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Autore: shilyss    24/04/2018    24 recensioni
La prigione dove Odino ha rinchiuso Loki è una cella asfissiante priva di finestre. Costretto in una forzata inattività ma niente affatto piegato, il dio degli inganni affida i suoi pensieri più oscuri a delle lettere. Il destinatario? Thor, l’avversario di una vita, il compagno d’avventura prediletto, il fratello con cui ha condiviso ogni cosa. Carteggio estorto dal tonante cui Loki accetta di piegarsi solo per raggranellare qualche beneficio in più. Perché gli obiettivi del dio degli inganni potrebbero incrociarsi ancora con il destino di Asgard, e nessuna cosa è per sempre, neanche nelle prigioni sotterranee degli Aesir.
Dal cap. 1: Dimmi, Thor, dov’erano mentre il ferro nemico ti lacerava la cotta di maglia, penetrava nella tua carne, tagliava i tuoi muscoli? Dov’erano i tuoi fratelli di sangue, così nobili e valorosi, che siedono ai banchetti accanto a Odino, che chiamano le loro armi mai macchiate di sangue nemico con nomi inutili e altisonanti? Quante volte saresti morto, figlio di Odino, se non ci fossi stato io a gridare, parare, pensare?
Genere: Avventura, Introspettivo, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Loki, Odino, Sigyn, Thor, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Cap. 2 Giovani principi
 

Lettera 8
 
Sigyn. Sigyn è il suo nome. L’ho scritto. Anche l’ultimo baluardo è caduto, e ora dovrai inventarti qualcos’altro a sostegno della tua ridicola tesi. Sigyn, che da due giorni non scende qui sotto. E tutti gli sguardi si posano su di me, come se io fossi la causa, o conoscessi la ragione, della sua assenza. Ma io non so perché lei non è qui. Giorni fa è scesa col consueto scialle e i capelli raccolti, come sempre. Nei suoi occhi grigi, però, c’era una traccia, ombre scure le velavano lo sguardo. Quando ha terminato il suo giro consueto mi ha portato i tuoi saluti, mi ha chiesto come stavo. Senza attendere una risposta da parte mia, ha posato la mano inanellata sul collo lungo ed elegante, si è sfiorata la pelle bianca e morbida e mi ha ringraziato.
Solo che io, a quel punto, sarei dovuto rimanere in silenzio, e invece non l’ho fatto. Per cosa, le ho detto. Ringrazia le guardie, loro ti hanno tirato fuori di là*.

“Ma voi l’avete distratto, avete preso tempo, e sempre voi le avete chiamate,” ha insistito. Le si era arrossato il collo dall’agitazione, la mano piccola e delicata tremava appena. E, scorgendo quel turbamento che ben conoscevo, non ho potuto fare a meno di affondare la lama nel fianco scoperto che mi porgeva. Le ho sorriso, e ho cambiato agilmente discorso. “Questa è l’agitazione che vorresti provare col tuo promesso?” ho domandato.
“Vi prego,” ha mormorato, “non lo fate,” e sotto le ciglia scure i suoi occhi grigi ardevano.

“Cosa, non dovrei fare?” ho insistito.

Ha esitato, Sigyn. Doveva scegliere le parole adatte. “Rendere tutto più difficile,” soffia, sperando che nessuno possa sentirla. Non le ho risposto. Credo che persino le guardie mi abbiano guardato con disapprovazione, dopo.

Ci separa un vetro. Spesso, infrangibile. Filtra tutto, quella parete di cristallo. Deforma appena le voci, copre completamente gli odori. È sottile, non più di qualche millimetro, ma la distanza che pone tra noi è invalicabile e terribile. Eppure, questa lastra trasparente che mi isola dal mondo in un certo senso protegge entrambi. Senza di essa, non avrebbe mai osato confessarmi l’interesse che ho sempre suscitato in lei. E io, chiuso qui, sono costretto a notarla, a prestarle attenzione.

Sì, ho esultato, di fronte al suo sgomento, al suo tremore. Perché è stata l’ennesima prova che mi ha dimostrato come abbia in mano il suo cuore. Durante il giorno, mentre cavalca o ricama, la notte quando, seduta di fronte alla toletta, si scioglie l’acconciatura sofisticata da cui comunque sfugge sempre qualche ciocca ribelle, e la massa dei suoi capelli color dell’oro le ricade sulle spalle esili in un modo che posso solo immaginare, è a me che lei pensa.
 

