Sono
profondamente dispiaciuta per i tempi che ho impiegato a pubblicare questo
aggiornamento. Purtroppo un impegno imprevisto al lavoro mi ha completamente
fagocitata nelle ultime settimane. Va da sé che non mi aspettavo di dovermi
così bruscamente arrestare e che di certo, se l’avessi saputo, avrei ritardato
la pubblicazione del primo capitolo. Purtroppo capita anche questo.
Detto
questo, aggiungo che sono felicissima!!
Sono
ritornata ed ho ritrovato tante persone ad attendermi, pronte ad incitarmi!
Che
belloooooo!!!
Ribadisco
che questo OVA è per voi e vi chiedo di nuovo clemenza e di accettare almeno il
pensiero.
Grazie
di essere qui.
Another world OVA
Il fantasma del
Natale passato
Capitolo 2
Caro
lettore, mi trovo nella circostanza di affermare con decisione che questa
storia possa iniziare soltanto in un modo e cioè comunicandoti che quel Natale
non si stava affatto svolgendo come Emma aveva immaginato.
Quale
Natale, dirai tu?
Ma
un Natale passato, naturalmente.
E
cosa è successo di così spiacevole in questo Natale passato, ti chiederai poi?
Suppongo
che tu debba restare ancora per un po’ con questo interrogativo, che del resto
volevo farti sorgere fin da subito, motivo per cui ho affermato che questa
storia non poteva che iniziare con la dichiarazione dogmatica di cui sopra.
Forse
però ti è sfuggito che ti ho già concesso un indizio: ti ho rivelato che questo
Natale di Emma non stava andando come lei si era immaginata perché c’è stato
qualcosa di spiacevole. L’avevi capito da solo? Devi essere allora una persona
piuttosto pessimista perché, non conoscendo ancora le aspettative di Emma, non potevi
certo stabilire se le sue speranze erano state disilluse o se, al contrario,
c’era stata una bella e piacevole sorpresa ad aspettarla.
Mi
pare perciò adesso scontato dirti che le sue aspettative erano alte. Sì, perché
nella sua testolina di bambina di nove anni, lei aveva trascorso molto tempo a
figurarsi quelle giornate di festa, entusiasta.
Era
infatti da sempre abitudine della famiglia di Emma trascorrere alternativamente
un Natale a Londra ed un Natale a Roma, coi rispettivi parenti materni e paterni,
divisi tra l’Italia e la magica isola oltre la Manica.
E
quell’anno toccava all’Inghilterra, che Emma adorava letteralmente, perché durante
le vacanze lì, da che ne aveva ricordo, si era sempre divertita con i suoi due
cugini che, più o meno suoi coetanei, erano stati soprannominati in famiglia
“le due J” per via dei loro nomi, che ovviamente iniziavano entrambi per J. Sia
che fossero a casa dei nonni, sia che fossero dagli zii, le giornate
trascorrevano in una sorta di festa continua, dalla quale i tre ragazzini, se
fossero stati da soli, di certo non si sarebbero mai allontanati, dimenticando anche
di pranzare o cenare, tante erano la foga e la concentrazione nel gioco.
Inoltre,
questi due fantomatici cugini seguivano Emma attivamente nei suoi mille
progetti e potevano mettere a disposizione una discreta mole di giocattoli,
sempre ben accetta e foriera di idee nuove. Naturalmente, a casa sua, anche lei
ne aveva, di giocattoli, e lì li consumava fino all’inverosimile, ma era
evidente che, dovendo affrontare il viaggio in aereo, non poteva mai portarseli
dietro. Quindi, ogni volta, si era affidata ai “possedimenti” delle due J,
rimanendone decisamente estasiata.
E
tu non stupirti di questo, perchè sai bene come le atmosfere non abituali, la
compagnia agognata di personcine che non si possono vedere tutti i giorni e
luoghi normalmente poco battuti possano conferire al divertimento quel pizzico di
sale in più, un sale unico ed irreperibile nella propria quotidianità. Inoltre
e più semplicemente, dovresti essere altrettanto consapevole del fatto che i
giochi degli altri possono essere spesso immensamente più accattivanti dei
propri, almeno all’inizio, perché sono una novità, sono eccitanti, specialmente
se si ha poco tempo a disposizione per poterli “sfinire” e farli diventare “propri”,
come gli altri. E mi permetto di aggiungere che questo discorso non sia valido
solo ed esclusivamente per i giocattoli e per quegli strani esseri che sono i
bambini.
Perciò
la piccola Emma, che aveva il ricordo vivo dell’ultimo Natale trascorso con i
suoi cugini, che era stato il più bello in assoluto, visto che erano tutti un
po’ più grandi e quindi più “maturi” nell’organizzazione del divertimento, ma anche
perché probabilmente era il primo che ricordasse meglio dei precedenti, vista la
sua giovane età, era eccitatissima e non vedeva l’ora che quelle giornate
arrivassero.
Quell’anno
tra l’altro c’era anche una novità piuttosto insolita ma elettrizzante. Visto
che nei giorni immediatamente precedenti la Vigilia il papà di Emma avrebbe
dovuto recarsi a Liverpool per lavoro, dopo una serie di ipotesi scartate sul
come regolarsi, era arrivata la proposta di zii e nonni: e se tutti e tre -
mamma, papà ed Emma - fossero partiti insieme per Londra qualche giorno prima
del previsto e poi da lì i genitori avessero proseguito per Liverpool, lasciando
Emma per due giorni sola con i nonni? O meglio, con i nonni o comunque con gli
zii, ma soprattutto insieme alle “due J”, ventiquattro ore su ventiquattro? Ad appassionare
Emma era stato naturalmente proprio quest’ultimissimo dettaglio, saggiamente
proposto dagli zii, che si erano offerti di averla a casa con loro o comunque
di portare i propri due figli dai nonni in modo che i tre ragazzini potessero
stare insieme.
In
sintesi mi pare ovvio che la possibilità di trascorrere anche le notti con le “due
J” fosse assolutamente unica.
E
naturalmente così fu stabilito.
Perciò
Emma, con l’aiuto della mamma, si era diligentemente preparata tutte le sue
cose e, la notte prima della partenza da Roma, era stata su di giri. Avrebbe
voluto fare un salto ed essere già a Londra ed invece davanti aveva ancora
tutta la notte, il tragitto fino all’aeroporto, l’attesa lì, e poi il volo…
Quanto tempo ancora!
Ma,
caro lettore, quel tempo era passato. Sebbene sembrasse infinito,
incredibilmente quel tempo era passato. Misteri dell’esistenza.
E
adesso Emma era finalmente arrivata all’aeroporto di Gatewick.
Con
uno zainetto sulle spalle, che costituiva il suo primo bagaglio personale
distinto da quello dei genitori e che quindi la faceva camminare a testa alta,
come una piccola adulta, si avvicinò insieme a loro verso l’uscita del terminal.
Si
fermarono tutti e tre poco prima delle porte scorrevoli oltre le quali doveva
trovarsi il nonno, che era venuto a prendere la nipote perché, da lì, madre e
padre avrebbero proseguito per Liverpool e quindi non sarebbero usciti insieme
ad Emma. C’erano molti altri viaggiatori in arrivo che varcavano quelle soglie,
quindi le fotocellule lasciavano il passaggio sempre aperto ed i genitori di
Emma iniziarono a sbirciare oltre, tra la folla in attesa dall’altra parte, e
scorsero il nonno.
Quell’ambiente
di passaggio non aveva finestre e poteva godere di una scarsa e bianchiccia
luce artificiale, mentre un odore indefinito e fastidioso, come di gomma o
plastica, o ancora di automobile, lo pervadeva completamente. Un tanfo continuo
e non fortissimo di un qualcosa di “finto” che Emma non sapeva definire.
Ebbene,
in questo luogo e davanti a quegli scorrevoli, Emma guardò la mamma.
E
le salì un nodo alla gola.
Nonostante
le esaltanti aspettative e sebbene si sentisse comunque felicissima ed
eccitatissima, salutare i genitori, salutarli in quel posto anonimo e
dall’odore sgradevole e salutarli sapendo che sarebbero stati lontani per due giorni
le fecero venire una tremenda ed immediata voglia di piangere.
