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Autore: Nina Ninetta    04/03/2018    2 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo  16

Per contenere i sogni tutti dentro ad un cassetto

 
 
 
Ricardo Salas si sedette sul divano, fissando lo schermo piatto della TV al plasma incastrata nella parete. Attraverso si rifletteva la sua immagine sfocata nei contorni. Teneva le mani chiuse a pugno una nell’altra che sorreggevano il mento, i gomiti poggiati sulle ginocchia. Si sentiva agitato, inquieto, turbato da quello che Eri gli aveva rivelato. Si alzò con uno scatto, sbuffò, passandosi una mano sul viso, fino ad arrivare alla nuca passando per la cima del capo, sui capelli.
L’I-phone sul tavolino di vetro, al centro tra il sofà e le due poltrone laterali, si illuminò ad intermittenza, producendo quel brusio sordo tipico della vibrazione che lui stesso aveva attivato azzerando il volume della suoneria. Si affacciò per sbirciare il nome della persona che lo stava cercando, nonostante non fosse difficile immaginare chi fosse.
Yumiko.
Quella doveva essere la terza volta che gli telefonava nel giro di trenta minuti o poco più, ma in quel momento non aveva voglia di sentire ciò che voleva dirgli. Più che altro si stava trattenendo dal risponderle e mandarla a quel paese una volta e per sempre. Adesso non era nel pieno del suo autocontrollo e rischiava di fare cose e di dire frasi di cui si sarebbe potuto pentire l’indomani. Quindi era meglio tenersi alla larga dal pericolo di mandare tutto in malora a causa di uno stato d’animo alterato. Finalmente l’I-phone smise di lampeggiare e lo schermo tornò ad oscurarsi.
Salas si stava godendo in TV la replica di una partita di calcio che non aveva potuto seguire in diretta, quando il citofono aveva trillato. Lì per lì era rimasto interdetto, studiando l’ambiente circostante come se potesse esserci qualcuno nascosto. Era rimasto sull’attenti, aspettando di sentire altri suoni, d’istinto aveva zittito il telecronista che si stava decisamente esaltando per una giocata del numero 10 della squadra di casa, e dopo appena un paio di secondi ecco di nuovo lo squillo, questa volta più insistente. Ricardo era andato a rispondere quasi infastidito, convinto che avessero sbagliato abitazione o qualcuno si fosse perso, mai si sarebbe aspettato di trovarsi la piccola Eri di notte e da sola davanti al cancello di casa. Come se non bastasse l’aveva trovata sconvolta e in una valle di lacrime, cosa che lo aveva spaventato a morte. Circondandole le spalle con un braccio l’aveva accompagnata all’interno, alzando un tantino il tono di voce per accettarsi che Yumiko stesse bene, poi aveva atteso che si sfogasse, passandole i fazzoletti uno alla volta quando quello precedente era oramai ridotto ad una pallina amorfa. Salas era sicuro che avessero trascorso l’intera nottata così: seduti sul divano con lei che si disidratava attraverso il pianto e lui che le passava i kleenex puliti. Poi con la coda dell’occhio aveva notato il cellulare sul tavolino e quando aveva tentato di telefonare a Yumiko, Eri lo aveva fermato, stringendogli il polso della mano che sorreggeva l’I-Phone.
«Ok Eri, adesso basta!» Lo spagnolo aveva riadagiato il telefono dove l’aveva trovato, alzando i palmi come a dire che era pronto ad ascoltarla.
«Ti prego, non la chiamare.»
«Va bene, non la chiamo, ma tu mi devi dire cosa è successo. C’entra per caso il tuo amichetto?» Udendo quella definizione rivolta al suo fidanzato la piccola orientale si era irritata.
«É il mio fidanzato e …e» aveva ricominciato a piangere, ma il ragazzo l’aveva incitata a continuare, affermando che altrimenti avrebbe chiamato Yumiko. «Sono incinta e mia mamma mi ha dato uno schiaffo. Ha detto che vuole farmi abortire, ma questa è una decisione che non spetta a lei.»
«Tua mamma?» Ricardo l’aveva interrotta. «Perché? È venuta dal Giappone?»
Solo allora Eri si era resa conto di aver fatto una gran cazzata. Nel turbamento generale aveva dimenticato di filtrare la parentela che la univa a Yumiko, quella era una nozione che il fidanzato di sua mamma avrebbe dovuto apprendere dalla sua metà e da nessun altro, neanche da lei. Si era coperta la bocca con la mano destra, sgranando gli occhi, intanto che Ricardo era già arrivato alla conclusione da solo, glielo si leggeva in faccia.
«Eri… tua mamma è?»
«Mi dispiace.» La ragazzina aveva tentato di stringergli le mani, ma lui era balzato in piedi, guardandola dall’alto come se si fosse trasformata improvvisamente in un alieno, scuoteva piano la testa a formare un “no, non è possibile” «Non avrei dovuto…» mannaggia a lei e quando le era saltato in testa di andarsi a rifugiare a casa sua! «Te lo avrebbe detto presto, molto presto.» La notizia della giornata, lo scoop che riguardava la sua imprevista gravidanza era scivolato in secondo piano. Era stato allora che era arrivata la prima telefonata da parte di Yumiko sul cellulare di Ricardo. Sia questi che la sua ospite avevano fissato in silenzio il nome della donna asiatica lampeggiare sullo schermo dell’I-Phone, finché non aveva smesso di squillare. Eri aveva alzato lo sguardo su di lui e lui l’aveva abbassato su di lei:
«Sono incinta» aveva ripetuto, oramai sembrava che la sua mente non riuscisse più a formulare un’altra frase di senso compiuto oltre quelle due parole. Salas era tornato a sedersi per chiederle se lui, il figlio adottivo del ministro, lo sapesse già e la sedicenne aveva scosso la testa, aggiungendo che per la fretta di scappare aveva dimenticato di portare il telefono con sé. «Altrimenti avrei chiamato lui, non ti avrei recato disturbo.» Aveva chinato il capo, le lacrime erano riprese a scorrere dopo qualche istante di tregua. Ricardo Salas le aveva passato una mano dietro la testa e l’aveva attirata contro il proprio petto, dicendole di stare tranquilla, si sarebbe aggiustato tutto, sebbene faticasse a crederci persino lui. Eri lo aveva abbracciato aggrappandosi alla sua maglia scura a mezze maniche.
 