 
Lettera 9
 
 
Mi chiedi di rievocare gli anni spensierati della nostra giovinezza. Non sempre siamo stati un mago e un guerriero, tu dici. È esistito un tempo in cui eravamo solamente ragazzi, e il trono maledetto non rappresentava ancora un’ossessione distruttiva, ma un sogno infantile. C’è stato un tempo in cui Odino non era il padre severo che scrutava senza enfasi i nostri progressi, ma un genitore come tanti, che ci cercava in giro per il palazzo o nei boschi circostanti, maledicendo le Norne con l’apprensione di un uomo che si occupi dei suoi bambini troppo vivaci. Sostieni che il nostro futuro era lontano, insondabile. Io non sono d’accordo, fratello.

Già si scorgeva, in noi, l’ombra di quello che saremmo diventati. Io, ad esempio, non ho memoria della prima volta che ho scoperto la capacità che ho, innata, di mutare forma a mio piacimento. Sono tempi lontanissimi, quelli che mi chiedi di rammentare. E dolorosi. Rievocare anni spensierati, pieni di speranza, ora che passerò secoli e secoli qui, rinchiuso, è come versare sale su delle ferite aperte, fratello. Ma tutti i libri che mi hai portato sono accatastati in un angolo della mia cella, e osservare le facce idiote dei miei compagni di prigionia è ancora più desolante che scriverti.

Ricordo che il primo figlio di Odino era un irresponsabile, arrogante attaccabrighe anche quando era ancora poco più di un bambino. Prima agivi, poi pensavi. Forse. Non so quante volte avrò pronunciato le fatidiche frasi “Thor, aspetta,” o “Thor, non farlo.”

Parole al vento, tu non mi ascoltavi mai. Sono il maggiore, dicevi, e so quel che faccio. Bugie. Non avevi la benché minima idea di cosa stavi per fare, dove ti saresti andato a immischiare. Come non ce l’hai tutt’ora. Ma all’epoca, eravamo comunque una squadra perfetta. È sceso un nuovo prigioniero. È un troll. Incrocia il mio sguardo, mi bestemmia contro. Ci dobbiamo essere già incontrati, da qualche parte, oppure gli avrò fatto qualche grave torto di cui non mi pento. Sorrido alle sue imprecazioni: se un giorno uscirò da questa maledetta cella, saprò vendicarmi per oggi. Oppure, potrei convincere qualche guardia a fargliela pagare al posto mio, data la condizione in cui mi trovo. Chissà. Non credere Thor, che questa prigione mi fermerà ancora a lungo; non pensare che non mi libererò, prima o poi. Troverò il modo, come l’ho sempre trovato, di fuggire. E quando ci riuscirò, risolverò le questioni che ho in sospeso, una per una. Fino al Ragnarok. Allora, mi troverò faccia a faccia anche con te.

Adesso che ci penso, anche la prima evasione l’ho fatta con te. Quasi ogni cosa, la prima volta, l’ho fatta con te. O nella stanza accanto. Ad ogni modo, la prima volta, in una cella, ci sono finito con te. Ovviamente a causa tua.

La cosa divertente, ripensandoci, fu il come e il dove. Midgard. Ebbene sì. Da qualsiasi altra parte ci avrebbero riconosciuti senz’altro, ma in quella terra di cretini passammo inosservati. O quasi. Com’è che andò Thor, te lo ricordi? Midgard era un possedimento dimenticato. Teatro di passate battaglie con gli Jotnar, Odino aveva lasciato che il ricordo degli Aesir svanisse**. Quando noi calpestammo per la prima volta le verdi terre del tuo pianeta adorato, ancora ci idolatravano come fossimo divinità. Presto, ci avrebbero dimenticato. Avevamo l’età incerta della primissima giovinezza. Non eravamo più bambini, ma ancora nemmeno uomini. Sapevamo utilizzare una spada, ma non eravamo mai stati portati in battaglia. Le ragazze ci sorridevano, ma noi preferivamo ancora giocare a fare gli eroi, e ricordo come il tuo viso fosse ancora glabro.

