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Autore: alessandroago_94    02/04/2018    21 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 2

CAPITOLO DUE

 

 

 

 

 

 

 

 

Ventitré e trenta.

Finalmente giunsi a casa di mia madre, trafelata. Non stetti a bussare alla porta; le chiavi le avevo, e per non spaventare la mia buona genitrice, feci tutto da me, cercando di restare in silenzio.

Ma mia madre non stava affatto riposando, come speravo.

Non feci in tempo a far scattare la serratura che me la ritrovai proprio di fronte, spaventata, e appena mi vide, si mise le mani sul volto sempre più incline alle rughe.

“Oh, bambina mia! Mi sono chiesta chi era, temevo che ci fosse un malintenzionato che stesse pastrocchiando nella serratura”, mi disse subito, con la voce ancora tremolante per il recente piccolo spavento, mostrandomi anche il cellulare con teneva stretto in mano, con il numero 112 già digitato sul display.

“Mamma! Ma chi vuoi che sia…”, le dissi, amabilmente, e le donai un piccolo abbraccio.

Solo in quel momento parve ritornare in sé e comprendere ciò che aveva di fronte.

“Ma sai che ore sono?!”, mi sbottò in faccia, liberandosi dalla mia stretta lieve e lanciandomi un’occhiatina scioccata, come se mi credesse impazzita.

Le sorrisi, con le gote ancora in fiamme per il pianto recente.

“Lo so. Posso entrare, ora?”. E spinsi in casa la mia valigia, chiudendo la porta d’ingresso alle mie spalle.

“Che… cos’è successo?”, tornò a chiedermi, preoccupandosi, dopo aver notato che avevo con me anche il mio bagaglio. La piccola paura di poco prima lasciava spazio allo sbigottimento.

“Io e Marco abbiamo scelto di prenderci una pausa di riflessione”, le ammisi subito, a malincuore.

Solo in quel momento mi accorgevo di quanto fossi stata avventata, e forse avevo esagerato, ma proprio tanto. Mi dispiaceva, ma quella mia scelta repentina per me rappresentava una punizione rivolta alla sua disdicevole pigrizia, che stava cominciando a stancarmi, logorando così il nostro rapporto di coppia, sempre meno idilliaco.

“Una pausa di riflessione” mi fece eco la mamma, con un tono di voce senza sfumature. Rassegnato, rattristito in un attimo, abbattuto da un fulmine a ciel sereno.

Mia madre, una cinquantottenne sveglia e ancora fisicamente in forma, conosceva bene il rapporto che c’era tra me e Marco, e soprattutto il suo vizio di voler sempre ed egoisticamente far lavorare me. Essendo quindi consapevole delle piccole crepe che recentemente si erano andate formando tra me e il mio convivente, chissà cosa stava già pensando in quei concitati istanti, ritrovandomi a notte fonda a bussare alla sua porta, con tanto di valigia in mano.

“Non pensare male. Io amo ancora Marco, e questa è solo una piccolissima pausa del nostro rapporto, altrimenti non credo che, senza essere spronato senza mezzi termini, si metta d’impegno a migliorare il suo carattere e ad abbandonare la sua pigrizia”, la rassicurai prontamente, infatti.

Avevo sempre vissuto con la mamma e sapevo che per lei non c’erano problemi se tornavo momentaneamente a casa sua, d’altronde la mia stanza era ancora a mia completa disposizione, ma non volevo assolutamente che pensasse subito male, per via delle mie recenti azioni.

“Per un attimo ho pensato che ti fossi stancata di quel bamboccio…”, sospirò lei, di rimando e alle mie spalle, mentre mi accingevo a trascinare la mia valigia su per le scale, verso la mia vecchia cameretta, pronta ad ospitarmi.

Mi volsi verso di lei e la fulminai con uno dei miei famosi sguardi gelidi.

Purtroppo, sapevo anche che la mamma non approvava la mia relazione con il mio ragazzo. Per lei era sempre stato un bel busto, certo, ma nulla di più, niente che andasse oltre alla tartaruga sul ventre scolpito dai muscoli e un fisico, nel complesso, da modello.

Niente cervello e poca sostanza, insomma.

“Marco non è un bamboccio, è solo che…”, cercai un attimo le parole giuste per descriverlo, “… è solo che non riesce ancora ad abbandonare i suoi vizi”, proseguii, “per questo ho agito in questo modo, e poi mi ero anche stancata di insistere ogni giorno con lui. Ma io lo amo, e lo amerò sempre, e lui mi ama, e vedrai che senza di me cercherà di mettere la testa a posto e di cercare di impegnarsi per riuscire a…”.