Ora la ragazza con gli occhi a mandorla dormiva nella sua camera da letto. Non c’era voluto poco per convincerla a riposarsi, per farle comprendere che passare la notte a piangere non avrebbe risolto i suoi problemi, né li avrebbe fatti sparire. Soprattutto Ricardo aveva bisogno di rimanere da solo a rimuginare su tutte le novità che in pochi minuti gli avevano scombussolato le poche certezze della sua vita, rimescolando le carte in tavola. La TV era spenta, non gli interessava neanche più conoscere il risultato della partita che stava seguendo. Vagò per la stanza, con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni di tuta che fungevano da pigiama, facendo tre o quattro volte il giro completo della planimetria, a testa bassa e con le spalle ricurve. Alla fine si fermò davanti al balcone, scostando la tenda. La luce della luna lo rapì. La contemplò a lungo, senza riuscire a togliersi dalla testa la menzogna che Yumiko aveva ordito intorno a sé per tutti quei mesi, come un ragno tesse la sua ragnatela per intrappolare la preda. E un pochino preda e vittima Ricardo si sentiva. Una vocina flebile in fondo alla sua coscienza gli fece notare quanto fosse stato stupido e cieco a non accorgersi prima che la storia della sorella maggiore fosse una farsa bella e buona! E pensare che di campanelli d’allarme ne aveva avuti e non pochi.
I fari di una macchina illuminarono la strada, lo spagnolo non faticò a riconoscere la Toyota Yaris che si stava parcheggiando proprio davanti il portoncino di casa sua. Fece un paio di passi indietro, si voltò e afferrò al volo il cellulare e le chiavi appese dietro la porta d’ingresso, quindi andò incontro a Yumiko.
Questa tirò un sospiro di sollievo vedendolo. Sollievo che sparì quando se lo trovò ad un centimetro, le sbarre di ferro del cancello a dividerli, come la cella di una prigione. Ancor prima che lei potesse parlare, Ricardo volle tranquillizzarla, benché a modo suo:
«Tua figlia è sopra che dorme.»
La donna deglutì, neanche nello spogliatoio, dopo che aveva appreso delle sue dimissioni, le era apparso così incazzato.
«Voglio vederla.» Disse.
«E tu credi che io ti faccia entrare in casa mia dopo tutto questo?» Salas abbozzò un sorriso di sbieco, di rabbia. «Sei matta!»
«Desidero solo accettarmi che Eri stia bene e spiegarti.»
«Ripeto: Eri sta bene e sta riposando. In quanto a spiegarti, beh non credo ci sia molto altro da dire.»
«Eri ha solo sedici anni e io ho il diritto di vederla.» Yumiko si aggrappò alle inferriate del cancello, scuotendolo.
«Oh lo so che hai tutti i diritti di vederla, sei sua mamma.»
«Ecco, appunto! Non costringermi a chiamare la polizia Ricardo, non ti conviene.»
«Lo faresti davvero?» Lo spagnolo era titubante in proposito, la osservò prendere il cellulare dalla tasca del giubbotto e mostrarglielo in segno di sfida. Aveva imparato da qualche parte – forse l’aveva visto in qualche documentario sui felini o forse l’aveva letto su un giornale scientifico – che la volontà di una madre di proteggere i propri cuccioli può essere assai pericolosa. Si decise quindi ad aprirle e con un cenno della mano la invitò ad entrare. Yumiko lo fece senza batter ciglio e tenendo gli occhi fissi dentro quelli del ragazzo.
 