Midgard, dunque, ci accolse con una bella giornata d’estate. Atterrammo nei pressi di un fiordo e, subito, scorgemmo le navi. Galleggiavano placide sulle acque fredde e scure, con le prue aguzze tese verso occidente. Ci sembrarono subito primitive e ridicole. Ricordavano vagamente, con le loro forme sinuose e appuntite, le bellissime lance Aesir, ma erano di legno, seppur ben fatte***.

Che fare? Se ci fossimo fatti riconoscere, loro si sarebbero messi ad alzare le loro suppliche a nostro padre ed Heimdall, il maledetto, le avrebbe senz’altro intercettate. Nascondere la nostra identità e mantenere un basso profilo era l’unico modo per passare inosservati e divertirci un po’, senza conseguenze. Peccato che sperare di farti tenere un comportamento discreto fosse una mera utopia. So cosa mi risponderai quando leggerai queste mie righe. Dirai che la cattiva fama che ho presso i midgardiani è assolutamente meritata. Che la sequela di disgrazie che incontrò la povera nave su cui salimmo, derivarono dalla mia malsana idea di vedere come navigavano quelle buffe imbarcazioni di legno. Ti dimentichi della voglia matta che avevi di andare a menare le mani e di seguire i guerrieri nelle loro razzie. Dirai anche che io ti impedii di utilizzare la tua forza e che per questo ci catturarono, e che io, invece, riuscii a utilizzare la magia. Anche su questo dissento vigorosamente. Utilizzai pochi incantesimi, i necessari per non farci ammazzare o scoprire in modo tanto stupido.

Ma l’umida cella di Midgard, con i suoi ceppi pesanti e il suo odore nauseabondo, non è un ricordo infelice. Se torno con la mente in quel luogo fetido e buio, alla paglia gettata sul pavimento, al cibo disgustoso servito in ciotole di legno, non riesco a provare rabbia, vergogna o disgusto. Devo essere diventato folle, perché un sorriso nostalgico mi affiora alle labbra – possibile? – e il ricordo della prigionia si fa dolce nella memoria. Ricordo che litigammo, litigammo furiosamente, ma ridemmo anche, e molto. E, nottetempo, fuggimmo: provai un singolare piacere nel forzare e far scattare il meccanismo semplice eppure efficace che ci imprigionava le gambe; e poi uscimmo, ridendo o litigando ancora, o forse facendo entrambe le cose, come spesso è accaduto, e ci fermammo a osservare il cielo trapunto di stelle, così diverso da quello, magnifico e immenso, che potevamo ammirare dal palazzo. E in quel momento esatto provammo entrambi nostalgia di Asgard, perché gli astri che osservavamo non erano quelli a noi tanto cari. Stringemmo le pupille, cercando un punto di riferimento in quel cielo sconosciuto, una via che ci indicasse dove fosse casa, e la cercavamo ancora quando Odino, più vecchio di come appariva ad Asgard, vestito di stracci e con un cappello floscio posato sulla testa, ci venne a prendere****.

Io ne ho visti, di cieli, fratello. Nel mio esilio ho ammirato migliaia di galassie, osservato stelle e costellazioni di qualsiasi tipo. Ogni volta che ho posato il mio sguardo su quelle luci straniere e distanti, non ho potuto fare a meno di cercare le nostre, seguendo inconsciamente l’abitudine antica. Dentro a questa cella lugubre, non ho nemmeno una feritoia per poter osservare un pezzo di cielo. Così fisso il soffitto, e provo a ricordare. Allora, la volta di pietra si tinge di blu, s’illumina di stelle, e posso vedere le luci a noi care che seguivamo nelle cacce notturne, quando, in silenzio nel cuore della notte, abbassavamo gli archi e volgevamo il capo al cielo; o quelle, non meno care, che ci hanno visti sussurrare parole dolci a dame innamorate che stringevamo tra le braccia, o tornare, barcollanti e ciarlieri, nei nostri letti, con la mente annebbiata dal troppo vino. Ma è solo un’illusione. Basta un gesto, il movimento di una mano, e il cielo trapunto di stelle svanisce per lasciare il posto, di nuovo, alla grigia pietra.