Mia madre rise forte e mi fece morire le parole sulle labbra.

“Piccola mia, sei proprio sicura che lui ti ami davvero?”.

Tonfo.

In un attimo, fui costretta ad ascoltare solo il mio battito cardiaco, e ad abbassare gli occhi al suolo.

Marco mi amava? Bella domanda.

Certo che mi amava!

“Sì, mi ama con tutto sé stesso. Sono convinta che già domani torneremo assieme…”.

Ma sì, io parlavo e il dubbio mi logorava. Mia madre, con quella domanda buttata lì apparentemente a caso, forse apposta per farmi ragionare, aveva dato il via libera al tarlo che mi avrebbe logorato tanto in fretta.

D’altronde, per lei il mio ragazzo restava solo un pusillanime, e probabilmente aveva ragione, ma io ero ancora nelle sue mani. Anzi, lui era nel mio cuore.

Sapevo di essere stata troppo dura, insistente e repentina nei suoi confronti, ma mi ero comportata così solo per farlo migliorare, per obbligarlo a guardare in faccia la realtà, cosa che non aveva mai realmente fatto.

Io e Marco avevamo bisticciato più volte, dall’inizio del nostro complicato rapporto, prima di quella sera; avevo sempre pensato che ciò fosse normale, siccome anche i più semplici detti popolari lo confermavano. Avevamo preso altre pause di riflessione, tuttavia prima che cominciassimo a convivere. Quella quindi era una situazione relativamente nuova per me.

Smisi di parlare da sola, mentre la mente andava dalla parte opposta della lingua.

La mamma sorrise dolcemente, quando notò che le parole mi stavano morendo in gola, e con mano ferma mi strinse paternamente una spalla.

“Vai a riposare, su. Domani è un altro giorno, hai ragione”, mi disse, con un sospiro stanco.

Ricambiai il suo sorriso con un altro più tremolante, e poi seguii il suo consiglio, che si rivelò perfetto. Dovetti solo finire di trasportare la mia valigia ed aprire la porta della mia cameretta, e siccome il letto era già perfettamente rifatto, grazie alla precisione e al ritmo abitudinario di mia madre, mi lanciai su di esso e mi addormentai di sasso, senza svestirmi e senza badare troppo al caldo che mi avvolgeva.

Per quel giorno, avevo dato tutto quello che potevo offrire al mondo, commettendo anche azioni di cui non potevo conoscere i più diretti e sicuri risultati.

 

Il mio risveglio fu dolce, mesto e tranquillo, allo stesso tempo.

Ero abituata al baccano del condominio dove convivevo, e quando mi ritrovai a rigirarmi per qualche istante nel letto, col sole dell’alba che mi colpiva il volto e in sottofondo il canto degli uccellini che popolavano quella parte periferica della città, per un attimo fui tentata di cercare il corpo caldo di Marco, e lo feci con una mano, per poi ritrarla. Il letto finiva, essendo piccolo e a una sola piazza, e quella non era il nostro appartamento.

Aprii gli occhi con il cuore in gola, un vero risveglio traumatico. In quel momento, la mia missione educativa nei confronti del mio ragazzo era come se fosse già stata dimenticata.

Andai nel bagno quasi piangendo, immersa in una sorta di crisi d’ansia, e mi sentivo come se avessi esagerato solo io, ed avessi assoluto bisogno di lui.

Volevo a tutti i costi tornare immediatamente da lui; me l’immaginavo, ancora disteso sul letto come la sera precedente, poco prima di lasciarlo lì da solo, con addosso il suo pigiama dal profumo di pulito che gli lavavo e stiravo con frequenza e cura, con le braccia semiaperte e già pronte ad accogliermi in un altro abbraccio, dimenticando totalmente la mia folle reazione recente.

Mi sentivo un verme, una ragazza dalle manie oppressive, e in poche parole sentivo il più profondo desiderio di tornare da Marco.

Mi lavai il volto e cercai di calmarmi, ma non giovò a molto. Tornai in camera, e ripresi a preparare la valigia; sarei tornata al nostro nido, prima di recarmi al lavoro, e con tanto di scuse.