Eri alla fine si era addormentata per davvero, sua mamma lo capì dal respiro regolare e dalla posizione fetale che sempre assumeva il corpo cadendo nel mondo dei sogni, proprio come succedeva a sé stessa. Richiuse la porta con delicatezza e tornò in salotto. Ricardo era in piedi davanti al balcone, il tendaggio era aperto per far entrare la luce pallida della luna e forse per ammirare il magnifico panorama. La donna si sedette sulla poltrona, gli fissò la schiena per qualche minuto, si sentiva solo il ticchettio della sveglia sul muro, le lancette dei secondi scandivano il tempo con una lentezza ansiogena. Alla fine Yumiko si convinse a parlare.
«Te lo avrei detto.» Silenzio. «Questione di giorni, aspettavo solo il momento giusto.» Ancora silenzio. Per quanto la donna parlasse piano la sua voce sembrava comunque fin troppo forte per quell’atmosfera. «Avevo paura che fossi scappato.» Si massaggiò le tempie con i medi. «Cioè sparito… senti, non so come dirtelo!» Si alzò e lo raggiunse alla finestra. «Una volta mi hai raccontato che avevi lasciato una tizia perché aveva un figlio, cosa pretendevi?»
Salas si voltò a guardarla dall’alto, accennò un sorrisino di sbieco, sciolse le braccia intrecciate e infilò le mani nelle tasche del pantalone felpato:
«Baka» Yumiko sbatté le palpebre un paio di volte. Quella era una parola giapponese e significava “stupido”. Le aveva appena dato della stupida nella sua lingua madre per caso? «E pensare che per te stavo anche imparando il giapponese.» Ricardo indicò con un cenno del capo qualcosa i fascicoli di lingua giapponese sparpagliati sulla scrivania, una sorta di corso mensile per imparare la lingua orientale, con tanto di DVD allegato. Yumiko ne sfogliò qualcuno, ad occhio e croce dovevano essere una decina.
«Il padre di Eri è…?» La voce di Ricardo la destò dalla meraviglia.
«Si, è Joaquin.» Qualche altro secondo di assoluto silenzio e poi:
«Lui è davvero morto oppure…?» Yumiko sospirò e si voltò a guardarlo.
«É davvero morto.»
«Capisco.»
«Già.»
Già.
 