Si
fece allora seria seria.
«Pronta?»
chiese con serenità suo padre, che tutto sommato si era aspettato un momento
simile.
Emma
non riuscì a parlare, perché il nodo alla gola si stringeva forte.
Poi,
in un tripudio di forti e diverse sensazioni, confuse tra la voglia di piangere
e l’eccitazione, ingoiò risolutamente ed
annuì.
«Bene,
allora dai, che il nonno ti aspetta e le due J non vedono l’ora che arrivi!» la
esortò la mamma «Pensa a divertirti, che tanto ti telefoniamo stasera e
comunque ci vediamo dopodomani mattina, alla Vigilia!»
Emma
annuì di nuovo, seria.
I
genitori la baciarono e poi, quasi in coro,
aggiunsero «Va’»
Emma
fece un saltellò per aggiustarsi la giacca a vento sotto le bretelle dello
zainetto, si voltò, individuò il nonno che già le sorrideva oltre le porte e
cominciò subito a correre con quel fagottello ballonzolante sulle spalle, varcò
gli scorrevoli e fu dall’altra parte, dove l’aria era più fresca e “pulita”, c’era
molta più luce e tante persone ridevano contente abbracciandone altre, mentre
quell’antipatico odore di “finto” era molto meno pungente.
Fuori
aveva appena iniziato a nevicare ed Emma, in un attimo, si ritrovò ad aver già
dimenticato il breve momento di tristezza che l’aveva colta solo poco prima.
Mi
pare opportuno adesso indugiare appena un po’ su questo nonno, che ti ho
nominato ormai svariate volte.
Ebbene,
il nonno di Emma era un insegnante delle elementari sulla soglia della pensione
e, per il comune ed oggettivo sentire, non poteva certo dirsi anziano, sebbene
per la nipote naturalmente lo fosse, e anche tanto. Non farti beffe di
quest’ultima affermazione, perché, se non ti è già capitato, prima o poi
succederà anche a te, nel pieno delle forze, di essere appellato “vecchio” da
un marmocchietto che non ti arriva nemmeno al punto vita.
Ma
torniamo al nonno di Emma. Aveva una corta barba curata, punzecchiata di
bianco, il bel pancione tondo degli amanti della buona tavola, anche se nel
complesso non si sarebbe potuto definire grasso, e delle giacche spesso
consunte sui polsi, che facevano bofonchiare un po’ la nonna, molto meno comunicativa
di lui, ma piuttosto indulgente – e su di lei, questo ti basti, perché la trovo
un po’ indolente ed anche poco stimolante. Lui invece era simpatico, ma non nel
modo compassato e “british” che ci si sarebbe potuti aspettare, piuttosto in
effetti il suo essere divertente sembrava espansivo e più “mediterraneo”. Non
era però ingenuo o indulgente, perché soprattutto era un uomo schietto e sapeva
esserlo in modo incredibilmente saggio, sia che si trattasse di esprimere giudizi
positivi sia negativi. E questa sua peculiare caratteristica, naturalmente, lo
aiutava parecchio nel suo rapporto con i bambini ed in un certo qual modo
sembrava essere stata ereditata da Emma, che però non sapeva ancora gestirla
con la medesima saggezza e forse non ci sarebbe mai riuscita.
In
un’oretta scarsa arrivarono a casa, dove però non li attendevano grandi
notizie…
Ci
siamo.
«Emma»
esordì il nonno «la zia ha telefonato poco fa, ci ha parlato la nonna. Le due J.
sono a letto con la febbre alta… Fino a stamattina sembrava stessero bene…
Questa sera non vi potrete vedere e temo proprio che non potrete nemmeno domani…»
Emma
rimase ferma.
I
suoi pensieri ed il suo umore cambiarono in un attimo.
Com’era
possibile essere così felici e poi così tristi subito dopo?
A
meno che tu non sia una persona estremamente fortunata, che non ha mai subito
nemmeno una delusione, credo che anche tu possa capirla, anche se forse nemmeno
tu sapresti spiegarle il perché di alcuni repentini cambiamenti della vita.
L’espressione
di Emma mutò con la stessa rapidità delle sue sensazioni e divenne in un attimo
così sconsolata che fu difficile per il nonno replicare all’istante.
Anche
perché Emma non fiatò.
Rimase
zitta, con quella faccetta delusa e gli occhi adombrati.
L’unica
cosa che disse, dopo lungo tempo e con una vocetta un po’ strozzata, fu «Non mi
sono nemmeno portata i miei giochi…» e ovviamente l’immediato e successivo
pensiero fu che avrebbe voluto avere i genitori lì.
Le
vennero gli occhi lucidi.
Quella
fu forse la prima grande delusione della sua vita o, perlomeno, la prima di cui
potesse percepire la tristezza sorda e insinuante che provano gli adulti,
perché ora lei era più grande. Sì, perché quella era una piccola grande
delusione di bambina, di quelle che si ricordano anche dopo, magari con un
sorriso.
Mi
sento di poter ribadire a questo punto che no, decisamente quel Natale del 1991
non si stava affatto svolgendo così come aveva immaginato la giovanissima Emma,
che dopo aver tanto atteso si ritrovò solo con un pugno di sabbia che sfuggiva irrefrenabile,
asciutta e fine, tra le piccole dita.
«Forza
e coraggio!» esordì il nonno «Ci inventeremo dei giochi, ti porterò a pattinare
alla pista di ghiaccio in centro e per la Vigilia starete tutti insieme!»
Emma
rimase seria ed in silenzio, accennò un sì col capo, ed il suo pugnetto chiuso si
strinse intorno a quella sabbia sfuggente, residuo della speranza.
Ma
l’arena asciutta, purtroppo, è destinata a volare via, è nella sua natura, ed
infatti la situazione purtroppo non migliorò affatto nei due giorni successivi
e crollarono anche le deboli speranze prospettate dal nonno.
La
neve incessante e potente impedì l’escursione alla pista di pattinaggio e, a
quanto pareva, le due J si erano prese un’influenza con la “I” maiuscola ed il
giorno della Vigilia fu chiaro che avrebbero perso anche le feste di Natale e sarebbero
dovuti restare a casa con aspirine, termometri e pianti disperati, perché
ovviamente, oltre alla feroce influenza, erano anche andati struggendosi per
non poter trascorrere quei giorni tutti insieme.
Quel
che si dice una tragedia, insomma.
Potrei
ribadirti ulteriormente il concetto espresso all’inizio di questa storia, ma
immagino tu possa convenire con me che non ce ne sia bisogno, anche perché la
“tragedia” è ancora in atto.
Di
fatti, se la dissoluzione di un’aspettativa ed il successivo svanire di una residua
speranza sono certamente eventi cupi, riconoscerai che lo sgretolarsi repentino
di una certezza può essere drammatico.
La
perturbazione che aveva tartassato il sud dell’isola, ricoprendo Londra di più
neve di quanto non fosse mai accaduto, si era lentamente spostata a nord-ovest
e lì si era trasformata in una vera bufera: le vie di comunicazione erano
interrotte, tutti i voli da Liverpool e dintorni erano stati cancellati ed i genitori
di Emma non sarebbero potuti arrivare a Londra né per la Vigilia né,
apparentemente, per il 25 dicembre.
Mi
correggo. Adesso è una vera “tragedia”.
No,
quello non era Natale.
Non
poteva essere veramente Natale…
Anche
se ti potrà apparire lampante, è comunque opportuno precisare che per Emma
trascorrere il Natale con i propri genitori non era nemmeno una certezza,
perché per poterla definire come tale la bambina avrebbe quantomeno dovuto
porsi la questione, ma stare con mamma e papà in quei giorni natalizi era per lei
tanto ovvio quanto il susseguirsi del giorno e della notte, sui quali, per
l’appunto, non c’era alcuna questione da porsi. Era così, punto.
E
invece no. In quel Natale Emma scoprì che non era così.
E
lo scoprì, ancora una volta, in silenzio.
Pianse
soltanto all’inizio, molto, e poi non parlò.
