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Autore: PerseoeAndromeda    14/04/2018    4 recensioni
In un angolo di Giappone, tra i monti, a poca distanza dal Fuji, si dipanano le esitenze di due giovani uomini, Aito e Daisuke, cresciuti insieme e legati da un sentimento profondo. Aito, tuttavia, sta irrimediabilmente cambiando, trascinato da cupi pensieri e sogni nel baratro della depressione. La foresta di Aokigahara, nota in Giappone per essere il luogo più frequentato dagli aspiranti suicidi, diventa una presenza inquietante, un richiamo al quale Aito non riesce ad opporsi.
[Racconto partecipante al contest "Asylum", indetto da Haykaleen - PRIMA CLASSIFICATA]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 2

 

Non riesco a muovermi, qualcuno mi aiuti!”.

Era buio, ma lui vedeva se stesso, il medesimo mostro di tutti i suoi sogni, senza più alcuna connotazione umana: arti troppo lunghi fatti solo di ossa, corpo informe che strisciava su un terreno accidentato, avanzava lento, un grumo di dolore puro che solo il peso di tutta quella sofferenza era sufficiente a tenere legato al suolo.

Era pesante, trasformato in un essere senza senso in un mondo in bianco e nero, pesante come il suo cuore che non batteva più, eppure faceva male.

Era troppo stanco, troppo vuoto, persino per urlare.

La sua bocca rimaneva serrata, i denti stretti in un ghigno beffardo, perché tutto quello che poteva fare, ormai, era rivolgere solo odio contro se stesso.

Aiuto… aiuto…”.

 

“Aiuto!”.

Aito si svegliò con quel richiamo tra le labbra. Il cuore nel petto batteva all’impazzata e, lungo le guance, le lacrime si mischiavano con il sudore.

Riconobbe i sintomi di un attacco di panico, quello che lo aggrediva ogni volta che si risvegliava da quel sogno.

Era sempre uguale: lui trasformato in mostro, uno scheletro con brandelli di carne che lo avvolgevano come un sudario, quasi incapace di muoversi per una pesantezza che lo teneva ancorato sul posto, senza permettergli di fuggire, di sottrarsi alla gabbia nella quale si stava rinchiudendo da solo, unicamente per la sua incapacità di affrontare il mondo.

Una sagoma si mosse al suo fianco, strappandogli un nuovo grido di terrore: era talmente sconvolto che non riconobbe subito Yoori, complice il pelo nero che si confondeva con la notte.

Lo fissò per qualche istante, poi cercò di controllare il proprio respiro, senza molto successo, si artigliò il petto con una mano, nel tentativo di calmare il cuore impazzito, ma faceva sempre più male.

Per la prima volta ebbe davvero paura di morire, che il cuore gli sarebbe esploso, nonostante esistesse quella voce, dentro di lui, che beffarda gli suggeriva:

Morire è quello che desideri, no? Ti basta andare là”.

Si portò le mani alle tempie, affondandole nei capelli fino a farsi male.

“Perché?” si chiedeva, perché quel pensiero diventava un’ossessione, ogni giorno di più? Voleva morire? Lo voleva davvero?

E allora a cos’era dovuta tutta quella paura? Sarebbe bastato così poco!

Le mani scivolarono fino agli occhi, dalla gola chiusa nella stretta di panico salì un singhiozzo e barcollò, come se fosse sul punto di svenire.

Voleva scomparire dal mondo e, al tempo stesso, agognava un aiuto, qualcuno che fosse in grado di sollevarlo da quel baratro nel quale, giorno dopo giorno, scivolava sempre più, voleva così disperatamente tornare quello di un tempo, voleva vivere ed essere felice… ma voleva anche morire.

“Dai… Daisuke…”.

Il nome a lui più caro gli salì alle labbra, unica luce in quella che era diventata la tenebra della sua esistenza.

Non voleva che Daisuke si preoccupasse per lui ma, al tempo stesso, aveva tanto, troppo bisogno di lui.