Non litigarono. Non si urlarono contro. Alla fine Ricardo Salas sembrava aver compreso le ragioni che avevano spinto Yumiko Okada a mentire su Eri e sul fatto che fossero madre e figlia. In fondo non aveva avuto tutti i torti: se avesse saputo fin da subito la verità molto probabilmente il suo interesse per la donna con gli occhi a mandorla sarebbe scemato ancor prima di affiorare. O forse no.
Di sicuro Oscar aveva avuto ragione quando gli aveva ribadito più volte che quella ragazza non faceva per lui e, viceversa, quando aveva ammonito lei dicendole che Ricardo non era il ragazzo giusto. La drag queen lo sapeva. Conosceva la storia di Yumiko, eppure non ne aveva fatto parola con il suo migliore amico, aveva mantenuto il segreto e Salas non aveva potuto non inviargli un messaggio facendogli notare che era stato un bell’amico di merda. Avrebbe dovuto dirglielo da subito, senza usare troppi giri di parole. Oscar gli aveva risposto che se dormiva a occhi aperti non era colpa sua!
Ricardo non aveva aggiunto altro: Oscar aveva ragione, era stato un vero baka!
Rimasero in silenzio, ognuno sprofondato nella propria poltrona, lontani come se non si fossero rotolati nudi fino alla mattina precedente, come se non avessero occupato negli ultimi mesi l’uno le fantasie dell’altra. Come se non avessero messo da parte le grandi diversità sociali, culturali e religiose solo per seguire i rispettivi cuori. Ma adesso c’era qualcosa che andava all’infuori della loro portata, più grande dell’amore che provavano evidentemente, più complicato delle paure e dei dubbi che li avevano assillati prima di cominciare quella storia – soprattutto per quanto riguardava lei.
Salas sollevò lo sguardo dalle proprie mani, dopo averci rimuginato a lungo decise di chiederle quale sarebbe stata la sua prossima mossa.
«Innanzitutto devo capire che intenzioni ha Eri.» Yumiko deglutì. «Con il figlio intendo.»
«Tu che intenzioni hai avuto con lei quando scopristi che eri incinta?» distrattamente Yumiko si sfiorò l’addome e accennò un sorriso dolce.
«Ovviamente quella di tenerla.»
«Allora perché credi che per lei sia diverso?»
Lo spagnolo aveva perfettamente ragione: Eri fece la medesima scelta che diciassette anni prima aveva fatto sua madre, ora c’era solo un altro piccolo, minuscolo particolare. Dirlo al padre.
 