Era
mesta e per certi versi anche arrabbiata, sebbene non le fosse ben chiaro con
chi essere arrabbiata, a tratti coi cugini, a momenti coi genitori, ma poi si
sentiva quasi in colpa per quella specie di rancore, perché loro gli mancavano,
tanto, e quindi non capiva se ciò che provava fosse giusto o sbagliato. Forse
era già abbastanza grande da non esplodere più in reazioni esagerate di pianto
e capricci o magari invece il fatto di rinchiudersi in un bozzolo di
riservatezza faceva già parte del suo carattere. Qualunque fossero i motivi del
suo atteggiamento taciturno, la verità era che quella reazione era comprensibile
e naturale, ma lei non parlò lo stesso.
Aspettò.
Se
ne stette quieta e taciturna, un po’ in disparte, con indosso una tutina da
ginnastica un po’ scolorita e la testolina dai cortissimi capelli neri china su
un qualche disegno, con quell’aspetto da maschietto che sempre l’avrebbe
caratterizzata, anche in futuro.
E
aspettò.
E
così aspettando, passò la Vigilia ed arrivò la mattina di Natale.
Emma
ricevette dai nonni un bellissimo gioco da tavola, che aveva desiderato tanto e
che, per ironia della sorte, essi le avevano regalato proprio perché potesse divertircisi
con i due cugini.
Di
certo la bambina non poté ignorare che quel regalo tanto desiderato fosse bellissimo,
più di quanto avesse immaginato, e si rianimò un po’ nello stare intorno alla
tavola, intenta a cercare di capirne le regole insieme al nonno. Si trattava inoltre
di un gioco “da grandi”, dove addirittura si doveva indagare come gli
investigatori per scovare un assassino, ed infatti ci si poteva giocare solo
dagli otto anni in su. Ed Emma era naturalmente orgogliosa di poter dire che
aveva raggiunto da molto tempo questa meta.
Il
problema era che al momento Emma aveva a disposizione solo il nonno ed a quel
gioco non si poteva giocare in due – ti ho già detto che la nonna non mi è
sembrata molto stimolante e partecipativa, quindi la scuserai quando saprai che
aveva declinato l’invito a giocare “perché era troppo ‘grande’ per certe cose, perchè
non ci avrebbe capito nulla”… poco stimolante e poco partecipativa, ma direi
anche un po’ egoista, tu che ne dici?
Comunque,
a quel punto Emma iniziò a rimuginare sul fatto che la cosa più bella del gioco
fossero i luoghi e l’atmosfera, perché tutto sommato le regole apparivano
abbastanza semplici… Quindi pensò che sarebbe stato bello mettere su una
sceneggiata in cui tutti interpretassero i personaggi del gioco, dal vero. Ideò
anche un paio di modifiche da apportare allo studio del nonno perché diventasse
simile ad una delle location rappresentate nel gioco. Sarebbe stato fantastico.
Ma
poi chi avrebbe potuto giocare con lei?
Provò
timidamente ad esprimere la sua idea al nonno.
«Uhm…»
cominciò lui pensieroso «Penso che sia un ottimo progetto e possiamo sistemare
lo studio, insieme. Mi piace. Ci vorrà un po’. Ma credo anche che, una volta
fatto, domani e purtroppo forse anche dopodomani non avrai certamente a
disposizione i personaggi per poterci giocare come si deve... Avresti un
magnifico teatro, ma nessun attore dignitoso, perché dubito che io e la nonna
possiamo essere considerati dei personaggi decenti per il tuo progetto. E mi
sentirei anche di aggiungere che in questi giorni hai atteso fin troppo, per
ricevere poi solo delusioni, e non mi pare il caso di produrne di nuove. E poi,
soprattutto, sei già stata abbondantemente circondata da troppi adulti…»
L’uomo
rimase quindi in silenzio per un po’, come rimuginando, e poi riprese «Però…
Ascolta, Emma, ti andrebbe bene se ci occupassimo di attrezzare lo studio
domani? Così, se avessimo bisogno di qualcosa in più, potremmo sfruttare anche
dopodomani ed i negozi aperti per fare qualche giretto ed acquistare ciò che
manca. E nel frattempo magari le due J si saranno rimesse in sesto. Però per
oggi avrei un’idea…» era serio ma gli brillavano gli occhi «E onestamente mi sento
anche uno stupido a non averci pensato prima!»
La
bambina lo guardò in silenzio, attenta e seria seria.
«D’accordo.
Vediamo se riesco ad organizzare quello che mi è venuto in mente. A me basta
che ti fidi e che sia disposta ad uscire insieme a me subito dopo il pranzo di
Natale, altrimenti sarà troppo tardi, ed a stare tutto il giorno fuori. Il
resto è una sorpresa.»
«Sì»
rispose lei decisa.
«Bene.
Pranzeremo prima del solito e poi io e te usciremo! Sarà un Natale molto diverso
dal solito. Ah, e portati anche questo gioco! Ora va’ a prepararti, che io faccio
una telefonata.» e si alzò risoluto.
E
la nonna? Te l’ho già detto che era indolente ed indulgente, è sufficiente.
Quanto
al nonno, Emma naturalmente non ci pensò allora, ma io credo che in cuor suo
avrebbe dovuto ringraziare di ritrovarsi un nonno tutto sommato piuttosto
giovane, propositivo ed impaziente di mettersi tranquillamente in automobile dopo
il pranzo di Natale.
Perché
fu proprio in auto che la bambina si ritrovò, curiosa ed imbacuccata sopra la
sua tuta da ginnastica scolorita.
Lasciarono
una Londra decisamente poco trafficata e percorsero strade dai cigli innevati,
immerse nella campagna dello Hampshire ricoperta dalla fitta e ferma coltre bianca
caduta nei giorni precedenti. Dopo quel tempo inclemente, era incredibilmente arrivata
una bellissima giornata ed il sole, che sarebbe calato dopo poche ore, era
ancora luminoso.
Giunsero
in una piccola cittadina che, completamente addobbata a festa e dal sapore
antico, sembrava uno di quei villaggi ricostruiti dentro le sfere di vetro dei
negozietti di souvenir, quelle con la neve finta.
Il
nonno parcheggiò lungo il marciapiede di una strada costeggiata da un alto muro
di mattoni rossi.
«Siamo
arrivati.» le disse sfilando la chiave dell’accensione dal cruscotto.
Scesero
dalla macchina e subito li raggiunsero voci di bambini, al di là dell’alto muro.
Il
nonno guidò la nipote verso un cancello di ferro, attraverso le cui sbarre brunite
sbirciarono il grande parco
completamente innevato che si trovava all’interno e dove spiccavano
allegramente i giubbotti colorati di tanti ragazzini.
Emma
strinse la scatola gialla del gioco che teneva tra le braccia.
Ed
un accenno di speranza e trepidazione le illuminò le labbra e gli occhi.
È
laborioso spiegare cosa scatti nella testa di un bambino quando si trova in
vicinanza di un suo simile, specialmente in una situazione in cui non si
aspetta di trovarne o se è stato a lungo da solo. Caro lettore, se ci provi,
potrai riuscire a ricordartene ed io potrei tentare di aiutarti nel farlo. Forse,
è come se nel bambino si attivasse una specie di calamita, che lo attira verso
quelle personcine sconosciute, ma comunque indiscutibilmente affini, appartenenti
allo stesso pianeta; una calamita frenata a volte dalla timidezza, dalla
diffidenza e dal fatto che ancora non le conosce, ma una calamita ben evidente
dallo sguardo, che rimane serio ed incollato proprio a quelle personcine
sconosciute e nel quale sembrerebbe di leggere “Forse sono salvo!”.
Posso
assicurarti che Emma provò questo genere di sensazione ed effettivamente, al di
là delle delusioni e della mancanza dei genitori, convengo con l’affermazione
di suo nonno: erano anche troppi giorni che si era ritrovata costretta nella
casa dei nonni, senza poter uscire, senza giochi e circondata da soli adulti.
«Roger!»
gridò contento il nonno, distogliendo Emma dal suo fissare quegli esseri della
sua stessa specie che giocavano.