Forse per questo, con gesti meccanici, lottando per non cadere a terra, cominciò a vestirsi poi, passo dopo passo, scese al piano inferiore ed uscì, nella notte ancora fredda nonostante la primavera alle porte.

Il freddo forse gli avrebbe fatto bene, avrebbe in qualche modo rischiarato i suoi sensi.

O forse, dopotutto, si illudeva e per lui non vi era più alcuna speranza.

 

 

***

 

 

Daisuke non riusciva a prendere sonno, si rigirava nel letto senza smettere di pensare ad Aito e al suo opprimente stato d’animo.

Da giorni gli sembrava peggiorato come se, lentamente, l’amico stesse scivolando sempre più in un gorgo di sabbie mobili alle quali non era in grado di sottrarsi. Al lavoro rivolgeva più volte lo sguardo verso di lui, notava che spesso Aito si strofinava gli occhi, come per asciugarsi le lacrime.

E se fosse così? Aito piangeva ogni giorno, più volte al giorno e…

“E io non faccio niente…”.

Si mise seduto sul letto, le mani al volto, chiedendosi perché dava segno di tanta impotenza, perché non riuscisse semplicemente a prenderlo, abbracciarlo, costringerlo, una volta per tutte, a buttare fuori ogni cosa, perché non riuscisse a fargli capire che per lui era tutto, che non lo avrebbe mai lasciato, che l’amicizia tra loro andava oltre…

Oltre ogni dolore e ogni concetto di amicizia concepibile ai più.

Ogni tanto Daisuke aveva l’impressione che Aito volesse dirgli qualcosa senza trovare il coraggio di farlo, sembrava ricercarlo, lo guardava, scopriva quegli occhi verdi levati su di lui e quella sera, mentre era nel letto a pensare a lui, Daisuke si rendeva conto di non aver saputo probabilmente cogliere una sua richiesta di aiuto.

“Sono un idiota” si disse a denti stretti.

Aveva troppa paura di scoprire quale orrore si celasse nel cuore di Aito. Voleva stargli vicino, eppure gli mancava il coraggio di sondare fino in fondo tutta quell’angoscia.

Perché almeno quello l’aveva capito, che quella di Aito era autentica angoscia, che la depressione, quel maledetto male oscuro, si era impadronita dell’animo del suo amico, una bestia nera e feroce che, quando ti prendeva in trappola, difficilmente ti lasciava andare.

Una lacrima sfuggì ai suoi occhi; lui raramente piangeva o si lasciava sopraffare dalle emozioni, ma questa volta non poté impedire a quella solitaria lacrima di sottrarsi al controllo, c’era qualcosa, dentro di lui, che faceva male e si incrinava, era un sospetto, un pizzico doloroso dettato da una paura senza nome. Sentiva di dover fare qualcosa, ma cosa non lo sapeva.

Un uggiolio dal tappeto ai piedi del letto attirò la sua attenzione: Kimi, l’anziana labrador che aveva preso con sé anni prima, si alzò e fece qualche passo verso la finestra.

“Che c’è?” la richiamò Daisuke, ma lei continuò a piagnucolare, lo sguardo testardamente puntato verso l'esterno.

Daisuke si alzò e si diresse alla finestra, tirò la tenda e guardò giù. C’era qualcuno nel giardino, una sagoma esile, immobile, tremante, con le mani in tasca, avvolta dal fascio di luce che la luna piena proiettava a terra.

Daisuke sgranò gli occhi:

“Aito?!”.

Pronunciare quel nome e precipitarsi giù per le scale fu tutt'uno, si concesse solo il ritardo necessario per infilarsi una giacca e, seguito da Kimi, si gettò fuori nella notte.

Pochi istanti dopo furono l’uno di fronte all’altro, in silenzio e Daisuke si sentì, per l’ennesima volta, stupido ed incapace.

Aito teneva il viso basso e sarebbe toccato a lui dire qualcosa: Aito era venuto da lui, adesso Daisuke doveva tirare fuori il coraggio per entrambi, almeno un passo, un piccolo passo in direzione dell’amico che, finalmente, era uscito dal suo guscio per cercarlo.