Kingsley Rodriguez si meravigliò di trovarla fuori ai cancelli di scuola quella mattina. Di sicuro stava aspettando lui perché alzò un palmo in segno di saluto non appena i loro sguardi si incrociarono. Il francese le corse incontro, abbracciandola e baciandola con foga, erano giorni che sognava di farlo e poco gli fregava di quanti li stavano additando e giudicando. Tuttavia Eri sembrava diversa, era pallida, le palpebre livide e aveva l’aria triste. Kingsley le prese il viso fra le mani e lo alzò verso il suo:
«Stai bene?»
«Devo dirti una cosa.» La ragazza lo prese per il polso e insieme si allontanarono dall’ingresso della scuola.
«Vu-vuoi lasciarmi?» Balbettò lui, iniziava ad innervosirsi, mentre lei pensava che con ogni probabilità sarebbe stato lui a fare quella scelta dopo che gli avrebbe parlato. Scosse il capo, sapeva benissimo cosa dire, si era praticamente scritta il discorso e l’aveva provato davanti allo specchio del bagno quella mattina, ma adesso non sapeva neanche da dove cominciare. Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo apprendendo che la sua fidanzata non intendeva scaricarlo.
«Meno male! Per un attimo ho creduto che-»
«Sono incinta.»
Eri lo disse a testa bassa e quando non udì alcuna risposta alzò gli occhietti a mandorla. Rodriguez la fissava a bocca aperta, un’espressione da ebete dipinta sul viso. Se la situazione non fosse stata così drammatica gli avrebbe riso in faccia perché era davvero divertente. Lo scosse per la manica del giubbotto:
«Dì qualcosa Kinsgsley, ti prego.»
«Quindi sei…? Voglio dire, sei…?»
«Si, sono incinta.» Il ragazzo sembrò tornare in trance, prima di riprendere a parlare. «E cosa si fa in questi casi? Scusami se te lo chiedo, ma io non sono pratico di queste situazioni.» Abbozzò un sorriso e finalmente Eri fece lo stesso. Le veniva da piangere, sentiva di provare un profondo sentimento per quel ragazzo e proprio non riusciva ad immaginare un mondo in cui lui non ci fosse più:
«Ho deciso di tenerlo.» Si zittì e attese qualche secondo per lasciargli il tempo di metabolizzare la notizia. «Ritorno in Giappone, Kingsley. Ritorno a casa.»
Quella fu la notizia che spiazzò Kingsley Rodriguez ancor più della gravidanza. Gli occhi scuri gli si riempirono di lacrime. L’abbracciò, scongiurandola di non farlo, di non lasciarlo, di non abbandonarlo. Non aveva nessun altro al mondo, lei era la sua fidanzata, la sua amica, la sorella che non aveva mai avuto, la mamma che non aveva mai conosciuto. Eri lo lasciò sfogarsi senza dire nulla, oramai la decisione era stata presa e l’avevano decisa insieme - lei e sua madre Yumiko - quindi niente ripensamenti, niente rimpianti. Tuttavia Kingsley fece una cosa che la destabilizzò completamente: le posò il palmo della mano in grembo e con il viso bagnato di pianto pregò:
«Vi supplico, vi prego, non lasciatemi solo, ho bisogno di voi.»
Questa volta fu Eri ad afferrargli il volto fra le mani e a baciarlo. «Ok» disse, stavano piangendo entrambi lasciandosi qualche fugace bacio sulle labbra. «Ok, ok, ok.»
 

