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Autore: _Frame_    01/04/2018    2 recensioni
[Primo spin-off di “Siberian Cub”. Contiene spoiler!]
[DenNor Human!AU]
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Dopo quello che è successo a Mathias, Lukas crede che la sua vita si sia definitivamente staccata dai Siberian Cubs e dall’ambiente a cui appartengono. Un incontro inaspettato gli farà capire che il suo ruolo in quel mondo da cui Mathias aveva sempre voluto proteggerlo non è ancora finito, e che la possibilità di salvare gli altri ragazzi potrebbe dipendere solo da lui.
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Estratto da “Siberian Cub”:
Mi rendo davvero conto del legame in cui sto incatenando Alfred, mi rendo davvero conto di cosa significhi vederlo stretto fra le braccia bucate di un tossico che vorrebbe solo proteggerlo ma che non è nemmeno in grado di proteggere se stesso. E lo capisco. Forse ora davvero comprendo e riconosco la paura che ha spinto Mathias a togliersi di mezzo piuttosto che finire per imprigionare Lukas a quelle braccia ferite che non gli avrebbero causato altro che dolori. D’un tratto, Mathias mi sembra un po’ meno stupido di come l’ho sempre guardato.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Danimarca, Finlandia/ Tino Väinämöinen, Islanda, Norvegia, Svezia/Berwald Oxenstierna
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'London Cubs'
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2. L’addio del cucciolo

 

 

È sbucato un po’ di sole, ma il vento non è calato e trascina con sé vortici di aria umida, spazza gli ammassi delle nubi distribuendole nel grigiore del cielo, soffia un’aria secca e gelida come quella che esce dagli scomparti del frigorifero. Forse questa notte non pioverà come credevo questa mattina. Forse ci sarà la neve.

Allargo il bavero della giacca e allento il nodo della sciarpa. Un’ondata di aria fresca mi inonda la pelle, brividi pungenti si arrampicano sotto i vestiti e pizzicano il corpo. Svolto l’angolo, mi immetto nella Charing Cross Road e proseguo in direzione della fermata della metro. Procedo più spedito, c’è poca gente per le strade, e il vento che mi soffia sulla schiena sembra darmi la spinta.

Arrivo davanti alla stazione della Tottenham e scopro dov’è finita tutta la gente che dovrebbe ammassarsi sulla stradina. Un gruppetto di persone è ammucchiato all’entrata, sotto l’insegna blu e bianca “Tottenham Court Road”. Due macchine della polizia sono ferme sulla carreggiata, uno dei poliziotti sta guidando i passanti lungo il marciapiede, un secondo dirige il traffico, fa rallentare le auto per farle immettere in un’unica corsia, e un terzo di loro è piegato sotto il tettuccio della volante, sta parlando al microfono della radio. Un’ambulanza è ferma dietro le due auto della polizia, la sirena è spenta ma ha ancora i lampeggianti accesi. Il poliziotto in piedi sul marciapiede sta parlando ai passanti, sbraccia per farli proseguire lungo il marciapiede e per tenere libera l’entrata spalancata.

Mi fermo anch’io, mi tengo lontano. Restringo gli occhi e mi sollevo sulle punte dei piedi, per sbirciare sotto l’architrave della stazione. Ci sono solo teste imberrettate che si ammassano sotto il portico e che circondano l’ambulanza. Torno a poggiarmi sui talloni. Non riesco a vedere se hanno estratto la barella o se l’hanno già rimessa dentro.

Inarco un sopracciglio.

Che si sia sentito male qualcuno mentre aspettava la metro?

Dei signori stanno parlando con uno dei poliziotti. Lui scuote la testa, risponde qualcosa che non sento e indica l’entrata della Tottenham con un cenno del mento, dice qualcos’altro. Una signora anziana porta la mano davanti alla bocca, si gira mimando un’espressione triste e scandalizzata allo stesso tempo, ed estrae un fazzoletto dalla borsetta. Si soffia il naso, asciuga gli occhi, si posa la mano sul cuore. Un altro signore scuote la testa, mima un’aria raccapricciata, scambia un commento con un altro tizio che ha gli occhi più inorriditi dei suoi, e riprende a camminare. Due ragazzi più giovani si guardano, stupiti, e uno dei due lancia un’occhiata all’ambulanza strabuzzando le palpebre.

Uno dei paramedici esce dall’ambulanza, si tiene aggrappato ai due portelloni spalancati sul retro, tenendo il capo sotto il tettuccio, e fa un cenno al poliziotto. Il poliziotto annuisce, sbraccia ancora per tenere lontani i passanti, li fa circolare lungo il marciapiede, e si dirige verso una delle due auto. Il paramedico chiude gli sportelli dell’ambulanza, il motore si accende, le luci blu brillano sul giallo della carrozzeria, ma la sirena rimane spenta.

Gli agenti salgono sulle loro auto, mettono in moto anche loro, e partono. L’ambulanza si immette fra le due auto che fanno da piccola scorta, e i tre mezzi si aprono la strada nel traffico. Un paio di passanti si scambiano qualche altra parola. Si stringono nei cappotti, rimboccano le sciarpe, e riprendono a camminare. I loro visi sembrano ancora più grigi di quelli addormentati e infreddoliti di stamattina. Il mucchietto si scioglie, la gente scende la stazione, altri proseguono lungo Charing Cross Road e vanno per i fatti loro.

Sollevo gli occhi, torno a inquadrare l’insegna bianca che marchia l’entrata della stazione metro, quella che stamattina aveva scavato un brivido ghiacciato dentro il mio stomaco e che mi aveva stretto il petto in una fitta soffocante.

Il brivido è svanito. L’ho sentito scivolare via da sotto la carne quando è partita l’ambulanza.

 

.

 

C’è qualcuno davanti al cancello dell’appartamento. Tre sagome sono ferme a parlare sul marciapiede, con i piedi fra le foglie secche e il vento a scuotere i colletti delle giacche. Due di loro indossano l’uniforme nera degli agenti di Scotland Yard.

Ho un crampo al cuore. Mi coglie una vampata di calore che torna subito fredda, il vento ghiacciato mi sbatte sul viso e le nuvole si ammassano nel cielo, lo fanno ridiventare buio. Rallento il passo per poi accelerare verso di loro, già aspettandomi di trovare qualcuno che ha riportato Mathias a casa, mezzo svenuto o pieno di lividi dopo una rissa al pub.

I due poliziotti fermi accanto ai bidoni della spazzatura stanno parlando con la signora che vive al piano di sotto, quella che va sempre a bussare alla porta accanto alla nostra per lamentarsi del rumore dei passi e degli strilli del bambino. Lei ha una mano sul cancello socchiuso, un piede sulla stradina che imbocca l’appartamento, e scuote la testa dicendo qualcosa ai due agenti. La signora si stringe nello scialle, rabbrividisce di freddo, una ruga di ansia le ingrigisce il volto, e spiega qualcosa indicando un piano dell’edificio sollevando la punta dell’indice. I due poliziotti si guardano, uno dei due annuisce e l’altro abbassa la visiera del copricapo. Un piccolo cenno per ringraziarla.

La signora dice ancora qualcosa che non sento, annuisce, si posa la mano sul petto, ed entra chiudendo il cancello. Affretta il passo verso la porta d’ingresso, i tacchi battono ritmicamente sul pavimento di pietre, e le frange dello scialle oscillano sotto un alito di vento che investe la sua figura tremante. Il viso pallido come dopo uno spavento e gli occhi vacui.

Uno dei due poliziotti si allontana, cammina verso l’auto parcheggiata accanto al marciapiede – hanno lasciato uno sportello aperto –, e l’altro lancia un’ultima occhiata al condominio.

I miei passi scricchiolano sul tappeto di foglie secche piovute dagli alberi, e richiamano l’attenzione dell’uomo.