In fondo, Daisuke non aspettava altro.

“Ai-kun…”.

“Non so perché sono qui…”.

“Se sei venuto, era quello che volevi”.

Aito annuì, senza sollevare lo sguardo:

“Ma non so perché… lo volevo…”.

Daisuke chiuse gli occhi, trasse un profondo respiro, poi le sue mani cercarono il viso dell’amico e lo sollevarono: era strano spingersi a un gesto così intimo…

O forse no…

Dopotutto loro due erano intimi, lo erano sempre stati: restava da vedere fino a che punto avrebbero potuto diventarlo. Daisuke non si poneva limiti.

“E che importa? A me fa piacere”.

“Sai… non volevo stare solo, penso… ho fatto un brutto sogno”.

Il cuore di Daisuke si strinse, Aito non aveva mai rinunciato alla sua riservatezza, neanche per confidarsi con lui: quanto stava male, in quel momento?

“Vuoi raccontarmelo?”.

Il più giovane scosse il capo:

“Vorrei solo fare due passi, ti va di accompagnarmi?”.

Due passi a quell’ora di notte, in una cittadina di montagna quasi del tutto addormentata, loro due soli, se si escludeva qualche auto e qualche passante.

C’era qualcosa che intrigava Daisuke in quello scenario, ma non poteva dimenticare che, se Aito aveva fatto una simile richiesta, significava che qualcosa, in lui, non andava affatto bene.

“Lascia che mi vesta e andiamo”.

Solo a quel punto si accorse che Aito era vestito troppo leggero per l’aria della notte; per questo tremava? O c’era qualcos’altro?

Quando uscì nuovamente di casa, portò con sé una giacca pesante anche per l’amico e gliela porse:

“Sarà un po’ grande, ma basta che ti ripari”.

Aito lo ringraziò e si avvolse nell’indumento, grato perché le sue membra erano, con ogni evidenza, intirizzite.

Si incamminarono per le strade silenziose, con Kimi che li scortava, paziente, senza staccarsi dal fianco del padrone. Si inoltrarono nei vicoli costeggiati da case tradizionali e antichi ryokan poco frequentati da turisti stranieri e i loro passi li condussero fino alla stazione, anch’essa deserta a quell’ora della notte.

“Ti va un caffè caldo?”.

Aito annuì e si sedette su una panchina, le mani in tasca, facendosi piccolo per ripararsi dal freddo…

O per scomparire?

Perché era quella l’impressione che aveva Daisuke.

Prese due lattine dal distributore e ne passò una all’amico che, intanto, si era messo a fissare con insistenza uno shinkansen1 in transito a tutta velocità. C’era qualcosa di strano in quello sguardo, di inquietante, pensò Daisuke.

“Vorrei che la velocità di quel treno mi portasse via”.

Daisuke deglutì: il tono cupo, gli occhi vacui di Aito lo spaventavano. E non era certo che intendesse di voler salire su quel treno per andare lontano…

Aito intendeva un’altra cosa?

Era troppo terrorizzante anche solo immaginarlo.

Gli occhi del più giovane rimasero fissi sulle rotaie anche quando il treno fu scomparso, lasciando dietro di sé solo la scia di vento che la sua velocità aveva sollevato; si riscosse solo quando Daisuke si sedette e gli porse il caffè, che già aveva aperto per lui.

Lo prese e se lo portò alle labbra, con un sussurro di ringraziamento.

Daisuke decise di fare un tentativo, non era più possibile ignorare quello che stava accadendo:

“Allora, vuoi parlarmi del tuo sogno, adesso?”.

Aito rabbrividì e sollevò lo sguardo a scrutare un punto indefinito davanti a sé: si trattava di uno sguardo pieno di terrore, Daisuke non aveva dubbi.

“Avrei solo voglia di dimenticarlo, veramente”.

“Ti capita spesso di fare brutti sogni?”.

Aito esitò e Daisuke temette che si sarebbe chiuso di nuovo.

Invece, grazie forse al silenzio della notte, a quella dimensione nella quale si trovavano soli, loro due e un cane, si creò tra loro una complicità che Daisuke credeva svanita, almeno da parte dell’amico.