E tu, quando leggerai queste righe, stringerai la pergamena fin quasi ad accartocciarla e ti avvicinerai alla finestra, figlio di Odino: e soffrirai per me, rinchiuso qui sotto, a languire. E il vino nel tuo corno ti parrà meno dolce, il letto scomodo come fosse un giaciglio di fortuna, la carne secca e senza sapore. Condividerai, allora, parte del mio dolore: soffrirai per me, anzi, stai già soffrendo, hai iniziato nel momento in cui i tuoi occhi si sono posati su queste righe vergate in fretta – come se, di tempo, non ne avessi abbastanza – e forse, chissà, ti convincerai a scendere qui sotto, a osservare il tuo fratello rinnegato. Forse. Ma aspetta, fratello, mio ingenuo e sciocco fratello.

L’erede di Odino non può lasciarsi incantare dai pietosi lamenti d’un rinnegato bugiardo. Rifletti, Thor, avanti. Prova a osservare meglio le mie parole. E se mentissi? Se le nostre vicissitudini passate non suscitassero in me alcun sorriso nostalgico? Se fossero ricordi e basta, senza alcuna venatura dolciastra? Certo, le mie parole sono belle, liriche: plausibili, persino. E crederci sarebbe facile, e consolante. Lo capisco. Ma se così non fosse? Se, semplicemente, mi sentissi particolarmente ispirato a parlare del cielo di Asgard o delle nostre passate avventure, e inventassi sentimenti e sensazioni che in realtà non provo? Confonderesti, in quel caso, l’abilità retorica, la capacità narrativa, l’invenzione, con il passato, il ricordo. Ma cos’è il ricordo, davvero? Se raccontassimo entrambi l’episodio della prigionia di Midgard, in perfetta buona fede, a un terzo ascoltatore ignaro, racconteremmo inevitabilmente due storie diverse.  E nessuna delle due dovrebbe essere per forza vera o falsa. Semplicemente, non esiste una sola, univoca realtà, ma infinite, come infiniti sono gli occhi di chi guarda. E allora io posso essere sia un rinnegato traditore che un eroe che sconta una pena ingiusta; Odino un sovrano dispotico e violento, o il protettore dei Nove Mondi tutti.

E, allo stesso modo, io posso mentirti, rievocando ricordi che so essere per te importanti, o forse sono sincero, e questa è solo una delle molte maschere che indosso. O magari, non è vera né la prima ipotesi né la seconda, perché, in me, come in chiunque, potrebbero persino convivere entrambe. Allora, Thor, ci sarebbe sia la velata nostalgia che la bieca indifferenza, sia l’amore che l’odio, sia la luce che la tenebra, dove brancoliamo, inermi e persi, alla ricerca di un punto fermo in mezzo alla tempesta, che non c’è.

 
Lettera 10
 
 
Sono due giorni che non scende qui sotto. Si deve essere sposata. Avrà scelto un abito candido, sciolto i capelli dorati. Chissà se ha esitato, mentre pronunciava i voti. Chissà se aveva fiori tra le ciocche chiare, o avrà ballato, la sera. E poi, la notte, lui le avrà fatto scivolare a terra la camicia di seta, avrà toccato la sua pelle morbida. Ne avrà inspirato l’odore, constatato la morbidezza. E l’avrà carezzata e attirata a sé, e forse sarà stato gentile e paziente, forse rude e violento, ma saprà, adesso, che sapore hanno le sue labbra, quanto dolci sono le sue curve. E io qui, rinchiuso tra queste mura, resto a immaginarlo.

Mi dirai com’era il suo volto, mentre stringevano il patto che li ha legati fino alla morte? Se era scolorito dall’emozione o dalla tristezza? Mi dirai se hai visto, mentre col Mjollnir benedivi la loro unione, qualcosa nei suoi grandi occhi chiari, come l’immagine di un’ombra? Quando leggerò la descrizione che forse farai mi chiederò cosa avrei fatto, se fossi stato libero. Avrei fermato la cerimonia? L’avrei presa e portata via, fuggendo con lei attraverso mondi sconosciuti e affascinanti? Oppure mi lascerei andare alle recriminazioni di un passato che ormai c’è stato e non si può cambiare? Pensa, fratello, quante volte ci saremo incrociati, io e lei, nel tempo in cui ancora ero certo di essere figlio, come te, del Padre di Tutto. Posso immaginare la scena. Sigyn, che mi osserva assieme ad altre dame, confusa in mezzo a loro, e io che le passo accanto senza vederla: forse a cavallo, con negli occhi già l’eccitazione della battaglia, oppure a un banchetto, tra canti e risate. Quand’è che mi ha visto, osservandomi da lontano? Perché non ho incrociato il suo sguardo, allora?