L’agente volta lo sguardo, aggrotta le sopracciglia, incrociamo gli occhi, e un barlume di sospetto lampeggia nella penombra del suo viso. Lui si gira verso il collega, fa un cenno col capo indicandomi, e l’altro annuisce.

L’agente che ha parlato con la signora del piano di sotto mi cammina incontro a passo tranquillo, e l’altro richiude lo sportello dell’auto, dà un giro di chiave e la sigilla. Si avvicina anche lui.

Mi fermo a due passi dal cancello, l’agente di polizia mi si mette di fronte. «Mi scusi.» Mi squadra. Il viso in ombra sotto il copricapo, le guance rosse per il freddo e la voce leggermente arrochita dall’aria umida. «Lei è Lukas Bondevik?» Una voce che ho già sentito pronunciare il mio nome con quella pronuncia così rozza.

Scocco un’occhiata a entrambi, aggrotto la fronte, torno a guardare quello che mi si è piazzato davanti. «Sì, sono io.» Agito le dita della mano infilata nella tasca della giacca, sciolgo il formicolio di disagio che mi sta pizzicando la pelle e che mi raggela le ossa.

L’agente allunga il braccio, mi porge la mano aperta, senza guanto. «Salve, sono l’agente Edwards del dipartimento di Scotland Yard.» Me la lascio avvolgere ma non stringo la presa. Lui la scuote. «Ci siamo sentiti questa mattina al telefono, ricorda? Riguardo la scomparsa di Mathias Køhler.»

Ah, ecco. L’ignorante che non conosce l’alfabeto nordico.

Annuisco. «Sì, mi ricordo.» Però non gli avevo dato l’indirizzo di casa, solo il mio nome. Come hanno fatto a raggiungermi qua?

Il secondo poliziotto si avvicina, si mette di fianco a Edwards e lui lo indica. «Il mio collega Lee.»

Anche Lee mi porge la mano aperta. «Salve.»

Ricambio il gesto ma il mio braccio è rigido, la stretta di mano fredda e distaccata.

Edwards solleva lo sguardo sul condominio, gli occhi corrono fino al tetto che si erge contro i nuvoloni di pioggia e tornano su di me. L’agente rivolge un indice all’edificio. «Lei e il signor Køhler vivete qui, presumo?»

Splendido, usano il presente. Per lo meno è vivo.

«Sì.»

Butto l’occhio sull’auto che hanno lasciato parcheggiata sul marciapiede, quasi sperassi di trovare Mathias dentro, ancora incatenato alle manette.

«Ci spiace essere venuti a disturbarla così all’improvviso» mi dice Edwards, e i suoi occhi si fanno più chiari, il viso ammorbidisce i lineamenti. «Ma ci chiedevamo se avesse la cortesia di farci salire per qualche minuto.»

Stringo la mano contro la cinghia della borsa che mi passa sulla schiena, e squadro tutti e due assottigliando le palpebre, rivolgendo loro un’occhiata carica di sospetto. «È successo qualcosa?» Il vento mi passa in mezzo alle gambe, trascina lo scricchiolio delle foglie secche che ho appena calpestato, e uno sciame di brividi si infila sotto i vestiti, mi fa accapponare la pelle.

Edwards accenna un sorriso rassicurante. «Non si preoccupi, le spiegheremo tutto.»

Un brivido sviscera attraverso la schiena, mi fa salire la pelle d’oca all’altezza della nuca, pizzica dietro le orecchie, le dita piantano le unghie nel cuoio della spallina.

Direi che non ho scelta.

Li supero senza guardarli e vado al cancello. «Prego.» Loro si tengono alle mie spalle, Lee piega una piccola riverenza in segno di ringraziamento.

Infilo la mano nella tasca della giacca, scavo fino in fondo fino a che non incontro la consistenza liscia e fredda delle chiavi che tintinnano all’interno della stoffa. Agguanto il portachiavi a forma di bandiera danese, lo estraggo, e faccio scorrere il mazzo fra le dita, in cerca della chiave del portone.

Edwards solleva un sopracciglio, squadra con occhi attenti e sospettosi il portachiavi che penzola fra le mie dita. Lo ignoro, ma avvolgo il ciondolo nel palmo in modo che lui non indugi troppo con lo sguardo sulla bandiera danese. Arrivo alla chiave più lunga e la indirizzo nella serratura arrugginita.

Ora li farò salire e mi diranno che hanno preso Mathias e che è prigioniero da loro, che lo dovranno tenere al fresco almeno per un mese a meno che io non paghi la cauzione che io non pagherò, perché così quell’idiota imparerà una buona volta a tenersi fuori dai guai.

Inserisco la chiave. Giro a destra e a sinistra per assestare l’ingranaggio che è rotto da due mesi ma che il padrone di casa non ha ancora provveduto ad aggiustare. La mano si blocca, un pensiero mi fulmina, e il braccio raggela senza spingere il cancello.

Oppure che è successo qualcosa che riguarda anche Ivan.

Giro a sinistra, la serratura scatta, trasmette una vibrazione alla mia mano che risale il muscolo come una scossa elettrica.

Già, e se Mathias fosse finito nei guai per colpa di Ivan? Questo spiegherebbe il coinvolgimento della polizia. Non ci avevo nemmeno pensato.

Stringo la sbarra screpolata di ruggine, spingo il cancello che si apre con un cigolio dei cardini, e allungo il primo passo attraverso la stradina di pietra.

Comunque, in qualsiasi cosa fosse rimasto incastrato Mathias, questa volta non lo perdonerò per almeno un mese, a costo di lasciarlo a marcire in prigione.    

 

.

 

Ho dovuto girare due volte le chiavi nella serratura di casa prima di ricordarmi che questa mattina avevo lasciato la porta aperta. Ci mancherebbe solo che fossero entrati i ladri, sarebbe la degna conclusione di questa giornata schifosa. Ma almeno avrei già i poliziotti qui.

Avvito il pomello, spingo la porta, e la luce grigia del corridoio ci accoglie trascinando con sé il profumo di casa, l’aria ancora fredda dopo due giorni che non ho acceso il riscaldamento, e il leggero brusio del traffico che passa attraverso i vetri delle finestre.

Faccio entrare prima loro, apro il braccio indicando il corridoio. «Prego.»

Edwards passa per primo e mi fa un cenno con il capo. «Grazie.» Si toglie il copricapo. «Con permesso.»

Passa anche Lee e lo imita. «Permesso.»

Non vanno oltre il mobiletto del telefono. Mi mordo il labbro ed esito sulla soglia, accorgendomi solo adesso di aver lasciato le sigarette HB lì, con sopra il nome di Gilbert. Se Mathias fosse nei guai, quella potrebbe essere una prova contro di lui. Squadro le schiene dei due agenti, ma Edwards si sta guardando attorno, fermo davanti al piccolo quadro del fiumiciattolo in mezzo alle montagne appeso sopra il ricevitore del cancello, e Lee allunga il collo per dare una sbirciata al soggiorno. Non notano nemmeno il pacchetto. Meglio così.

Richiudo la porta. «Volete qualcosa da bere?» Getto le chiavi nella ciotola di legno dove giacciono ancora quelle di Mathias.

Edwards scuote il capo e mi blocca con un piccolo cenno della mano. «Oh, non si disturbi.»

Poso la borsa sulla seggiola, mi sfilo il cappotto e lo butto sullo schienale. In casa fa quasi più freddo che fuori, e una pioggia di brividi mi aggredisce la schiena risalendo fino alla nuca. «Di qua è la cucina.» Faccio strada. «In soggiorno non ho sedie per tre.»

Edwards sorride, ma gli angoli della bocca fanno fatica a tirarsi su, è un sorriso un po’ impacciato. «Grazie.» Mi seguono entrambi, e lui si ferma fuori dall’architrave della cucina, lancia un’ultima occhiata al soggiorno tenendo il capo reclinato. «L’avete arredata voi due?»

Annuisco. «Sì, io.» In cucina indico le sedie accostate al tavolo. Ci accoglie il ticchettio dell’orologio e quello più cristallino del rubinetto rotto che gocciola dentro il padellino del latte sporco e traboccante d’acqua.