Un
uomo che sembrava più giovane del nonno si voltò, sorrise e li salutò contento
agitando le braccia «Benvenuti! Ho lasciato dentro la chiave del cancello!
Aspettate un attimo e vengo ad aprirvi!» gli disse da lontano, a voce alta. Poi
si rivolse alla truppa di ragazzini con lo stesso tono, in modo da raggiungerli
tutti e richiamarli «È arrivata la nostra visita!»
Le
aspettative di Emma crebbero: sarebbero entrati, proprio lì!
Poi
un pensiero le balenò nella testa. Cosa ci facevano tutti quei bambini insieme,
raggruppati in quel parco, con un adulto soltanto nei paraggi e proprio nel
giorno di Natale, quando i bambini non sono mai da soli e, soprattutto, non
sono mai in così netta maggioranza rispetto ai “grandi”? Anche lei, che aveva
avuto la sfortuna di non poter stare con i genitori nei giorni di festa, era
comunque accompagnata da suo nonno... Inoltre, se anche le due J avessero
potuto trascorrere le feste col resto della famiglia, comunque non ci sarebbero
stati più di tre bambini. Lì, invece, ce n’era un intero reggimento.
Mentre
l’uomo spariva nell’edificio, i ragazzini, di colpo tutti rivolti verso il
cancello ed i due ospiti appena arrivati, iniziarono a parlottare tra di loro,
alcuni curiosi, altri ridacchianti o schivi, qualcuno iniziò anche ad esibire
performances di salti e corse furiose nella neve, buttando sguardi interessati
verso il cancello alla fine della propria “esecuzione”, per accertarsi di
essere stato osservato.
Il
nonno, che se li guardava con un sorriso divertito negli occhi vispi, si chinò
allora appena verso la nipote e la guardò ben fissa negli occhi «Non hai nulla
da chiedermi? Se hai qualche domanda, è questo il momento di farmene.»
Senza
farselo ripetere due volte né farsi attendere, Emma replicò all’istante «Dove
sono tutti i “grandi”?»
Il
nonno la esaminò con calma, serio ed incuriosito, e poi riprese a parlare «Tu
sei un’ottima osservatrice ed io ti vedo troppo poco per conoscerti come si
deve. Decisamente mi aspettavo un altro genere di domanda. Credevo mi avresti
chiesto direttamente, e più banalmente, cos’era questo posto o chi è l’uomo che
ci sta venendo ad aprire. Comunque, veniamo alla tua domanda: hai letto Tom
Sawyer o Il giardino segreto o il GGG?»
La
piccola Emma corrugò la fronte «Sì, li ho letti, ma… » si voltò di scatto verso
il parco e considerò di nuovo i ragazzini che lo popolavano. Quindi loro sono…
«Bene.
Mi sembra che tu abbia capito: il motivo per cui non ci sono “grandi”, come hai
correttamente osservato, è perché i bambini che vedi, proprio come i
protagonisti di quei tre romanzi, non hanno…»
Emma
lo interruppe «Sono orfani. E questo è un orfanotrofio.»
«Sì,
Emma. Esattamente, brutalmente e senza peli sulla lingua.» rispose lui seriamente
e quasi fiero dalla schiettezza della ragazzina, una schiettezza che nemmeno
lui, in quel caso, era riuscito a tirar fuori. Poi continuò «Tua madre ha
ragione quando dice che mi somigli... Spero che il tuo essere diretta rimanga
sempre parte della tua indole e che non sia solo una caratteristica legata alla
tua giovane età e destinata a svanire col crescere. In molti potranno anche
criticarti per questa tua sincerità, ma sappi che a me piace molto che le
persone chiamino le cose col loro nome, senza paura, ed ammetto che in questo
caso e per una volta sia stato proprio io a non volerlo fare dal primo istante
per una mia personale debolezza. Perciò, sincerità per sincerità, sappi che non
amo il termine “orfanotrofio”, perchè quando ero un po’ più grande di te lessi
dei libri che descrivevano gli orfanotrofi, per l’appunto, come luoghi
veramente orribili. E devi sapere che in effetti lo erano, sicuramente nel
secolo passato ed anche dopo. Quindi, preferisco pensare a questo posto qui come
ad una scuola a tempo pieno, dove i bambini vivono, tutti insieme ed in tutti i
giorni dell’anno. Mi farai quindi un grande favore se, tra di noi, volessimo
chiamare questo posto “Casa-Scuola”.»
Emma
rimase seria, poi indietreggiò appena per osservare il parco, il grande
edificio al suo interno ed il cancello stesso da una prospettiva più ampia. Si
soffermò sulla targa di metallo apposta sul muro di mattoni, ai lati
dell’ingresso.
Poi
guardò di nuovo suo nonno «Va bene. Allora chiamiamola Casa di Wammy.»
«Perfetto.»
Emma
rimuginò un poco, poi disse «Nonno, quali sono i libri in cui le… le
Case-Scuola come questa qui erano orribili? I libri che hai detto di aver letto
quando eri un po’ più grande di me… E poi perché ci sono tante storie che
parlano di bambini senza genitori?»
«Uhm…»
replicò il nonno pensieroso, portandosi una mano sulla barba, all’altezza del
mento, ed iniziando a massaggiarla con una certa lentezza «Penso che
quest’ultima domanda non abbia una risposta molto semplice e veloce… Ma andiamo
in ordine. Per quel che riguarda i libri di cui ti parlavo, si tratta
principalmente di due grandi classici della letteratura mondiale, che
certamente leggerai. Uno è…»
«Sono
così contento che siate venuti!» la voce squillante dell’uomo che li aveva
salutati da lontano li interruppe. Roger era ricomparso e, quasi giunto al
cancello, si stava ora avventurando con passi lenti sulla coltre di neve
intatta, dove lasciava vistose impronte «E di certo non mi sarei aspettato di
vedervi oggi!» continuò sorridendo «Buon Natale!»
Li
raggiunse, aprì la serratura del cancello e lo spalancò, forzandolo un po’
sulla neve, poi abbracciò il nonno affettuosamente, ribadendogli che ricevere
la sua telefonata era stato un regalo meraviglioso ed inaspettato.
Infine
si rivolse alla nipote, osservandola da dietro un paio di piccoli occhiali «Ciao,
Emma! Sono molto felice che tu sia venuta a trovarci! Io sono Roger e per
alcuni anni, all’inizio della mia carriera di insegnante, ho lavorato nella
stessa scuola di tuo nonno. Devi sapere che ho imparato moltissimo da lui e che
lui è stato un esempio per me. Quindi sono doppiamente onorato di conoscere sua
nipote.»
Emma
annuì e, inorgoglita da quelle parole, si voltò brevemente per guardare di
nuovo suo nonno, l’origine di quell’orgoglio.
«Ma
veniamo a te» continuò Roger «Qui ti aspettano tutti, Emma. Li avevo avvertiti
che ci sarebbe stata la visita di una bambina che non avevano mai conosciuto e
devi sapere che loro sono sempre molto contenti delle novità!» le strizzò
l’occhio.
Emma,
sebbene non fosse affatto una bambina schiva o vergognosa nel complesso,
percepì immediatamente un lieve senso di disagio nell’essere al centro di
un’attenzione così evidente e conclamata e si ritrovò istintivamente a
stringere nuovamente tra le braccia la scatola gialla del gioco che aveva
portato con sé.
Si
incamminarono dunque verso l’edificio e la schiera di ragazzini, che eccitati
iniziarono a raccogliersi rumorosamente nella loro direzione. Guardavano Emma sorridenti,
vocianti e forti del loro essere un gruppo, che in quanto tale vanifica ogni
timidezza o paura, ed una volta vicini la circondarono, bombardandola di
domande concitate. La distanza ed il silenzio avrebbero inibito la nuova
arrivata, ma quell’accoglienza ravvicinata e rumorosa neutralizzò facilmente ed
all’istante la lieve sensazione di disagio provata poco prima ed Emma si
amalgamò al gruppo con naturalezza e vivacità.