Aito abbassò lo sguardo sulla propria lattina fumante, rigirandola distrattamente tra le mani:

“Ultimamente è sempre lo stesso”.

“Sempre lo stesso sogno?”.

Con un cenno d’assenso, Aito si raccolse ancora di più. Sembrava così piccolo adesso che Daisuke avrebbe potuto avvolgerlo tutto nel proprio abbraccio, ma chi poteva sapere come l’avrebbe presa l’amico? Forse un tempo lo avrebbe accettato, ma nell’attuale situazione Daisuke non era più sicuro di niente.

Quasi volesse rispondere ai suoi pensieri, Aito si piegò di lato e Daisuke credette di trovarsi lui stesso in un sogno, ma tutt’altro che spiacevole, quando la testa del compagno si posò sulla sua spalla.

Tuttavia si preoccupò per quell’improvviso abbandono:

“Va tutto bene?”.

“Credo che… dopotutto… mi sia venuto un po’ sonno”.

La voce era già poco lucida, in effetti.

“Ti riaccompagno a casa?”.

“Vai tu se devi andare… io preferirei restare qui”.

Ma come ragionava? Restare in stazione da solo a dormire?

“Ti faccio compagnia”.

Aito rispose con un mugolo sommesso e Daisuke ritenne una buona idea sfilargli delicatamente dalle mani la lattina, prima che finisse a terra spargendo tutto il suo contenuto. La posò vicino alla sua già vuota, poco distante e si rassegnò a restare in quella posizione poco comoda, finché l’amico non si fosse svegliato.

Per assicurargli ancora un po’ di calore abbandonò ogni reticenza e lo abbracciò, stringendolo contro il proprio corpo: almeno entrambi avrebbero avuto meno freddo.

Kimi sollevò il muso dolce a contemplare la scena, incuriosita sia dall’atteggiamento dei due giovani uomini che da quell’uscita fuori programma.

Daisuke le sorrise:

“Amica mia, temo che dovremo essere pazienti. Sarà una notte molto lunga”.

 

***

 

Non c’erano più stati brutti sogni, solo il piacevole calore di un abbraccio che circondava il nulla.

Quel nulla era la sua mente che, per un po’, aveva potuto riposarsi…

Non brutti sogni…

Neanche belli, certo.

Solo il vuoto di una momentanea dimenticanza, l’annullamento da ogni cosa, anche da se stesso.

Non voleva tornare dal nulla: il nulla era riposo, era non sofferenza, voleva restare in quello stato per sempre.

Ma finché si era in vita, anche l’abbandono più completo era destinato ad avere una fine, dopo il sonno senza sogni giungeva la veglia che ormai, per Aito, era il riflesso cosciente dell’incubo generato dall’inconscio.

“Buongiorno”.

Quale buongiorno poteva esserci, ormai, per lui?

Ma quel saluto era così gentile, così premuroso, che un poco di tepore lo fece scendere dentro il suo cuore, nonostante il freddo di quello strano mattino.

Quando aprì gli occhi si ritrovò a guardarsi intorno, confuso: i ricordi della notte precedente erano vaghi e tardò a ritrovare un minimo di lucidità.

Ricordava di essere stato male, di avere perso il controllo dei propri nervi e di avere chiamato Daisuke a un certo punto.

E poi?

Poi solo flash sparsi di se stesso che, come un sonnambulo, vagava nella notte, che cercava Daisuke e che gli parlava…

Poi camminavano fianco a fianco e si sedevano su una panchina della stazione e bevevano caffè.

E un treno che passava…

Il desiderio di alzarsi e di gettarsi sulle rotaie.

Strinse le palpebre e si morse le labbra, terrorizzato da quel ricordo che si era insinuato in lui, più vivido di tutti gli altri.

Non qui…” gli parlò una voce nella mente, “Non è qui che dovrai farlo... vieni nel mare di alberi”.

Si passò una mano sulla fronte, per cacciare via quella voce sempre troppo presente, insistente negli ultimi tempi.