«E da quanto tempo vive assieme al signor Køhler?» Edwards non si siede ancora, il suo sguardo circospetto esplora la cucina.

«Da tre mesi circa» rispondo. «Mi aiuta con l’affitto.» Per fortuna che sono davvero in affitto, altrimenti non saprei che scusa inventarmi per giustificare il fatto che viviamo assieme.

Abbasso la fronte e rivolgo un inconscio sguardo d’odio a entrambi.

Dannati poliziotti che si impicciano degli affari degli altri solo per rompere le scatole e mai per fare il loro lavoro.

Edwards annuisce, comprensivo. «Capisco.»

Afferro lo schienale di una delle seggiole e mi siedo prima io, intreccio le mani sul tavolo. Un fascio di luce grigia entra dalle tendine della finestra, taglia in due il frigorifero, scivola sotto l’orologio – sono già le tre e mezza –, batte sul rubinetto del lavello gocciolante, e attraversa la stanza, schiarendola senza bisogno del lampadario.

Edwards e Lee si siedono uno vicino all’altro, mi si mettono di fronte, posano i copricapo sulle ginocchia. «Dunque.» Anche Edwards giunge le mani sul tavolo, stringe le dita, spremendole un paio di volte, e le nocche gli diventano bianche. «Signor Bondevik.» Mi rivolge lo sguardo, fissandomi dritto negli occhi, e socchiude le palpebre, sollevando lievemente le punte delle sopracciglia.

Stringo le mani, sopprimo la pressione che si è creata nello stomaco, come se mi avesse appena dato un pugno alla pancia. Quello sguardo mi è arrivato addosso come una scossetta gelida fra le viscere, la bocca diventa secca e amara, impastata di disgusto come dopo l’orrido caffè di stamattina.

Il lavandino perde, l’orologio ticchetta, batte le tre e trentaquattro, e il ronzio del frigorifero copre il brusio del traffico in sottofondo.

Edwards abbassa di un poco la fronte, ma i suoi occhi non si smuovono dai miei. «Ci rincresce doverle comunicare che abbiamo delle spiacevoli notizie riguardo Mathias» dice, secco, tutto d’un fiato. Anche Lee abbassa lo sguardo e irrigidisce le braccia tenendo i gomiti premuti sul tavolo.

Io sollevo un sopracciglio.

Mathias? E dov’è finito il signor Køhler?

Stringo i pugni, il leggero scricchiolio delle falangi mi fa salire i nervi a fior di pelle, le palpebre si restringono, continuo a fissare il dannatissimo orologio con le lancette fosforescenti che batte regolare sopra il frigo.

Ora mi diranno che è in prigione.

La lancetta passa il numero dodici – tic! –, il giro dei minuti ricomincia – tac!.

Mi diranno che è in prigione e che magari lo hanno anche gonfiato di botte dopo una lite, che dovrà rimanere dentro almeno per un anno, che dovrò rassegnarmi al fatto che potremo vederci solo una volta al mese, che però potrò inviargli delle lettere, e che dovrò trovare qualcun altro con cui “dividere l’affitto”.

Una goccia piove dal rubinetto, crolla nel padellino colmo. Plic!

Ora dovrò pure passare il pomeriggio a cercare la sua roba e a portargliela in prigione. Poi dovrò anche andare a parlare con il padrone di casa, spiegargli che Mathias resterà dentro fino a non so quando, magari inventarmi qualcosa per non tirare di mezzo la droga. E dovrò anche prepararmi a subirmi le lagne di Mathias. Starà appiccicato al vetro divisorio con il telefono in una mano e il palmo schiacciato sulla parete trasparente fra me e lui, la divisa del carcere a fasciargli il corpo, a giustificarsi sul perché non è colpa sua, sul perché lo hanno fregato, su come ha già in mente di sistemare tutto, che quando uscirà di galera sarà in grado di mettersi a posto per sempre, e mi prometterà come fa ogni volta che vivremo felici e contenti in chissà quale casetta di marzapane incantata, circondati dalla foresta degli arcobaleni e dei coniglietti di zucchero.

Le sue solite chiacchiere da disperato.  

Prendo un breve respiro. «Di cosa si tratta?»

Un altro battito di orologio – tic! – e un altro sgocciolio del rubinetto – plic!

Edwards e Lee si scambiano un’occhiata obliqua. Edwards restringe le labbra, come avesse paura a parlare, e le mani intrecciate sul tavolo diventano bianche come le sue guance. Gli occhi di Lee restano freddi. Lee solleva le sopracciglia, quasi stesse ammiccando, ed Edwards annuisce piano mostrando un’espressione di complicità.

Lee mi rivolge lo sguardo. Anche i suoi occhi cambiano, si fanno più lucidi e tristi, più profondi.

«Mathias è stato ritrovato deceduto questa mattina.»

La lancetta avanza – tic! – e si ferma. Una goccia piove dal rubinetto, si schianta dentro il padellino ricolmo – plic! – e l’acqua raggela, immobile come ghiaccio.

Edwards abbassa la fronte. «Ci dispiace molto.»

L’orologio si ferma, il battito tace, il rubinetto smette di perdere e l’eco dell’ultima goccia caduta si propaga fra le pareti della cucina, spegnendosi come un ronzio. Anche il frigorifero tace, il rumore del traffico si spegne, la stanza diventa tutta grigia e le ombre dei mobili si ingigantiscono, riempiono le pareti ingoiandole in un abbraccio di buio.

Ho freddo. Il gelo che mi è entrato dentro stritola lo stomaco e fa salire un conato di nausea. Non riesco a spostare gli occhi dall’orologio che si è congelato sulle tre e trentacinque. Un fremito di rabbia corre nel sangue, scioglie il nodo che mi schiaccia la bocca dello stomaco, e infiamma il ventre. Stringo le mani sul tavolo, le unghie mi entrano nella carne senza che io nemmeno me ne accorga.

Cosa stanno dicendo questi idioti? Mathias è vivo, ieri notte era con me, era sul letto, mi teneva abbracciato, ho ancora addosso la sensazione delle sue carezze che mi sono rimaste appiccicate come impronte. Come può essere morto da un giorno all’altro? Le persone non muoiono da un giorno all’altro.

Mi tremano le labbra. Devo irrigidire il petto e trattenere il fiato per non far accelerare il respiro.

Lui è vivo, incastrato chissà dove, che sta aspettando qualcuno che lo vada ad aiutare, e questi incapaci vengono a dirmi che è morto solo perché non riescono a fare il loro lavoro e cercarlo come si deve, solo perché non vogliono perdere tempo con un tossico. Se solo...

Prendo un primo, breve respiro che mi fa formicolare le guance.

Le ombre si ritirano dalle pareti, l’orologio riprende a battere i secondi, il frigorifero ronza, una goccia d’acqua precipita dal rubinetto, scioglie il tempo che riprende a scorrere.

Mi torna il fiato, il petto si svuota. «Dov’era?» E rimane un buco. Mi è rimasto dentro il gelo, si è fossilizzato nel torso, non riesco nemmeno a percepire il mio cuore che batte.

Edwards e Lee si scambiano un’occhiata perplessa. Forse si aspettavano che mi prendessi il viso fra le mani e che scoppiassi a piangere fino a soffocarmi con i miei stessi singhiozzi.

Abbasso gli occhi dall’orologio, guardo Edwards dritto in faccia. La mia voce è così fredda che mi aspetto quasi di vedere della condensa uscirmi dalle labbra come la nuvoletta bianca di un fumetto. «Dov’era quando l’avete trovato?»

Edwards lancia un’ultima occhiata tremolante a Lee, stringe e riapre le dita intrecciate, guadagna un respiro. Anche lui mi guarda in viso. «In un bagno» risponde. «Nei servizi pubblici della stazione di Tottenham Court Road.» Il suo sguardo rabbuia. «Abbiamo motivo di credere che sia morto per un’overdose da eroina. Aveva ancora l’ago della siringa infilato nel braccio quando è stato ritrovato.»