Ma
c’era un paio di occhi che, fuori dal coro, la puntavano, insistentemente e,
questi sì, da lontano ed in silenzio…
Il
nonno propose alla nipote di prendere in custodia la scatola del suo nuovo
gioco, perché senza dubbi nel parco ci sarebbero state altre attività più “fisiche”
cui abbandonarsi e poi certamente, appena fosse calato il sole e tutti fossero
rientrati all’interno dell’edificio, avrebbero potuto dedicarsi anche al gioco
che aveva portato Emma. Lei rimase un attimo interdetta, ma poi cedette, anche
perché fu subito trascinata via da un branco di ragazzine che la reclamavano
dalla loro parte nel gioco che volevano mettere su contro le proposte dei
maschietti, che volevano organizzarne un altro completamente diverso.
Decidere
quale proposta realizzare è piuttosto arduo quando si è in tanti ed una voce in
più a favore della propria idea può essere determinante.
Le
femminucce volevano trascinare Emma nel fare un qualche gioco in cui loro
sarebbero state le principesse. Il grosso problema consisteva nel fatto che lei,
invece, preferiva decisamente l’idea dei ragazzini. Questi ultimi infatti
avevano pensato di creare una specie di fortino intorno all’area giochi che,
oltre a due scivoli, alcune scalette in corda ed un ponticello, aveva anche due
torrette e che quindi poteva benissimo trasformarsi in un castello vero e
proprio. Con la neve, si trattava quindi di innalzare il muro di cinta e
pupazzi come sentinelle, ma anche di preparare palle di neve per difendersi
dagli attacchi e molto altro.
Non
era affatto facile appoggiare la proposta del castello quando le ragazzine si
erano mostrate così entusiaste di accogliere Emma, che quindi non sapeva bene
come fare per uscirne, visto che ovviamente non voleva soccombere all’idea di
dover giocare a qualcosa che proprio non l’attirava. Come forse in futuro si
sarebbe intuito dall’indole della Emma adulta, “fare la principessa” non era
mai stato uno dei sogni di divertimento della Emma bambina, che scorrazzava con
una tuta da ginnastica un po’ scolorita e con dei capelli tagliati così corti
da poter essere scambiata per un bambino.
Tutta
la combriccola comunque si aspettava grandi cose da lei, che era l’ “ospite
inaspettato” e conteso a cui mostrare la propria “casa” e mostrarsi.
Di
certo però questa empasse sarebbe stata superata con molta più facilità se solo
Emma non si fosse sentita ancora addosso quei due occhi distanti e silenziosi,
che la continuavano a fissare…
«Se
facessimo tutti insieme il castello, poi le principesse potrebbero starci
dentro… » iniziò Emma e spostò fugacemente lo sguardo dai suoi compagni per
controllare quei due occhi lontani.
La
scrutavano ancora intensamente…
Distolse
immediatamente le pupille da quella calamita e continuò «Tutte le principesse
hanno un castello, con le mura…» un’altra fuggevole occhiata, ma niente da
fare, lui non mollava.
Sembrava
molto più distante di quanto in realtà non fosse, perché fisicamente si trovava
anzi piuttosto vicino, ma era completamente isolato dal folto gruppo degli
altri, tutti radunati nei pressi dell’area giochi che si stagliava nel parco alberato
come una piazzola. Tra gli alberi che la circondavano infatti, c’era anche un enorme
cedro secolare, con grossi rami che partivano dal basso, già dalla base del suo
imponente fusto, quasi rasenti al prato ricoperto di neve. E lui era lì, agilmente
posizionato nel cantuccio che uno di quei rami creava col tronco, come adagiato
nell’incavo di una falce di Luna, con la schiena aderente al fusto nodoso ed i
piedi arrampicati sul ramo che proseguiva verso l’alto.
Così
se ne stava, questo piccolo satellite, intento a fissare da vicino il suo pianeta.
Una
Luna che però, sebbene prossima, vista dalla Terra sembrava lontana anni luce.
Emma
continuò «…E poi nei castelli ci sono le guardie, che devono difendere anche le
principesse…» ancora una sbirciatina? Ma sì… E quel ragazzino era ancora lì, appollaiato
sul suo basso ramo, e continuava a guardarla, con quegli occhi intensi e misteriosi,
che un adulto avrebbe probabilmente definito quasi inquietanti.
«…E
poi, ci potremmo inventare delle regole o delle finte magie… Insomma, potrebbe
essere anche un castello fatato!» chiuse infine Emma, con maggiore verve e con
un tono di voce più vivace e risoluto, un po’ per farsi sentire bene dallo
strano ragazzino sull’albero, che indubbiamente la incuriosiva e che, da solo,
la stava facendo sentire più al centro dell’attenzione di quanto non fosse
riuscita a fare tutta la moltitudine radunata intorno a lei, un po’ perché lo
stesso ragazzino, e soprattutto i suoi occhi incombenti, la stavano inspiegabilmente
mettendo su un piano di sfida; una sfida tutto sommato incosciente, perché
dietro quello sguardo silenzioso si annidava qualcosa che, in fondo in fondo,
metteva quasi paura.
La
scappatoia proposta da Emma, che salvava capra e cavoli ed aggiungeva l’elemento
magico tutto da inventare, sembrò essere vincente e quindi la truppa si mise
subito al lavoro.
Insieme
agli altri, Emma iniziò a radunare la neve, che veniva poi ammassata e compattata
lungo il perimetro dell’area giochi per la costruzione del muro di cinta.
Rannicchiata
ed intenta a raspare il terreno per fare il pieno di quella coltre candida e
gelata, più volte sollevò lo sguardo verso la piccola Luna sull’albero, ma per
lo stesso identico numero di volte lo riabbassò, perché sempre incontrò quegli
occhi sinistri fissi su di lei.
Poco
prima, la sensazione di sfida aveva potuto avere la meglio perché si era
sentita sicura, circondata dagli altri bambini, ma ora, che scorrazzava libera
e svincolata dagli altri per accaparrarsi mucchi di neve, un certo turbamento
ed il senso di timore furono vincenti, così Emma iniziò ad evitare i paraggi
del grosso cedro e del suo singolare abitante.
Si
impose inoltre di non alzare più lo sguardo e di non farsi più distogliere da
lui, anche perché il gioco che stavano organizzando la divertiva parecchio e
prometteva decisamente bene. E poi, quel ragazzino era completamente ignorato
anche da tutti gli altri, perché avrebbe dovuto occuparsene lei?
Tuttavia,
dopo un po’ che accumulavano neve, lasciando chiazze marroncine di terra da
dove la toglievano, Emma si rese conto che l’unica area ancora perfettamente
intonsa era proprio quella che circondava il massiccio cedro, dove il manto
bianco continuava ad essere violato dalle sole piccole impronte lasciate dal
ragazzino che l’aveva occupato chissà da quanto tempo, sicuramente da prima che
Emma arrivasse.
La
verità era che gli altri bambini non lo ignoravano affatto. Di certo non lo
guardavano, non gli parlavano, non lo avvicinavano, ma proprio per questo sarebbe
stato molto più corretto affermare che lo evitavano accuratamente, perché del
resto, proprio per potergli sfuggire in modo così sistematico, dovevano essere
ben lungi dal trascurarlo o dal non considerarlo.
Anche
Emma era riuscita abilmente a non guardare più lui ed i suoi occhi, ma la vista
di quelle uniche impronte sul manto innevato presso il grande albero le fecero
di nuovo spostare lo sguardo su chi le aveva lasciate.
Ciò
che la colpì non furono più soltanto gli occhi che continuavano a fissarla, ma anche
la singolare luce che ora li accendeva e che suggeriva una sorta di
compiacimento beffardo, accentuato dagli angoli della bocca che adesso si
sollevavano appena in quello che sembrava un sorrisetto infido di vittoria.
Emma
corrugò la fronte e per la prima volta sostenne lo sguardo a lungo, accigliandosi.
Poi
si voltò, scaricò sul costruendo muro il mucchio di neve che aveva recuperato e
si diresse risoluta verso l’ormai famoso albero, a testa bassa, fissando seria
il terreno.