La mia mano scivolò verso il mio cellulare, candidamente abbandonato sui panni che mi ero portata con me, e stipato la sera prima assieme a tutti i miei pochi averi, approfittandone per darci un’occhiata. M’immaginavo di trovare almeno una telefonata da parte del mio ragazzo, ma non appena accesi il dispositivo tecnologico, non trovai neppure un messaggino da parte sua.

Ne rimasi molto ferita, siccome mi aspettavo di mancargli, e speravo con tutto il cuore che sarebbe stato lui a tornare a farsi avanti per primo. Quella mancanza di reazione da parte sua, che forse mi sarei dovuta aspettare, mi rese più cauta nei movimenti e nelle scelte, e poiché erano appena le sette di mattina ed avevo ancora un’ora abbondante per decidere le mie prossime mosse, scelsi prima di tutto di andare a fare colazione.

Scesi al piano terra di quella spaziosa dimora, e mi recai prontamente in cucina, per imbattermi in mia madre, già sveglia e perfettamente vestita, che si stava affaccendando attorno ad una piccola tavola imbastita con ogni ben di Dio, e con tanto di due belle tazze di latte caldo, fumanti e accoglienti, già pronte di fronte a due rispettive sedie.

“Avevo sentito che ti eri alzata, così ho pensato di prepararti qualcosa, per non farti scomodare ulteriormente”, mi disse, con un tiepido sorriso sulle labbra ed accogliendomi con affetto, ancor prima che io avessi avuto modo di dire qualcosa.

“Non dovevi… mi sento in colpa adesso, sapendo che hai dovuto sgobbare per me ed alzarti presto”, riuscii a dire, emozionata.

Da quando era riuscita ad andare anticipatamente in pensione, per via di alcuni considerevoli problemi cardiaci, la mamma preferiva stare a riposo, come le avevano consigliato i medici, e per questo non si alzava mai troppo presto, e cercava di non sottoporsi a stress troppo forti.

Poi, da quando mio padre se n’era andato di casa, per fortuna non aveva più avuto alcun motivo per stare in ansia o agitarsi, e pensai, per un attimo, di avergliene offerto io uno, col mio ritorno brusco. Ma lei, come potevo aspettarmi, mi rassicurò con uno sguardo dal valore di mille e più parole.

“Per te, questo e altro. Non mi è costato nulla”.

“Grazie, mamma. Sei un tesoro immenso”, le mormorai, emozionata per la bellezza e per la spontaneità di ciò che mi aveva detto, e le scoccai un bacetto complice a distanza.

Poi, presi subito posto e cominciai a mangiare avidamente. Avevo una fame incredibile.

Mentre inzuppavo il primo biscotto secco nel latte, mi venne subito da riconsiderare le mie iniziali intenzioni della mattina; quel gesto pieno d’amore mi era così mancato che non me n’ero manco accorta, dal tanto che ero presa e assorbita da Marco. Lui lasciava che fossi io a preparare la prima colazione, e poi a chiamarlo per svegliarlo. Questo mi faceva, in quel momento, provare sensazioni contrastanti tra loro, che mi portavano lontano da lui.

E poi, i primi interrogativi non mi lasciavano tregua; perché non si era fatto sentire, né mi aveva cercato? Se avesse fatto quella prima mossa, per me sarebbe stato semplicissimo tornare da lui.

E cosa stava facendo, quella mattina? Il suo silenzio era dovuto al fatto che si era alzato prestissimo per andare a distribuire curriculum a destra e sinistra, oppure via mail grazie al suo portatile? Ne dubitavo.

In definitiva, era come se non riuscissi più a fidarmi di lui.

“Non mangi? Il latte poi si raffredda”, dissi improvvisamente alla mamma, notando che lei, fino a quel momento, era rimasta in piedi a guardarmi, con un sorriso dolce sulle labbra.

“Certo. È solo che… mi sei tanto mancata, durante questi ultimi anni. Volevo godermi questo momento, per guardarti come facevo quand’eri piccola, prima che tu torni giustamente a spiccare il volo per andare lontano da qui”, affermò, sempre dolcemente, per poi sedersi anche lei di fronte a me, con la tazza già in mano.

Le rivolsi un sorrisone a trentasei denti, prima di riprendere di nuovo a gustare l’abbondante colazione che mi aveva preparato.

Ah, le mamme! Io adoravo la mia, mi faceva proprio stravedere per la sua figura. Tuttavia, non mi aveva mai viziato, e mi aveva preparato già da adolescente a diventare in fretta un’adulta indipendente e in grado di vivere la sua vita da sé.