Tottenham?

Le immagini di questa mattina mi arrivano addosso come se qualcuno avesse agguantato un mazzo di fotografie e me l’avesse sbattuto in faccia, facendo volare gli scatti davanti ai miei occhi.

La gente ammucchiata sotto il portico, l’insegna della metro che mi dava i brividi, la sensazione di freddo e disagio che sviscerava sotto la carne, il formicolio ai piedi che mi diceva di scendere le scale. Le due auto della polizia che stazionavano in mezzo alla carreggiata, l’ammasso di gente ancora più grande, l’ambulanza aperta e ferma sul marciapiede con le sirene che lampeggiavano e che coloravano di blu i profili dei passanti.

Sento un groppo alla gola, come se avessi ingollato un pugno di spiccioli, e la nausea rimonta lo stomaco.

L’ambulanza.

Il paramedico che richiude gli sportelli, l’auto della polizia che si immette nel traffico e che guida l’ambulanza lontano, e la sensazione di gelo e dolore che mi era scivolata via dallo stomaco quando l’ho vista sparire dietro l’angolo.

«Chi l’ha trovato?» chiedo.

Edwards inspira, forse per darsi coraggio. «Un signore, questa mattina. È già stato interrogato ma ovviamente non è coinvolto in nessun modo. Si era semplicemente recato ai servizi e ha trovato la porta del bagno bloccata.» Guarda in disparte, si stringe le spalle, stropiccia lo sguardo e si strofina la nuca. «Poi, quando ha chiamato la sicurezza per farla aprire dall’esterno, noi...» Fa un piccolo gesto con la mano, mi invita a usare l’immaginazione.

Socchiudo le palpebre e guardo il tavolo, i nostri riflessi che si specchiano sul legno lucido. «Capisco.»

Lee si fa più avanti con le spalle. La sua voce è più morbida di quella di Edwards, ma più sicura. «Deve ancora arrivare il referto del medico legale» mi spiega, «ma abbiamo modo di credere che possa essere morto fra ieri sera e questa mattina.»

«Quando ha detto di averlo visto, l’ultima volta?» si intromette Edwards.

L’ultima volta.

Quindi, l’ultima immagine che mi rimarrà di Mathias è il suo viso smagrito e pallido, reso ancora più bianco dalla luce della luna che gli batteva sulla guancia. Gli occhi ingrigiti, tristi e umidi che mi facevano sentire quella fitta di dolore al petto, poi la sensazione della sua fronte accostata alla mia, del suo respiro lento e tiepido che mi sfiorava la gola, le mani tremanti che mi carezzavano la nuca e dietro l’orecchio, le braccia aggrappate al mio corpo, il profumo dei suoi capelli che si mescolava a quello del tabacco. La consistenza ruvida e calda del tatuaggio sfregiato dalle graffiate che passava sotto il mio tocco, il lento e soffice suono del suo cuore che batteva sulla mia guancia quando ho poggiato il viso sul suo petto, prima di chiudere gli occhi. Se solo non mi fossi addormentato, forse...

Un tremito mi scuote la schiena e mi fa vibrare lo stomaco. Torna a salire un altro conato di vomito che reprimo con un breve sospiro. «Ieri sera» rispondo. «Verso le sette o le otto. Potrebbe essere uscito di casa mentre dormivo.» Squadro Edwards con due occhi che potrebbero perforare una lastra d’acciaio. «Gliel’avevo già detto al telefono questa mattina.» Mi bruciano le mani. Vorrei alzarmi e strangolarlo, spremergli fuori dagli occhi le lacrime che a me non vengono, che sento incastrate nel petto, che iniziano a martellare fra le palpebre, e di cui non riesco a liberarmi.

Gli avevo detto di cercarlo. Gli avevo detto che sarebbe stato pericoloso lasciarlo libero per Londra nelle condizioni in cui era ridotto ieri sera, e loro non mi hanno dato retta, non hanno mosso un dito per aiutarlo. Se lo avessero trovato in tempo e gli avessero impedito di...

«G-giusto» balbetta Edwards, distogliendo lo sguardo dal mio. È tornato a sbiancare. Fa la stessa faccia che fanno tutti quando lancio occhiatacce del genere.

Lee tossicchia e torna a rivolgersi a me. «Ovviamente ci siamo già preoccupati di avvisare i genitori di Mathias,» increspa un labbro, «tuttavia è insorto un piccolo problema.»

Inarco un sopracciglio. La rabbia si scioglie pian piano, torna la sensibilità alle mani, e il grumo di pressione sul petto e sullo stomaco si squaglia. Sento il sangue tornare gelido come un flusso di acqua ghiacciata.

Lee si spinge con le spalle più avanti, intreccia le mani sull’orlo del tavolo, e ora assume il tono di un inquisitore. «Lei era a conoscenza del fatto che Mathias fosse danese, giusto?»

Gli occhi di Edwards volano verso la porta che dà sul corridoio. Increspa le sopracciglia come aveva fatto quando ho tirato fuori il mazzo di chiavi appese al ciondolo della bandiera danese. Si massaggia la punta del mento, scettico.

Io restringo le palpebre. «Certamente.»

Lee annuisce. «Vede, i suoi genitori purtroppo non si sono resi disponibili per il riconoscimento del corpo, e lei risulta il contatto più stretto che Mathias aveva qua a Londra.» Lo sguardo assume una velatura imbarazzata. L’agente si passa la mano fra i capelli, increspa la bocca come se stesse impastando le parole sulla lingua, e il suo viso si chiazza di rosso. Gli occhi incrociati ai miei tremolano di indecisione. «Non vorremmo farle pressione, ma...» Fa un gesto con la mano, rotea il polso rimestando l’aria sopra il tavolo, e non riesce a concludere la frase, mi lascia immaginare.

Alzo le sopracciglia. «Devo riconoscere il corpo?»

Edwards mi guarda male e rimane basito davanti alla mia freddezza. Probabilmente starà pensando che io sia un automa con il cuore di piombo.

Lee annuisce. «Sì.» La voce ancora un po’ impacciata. «Sì, signore.» Il suo sguardo vola sopra il frigorifero, nel punto da cui si propaga il ticchettio dell’orologio. Ora sono già le quattro meno un quarto. Lee si sporge leggermente dalla sedia, volge già un piede verso l’uscita. «La accompagniamo noi all’obitorio, se vuole, anche subito.» Il tono si è fatto stomachevolmente gentile e apprensivo, torna ad annodarmi la pancia in un grumo di disgusto.

Restringo il labbro inferiore, la bocca freme fra gli incisivi, qualcosa preme sulle palpebre, brucia le guance, ma ingoio tutto. La voce mi esce in un soffio. «D’accordo.» E il cuore diventa davvero pesante come un pezzo di piombo.

 

.

 

L’auto della polizia ha un buon profumo. Profuma della pelle dei sedili, del cuoio delle cinture, e di stoffa appena lavata lasciata scaldare al sole. Il calore pizzica attraverso il viso, le guance si sono intiepidite e il sangue torna a scorrere attraverso la pelle arrossata dal vento e dal freddo.

Sfioro il finestrino con la fronte stando poggiato sul gomito, la mano chiusa contro la guancia. Fuori sta annuvolando e sta anche scendendo la sera. Le luci dei negozi, dei semafori e dei fari delle auto risplendono in maniera più viva, e il traffico scorre ancora liscio, pochi passanti occupano i marciapiedi. Non c’è ancora la foga delle cinque a intasare le strade.

Lee ferma l’auto a un semaforo. La luce rossa ci abbaglia e riempie l’abitacolo. L’agente alza gli occhi sullo specchietto retrovisore, il suo sguardo mi scruta, incrocia di sfuggita quello di Edwards seduto di fianco a me, e torna a guardare avanti. «Ci rincresce molto tutta questa situazione, signore.» Stringe le dita sul volante, le nocche sbiancano, e le punte tamburellano sul cuoio consumato.