Si
piantò sfacciatamente proprio sotto al cedro, guardò di nuovo il ragazzino,
questa volta in modo sfrontato e grintoso, poi si accucciò ed iniziò a
raccogliere la neve energicamente, a grosse manciate.
«Ma
tu lo sai che stai facendo una grossa fatica per niente, vero?» esordì lui,
senza scomporre minimamente la sua posizione, esprimendo con calma e lentezza
quella pillola di provocazione.
Emma
sollevò la testolina di corti capelli neri, decisa e vittoriosa, perché lui si
era “abbassato” a rivolgerle la parola.
«No,
non lo so.» gli rispose.
Poi
si alzò in piedi, continuando a guardarlo «Ma comunque non sto faticando.»
«Ah
no?» domandò lui come ingenuamente, ma sempre con quel sorrisetto beffardo «A
me sembrava proprio così invece… E, comunque, lo stai facendo per niente. È un
gioco inutile. Lo sai che tra poco il sole tramonterà? E col buio, tu e tutti
gli altri» accennò con una rapida mossa del capo verso gli altri bambini
«dovrete allora per forza rientrare nell’edificio. Quindi, per oggi, è sicuro
che non avrete il tempo di finire il vostro progetto di castello fatato. E per
te è anche peggio, perché stasera te ne andrai e quindi non potrai nemmeno
continuare domani. E poi, comunque, quando la neve si scioglierà, sparirà
tutto. Per questo è un gioco inutile.»
«Inutile?»
esordì Emma, stupita per quest’ultima affermazione e nient’affatto scoraggiata
nelle sue intenzioni di sano divertimento dalle asettiche e disfattiste
considerazioni del ragazzino «Non ho mai pensato che un gioco fosse inutile.
Giocare non è mai inutile.» fece un passo e si accostò al ramo dove lui era
appollaiato «Mi sembra invece inutile stare su quest’albero senza fare niente,
a guardare soltanto quello che facciamo noi. Questo “per me” è inutile. Inutile
e noiosissimo. Lo farai anche domani?»
Il
bambino non ribatté subito, ma abbozzò di nuovo un sorrisetto, stavolta però
intriso di un certo divertimento e di una luce come speranzosa, anche se
ambigua. Spostò poi quegli occhi accesi un po’ più in alto, puntando
attentamente poco sopra il capo di Emma, come se ci fosse stato qualcosa da
guardare, e rimase così per qualche istante, in silenzio.
Infine
ritornò con lo sguardo su di lei «Emma, è così che ti chiami, no? Be’, forse io
starò su quest’albero anche domani, sì. Ma siccome tu mi piaci, siccome non mi
sembri come tutti gli altri, qui, voglio proprio vedere se mi divertirò a
giocare con te.» si disincastrò abilmente dalla posizione che aveva mantenuto
fin a quel momento, si erse in piedi sul ramo e saltò giù, affianco ad Emma.
Era
magro ed aveva i capelli neri.
Lei
se lo guardò incuriosita ed in qualche strano modo onorata dall’essere stata
praticamente “scelta” da lui, ma nello stesso tempo percependo comunque una
specie di disagio, perché quella sensazione di timore non l’aveva lasciata,
nonostante la grinta tirata fuori «Quindi vuoi giocare solo con me?» gli
chiese.
«Sì,
è quello che ho detto.»
«Ma
non vuoi costruire il castello.»
«No.
Voglio vedere quel tuo gioco nella scatola gialla, quello che ti sei fatta
convincere a portare dentro, anche se non mi sembrava affatto che volessi
separartene.»
Era
un ottimo osservatore, l’aveva studiata fin troppo bene e fin dal primo istante.
E
l’aveva messa nel sacco.
Emma
voleva costruire il castello insieme agli altri, non c’erano dubbi, ma lui
l’aveva lusingata in qualche modo e soprattutto le aveva proposto di tirare
fuori il suo gioco da tavola nuovo nuovo…
«In
due non ci si può giocare. E poi non sai nemmeno che gioco sia…» insinuò Emma,
che era titubante, che non si fidava.
«Ma
sono sceso dal mio albero, per il tuo gioco e per te. E poi, ti ho chiesto solo
di mostrarmelo. Se non mi piacerà, voi due sarete la mia delusione di oggi.» e
rise.
«Delusione?
Guarda che lì si parla di omicidi ed assassini, mica di castelli fatati!»
sbottò Emma.
«Davvero?»
chiese lui con quel fare ingenuo, che però sembrava finto e nascondeva altro.
Emma
pensò che era un bugiardo, che aveva saputo benissimo e fin dal primo istante
di quale gioco si trattasse, che l’avesse riconosciuto dalla scatola, perché era
un prodotto molto famoso e pubblicizzato. Pensò anche che quel ragazzino continuava
a fargli quasi paura, che in lui ci fosse qualcosa di strano, ma che fosse piuttosto
arduo dirgli di no, perché, oltre ad essere molto furbo, era magnetico.
«Sì,
davvero…» rispose allora Emma poco convinta «Ma tu già lo sapevi… Secondo me tu
già lo sapevi!» aggiunse scrutandolo diffidente.
Lui
scrollò le spalle «Forse… Quello che conta è che ora voglio vederlo. E poi le
storie di omicidi mi piacciono…»
Lui
voleva solo vederlo, ed Emma naturalmente era attirata dall’idea di sfoggiare
il suo gioco di fronte ad un bambino che sembrava tanto esigente. E poi, visto
che in due non si poteva intavolare una partita, l’impresa sarebbe stata
abbandonata e lei avrebbe potuto continuare a costruire il suo castello insieme
agli altri. Il fatto che ad Emma non fosse proprio venuto in mente di proporre
a qualcun altro dei bambini là fuori di unirsi a loro due per una partita fu
piuttosto insolito. Si trattò probabilmente del naturale effetto della
confidenza elitaria che lui le aveva concesso e che la portava a ragionare solo
ed esclusivamente a due.
Quindi
si decise «Va bene. Lo vado a prendere.»
Si
voltò per cercare suo nonno, che in effetti non aveva più visto da un bel po’,
da quando era stata catturata dalla masnada di bambini appena erano arrivati. E
poi, in verità, non se ne era proprio più preoccupata. Il nonno non si vedeva,
e nemmeno il suo amico Roger. L’unico adulto adesso era una donna tarchiata di
una certa età, dall’espressione lievemente contrariata.
Solo
allora però, guardandosi intorno, Emma si rese conto che molti dei ragazzini
erano rivolti proprio verso loro due, che erano rimasti isolati sotto quell’albero.
Li guardavano entrambi, diffidenti e quasi allarmati, qualcuno anche
sussurrando qualcosa nell’orecchio del vicino.
«Tuo
nonno è entrato dentro con Roger.» esordì placidamente il bambino dell’albero
«Io ti aspetto qui. E non perderti.» aggiunse con la solita aria di sfida.
Emma
non gli rispose, nemmeno lo guardò. Iniziò solo a correre verso l’ingresso
dell’edificio.
Il
ragazzino dell’albero era un incantatore, la incuriosiva, la faceva sentire
speciale e la stuzzicava nella sua intelligenza, ma la verità era che la
irritava e che, ora che si stava allontanando da lui, quasi si sentiva
sollevata. E poi lui non le aveva ancora detto nemmeno il suo nome.
La
prima cosa che la colpì quando entrò nell’edificio fu il calore, che si
mescolava ad un dolciastro e buonissimo odore. Era il profumo dei mobili
antichi, che ricordava quello del miele, era il profumo della morbida cera
passata per secoli sul pavimento, le scale, i corrimano, il ballatoio che
sovrastava quell’enorme stanza. E poi c’era il profumo pungente e fresco dell’imponente
abete addobbato che si stagliava nell’angolo, sotto la scalinata lignea ed
intarsiata.
Ed
Emma solo allora si ricordò che era il giorno di Natale e pensò che quel luogo
sembrava proprio il castello del piccolo Lord, dove la sua immaginazione, da
quel che ricordava, aveva sempre collocato il Natale per antonomasia.
L’imponente
e profumato androne, tappezzato di libri, era deserto, ma una musica vi
giungeva di sottofondo, placida, anche questa dal sapore caldo e natalizio.