Anche lei, a suo tempo, aveva saputo che non bisognava fermarsi un attimo, siccome la vita era fragile, e un solo soffio di vento poteva cambiarla per sempre, persino cambiare le tue rotte. E a questo bisognava farci l’abitudine in fretta.

Mio padre l’aveva amato, nei primi anni, ma non era stata decisa a voler affrontare la tarda maturità e la vecchiaia con lui, poiché l’aveva tradita tante volte, ed oltre ad essere un marito fedifrago, era stato anche un uomo molto assente, anche per via della sua professione di camionista, e dedito al vizio dell’alcol, nei rari fine settimana in cui era a casa.

Neppure io avevo dei bei ricordi sul mio genitore, anzi, di lui non mi ricordavo quasi nulla, solo la puzza di fumo e di alcolici nelle rare volte che era a casa con noi, e i suoi strepitosi strilli quando qualcuno disturbava la sua inerzia. Non appena me ne andai di casa, lo cacciò subito.

Da parte mia, non avevo mai avuto alcun reale rapporto con lui, e non mi intromisi nel rapporto di coppia dei miei genitori.

Aveva sofferto, a fianco di quell’uomo, soprattutto negli ultimi anni di convivenza sotto lo stesso tetto, ma quando io me n’ero andata per convivere con Marco, lei era cambiata improvvisamente e si era sbarazzata del fardello sessantenne che si portava appresso da quasi trent’anni, dapprima in modo lieve e trascinato da un’attrazione giovanile che forse neppure la mamma era riuscita a comprendere bene, e poi reso apatico dal tempo e dalla monotona e, a tratti, rivoltante routine di coppia.

Smisi di pensare e finii la mia fetta di pane spalmata di marmellata di albicocca, per poi iniziare a portare nel lavabo le poche stoviglie che avevo sporcato.

“Non pensarci nemmeno! Qui sei come una gradita ospite, e come tale desidero trattarti”, mi rimproverò prontamente la mamma, ancora impegnata con la sua colazione.

“Ma no, non esageriamo. Voglio solo fare la mia parte, com’è giusto che sia”, risposi, lasciando comunque perdere dopo l’occhiata gelida che ricevetti. Noi due condividevamo gli stessi occhi, e da sempre avevamo saputo incenerirci a vicenda.

Decisi di non insistere, e di andare a prepararmi per il lavoro. Dovevo assolutamente abbandonare il pigiama smanicato di cotone, per mettermi addosso tutti gli abiti più sobri che avevo con me. La mia datrice di lavoro era sempre stata maniacale a riguardo, e come ci presentavamo nel suo locale era tutto, per lei.

Con un sospiro, mi accinsi a svuotare la mia valigia, dopo aver dato un’ultima occhiata al cellulare; da Marco nessun segnale, e a quel punto avevo perso ogni voglia di farmi viva io o di tornare direttamente da lui.

Scelsi, quindi, di aspettare a compiere ogni mossa.

 

Uscii dalla mia camera oltre mezz’ora dopo quando mi ero rinchiusa al suo interno. Ero impazzita per vestirmi, quella mattina era stato come se non riuscissi affatto a trovare qualcosa di adeguato che mi stesse bene addosso; qualcosa di sobrio, ma tuttavia femminile e carino.

Non che io avessi mai avuto il vizio di andare in giro mezza nuda, ma era solo che per la mia datrice di lavoro era osé anche solo una gonna che non arrivasse alle caviglie, o una maglietta leggermente scollata. E poi, diceva che le gonne impedivano i movimenti, quindi era meglio abbandonarle direttamente, prima di recarsi al suo cospetto.

Sospirai, donandomi un’ultima occhiatina allo specchio per vedere se ero presentabile, con quei soliti jeans e quella maglietta bianca e larga ai fianchi, di una morbidezza visiva, e fui soddisfatta del mio look, poiché era il meglio che potevo riuscire ad abbinare, con la limitatezza di ciò di cui potevo disporre.

Afferrai poi la borsetta, che avevo cacciato in valigia e che riportava ancora tutti i segni della violenza subita, schiacciata sotto gli altri panni, e ci infilai dentro un pacchetto di fazzoletti e il cellulare. Ero pronta.

Scesi al piano inferiore e, mentre mi accingevo ad uscire di casa e ad andare dalla mia auto, sovrappensiero e già con la mente rivolta al locale dove lavoravo, m’imbattei in mia madre, che mi venne incontro dalla cucina.