Sollevo lo sguardo, ma non sposto la fronte dal vetro. Piego leggermente un sopracciglio mantenendo un’espressione fredda e distaccata.

Lee non mi guarda più. Tamburella ancora le unghie sul volante e tiene gli occhi fissi sul semaforo che gli tinge le guance di rosso, sulla gente che attraversa passando davanti al muso dell’auto, in mezzo alla luce dei fari. «Si ricordi che il corpo di Mathias potrebbe apparirle molto più pallido del solito.» Ferma il tamburellare delle dita e si gira a guardarmi da sopra la spalla. Un’occhiata di conforto. «All’inizio potrebbe disorientarla un po’ ma non si spaventi, va bene?»

Spaventarmi.

Mi tocco il petto, faccio finta di grattarmi, come se avessi un prurito a soffocarmi da sotto la giacca, e ne approfitto per fare pressione sul battito del cuore. È lento e regolare, non ho male al petto, non sto sudando, non ho il respiro accelerato, non mi bruciano gli occhi e non ho un groppo in gola. Non ho paura, non sono spaventato, non ho niente. C’è solo un buco che non riesco a riempire.

Annuisco. «Okay.»

Scatta il verde. Lee ingrana la marcia e parte, supera l’attraversamento pedonale e prosegue lungo la strada immettendosi dietro un autobus. «Dovrebbe apparire anche l’ematoma del...» Stacca una mano dal volante, fa roteare il polso. «Insomma...» Si rimangia le parole e allontana gli occhi dal riflesso dello specchietto retrovisore, in modo da non incrociare il mio sguardo.  

Edwards tossicchia. Lee torna ad agguantare il volante con entrambe le mani, le nocche diventano bianche, e il suo tono di voce riacquista un po’ di sicurezza, non tentenna più. «Le verrà fornita una cartella clinica, comunque.» Imbocca una curva, stando sempre dietro l’autobus, e rallenta. La strada è più buia in questo punto, una porzione di marciapiede è bloccata da una striscia bianca e rossa che delimita un piccolo cantiere edile.

Lee scuote il capo e la sua espressione s’intristisce. «Non si preoccupi, non ha sofferto.» È più rassegnato lui di me. «In questi casi, la morte arriva di colpo, non se ne sarà neanche accorto.» Scrolla le spalle. Parla con tono amareggiato, come se volesse vomitare le parole. «Dicono che sia come un proiettile alla testa.»

Il petto stavolta si stringe. Una piccola scossa di dolore mi trafigge le costole e arriva come un ago nel cuore.

Grazie per avermi messo in testa l’immagine di Mathias che si spinge una canna di pistola alla tempia. Il pollice alto sul cane, l’indice che trema già infilato nell’anello del grilletto, e gli occhi che lacrimano, le righe di pianto che rotolano fra le labbra torte in un’espressione di dolore e paura che gli sbianca la pelle delle guance.

Confortante.

Mi stringo nelle spalle, sopprimo un brivido, e tiro le gambe più vicino a me, chiudendomi nell’angolo contro lo sportello. Torno a guardare fuori dal finestrino. Non ho intenzione di stare ancora a lungo a sentire le chiacchiere di questi dannati cretini.

«Aah, poveretti» sospira Edwards, accanto a me. Si toglie il copricapo, passa una mano fra i capelli, si massaggia il collo, e il suo palmo resta aperto dietro la nuca. «È già il vent...» Inarca un sopracciglio, lancia a Lee un’occhiata interrogativa. «... unesimo?»

«Sì, ventunesimo» annuisce Lee. L’autobus gira a destra, noi andiamo a sinistra e la nostra via si apre in uno stradone principale che ora non riconosco.

«Il ventunesimo, quest’anno» ripete Edwards. «Per un’overdose.» Si rimette il copricapo e guarda anche lui fuori come me.

Lee scuote il capo, l’espressione amareggiata come il tono di voce. «Poveri ragazzi.» L’auto rallenta, la luce rossa di un altro semaforo ci investe, e l’auto si ferma davanti a un negozio che esibisce l’insegna luccicante della Coca-Cola. Lee apre le mani sul volante, si stringe nelle spalle, e torna a chiudere le dita. «Noi purtroppo possiamo fare ben poco, ma in questi casi devono essere in grado di salvarsi da soli.»

Stringo i pugni. Uno contro la coscia, grattando le unghie sui pantaloni, e uno nella guancia, graffiandomi la pelle. Di nuovo quel formicolio di rabbia si aggroviglia nella pancia, come un serpentello che si dimena e che mordicchia le pareti dello stomaco.

Salvarsi da soli? Mathias non era in grado di cavarsela da solo nemmeno quando preparava la colazione. Lasciava troppo tempo il latte sul fuoco e alla fine traboccava tutto, non richiudeva l’anta della dispensa e finiva sempre per prendersi una spigolata alla nuca, rovesciava la busta di biscotti mentre li travasava nel barattolo di latta, bruciava i toast, non rompeva bene le uova e le faceva cadere nella padella assieme al guscio. Come avrebbe potuto salvarsi da solo in qualcosa di così grande come la dipendenza?

L’auto ingrana la marcia e riparte. Il ronzio del motore attraversa il sedile di pelle mi rilassa, i bollori si raffreddano, la luce più scura e tenue della strada, distante dalle luci colorate fuori dai pub e dai negozi, mi spinge ad abbassare le palpebre.

Un piccolo sospiro mi attraversa le narici. Il vuoto nel petto si allarga.

Chissà chi sarà il prossimo di loro?

Due taxi sfilano nella corsia accanto alla nostra, ci superano, e scoprono la vista del marciapiede. Dei tizi vestiti in pelle nera e cianfrusaglie di metallo appiccate al viso e ai capelli sono in piedi fuori da un pub e chiacchierano, avvolti da una sottilissima coltre di fumo azzurrina sprigionata dalle punte delle sigarette che brillano fra le loro dita. Boccali di birra fra le mani e posacenere pieni sui tavolini di metallo.

Distolgo lo sguardo, spingo le spalle contro lo schienale, poggiando anche la nuca, e incrocio le braccia al petto.

Per me il prossimo sarà Gilbert. Forse Arthur potrebbe farcela, magari sarà abbastanza intelligente da tirarsi fuori prima di fare anche lui questa fine, ma Gilbert no. Gilbert è stupido come lo era Mathias. Mi stupisco solo che non sia morto prima di lui.

Un nodo si raggruma nel petto, riempie il vuoto con una massa nera e appiccicosa che mi fa salire i brividi attraverso la pelle, rende il viso più freddo, e la pressione arriva alla testa schiacciando contro le tempie.

A questo punto avrebbe potuto davvero morire lui al posto di...

«Lei sapeva, dunque, dei problemi di Mathias?»

Edwards ha distolto lo sguardo dal suo finestrino e mi guarda storto, scettico, con una sottile ombra a celargli metà del volto. Le braccia intrecciate al petto.

Gli lancio uno sguardo annoiato e annuisco. «Sì.» Torno a osservare la strada che sfila. Il gomito contro lo sportello e la mano aperta sulla guancia.

«E lo sapeva anche prima che venisse a vivere con lei?»

Prendo un piccolo sospiro. «Sì.»

Edwards torna a sistemarsi con le spalle contro lo schienale, il sedile sbuffa sotto il suo peso che si sposta, e accavalla le gambe. «Audace, a prenderlo come inquilino.» Sopprime una risata che ha il suono di un soffio. «Per di più...» I suoi occhi diventano più scuri, la voce più bassa, aggravata da una punta di sprezzo. «Già vivendo in un quartiere come Soho.»

Un formicolio si annoda nel ventre. Restringo le palpebre, lo fisso con la coda dell’occhio standomene in disparte, e sento la pelle rabbrividire e rizzarsi sulla difensiva. Non avrà forse capito che io e lui...