Emma
si addentrò a passi lenti ed un po’ incerti sulle lunghe tavole appena
scricchiolanti del pavimento.
La
melodia proveniva da una larga porta dai due battenti spalancati.
Emma
la raggiunse e si ritrovò sull’uscio di un ampio salone luminoso, ammantato di
tappeti un po’ logori e dai colori scuri e dove un caminetto acceso crepitava
solitario davanti ad un tavolo su cui era poggiato un vassoio con due tazze ed
un piattino vuoto.
Nemmeno
lì c’era nessuno.
Emma
avanzò nella stanza, osservò che nelle tazze rimaneva solo una lacrima di tè e
qualche rimasuglio della sua polvere.
Il
nonno e Roger dovevano essere stati lì.
Toccò
le tazze. Erano ancora calde. Dovevano essere stati lì fino a poco prima.
Si
guardò di nuovo intorno.
No.
Qualcuno
c’era…
Qualcuno
seduto per terra, rannicchiato nell’angolo.
Qualcuno
che non aveva alzato nemmeno la testa, che restava china e protesa verso un
libro, che anche era poggiato per terra, davanti a lui.
Perché
di certo era un lui, un “piccolo lui” a piedi nudi e dai folti e scompigliati
capelli corvini.
Emma
si avvicinò un po’, ma lui non mostrò minimamente di essersi accorto della sua
presenza.
Avrebbe
voluto chiedergli se sapeva dove trovare Roger e suo nonno, ma non se la sentì
di chiamarlo, non seppe nemmeno lei il perché. Era come se istintivamente non volesse
rovinare l’atmosfera pacifica e calda di quella stanza, che comprendeva anche
lui ed il suo silenzio attento al libro che aveva davanti.
Quindi
con circospezione e passi felpati si avvicinò ancora, arrivandogli proprio di
fronte, vicina.
Gli
osservò quindi dall’alto la folta capigliatura ed il collo magro, scandito
dalle guglie angolose delle vertebre, che sotto la pelle chiara proseguivano
regolari fin sotto il largo girocollo della magliettina che indossava, che era
bianca e troppo ampia.
Ancora
niente.
Continuava
imperterrito a leggere senza spostarsi di un millimetro.
Allora
si inginocchiò anche lei, tanto da poter sentire il profumo di pulito di quei
capelli neri, che ora aveva proprio davanti agli occhi, vicinissimi.
«All’inizio
sembrava che non mi volessi disturbare… E non mi hai chiamato.» incominciò
così, calmo, continuando a tenere la testa china sul libro «Ma poi hai deciso
di arrivare fin qui, senza fare rumore… Hai pensato che magari in questo modo
mi avresti disturbato meno? Roger e tuo nonno, comunque, sono nello studio al
piano di sopra, il tuo gioco invece è sulla sedia rossa, intorno al tavolo
grande.» concluse, senza mai alzare la testa, senza mai guardarla, distaccato.
Emma
non rispose, né si mise a cercare con lo sguardo la sedia rossa di cui le aveva
parlato.
Si
impuntò nel non volergli parlare subito.
Lui
allora finalmente sollevò il capo e la fissò intensamente.
Era
molto serio.
Doveva
avere all’incirca la sua età, ma da come la guardava sembrava più grande.
Aveva
degli occhi nerissimi ed intensissimi, che parevano enormi ed erano
sottolineati da lievi occhiaie.
Erano
bellissimi.
«Sì,
è verissimo, prima ho pensato che avrei disturbato meno.» rispose finalmente la
piccola Emma, senza alcuna incertezza o disagio «Però adesso so che tu invece
ti eri accorto di me dal primo momento e già sapevi cosa volevo chiederti. Sapevi
perché mi stavo avvicinando e sapevi anche il motivo per cui lo stavo facendo
lentamente. Penso anche che me l’avresti potuto dire subito quello che volevo,
senza farmi avvicinare, visto che l’avevi capito. Io allora avrei preso il mio
gioco e me ne sarei andata. Quindi adesso penso che tu volevi essere disturbato
da me e volevi che mi avvicinassi, anche se mi hai detto il contrario. Mi sa
che sei proprio come il bambino dell’albero. Solo che tu sei il bambino
dell’angolo.»
Lui
si grattò la nuca «…Come il bambino dell’albero… Davvero pensi che io volessi
che tu ti avvicinassi?» chiese candidamente.
Emma
ci dovette pensare un attimo, perché si era aspettata da lui una risposta
diversa, magari fastidiosa e finta come quelle che aveva ricevuto poco prima nel
parco, mentre quella nuova conoscenza sembrava adesso sincera.
Perciò
rispose sinceramente «Adesso non ne sono più tanto sicura…»
«Perché
non volevi disturbare?» chiese di nuovo lui, incuriosito.
«Non
è che non volevo disturbare… Forse non volevo parlare… Si stava così bene qui
dentro...» si guardò intorno di nuovo «Prima, nel parco, quasi non mi sembrava
più che fosse Natale… Ma poi…» ritornò a scrutarlo in quegli occhi ed
istintivamente, senza sapere bene il perché, il suo stato d’animo si oscurò.
Quegli
occhi erano così seri, ma adesso sembravano così carichi di un’immensa
tristezza.
Una
tristezza che solo pochi istanti prima non c’era stata e che aveva invece ora
adombrato lo sprazzo di ingenua curiosità del bambino dell’angolo.
Emma
allora continuò «Grazie per il gioco… Mi dispiace tanto di averti disturbato. E
mi dispiace tanto di averti fatto diventare triste… Scusami…»
Il
bambino non abbassò lo sguardo, ma delicatamente fece scivolare le braccia
sotto alle ginocchia rannicchiate e le avvicinò ancor più al corpicino, che era
ingolfato dalle pieghe della magliettina ampia che indossava «Penso che ti
sbagli. Mi hai disturbato, ma non mi hai fatto diventare triste.» e serrò le
dita intorno alle ginocchia.
Emma
corrugò le sopracciglia, perché era certa che le avesse appena mentito. E non
era il primo a farlo, in quella singolare giornata. Cambiò di nuovo idea su di
lui. Quindi lo fissò ancora per un po’ in silenzio, poi gli rispose «Io sono
sicura di quello che io ti ho appena detto. Tu invece mi hai detto una bugia. Anche
il bambino sull’albero mi ha detto delle bugie, io lo so. Lo so che non mi
conoscete, ma non capisco perché l’avete fatto…»
«Ancora
il bambino sull’albero…» disse distaccato il ragazzino, con ancora le dita
serrate sotto le ginocchia «Ti ha parlato?»
Emma
annuì.
Era
improvvisamente ritornato ad essere quello di prima, quello che sembrava più
grande.
«E
scommetto che tu sei entrata qui a cercare quel gioco perché te l’ha chiesto
lui…»
«Sì…»
rispose Emma e si alzò, trovò la scatola gialla sulla sedia rossa, la prese e ritornò
a sedersi davanti a lui, guardandolo, come in attesa che lui continuasse a pararle.
«Puoi
essere certa che il tuo gioco non gli piacerà.» proseguì il bambino.
«No,
vero…?» ribatté lei un po’ sconsolata, ma in fondo poco stupita «Se me lo dici
tu che lo conosci, ti credo. Basta che non sia un’altra tua bugia.»
«Io
non lo conosco, non ci ho mai parlato. Ma so quello che fa e quello che dice ed
un gioco in cui bisogna fare i detective per scovare un assassino non gli
piacerebbe…»
«Ha
detto che gli piacevano le storie di omicidi…» disse Emma.
«Appunto.
Non quelle di detective.»
Emma
sospirò.
«E
poi questo gioco è troppo semplice.» continuò lui, sganciando le mani dalle
ginocchia ed aprendo la scatola che Emma aveva poggiato a terra.
Emma
lo lasciò fare, ormai sconfitta «Quindi non piace nemmeno a te.»