Tu scrivi che io e lei abbiamo una relazione. Fatta di brevi frasi, sguardi e desideri. Tu affermi che è tanto evidente quanto più io mi sforzo di negarlo, e fai una considerazione insolitamente giusta per i tuoi canoni: se non mi interessasse, non avrei bisogno di ribadirlo con forza ogni volta. Ciò che mi lega a Sigyn, è il desiderio. Non posso averla, e allora il solo pensiero di lei si sublima, ammantandosi della perfezione degli ideali e dei sogni. Il vetro che ci separa, che malediciamo a denti stretti, in realtà acutizza la nostra disperazione, gonfia i nostri cuori*****.

Ma perché scrivi ancora di lei? Cosa importa al figlio di Odino, se il fratello rinnegato e perduto si crogiola in pensieri che lo distraggono dalla prigionia infelice ed eterna cui l’avete costretto? Dove vuoi arrivare? Credi forse di potermi controllare, attraverso lei? Speri di suscitare in me tanta disperazione da spingermi a implorare il perdono presso Odino, come se potesse bastare a placare il suo rancore, a rimangiarsi la sua condanna? Se Sigyn fosse un trucco escogitato da te, dovrei ricredermi sulla tua scarsa perspicacia. Ma, se così dovesse essere, credo che, come al solito, tu abbia avuto solo una fottuta, sfacciata fortuna Thor. Ti dico com’è andata. Effettivamente, la ragazza mi notò, al tempo. Chi non l’avrebbe fatto? Ero il figlio di Odino dalla cattiva reputazione, il principe scapestrato che non riusciva proprio a mollare i suoi scherzi e il suo comportamento, come dire, differente rispetto a quello di voialtri: un bello e dannato, direbbero sulla tua preziosa Midgard. E tu, sei venuto in un modo o nell’altro a conoscenza di questo importante dettaglio, e l’hai sfruttato a tuo vantaggio. L’hai mandata qui sotto, da me. Poteva essere il mio tipo, avrai pensato, così bionda e delicata. E hai sperato che, nella solitudine forzata, mi incaponissi con lei, di lei. Che potesse essere un balsamo sulle mie ferite, o sale su di esse. O entrambi. Oppure, forse, è stato il caso e basta, e io ho solamente bisogno di uscire da qui, o di dormire. Il sonno in questo luogo non giunge più a farmi visita.
 
Lettera 11
 
 
Fammi uscire, fratello. Te ne prego. Portami via di qui, lascia che sparisca in qualche anfratto dell’Universo. Oppure abbi il coraggio di scendere nell’oscurità e di porre fine a questa insopportabile prigionia. Per l’amore che millanti di aver provato nei confronti del tuo miserabile fratello, ti imploro. Poni fine a tutto questo. Mi manca l’aria, qui sotto, né riesco più a sopportarne la puzza maleodorante. È rarefatta e asfissiante, diversa da quella fresca e carica di profumi che sferzava sui nostri visi quando galoppavamo verso l’orizzonte. Mi manca lo spazio, rinchiuso in questa scatola crudele di venti passi per diciotto. Li conto e li riconto con ossessiva, maniacale ripetitività, come se, compiendo sempre lo stesso gesto, potessi scoprire che i passi non sono diciotto, ma diciannove, non venti, ma ventidue. Quale sorpresa sarebbe, accorgersi che lo spazio si è dilatato! Devo uscire, Thor, e rivedere la luce del sole, sentire la pioggia sul viso, calpestare l’erba, la sabbia, la terra, la neve. Ho bisogno di sapere quando è notte e quando, invece, è giorno. Sentire il canto degli uccelli che annunciano l’alba, il frinire delle cicale la notte. Corri da Odino, fratello, tirami fuori da questa gabbia crudele, dove mi pare di essere rinchiuso già da mille anni, e il conto dei giorni mi riesce sempre più difficile. Per l’affetto che ci lega, per tutti i giorni in cui abbiamo riso, scherzato, combattuto, bevuto assieme, vai da Odino, vacci ora: se è il figlio prediletto che lo supplica di liberare il prigioniero maledetto, forse il suo cuore si intenerirà.