«Quindi, immagino che vi conoscevate prima di vivere assieme.» Edwards si massaggia di nuovo il collo e allenta il bavero dalla giacca infilandoci due dita sotto.

Prendo un respiro lungo, lo faccio arrivare fino in fondo allo stomaco. Torno freddo come un cubetto di ghiaccio, il tono piatto e indifferente. «Solo da inizio marzo.»

Edwards annuisce. «Capisco.» Gli angoli della bocca si curvano in un mezzo sorrisetto che va a incavarsi nelle guance. «E, se posso permettermi...» Si volta verso di me. I suoi occhi si restringono, si fanno famelici come quelli di un gatto che ha avvistato un topo nell’angolo della cantina. «Com’è che vi siete conosciuti, lei e Mathias?»

Stringo le labbra, trattengo il fiato.

Edwards si massaggia il mento e ridacchia. La sua risata gli fa traballare le spalle. «Anche lei è danese, signor Bondevik?»

Mi scoppia una vena in fronte.

Io danese?

Stritolo i pugni, le unghie si conficcano nella carne, i muscoli fremono, un sottilissimo ringhio di minaccia sguscia fuori dai denti serrati.

«Norvegese.»

La mia voce raggela l’abitacolo. Spegne i rumori del traffico, quelli del motore dell’auto, e l’aria diventa scura, come se fosse comparsa una nebbiolina grigia attorno a me, a rabbuiarmi lo sguardo e a incorniciarmi il profilo con un’aura nera carica di ostilità.

Edwards e Lee smettono di respirare, Lee irrigidisce come un manichino al volante, Edwards sbianca e strozza un sussulto, come se lo avessi strangolato. Scivola sul fianco e si porta più vicino al finestrino, lontano da me, schiacciandosi contro lo sportello. Il suo sguardo si allontana, gli occhi lucidi di paura riflettono i colori delle insegne e dei fanali delle auto che luccicano anche sulle sue guance impallidite.

Così impara a sparare stronzate.

Lee tossicchia chiudendo un pugno davanti alle labbra. «Quindi...» Torna a incollare la mano sul volante e svolta a destra, si ferma a un passaggio pedonale e un mucchietto di persone attraversa la strada. Lui mi squadra da sopra la spalla. «Avevate forse amici in comune?» La sua voce non è provocante come quella di Edwards, ma mi fa comunque salire un fascio di nervi a ingarbugliarmi il petto.

«Questo non è un affare che la riguarda.» Ricambio lo sguardo, fisso il finestrino in modo che possa osservare per bene il riflesso glaciale dei miei occhi. «O sbaglio?»

Lee china la fronte, si stringe nelle spalle. «Mi perdoni.»

La folla sgombera la strada e l’auto riparte con un sobbalzo.

Edwards torna a girare lo sguardo verso di me, senza però spostare le spalle che restano incollate allo schienale. Le braccia intrecciate al petto come per paura che io possa di nuovo trafiggerglielo con una frecciata raggelante. «E il tatuaggio?» chiede, brusco. La sua domanda arriva con la stessa prepotenza di uno schiaffo.

Mi irrigidisco, gli occhi rimangono aperti sul mio finestrino, e il vetro riflette la mia espressione ingrigita, colta alla sprovvista. Un’altra scossa al petto mi trapassa le costole e punge il battito del cuore. Mi giro.

Edwards mi sta di nuovo guardando. L’espressione seria, di pietra, non ha più la sfumatura divertita che prima gli rendeva le guance rosse. L’agente di polizia mi mostra il lato sinistro del collo, sotto il bavero dell’uniforme, e batte sulla giugulare con due dita unite. «Mathias ha un tatuaggio sul collo a forma di orologio.» Solleva le sopracciglia, le dita restano a premere sulla vena. «Ne era a conoscenza?» Ora mi guarda come se io fossi un topolino con la coda già incastrata fra le unghie del gatto.

Inutile mentire, sembrerebbe troppo sospetto.

«Ovviamente» rispondo, glaciale.

Edwards fa scivolare giù le dita dal collo e torna a incrociare le braccia. Guarda davanti a sé, tiene il mento alto, il tono grave di un giudice dell’Inquisizione. «E Mathias le ha mai parlato del perché ce l’avesse e di cosa significasse?»

Un groppo di saliva s’incastra in gola, amaro e asciutto come un boccone di sabbia.

Mi torna in mente la prima volta in cui gliel’ho sfiorato, seduto sulle sue ginocchia, le braccia attorno alle sue spalle, la sua schiena sprofondata nell’imbottitura del divano, la luce rossastra della sera d’estate che gli faceva splendere i capelli come oro. L’aroma delle due birre che avevamo bevuto, le bottiglie sporche di schiuma ribaltate sul tavolino assieme al cavatappi e al posacenere. Il caldo che gli faceva sudare la pelle, il profumo di tabacco che sentivo quando gli carezzavo il collo con la punta del naso, le mie mani intrecciate alle sue ciocche che risalivano la nuca, avvolgendola. Le labbra che si univano, che baciavano a fondo, più a fondo di quanto avessimo mai fatto fino a quel momento, e che assaporavano il gusto dolce della sua bocca, quello più amaro della birra. Le sue mani erano scivolate sotto la mia maglietta. Erano ruvide, un po’ sudate e impacciate, e mi carezzavano la schiena, arrivando fino alle scapole. Gli occhi chiusi, il respiro che accelerava, e il suo petto che fremeva contro il mio, passandomi una piccola scossa elettrica che era scesa fino in pancia. La prima volta che abbiamo fatto sesso sembrava avesse più paura lui di me, anche se sapevo che lui era già stato a letto con altri. Si fermava a ogni mio brivido, a ogni singolo ansito, terrorizzato all’idea di farmi male. L’avevo trovato così dolce e patetico allo stesso tempo. Era un lato di Mathias inaspettatamente tenero che non avevo mai conosciuto e che in qualche maniera me lo aveva fatto amare ancora di più.

Torno con la mente nell’auto, imbozzolato nel freddo invece che nell’aria calda di quella sera d’estate, a udire i battiti e i sospiri del corpo di Mathias unito al mio. L’odore della pelle invece che quello della birra, il colore grigio del cielo annuvolato invece che il rosso sanguineo del tramonto.

«No.»

Dopo eravamo rimasti sdraiati sul divano. Le sue braccia attorno al mio bacino, le gambe intrecciate, la sua fronte che riposava sulla mia spalla, le labbra che mi sfioravano la pelle sudata, inumidendola ulteriormente. Sistemai le spalle contro il guanciale ruvido del divano, districai le dita dai capelli sudati di Mathias e feci scendere il tocco lungo la curva del suo collo. Arrivai al tatuaggio e vi indugiai, percorrendo il bordo di filo spinato attorno all’orologio che sembrava davvero in rilievo, come se emergesse dalla carne. Glielo toccai e Mathias divenne più rigido, il suo abbraccio più stretto, il viso più nascosto nell’incavo della mia spalla. Aprii la mano, gli nascosi il tatuaggio sotto il mio palmo e gli soffiai un piccolo bacio sulla fronte. Mi diceva sempre che, ogni volta che stava con me, era come se sparisse, come se glielo cancellassi dalla pelle.

Mathias sovrappose la mano alla mia, delicatamente, e mi sussurrò piano con le labbra a uno sfioro dal petto, “Devo dirti una cosa riguardo a questo”, la voce tremava leggermente, come aveva fatto fino a poco prima, quando avevo il suo respiro a soffiarmi accanto all’orecchio. E mi raccontò tutto dei Siberian Cubs.

Scuoto le spalle, mi fingo indifferente, e rilasso la schiena contro il sedile. «Ce l’aveva e basta.»

Edwards e Lee si lanciano un’occhiata sbilenca, Edwards solleva un sopracciglio e torce una mezza smorfia con l’angolo delle labbra.