«Ho
detto che è troppo facile, non che non mi piace.» ribatté lui mentre osservava
accuratamente i componenti «Però si potrebbe rendere molto più difficile…»
Emma
aguzzò le orecchie e si entusiasmò subito «Io non ci ho ancora potuto giocare,
però anche a me era sembrato semplice ed avevo pensato di sfruttarlo in un
altro modo! Avevo pensato di metterlo in scena, addobbando lo studio di nonno! Ma
la tua idea sarebbe fantastica! Magari potremmo fare le due cose insieme: prima
io ti aiuto a farlo più difficile e poi tu mi aiuti a farlo diventare “vero”!»
si guardò intorno un’altra volta «Questo edificio è perfetto! Ci sono tante
stanze perfette!»
Lui
sollevò lo sguardo, si portò il pollice sul labbro e placidamente le rispose «Sì,
potremmo.» poi i suoi occhi si spostarono e fissarono qualcosa alle spalle di
Emma.
La
sua espressione mutò, divenendo dura e molto più distaccata.
«Mi
piace l’idea di farlo diventare “vero”…» furono le parole di qualcuno che
doveva essere entrato da poco nella stanza.
Emma
si girò di scatto.
Era
il bambino dell’albero, fermo sull’uscio della porta.
«Non
ti vedevo tornare e ho pensato che ti fossi persa… Questo posto è grande e
pieno di stanze… E invece sei qui a giocare con lui.» la squadrò con rancore.
«Ti
ho già detto che non si può fare una partita in due.» ribatté Emma.
«Mi
sembra che questa regola valga solo per me, però. Perché con lui sei disposta a
giocare in qualche modo.»
«Sì.
Perché lui mi ha proposto qualcosa di divertente. Tu hai solo detto che se il
gioco non ti fosse piaciuto, ti avrei deluso. Se fossi al mio posto, chi
sceglieresti? Lui o te stesso?»
Il
ragazzino dell’albero sgranò quegli occhi sinistri, trattenne il respiro e poi rise,
improvvisamente «E dimmi un po’, se volete farlo dal “vero”, avrete bisogno
anche di un morto “vero”…»
Emma
indietreggiò appena. Le venne istintivo avvicinarsi al bambino rannicchiato
alle sue spalle, che le dava sicurezza, ma che ancora non era intervenuto.
La
sua partecipazione non si fece però attendere ulteriormente «Non credo proprio
che tu non capisca che non ci sarebbe nessun divertimento nell’insistere sulla
vittima. Non lo credo perchè sei intelligente.» disse, calmo come prima «Sai
benissimo che l’obiettivo del gioco è scovare l’assassino e divertirsi nel
farlo. Dare forma alla vittima sarebbe perfettamente inutile, oltre che
assolutamente irrilevante. Probabilmente anche sgradevole, tanto più per dei
bambini della nostra età. Ma magari per te non è così tanto spiacevole… Comunque,
non mi resta che pensare che, parlando di “morti”, tu voglia metterle paura, che
voglia mettere paura a tutti e che in generale ti piaccia trasmettere a tutti un
disagio, sempre. E davvero non capisco cosa ti porti a farlo, né perché questo
possa divertirti. Ma forse non ci ho mai pensato abbastanza. Anzi, non ci ho
mai pensato e basta.»
Era
fantastico.
Non
si poteva non stare dalla sua parte ed in fondo Emma l’aveva sentito dal primo
momento, anche se lui era strano e le aveva suscitato dei dubbi.
Parlava
di affari di bambini, li valutava con estrema serietà, perché anche lui era un
bambino. Ma ne parlava usando le parole degli adulti ed era vincente.
L’avversario
sull’uscio della porta non fece attendere la sua replica «Sembra che non ti
importi mai nulla di nessuno. Ma pare che proprio tu, che sei quello che non ci
considera affatto, proprio tu sia parecchio interessato a me e che mi conosca
bene.» e sfoggiò un sorriso pungente e compiaciuto.
«Ti
ho solo osservato, come ho fatto con tutti, perché sono dotato di occhi,
orecchie ed intelligenza. E non dimentico nulla di quello che osservo. Tuttavia,
se fossi stato interessato, ti sarei venuto a cercare e potrei dire adesso di
conoscerti. Ma, in verità, non so nemmeno come ti chiami e non me lo sono mai
chiesto.»
Era
stato durissimo, spietato… E la cosa più impressionante era stata la quiete con
cui aveva sganciato le sue bombe mortificanti.
Emma
pensò che non sarebbe mai riuscita ad essere così cruda. Ma pensò anche che
quella durezza fosse una verità. Su questo il suo paladino dai bellissimi occhi
neri non aveva mentito.
Quasi
le dispiacque per il ragazzino dell’albero, che aveva ora perso tutto il suo
magnetismo e mostrò un’espressione quasi ferita sul volto scarno.
Poi
però abbozzò un sorriso sarcastico «D’accordo. Magari un giorno lo saprai, il
mio nome, e forse non te lo scorderai.»
«Ti
ho già detto che è difficile che possa scordarmi qualcosa.» ribatté l’altro.
«Me
ne ricorderò.» disse il bambino dell’albero mentre si voltava.
E
se ne andò.
Emma
rimase zitta per un po’.
Poi
si girò di nuovo verso il suo “bambino-adulto” «Davvero non sai come si
chiama?»
«No,
non lo so.»
Lei
si accigliò «Anche tu sei un po’ cattivo, lo sai? Giusto, ma cattivo.»
«È
da cattivi dire la verità?» le chiese lui ingenuamente.
«Ma
tu non dici sempre la verità… Prima mi hai mentito…» poi però gli sorrise «Io
comunque mi chiamo Emma. Non voglio che tu possa dire, magari domani, che non
mi conosci e che non sai nemmeno come mi chiamo.»
«Non
me lo dimenticherò, Emma.»
«Questo
l’avevo capito.» rise lei contenta «E tu, invece, chi sei?»
«Io
sono Elle.»
Deve sempre rovinarmi il divertimento…
Ed io che avevo fatto di tutto per farvi credere che
il piccolo Elle fosse proprio il bambino sull’albero…
Eh eh eh…
Ma no, sono certo che appena è comparso quel
qualcuno rannicchiato nell’angolo della stanza avete capito.
Chi sarà mai il bambino dell’albero?
Rimuginate, rimuginate, anche se è piuttosto facile…
Oggi non ho voluto disturbarvi nella lettura, ma
sono sicuro che non vi sia sfuggita la presenza di una voce narrante un po’
diversa dal consueto…
Niente film mentali.
Ovviamente ero sempre io, ma, come mi capita spesso,
amo variare e quindi ho voluto raccontare questa parte della storia
aggiungendoci quel sapore un po’ antico dei narratori di una volta.
Del resto, stavo parlando di un Natale passato…
Un
capitolo molto lungo.
Come
al solito, ho scritto troppo ed il tutto si è dilatato… Quindi? Quindi vi
ritrovate il capitolo troncato così, come tante volte anche in passato mi era
capitato di dover fare… Col prossimo ritroveremo Emma ed L in quella stanza
(sempre se non vi ho stroncato con la lentezza di questo).
Spero
vivamente di non avervi annoiato troppo, specialmente nella prima parte, dove
ho dovuto gettare delle basi.
Non
aggiungo altro, perchè mi sono ripromessa di non tediarvi con le mie ansie, che
vi assicuro essere veramente enormi, perché con questo capitolo ho dovuto
veramente ricominciare una storia da capo… Ma una promessa è una promessa,
quindi mi tappo la bocca.
Per
la cronaca, il famoso gioco da tavola onnipresente, è il Cluedo, ma tra PS4,
smartphone, Candy crash o Clash royale, dubito che sia ancora di “moda” tra i
ragazzini. Di certo ai tempi di L ed Emma andava alla grande.
I
due libri in cui si descrivevano gli orfanotrofi cui accenna il nonno di Emma?
Ma naturalmente Oliver Twist e Jane Eyre ;)
Grazie
di avermi seguito e di aver già inserito in tanti questa storia tra le
ricordate e preferite.
Mi
aspettavo di no avere nemmeno un lettore…
Grazie
di aver letto fin qui e, per chi ci sarà ancora, ci vediamo al prossimo
capitolo ^^
Eru
PS Buona Pasquaaaaaaaaaa!!! :D