Epilogo

 
Ritrovandosi dinnanzi al maestoso palazzo del ministro Matteo Rodriguez Yumiko un po’ si pentì di aver accettato l’invito avanzatole dalla segretaria dell’uomo Rospo che aveva conosciuto in presidenza. Ripensandoci non era sembrato tanto un invito, quanto un ordine. Di male in peggio insomma. Eri se ne stava alla sua destra, sembrava così inerme che sarebbe stata pronta a difenderla con le unghie e con i denti se solo qualcuno avesse provato a ferirla. Alla sua sinistra c’era Ricardo Salas. Quest’ultimo era stato presente quando la segretaria di Rodriguez le aveva telefonato per darle appuntamento per quel pomeriggio:
«Il ministro ha qualcosa di importante da comunicarle» aveva detto. Il suo ex superiore si era offerto di accompagnarle e quando Yumiko gli aveva fatto notare che non doveva farlo per forza, che non potevano ancora abusare della sua gentilezza, lui aveva risposto che: 1) non conosceva la strada per arrivare all’abitazione; 2) Eri non se la ricordava e 3) conoscendo il soggetto in questione era meglio una presenza maschile.
In effetti, sentendosi così piccola e inetta di fronte a quell’imponente costruzione in muratura, Yumiko fu sollevata di avvertire la presenza dello spagnolo al suo fianco.
Rosita, la governante, accompagnò gli ospiti in biblioteca, ove il ministro Rodriguez e il giovane francese li attendevano. Fu proprio quest’ultimo ad aprire il discorso, spezzando quell’atmosfera di pesante imbarazzo circondando le spalle di Eri con un braccio e presentandola a suo padre adottivo come la sua fidanzata. La ragazzina si chinò in avanti e l’uomo la osservò con una smorfia:
«Una cinese!»
«Sono giapponese, signore» spiegò Eri.
«Fra tanti popoli una cinese de mierda
Kingsley fece per controbattere e in contemporanea Ricardo fece un passo in avanti, ma furono entrambi preceduti da Yumiko che tirò indietro sua figlia da quel mostro e sbottò:
«Abbiate rispetto per i popoli, signor Rodriguez.»
«Ministro.»
«Signor andrà benissimo! Siamo giapponesi, nelle nostre vene scorre il sangue dei coraggiosi samurai e dei valorosi maestri di Karate. E nelle vostre vene invece, quale sangue avete?» L’uomo strinse i pugni. Quella donna non gli era piaciuta al primo sguardo in presidenza e ora capiva il perché: era troppo indisponente per il concetto che aveva di femmina. «Non conoscete neanche la storia del vostro popolo e osate farvi beffe degli altri.» Eri rise sotto i baffi, le mani salde di sua madre sulle spalle erano confortevoli. Anche Kingsley abbozzò un sorriso, scambiandosi uno sguardo d’intesa con Ricardo.
«Signor Rodriguez.»
«Ministro.»
«Non sono venuta per tenervi una lezione di storia, bensì per chiederle di lasciar partire suo figlio con me, in modo che lui e mia figlia Eri possano crescere insieme il loro bambino.» Il ministro si accomodò su una sedia.
«Non se ne parla. Quell’ incompetente mi serve qui e non in Giappone!» Batté il palmo sul tavolo ed Eri sobbalzò.
«Fra un anno sarò maggiorenne, non potrai sfruttarmi in eterno!» urlò il ragazzo francese, ma suo padre sembrava irremovibile.
«Kingsley sarà mia responsabilità, ne avrò cura come se fosse figlio mio.» Intervenne ancora Yumiko che si era allontanata da Eri per avvicinarsi al Rospo. Quest’ultimo rise.
«Non sei stata in grado di badare a quella mocciosa, figuriamoci con due di loro.»
Yumiko si sentì ferita nell’orgoglio; alle sue spalle Ricardo Salas fece qualche passo indietro, prese l’ I-Phone dalla tasca del giubbotto e avviò una telefonata.
Dopo qualche minuto di accesa discussione Rosita tornò a bussare alla porta della biblioteca, annunciando un nuovo ospite e chiedendo al ministro se aveva il consenso di farlo entrare. Matteo Rodriguez si alzò e alterandosi chiese chi fosse, non aspettava nessuno, ma proprio in quel momento Oscar comparve alle spalle della governante, ringraziandola con una mano sul braccio. La donna arrossì e si congedò con un inchino. Oscar era più bello che mai: i capelli neri si erano allungati un po’ e gli donavano quell’aria da trasandato che lo rendeva quasi surreale, come quei fotomodelli immortalati in una foresta, fra liane e coccodrilli, sporchi e sudati ma dannatamente sexy. Si tirò via i guanti con i denti, un dito per volta, e li tenne stretti nella destra:
«Allora, qual è il problema?» Chiese sedendosi con un balzo sul tavolo, dando le spalle al ministro e fissando negli occhi uno per uno i presenti: Yumiko, Eri, Kingsley e Ricardo che se la stava facendo addosso dalla risate. Oscar gli strizzò l’occhio, sembrava di esser tornati indietro nel tempo, a quando si divertivano con quegli sketch architettati da Rodriguez ai tempi della scuola. Il piccolo Rodriguez sembrava imbarazzato dalla presenza dell’ultimo arrivato, l’immagine di quell’uomo in atteggiamenti equivoci con suo padre era ancora ben impressa nella mente. Eri invece era la ragazzina vispa che aveva incontrato la prima volta alla gelateria, sempre molto attenta a quello che le accadeva intorno, i suoi occhietti curiosi non facevano che balzare da un soggetto all’altro presente nella stanza e quando notò lo sguardo d’intesa fra la drag queen e Ricardo sorrise con loro, come se fosse stata complice di quella messa in scena. Infine c’era Yumiko, più sbalordita del ministro Rodriguez. In un sussurro chiese ad Oscar cosa ci facesse lì, ma lui le fece cenno di stare tranquilla, sarebbe andato tutto bene.
«Il problema è che il ministro Rodriguez ostacola il giovane amore fra suo figlio e questa dolce fanciulla» spiegò in modo alquanto cavalleresco Salas, strappando un risolino ad Eri che sembrava divertirsi come se in ballo non ci fosse il suo futuro.
«Male, male, male.» Oscar si voltò indietro. Matteo Rodriguez era in piedi, la bocca aperta a formare una O in perfetta sintonia con la forma del viso, balbettava manco stesse per soffocare. «E per quale motivo non vuoi che questi due ragazzi vivano il loro amore serenamente?» Di nuovo quei balbettii simili a grugniti. Oscar gli carezzò la testa e il viso «Schhh!» Continuò con le carezze. «Facciamo così, tesoro, tu li lasci liberi di vivere la loro vita e io non divulgherò tutte le foto di me e di te… insieme.»
«No-non lo faresti ma-mai!»
« … e i video che tanto ti diverti a fare…»
«Q-questo si chiama ri-ricattare.»
«… e le lunghe chiacchierate in chat. Si possono stampare quelle cose?» Oscar si voltò indietro per chiederlo ai presenti.
«Va-va bene! Va bene!» Esclamò Rodriguez, l’aria sconfitta. «Vai! Vai dove cazzo ti pare!» Aggiunse rivolto a Kingsley. Eri saltò addosso al ragazzo, entrambi saltellavano come canguri, trascinando con loro Yumiko che però si allontanò dopo qualche saltello. Non era ancora finita. Si accostò all’uomo, già raggiunto da Ricardo, adesso avevano bisogno che mettesse tutto per iscritto, un foglio di carta firmato che avesse validità almeno per un anno. Il tempo necessario affinché il francese arrivasse alla maggiore età insomma.
Attesero in silenzio che il ministro finisse di scrivere. Oscar e Salas lo lessero per tutti: era davvero finita.
 