Si guardò ancora intorno: era davvero in stazione, ma qualcosa lo riparava dal freddo, come un nido caldo ed accogliente.

Gli ci volle qualche istante per riconoscere, in quel rifugio, un abbraccio che lo teneva stretto contro il petto di un altro essere umano.

Si mosse, stropicciandosi gli occhi.

“Dormito bene?”.

Non aveva più dubbi che fosse la voce di Daisuke e adesso aveva un’inflessione particolare, come divertita dalla situazione, ma anche preoccupata, perché la situazione medesima non poteva dirsi, certo, normale.

Non rispose e tentò di mettersi dritto.

Era anchilosato e poteva solo immaginare quanto fredda e scomoda fosse stata la posizione per Daisuke. Adesso poteva solo vergognarsi a morte e non riusciva a sollevare gli occhi su di lui.

“Qui c’è ancora il tuo caffè di ieri sera, ma credo tu preferisca qualcosa di caldo”.

“Ma che ore sono?” borbottò, ancora intontito da quel sonno strano e pesante.

“Solo l’alba, non c’è ancora quasi nessuno in giro”.

D’altronde era sabato, molti non andavano al lavoro e la stazione si sarebbe riempita più tardi di gente in partenza per qualche gita di fine settimana.

Aito strizzò gli occhi, infastiditi da un raggio del sole nascente che li aveva colpiti con violenza. Intorno a loro tutto si era tinto di giallo e arancio, lasciando presagire una giornata serena e luminosa, ma Aito non vedeva tutti quei colori e quella promessa di vita.

Aveva letto, da qualche parte, che la depressione altera la percezione dei colori, sottraendo ad essi le vibrazioni più lucenti ed ammantandoli di cupezza: per questo a lui, da un po’ di tempo, sembravano sempre spenti e uniformi?

“Andiamo a fare colazione insieme o temi che le tue donne si preoccupino? Immagino che tu non le abbia avvisate della tua uscita notturna”.

“In realtà ho lo stomaco chiuso”.

Non seppe sostenere lo sguardo severo di Daisuke, stava diventando sempre più difficile nascondere il fatto che mangiava poco e niente, ma non poteva farci nulla: il cibo, semplicemente, non andava giù. C’era quel nodo che ostruiva ogni passaggio e gli dava l’idea di morire soffocato se solo un corpo estraneo avesse provato a scendere per dare nutrimento.

“Anche oggi non hai fame?”.

Si strinse nelle spalle, fissando il pelo dorato di Kimi, ancora accucciata ai loro piedi:

“Sarà la primavera”.

“La primavera un corno!”.

Sussultò e il suo viso scattò verso l’alto, ma ancora non riuscì a portare i propri occhi sull’amico, così non si accorse del movimento di Daisuke: sentì solo il braccio imprigionato tra le sue dita forti e uno strattone fin troppo violento da parte di una persona avvezza solo ad essere gentile.

“Parlami, deciditi a dirmi come stanno le cose una volta per tutte!”.

Aito tentò di liberarsi. Cosa voleva Dai-Kun?

Non capiva, non riusciva neanche più ad interpretare le reazioni della gente, neanche di coloro che amava.

Ma c'era davvero qualcuno che lo amava?

Lui non lo meritava in fondo, era logico che le persone si arrabbiassero con lui, lui a loro non dava nulla, se non la sua presenza inutile ed opprimente.

“Aito!”.

Daisuke insisteva alzando ancora il tono, non riuscì a liberare il braccio, perché l’amico lo strinse con maggior forza e gli fece male.

Rintanò il viso tra le spalle, desiderava fuggire, scomparire anche dalla vista di Daisuke.

“Non gridare” supplicò in un flebile sussurro, “ti prego, non gridare”.

I rumori erano amplificati, tanto da fargli male alle orecchie.

Daisuke si bloccò, allentò la stretta:

“Scusami…”.

Non appena fu libero, Aito si alzò, ma si ritrovò a barcollare con la testa che vorticava; non poteva trattarsi di un altro attacco di panico, non davanti a Daisuke!