Sanno che non gliela sto raccontando giusta, ma non mi importa. E, secondo me, non importa nemmeno a loro.

 

.

 

I gomiti premuti sulle ginocchia cominciano a spandere due punture di dolore attraverso i muscoli delle gambe. Tengo le mani intrecciate sotto il mento, a reggere il capo, e gli occhi puntati in mezzo ai piedi, a fissare il vuoto nelle piastrelle di linoleum verde a forma di esagono, come le cellette di un alveare. Mi hanno detto di aspettare qui, che verranno a chiamarmi loro. Sono già passate due infermiere ma non mi hanno nemmeno guardato.

Sollevo gli occhi e sporgo le spalle in avanti, verso la prima ala del corridoio da cui mi hanno fatto arrivare quando siamo entrati. Passi ovattati in lontananza, tacchi sulle piastrelle, una serratura che scatta, una porta che si apre, vetri che vibrano, un carrello con le ruote che cigolano come quello della biblioteca, e un soffice brusio di voci che si propaga nel silenzio dell’ambiente.

Torno a guardare per terra e mi strofino il naso guadagnando un respiro profondo. L’odore di alcol e formaldeide mi sta già dando alla testa. Il peso al petto si aggrava e una fitta allo stomaco mi raggela. È da quando mi hanno fatto entrare nell’obitorio che la pancia mi si è chiusa in un nodo, il peso fra le costole si è infittito, il cuore batte lento e forte contro lo sterno, come il colpo costante di un martello sullo sterno. Mi dà la nausea.

Dei passi si avvicinano, battono sul pavimento in linoleum, un’ombra si allarga e mi tocca i piedi. Una voce femminile fa il mio nome. «Signor Bondevik?»

Giro lo sguardo ma le spalle restano chine, la postura immobile. «Sì?»

L’infermiera stringe una cartella al petto, accenna una riverenza abbassando il capo, e mi indica l’ala del corridoio alla sua destra. «Prego, da questa parte. Il dottore la aspetta.»

Un groppo di saliva mi resta incastrato in fondo alla lingua. Ho la gola secca e amara, non riesco a mandar giù il fiato. Mi alzo dalla panchina e un capogiro sbatte sulle pareti del cranio, le luci del corridoio lampeggiano, si offuscano, si macchiano di nero, e tornano a brillare. Scuoto il capo, corrugo la fronte, schiaccio i pugni fino a sentire le unghie spingere sui palmi, e prendo un breve respiro dal naso. Le luci tornano ferme e la testa smette di girare.

Muovo un primo passo. Il piede batte fermo e sicuro, le ginocchia salde e i muscoli rigidi.

Magari ora entro, lo guardo, e non è Mathias. Forse un altro disgraziato come lui l’ha rapinato ieri notte, gli ha fregato i documenti, poi è schiattato nel bagno, e lo hanno scambiato per Mathias solo perché ha la tessera di identità con il suo nome sopra.

Mi porto di fianco all’infermiera che mi guida attraverso il corridoio. È piccolina, la sua testa mi arriva alla spalla e deve sollevare il mento per guardarmi in viso. «Volevamo avvisarla che Mathias non ha ferite pronunciate sul corpo, ma sono visibili ematomi multipli e trombosi lungo le braccia.»

Svoltiamo una curva. Cartellini numerati sovrastano le porte delle sale, l’aria diventa più fredda e stagnante, come quella rigettata da un frigorifero, e la puzza di formaldeide torna a bruciarmi le narici.

L’infermiera lancia un’occhiata alla cartella che stringe al petto e solleva uno dei fogli pinzati da una molla d’alluminio. «Le hanno già detto che lo troverà molto più pallido?» Lo chiede con la naturalezza di chi fa domande del genere tutti i giorni, come la commessa dell’emporio che ti informa che hanno spostato i detersivi al reparto tre.

Annuisco. «Sì.»

Ci fermiamo davanti alla porta contrassegnata dal numero sette. L’infermiera allunga un braccio davanti a me, raggiunge la maniglia e la fa scattare, spingendola in avanti. «Prego.» Arretra di un passetto e mi lascia libero il passaggio.

Luci bianche e fredde riempiono la stanza, si riflettono sulle pareti candide che sembrano esplodere per il chiarore, e mi costringono a sollevare una mano per ripararmi gli occhi. Fa freddo. Un freddo pesante che mi ghiaccia le ossa. Emetto il primo respiro da quando l’infermiera ha aperto la porta e gonfio una soffice nuvola di fiato che si squaglia subito. L’odore di alcol e formaldeide torna a martellare come una mazzata alla nuca. Inspessisce il nodo alla gola, brucia, scende fino allo stomaco, addensandosi, e mi fa venire voglia di vomitare.

Guardo in basso. Qui il linoleum è bianco. La testa mi gira, un anello di vertigini torna a sciamare davanti alla vista.

Tanto non è Mathias.

Stringo i pugni. Il freddo mi scuote, una scossa di brividi fa tremare le braccia.

Ora tiro su gli occhi e non è Mathias. Si sono sbagliati, lui è ancora a scorrazzare per la strada, e me lo ritroverò davanti questa sera quando tornerò a casa. 

«Il signor Bondevik?»

Sposto gli occhi verso l’alto.

Un uomo in camice, un velo di barba bianca a spolverargli le guance, e occhiali spessi inforcati alla radice del naso, mi viene incontro. «Lei è il signor Bondevik?» ripete.

Annuisco. Non apro bocca.

Lui fa un cenno del capo, «Grazie per essersi reso disponibile», e torna in fondo alla stanza dove sono sistemate un paio di barelle vuote che riflettono la luce gettando forti scintille metalliche.

I passetti dell’infermiera tornano a schioccarmi di fianco. Con il freddo, tutti i suoni vibrano con più intensità contro l’orecchio, pulsano fino alla pancia. L’infermiera mi porge la cartella. «Controlli anche questa, per cortesia.»

Ho solo il tempo di sfiorarne l’orlo che il rumore stridente di uno scarrellio trafigge il silenzio glaciale che regna nell’ambiente. Il medico è arrivato in fondo alla stanza, ha allungato il braccio e ha steso qualcosa davanti a lui. Qualcosa di bianco.

Il medico stringe un lembo del lenzuolo, lo fa scivolare lungo la barella, e scopre quello che c’è sotto.

Getto lo sguardo al pavimento e ci manca poco che porti il braccio a tapparmi gli occhi come quando mi sono riparato dalla luce bianca e improvvisa delle lampade. Scappo, non voglio vedere.

La mia mano e quella dell’infermiera restano pietrificate sulla cartella clinica, i miei piedi incollati a terra, come nel ghiaccio, e gli occhi fissi su una delle piastrelle. È incrinata da una sottile venatura che la taglia in due ed è sbavata di nero in uno degli spigoli, forse la strisciata della ruota di gomma di uno dei carrelli.

Inspiro. L’aria brucia le narici, freme attraverso la gola, crea una scia di freddo che discende il petto e si condensa contro lo sterno, come lo spigolo di un mattone.

Espiro dal naso, rilasso le spalle, ma lo stomaco rimane annodato, le labbra sigillate, i muscoli pesanti come cemento.

Stacco la mano dall’orlo della cartella clinica e mi sembra di lasciare la presa di un pilone per gettarmi nel mare in tempesta. Acque nere, fredde come ghiaccio sciolto, e onde che mi arrivano fin sopra la testa, a soffocarmi, a tappare il cielo, circondandomi di buio.

Muovo un passo. L’eco schiocca, rimbalza fra le pareti, e torna indietro come un pugno nella pancia. Ruoto gli occhi verso l’orlo della barella che luccica d’argento e da cui sporge un lembo del lenzuolo bianco, e tengo il viso leggermente girato, in modo da non guardarlo direttamente.

Gli vedo la mano. Avanzo a passi lenti e profondi e mi concentro solo sulla mano.