 
Fra una ventina di giorni sarebbe stato Natale e le strade della capitale iniziavano a colorarsi di rosso, di bianco, di blu e argento. Eri adorava il Natale, lo considerava l’unica festa che potevano festeggiare tutti, anche chi non credeva in Gesù come lei. Aveva desiderato con così tanta forza di trascorrere il 25 dicembre a Tokio che forse aveva esagerato con le preghiere.
L’aeroporto brulicava di viaggiatori di ogni specie, colore e razza. Oscar aveva già salutato i due ragazzini e gli era parso di sentire Eri bisbigliargli che somigliava ad un attore spagnolo che trovava strafico. Anche Kingsley l’aveva ringraziato allungandogli la mano: in fondo da lui non poteva pretendere di più, lo capiva e apprezzava comunque lo sforzo. Molto più difficile era stato dire addio a Yumiko. Era stata una buona amica per lui, soprattutto contando il fatto che ne aveva avute poche, la maggior parte delle ragazze che conosceva finivano per innamorarsi dei suoi modi gentili e alla fine era costretto a spezzar loro il cuore. Oscar l’abbracciò forte, la donna orientale era così piccina che gli arrivava all’altezza del cuore e spariva nel suo abbraccio. Le posò un bacio sulla testa e quando si accorse che il suo corpicino era smosso da tremori di pianto le sussurrò di non farlo, non c’era motivo di piangere, che doveva essere felice per tanti, tantissimi motivi.
«Ad esempio?» Aveva chiesto lei con la voce rotta dalla commozione e Oscar le aveva risposto che non spettava a lui elencarglieli, anche perché lei li conosceva benissimo. Quando si avvicinò Ricardo Salas la drag queen le stampò un ultimo bacio sulla fronte e si allontanò, incoraggiando l’amico con una leggera pacca sulla spalla, non l’aveva mai visto così triste.
Lo spagnolo si accostò un passetto alla volta, le mani chiuse a pugno e nascoste nelle tasche dei jeans. Yumiko si pulì gli occhi dalle lacrime, allargando le labbra in un sorriso nervoso:
«Oscar è stato il primo amico che ho avuto qui, in Spagna.»
«Solo perché io non ero ancora tornato.» Salas cercò di alleggerire la tensione e ci riuscì strappando dei risolini, seppur nervosi. Fece un altro passo in avanti, ora erano uno di fronte all’altra, quasi si toccavano. «Hai avvertito tua madre, la tua okaasan, che ritornate?» Yumiko sorrise ancora udendo quella parola in giapponese.
«Si, le ho telefonato. Dice che è molto contenta. Aspetta di sapere che siamo partite in due e torniamo in quattro!» Questa volta fu lei a far sorridere lui, poi rimasero a guardarsi per un po’.
«Cosa farai una volta lì?» Domandò lui e la ragazza fece spallucce, cielo e se aveva voglia di una sigaretta.
«Mi cercherò un lavoro prima di tutto.» La voce di Eri la raggiunse e le fece cenno che iniziavano ad imbarcare per il loro volo. Fra tutti la più felice era proprio la ragazzina e come darle torto, aveva ottenuto tutto quello che aveva desiderato: tornare in Giappone e portare con sé il suo grande e primo amore. Con qualcosa in più, una specie di extra.
«Tornerai mai in Spagna Yumiko?» Continuò il ragazzo, i pugni nelle tasche si strinsero con maggior forza.
«Certo che torneremo.» La voce le tremò un pochino, se aveva pianto con Oscar figuriamoci con lui. «Ho la scheda telefonica di qui, magari potremmo sentirci a telefono.»
«Magari.»
Si sorrisero con infinita tristezza. Ricardo sciolse i pugni e con la mano destra le carezzò la guancia, asciugando le lacrime che avevano cominciato a bagnarla. Lentamente la baciò, le lingue si mossero al rallentatore, quasi a voler assaporare quell’ultimo momento insieme, ripercorrendo con la memoria tutto ciò che li aveva portati a quel preciso istante.
Sarebbe davvero potuta funzionare fra loro?
Difficile a dirsi, per certi versi sembravano fatti l’uno per l’altra, per altri…
 