“Io sono preoccupato, capisci? E tutti quelli che ti conoscono lo sono”.

Tre persone al mondo si sarebbero preoccupate per lui e forse la loro preoccupazione era semplice pietà: poteva esserci un altro motivo per il quale Daisuke continuava a restare al suo fianco, nonostante tutte le possibilità che aveva? Sceglieva sempre di stare con lui, ma l’unico motivo era la pena…

Che altro poteva provare, una persona positiva, solare, amata da tutti come Daisuke, per un essere inutile come lui? Che giovamento poteva trarre dalla loro frequentazione?

“Mi dispiace tanto per questa notte” sussurrò ancora, con fatica, perché il groppo che aveva nella gola lo spingeva a piangere, ma non voleva che Daisuke si preoccupasse ancora per lui, non era giusto e poi si vergognava troppo.

“Non vuoi proprio guardarmi, Ai-kun?”.

Se adesso gli parlava con quella tenerezza, come sarebbe riuscito a non piangere?

Respirò a fondo, infilò le mani nelle tasche e cercò di concentrarsi sul sole, che ormai era sorto e cominciava a riscaldare in maniera gentile le sue membra.

La carezza del sole era una delle poche cose che ancora gli dava un minimo di conforto.

Rumori e voci si levavano intorno a loro, segno che la nuova giornata aveva preso il via e che la gente si preparava a trascorrere un week end sereno, magari in qualche località turistica o in visita a qualche tempio dei dintorni.

Famiglie con bambini andavano e venivano, ridevano e il sole illuminava tutta l’allegria di cui la stazione si stava ammantando.

Lui si sentiva estraneo a tutta quella gioia, a tutta quella vita; gli era appartenuta un tempo… dov’era andata?

La parte viva di se stesso lo aveva abbandonato, lasciando spazio a un involucro grigio e viscoso.

Ripensò al suo incubo, lui che vagava nel nulla, scheletro vivente in una terra incolta…

Lì, in quella stazione, c’era tanta gente, ma lui era sospeso in una bolla, lontano da tutti, a quel mondo non apparteneva più da tempo, era un estraneo.

Non si trattava più di essere un gaijin in mezzo a giapponesi che non lo accettavano: non sarebbe cambiato niente in nessun’altra parte del mondo, dell’universo intero. Lui non apparteneva a niente, a nessuno, lui non era nessuno e senza di lui la vita sarebbe andata avanti ignara, felice, si sarebbe forse liberata di un peso che sottraeva, senza giovarne, un po' di quella felicità.

“Mi sento come un fantasma, che si aggira senza essere visto sullo sfondo di queste altre vite felici”.

Non ricordava dove avesse sentito quella frase, ma le sue labbra la formularono come una poesia recitata a memoria, quasi senza che la sua coscienza se ne rendesse conto.

“Come?”.

Sussultò. Non si era accorto di avere parlato ad alta voce o, più probabilmente, non aveva pensato che qualcuno potesse udirlo: lui, d’altronde, era nella sua bolla e per il mondo non esisteva più.

Invece Daisuke era lì, ed era fin troppo attento alla sua presenza, fin troppo partecipe; perché non lo lasciava in pace, per ritrovare lui stesso la propria pace?

“Come ti vengono in mente simili pensieri, Ai-kun?”.

Con le mani in tasca, Aito cominciò a camminare in mezzo alla gente sforzandosi, nonostante la pesantezza che provava, di mettere in fila un passo dopo l'altro.

Forse Daisuke non lo avrebbe seguito, forse avrebbe rinunciato a stargli dietro, almeno così sperava.

E se lo sperava, perché quell’angoscia, quel senso di vuoto che si amplificò quando non percepì al suo fianco i passi dell’amico?

Si fermò e si guardò alle spalle: la prima a raggiungerlo fu Kimi, ma dietro di lei giunse Daisuke, con un’espressione indefinibile sul volto.

Era arrabbiato con lui?

Allora perché non si decideva ad abbandonarlo al suo destino?

1Treno giapponese ad alta velocità.

 
   
 
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