“Torni per pranzo?”, mi chiese, premurosa.

Le rivolsi l’ennesimo sorriso, abbandonando la mia espressione seria e concentrata.

In realtà mi aveva posto una domanda curiosa, siccome lavorando due ore al mattino, dalle dieci a mezzogiorno, per poi riprendere a lavorare alle quattordici, avevo anche un po’ di tempo per tornare a casa e pranzare in pace, ma da quando avevo trovato quel lavoro e convivevo con Marco, non l’avevo mai fatto, preferendo gustarmi un trancio di pizza sul posto ed attendere il momento del rientro, riposandomi tutta sola in un angolo del locale e riflettendo.

Quel giorno, però, avevo voglia di togliermi uno sfizio; avrei potuto anche tornare a casa per il pranzo, e passare un po’ di tempo con la mia dolce mamma.

Subito, un rimorso riemerse dentro di me, come una vocina interiore che mi suggeriva di non accettare quell’allettante proposta, per non illudere colei che mi aveva dato la vita. Quel nostro momento di calma e di convivenza sarebbe finito molto in fretta, stando ai miei calcoli mentali, e sapevo che una volta che saremmo tornate alle nostre vite precedenti avremmo solo rischiato di sentire l’una la mancanza dell’altra.

Tuttavia, repressi infine quel mio ultimo pensiero così torvo, per prendere una decisione precisa.

“Sì”, mi limitai a risponderle, dopo il mio lungo ed interminabile secondo di riflessione.

La mamma si sciolse in un altro sorriso. La mia risposta l’aveva resa sinceramente felice.

“Ma come mai sei vestita così?”, tornò a chiedermi, mentre mi accingevo di nuovo a muovermi verso la porta. Non avevo affatto fretta di partire, anzi, avrei solo rischiato di giungere con un po’ d’anticipo, quindi ne approfittai per dirigermi verso il piccolo specchio inserito nel vecchio attaccapanni a muro proprio a fianco della porta d’ingresso, in modo da poter dare un’ultima occhiata non al mio look castigato, ma al mio volto ancora molto giovane.

Non mi ero truccata, naturalmente, ma la mia vanità aveva la brutta tendenza di saltare fuori proprio nei momenti meno opportuni, e quando meno me l’aspettavo.

“La mia datrice di lavoro preferisce che le sue dipendenti si vestano in modo… sobrio”, mi venne spontaneo risponderle, utilizzando proprio le parole del soggetto del discorso.

“Sobrio per lei ha un significato simile a morte della femminilità?”.

La mamma mi fece sorridere, con quella domandina ironica gettata lì così, come per caso.

“Forse sì”.

“E’ così tremenda?”.

Mi sistemai una ciocca di capelli ribelli dietro alle orecchie, con quel mio caschetto che stava cominciando a risentire nella sua forma a causa della crescita continua della mia chioma, che ormai sembrava voler formare un cespuglio sulla mia testa. Avevo anche bisogno di fare un salto a breve dalla parrucchiera.

“No, non lo è poi così tanto come può apparire, non ti preoccupare”, la rassicurai, tornando a scrutare l’orologino che avevo al polso e notando che era ora di andare.

“Adesso vado, mamma. Ci vediamo per il pranzo, sarò qui verso l’una meno un quarto”, la salutai, volgendomi verso di lei e allungandole un rapido bacetto sulla guancia.

“Ti aspetto, allora. A dopo”.

Le sue ultime parole ancora mi riecheggiavano nella mente, mentre uscivo di casa e mi recavo a tutta velocità ad aprire la portiera della mia Toyota Yaris di un triste grigio metallizzato.

Questo mi fece tornare a sorridere di nuovo, e quando girai la chiave nel cruscotto, mi ritrovai a riconoscere che era da tempo che non sorridevo così tanto e con così grande frequenza. Neppure con Marco l’avevo mai fatto.

Mentre mi recavo al lavoro, quella mattina, il mio ragazzo rimase discretamente lontano dai miei pensieri, e forse questo avrebbe dovuto far suonare qualche campanello d’allarme all’interno della mia mente.

Ma lui non si era fatto sentire, e stava continuando a comportarsi in modo molto infantile; io avevo ritrovato un piccolo spazio felice per me, e non mi andava di rovinarlo subito a causa sua. Decisi quindi di limitarmi ad attendere la sua prima mossa, senza fare altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Grazie a tutti voi, come sempre, e buone festività pasquali ^^

   
 
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