Eri sghignazzò osservando il bacio fra sua madre e Ricardo Salas: si baciavano come se non esistesse un domani. E in effetti per loro non esisteva. Kingsley le era seduto di fianco. Da quando suo padre aveva accettato di lasciarlo partire non si era separato un attimo dai fascicoli di lingua giapponese che gli aveva regalato Ricardo. Era già arrivato a leggere il secondo. Si era messo in testa che una volta a Tokio non voleva dipendere da nessuno, in particolare non voleva essere di peso a Yumiko, il cui rapporto fra i due stava adesso decollando e la strada sembrava tutt’altro che in discesa.
Eri lo distolse dalle regole grammaticali con una gomitata e Kingsley si voltò a guardarla, la sua fidanzata si stava accarezzando la pancia. Macchia, la cagnolina, le era accoccolata sulle gambe:
«Stavo pensando: se fosse maschio potremmo chiamarlo Oscar.»
«Sono d’accordo.»
«E se fosse femmina?» Eri sembrò improvvisamente allarmata, ma lui le sorrise e aggiunse:
«Oscar.»

 

fine


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N.d.A.

Innanzitutto vorrei ringraziare coloro che hanno letto fino in fondo questa storia, ma in particolare sono due i nomi da citare: mistery_koopa che ha letto e commentato capitolo dopo capitolo (facendomi notare errori che altrimenti sarebbero rimasti lì per sempre) e dandomi “la forza” di concluderla, e alessandroago_94, il quale ha letto e recensito 15 capitoli di fila in una sola giornata (un record!!!).
Grazie ragazzi.
Nina Ninetta

  
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