Le dita immobili riverse tutte sul fianco, a mostrarmi le nocche, sfuggono alla macchia bianca del telo steso sui fianchi che si adagia sul ripiano di metallo. Sotto la pelle grigia corrono spesse vene bluastre che hanno ormai smesso di pompare sangue, le ossa sporgono nelle parti più scarne, e lì la pelle si fa bianca e sottile come carta.

Allungo un altro passo, e riesco a vedere le pieghe del lenzuolo.

Sfumature nerastre sbavano la carne sotto le unghie, evidenziano le lunette bianche. Un taglio che passa di traverso sotto la prima nocca dell’anulare – il taglio della scorsa settimana, quello che si è fatto mentre stava raccogliendo i cocci di un bicchiere che aveva fatto cadere dopo averlo asciugato – non sanguina più. La pelle bianca divisa dalla ferita appare grigiastra sugli orli della slabbratura.

Arrivo vicino alla barella e prendo un altro profondo respiro. Continuo a non guardargli alto che la mano. Mi sento freddo come un blocco di ghiaccio, mi sembra di essere io a riempire la stanza di bui, che sia il mio respiro a condensare tutto questo gelo.

La mia mano stesa sul fianco ha una piccola scossetta che la fa rimbalzare. La sollevo, stendo il braccio, e porto le dita vicine a quelle di Mathias. Gli sfioro una nocca, sento che è ruvida, ritiro il tocco e lo riavvicino. Faccio passare le dita sopra le sue, le infilo nel piccolo incavo formato dal palmo, e stringo. Sono freddissime, dure. Sembra di stringere la mano a una statua di marmo in pieno inverno.

Chiudo leggermente la presa, i polpastrelli fanno attrito, cercano un calore che non trovano. Strofino il pollice sul dorso della sua mano, passo sopra il rilievo delle vene, sulla ruvidezza della pelle ghiacciata come un pezzo di pietra.

Restringo le labbra, mordo la carne, contengo un tremolio.

Questa che sto stringendo è la stessa mano che ieri mi carezzava la guancia, che mi scorreva fra i capelli, dietro l’orecchio, lungo il profilo della nuca, che indugiava posandosi sul mio viso e su cui avevo posato le labbra. Era fredda anche ieri ma tremava, e il battito del suo cuore pulsava attraverso il palmo. Era viva.

Sposto la mano, ma lo sguardo resta dov’è. Seguo il movimento del mio tocco con la coda dell’occhio, e non riesco a vedere Mathias in viso. Meglio così. La mia mano risale il busto, va oltre i fianchi coperti dal telo bianco, oltre il petto, la spalla, e si ferma su un lato del collo. Sulla parte sinistra.

Gli sfioro il tatuaggio con i polpastrelli. Ci sono ancora i segni dei graffi che si è fatto con le unghie, ma la tinta nera dell’inchiostro sembra ancora più scura ora che la pelle è così pallida da sembrare trasparente. Il filo spinato marchia la carne, sale in rilievo arrotolandosi sull’orlo dell’orologio senza lancette. Glielo tocco, spingo piano le pute di indice e medio contro la giugulare. Non c’è battito. Il collo immobile, la pelle di pietra, il sangue fossilizzato.

Percorro con le dita il rilievo del filo spinato, arrivo fino a metà orologio, sul numero nove, dove inizia l’incisione a caratteri maiuscoli. “Siberian Cubs”. La mia mano è ferma, non trema. Sfila lentamente sulle lettere da sinistra a destra, percorre la prima parola “Siberian”, e scende, tocca anche “Cubs”, più tozza e corta, che riempie la metà inferiore del quadrante rotondo.

Non riesco a provare nulla. Mi sento più freddo e morto di lui.

L’infermiera si avvicina alle mie spalle. La sua voce mi desta, buca il silenzio di ghiaccio. «Signor Bondevik?»

Faccio scivolare la mano giù dal collo di Mathias, gli sfioro la clavicola, la spalla, e torno a infilare le dita fra le sue, in quella nicchia di pietra morta in cui mi sembra di affogare. Indugio, stringo la presa. Questa è l’ultima volta che lo tocco. L’ultima volta che lo vedo.

Sciolgo la stretta delle dita e ritiro la mano.

Mi giro.

«È lui.»

Imbocco l’uscita senza aspettare l’infermiera. Voglio andarmene. Mi aggrappo alla maniglia, apro la porta e la lascio socchiusa, marcio attraverso il corridoio verde immerso nelle luci più calde, lontano dal gelo della cella, dal bianco delle pareti, e dall’odore di alcol. Mi stringo la fronte, un capogiro mi fa girare la testa e sdoppia di nuovo le scintille gettate dalle lampade. Colpa della formaldeide.

«Signor Bondevik, aspetti.»

I passi dell’infermiera accelerano e mi inseguono.

Alzo gli occhi al soffitto, sospiro, e sono costretto a fermarmi.

Quando mi volto lei è già dietro di me. Si aggiusta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, le è sfuggita dallo chignon, e torna a sfogliare la cartella di alluminio che regge fra le braccia. «Aspetti, ci sarebbero ancora dei moduli da firmare, e...» Sfila una penna dal taschino del camice a cui ha appeso il cartellino con la sua foto, fa scattare il tappo, gira un altro foglio. «Volevamo avvisarla che...» Solleva gli occhi, restringe le palpebre e mi squadra con una luce diversa e distaccata. «Ecco» balbetta. «Lei e il signor Køhler eravate...»

«Coinquilini.» Bla, bla, bla, dividevamo l’affitto e le spese. «Dividevamo l’affitto e le spese.»

L’infermiera annuisce. Mi rivolge un mite e sincero sorriso di compassione, i tratti del volto si rilassano. «Capisco.» Mi porge la cartella e la penna. «Vuole che le siano consegnati i suoi effetti personali?»

Raccolgo i documenti e scuoto la testa. «No. Non è necessario.»

Non leggo nemmeno quello che c’è scritto. Faccio scorrere lo sguardo fino in fondo alla pagina e mi soffermo su una clausola scritta in grassetto con dei numeretti fra parentesi. Ci sono due spazi delineati da puntini di sospensione. Uno dei due è già riempito con una firma in blu, forse quella del medico legale, l’altra è vuota tranne che per una X segnata con una penna nera. Devo firmare io.

L’infermiera giunge le mani sul grembo. Il suo tono di voce si addolcisce, gli occhi si intristiscono. «Volevo solo informarla che la famiglia di Mathias è stata avvisata. Non si sono resi disponibili per il riconoscimento, e mi rincresce che sia stato coinvolto lei per questo, ma...» Si stringe nelle spalle, mortificata. «Hanno richiesto di riportare Mathias a Copenaghen, vogliono che sia sepolto là. Ci sembrava giusto avvisarla.»

Metto la firma. Viene perfetta, le linee dritte e ordinate, la mano non sta tremando.

Annuisco. «Certo.» Sollevo la pagina, controllo il documento successivo per vedere se ci sono altri spazi vuoti da firmare. Niente.

«Preferisce essere riaccompagnato a casa?» mi chiede l’infermiera. «Desidera magari che la mettiamo in contatto con i genitori del signor...»

«No.» Chiudo la penna con uno scatto, e gliela porgo assieme alla cartella con la documentazione. «Non serve.»

L’infermiera raccoglie tutto e si rinfila la penna nel taschino. Le sue sopracciglia si increspano, lo sguardo attonito, quasi deluso. Forse anche lei, come i due poliziotti, si aspettava che scoppiassi a piangere. Non aspettava altro che io mi prendessi la testa fra le mani, mi gettassi in ginocchio sul pavimento a disperarmi, perché poi mi avrebbe fatto sedere accanto a lei, mi avrebbe battuto una mano sulla spalla consolandomi con tutto il repertorio che le hanno insegnato da quando ha iniziato a lavorare in un posto come questo.

Le do le spalle e percorro l’uscita.

«Non disturbatevi. Prendo un taxi.»

Lei non mi trattiene.

   
 
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