calcando ironicamente il tono tragico.
George sorrise appena, tenendola ancora sottobraccio. «Non a tutti piace la musica, non a tutti piace Beethoven»
«E fin qui posso essere d'accordo. Ma...sopravvalutarlo? Santo cielo, stiamo parlando del Divin Maestro, è...come si fa a dire una cosa simile, dai...»
«Cosa vuoi che ti dica, dolcezza. E' la figlia di un imprenditore americano. A me non stupisce lei, ma lui...» e col mento indico Alfred, qualche metro più avanti, la testa che spuntava dalla ressa che c'era lungo la scalinata.
«L'Alfred che conoscevo io non si sarebbe mai messo con un pezzo di granito del genere. Bella, si, ed anche ricca...ma vuota. Eppure in sua assenza sembra davvero lui...» mormorò la sorella, pensierosa.
«A te piace Beethoven, caro?» chiese Candice ad Alfred, una volta arrivati al Foyer. Intravidero Daisy scendere col Duca intraprendendo una fitta conversazione col suo interlocutore.
«Abbastanza» rispose vago Alfred. Ethel non riuscì a trattenersi e aggrottò le sopracciglia, fissandolo. Il suo compagno di merende e avventure, quello che duettava con lei le sonate di Beethoven e Liszt, che dipingeva venti varianti dello stesso vaso di fiori, entusiasmandosi ad ogni pennellata...non esisteva più, e quello davanti a lei aveva estremizzato il detto “non di sola arte si vive”: lui l'aveva semplicemente rifiutata.
«Miss Herbert, Miss Williams...signori, buonasera! Piaciuto il concerto?» chiese il Duca di Wellington, interrompendo la loro discussione.
«Moltissimo, Lord. Stavamo giusto discorrendo sul valore musicale di Beethoven» commentò Ethel, lasciandosi fare il baciamano dal Duca.
«Oh semplicemente inestimabile, a mio parere, anche se Miss Norton qui non sembra essere d'accordo. E' nata giusto ora una discussione a riguardo»
«E lo stesso stiamo facendo noi, milord! Ho giusto ora affermato che a mio parere Beethoven è sopravvalutato. Che ne pensate?» chiese con fierezza Candice, facendo accigliare il nobile.
«Sapete cosa penso, Miss? Che questo è un discorso troppo complesso per parlarne in piedi nel foyer di un teatro. Perchè non ne parliamo tutti a casa mia, mh? D'altronde non è troppo tardi per fare una piccola fermata prima di tornare a casa, e la mia umile dimora è proprio qui vicino. Che ne dite?»
Ethel sorrise appena, approvando così con discrezione l'invito.
«Ah, musica per le mie orecchie!» esclamò Candice senza essere nemmeno molto discreta, e sorridente si mise sottobraccio al Duca, dall'altro lato rispetto a Daisy scortando così fuori il nobile.
Ethel fissò ancora Alfred, ma quello rimase indifferente, seguendo il resto della compagnia verso l'esterno. L'ennesima conferma ottenuta quella sera, e cioè che Alfred, forse, era davvero cambiato.
  
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