Vai da lui, Thor, e piangi lacrime amare, ricordando i nostri pomeriggi passati a cacciare: ricordi la volta che perdemmo i cavalli, e dovemmo camminare a piedi per tutta la notte, prima di ritrovarli? E le cose che ci dicemmo, camminando sotto la luna e le stelle, sognando la nostra futura grandezza? Ricordi quando fuggimmo di corsa dal palazzo del Re degli Elfi Chiari, ancora mezzo svestiti e con gli stivali in mano? Ti aveva sorpreso con le braghe calate assieme a sua figlia, e nemmeno le mie parole riuscirono a placarlo. Fu la mia magia, a farci scappare, tra le risate e con ancora il sapore dei baci delle graziose Elfe sulla pelle. Ricordi quando finimmo in quel pozzo oscuro, imprigionati per tre giorni e tre notti, senza che nessuno ci trovasse? Io sì, non ho dimenticato un solo istante, ed è per quell’affetto che allora ci legava, che ancora ci lega, che ti prego di farmi uscire da qui, prima che la mia mente finisca di vacillare per cadere, infine, nel baratro di una follia che già si insinua nelle mie notti insonni e tormentate. Ma sono davvero notti?
 
Lettera 12
 

Quando una guardia viene assegnata per la prima volta ai sotterranei, i suoi compagni veterani la costringono sempre, inevitabilmente, a portare il pranzo o la cena ai prigionieri più pericolosi o, addirittura, a entrare in una delle celle. È un rito crudele, ma necessario. Solo dopo aver affrontato questa prova, inizia ad essere trattato come un commilitone. Capita, spesse volte, che la nuova leva sia solo un ragazzo inesperto, che abbia paura persino di avvicinarsi ai vetri spessi che ci separano dal mondo. Non è raro che lo scherzo sia cattivo e il ragazzo pianga, o rischi di essere aggredito da un prigioniero in attesa di un secondo di distrazione per fuggire. Alcuni degli ospiti del sotterraneo partecipano con gusto sadico al perfido rito, facendo di tutto per spaventare il novellino. Tuttavia, nonostante la disponibilità a terrorizzare gentilmente offerta da orchi e banditi, sembra che la creatura più spaventosa di tutte le prigioni di Odino sia io. Sono soddisfazioni.

Il fatto è che al loro gioco io non partecipo, e questo mi rende, ovviamente, la loro attrazione principale. L’ultima prova che deve affrontare un guardia per poter lavorare qui sotto ed essere trattata con rispetto, è rompere le palle a me. Stamattina è toccato a un ragazzo fresco d’accademia, guadagnarsi l’amicizia dei suoi compagni. Oh, Thor, avresti dovuto vederlo! Non capisco come abbia fatto, a superare l’addestramento ed essere una guardia, davvero. Era così terrorizzato solamente dall’idea di avvicinarsi al vetro della mia cella, che i suoi compagni l’hanno dovuto spingere in avanti. Io leggevo, proprio seduto sull’intelaiatura che regge il cristallo resistentissimo. Hanno paura di me, temono i miei occhi, le mie parole, i miei sorrisi. Li spaventa la gentilezza delle mie richieste, la cortese benevolenza con cui mi rivolgo a loro. Sono entrato qui come quello che sono, un principe che doveva diventare Re, e come tale continuerò a comportarmi fino a che le Norne non taglieranno il mio filo. Se questo deve essere l’unico regno concessomi dalla sorte, ne accetterò di buon grado il dominio e lo governerò con responsabilità e premura, misurando instancabilmente la distanza che corre tra una delle pareti della mia cella e l’altra. Fammi avere altri libri, non sopporto di dover leggere di nuovo gli stessi.*****
 

 
Lettera 13

 
Non mi accontento affatto del mio regno, se così si può chiamare. Faccio solo quello che mi hai chiesto, che mi hai costretto a fare ricattandomi. Ti informo sulla mia vita, mantengo il contatto con la realtà. Direbbero così, su Midgard? Credi che sia un metodo efficace per controllarmi? Le tue paure sono offensive e chiunque, al posto mio, avrebbe fatto lo stesso. La vita degli Asi è troppo lunga per consumarsi in un’attesa che si protrarrà per migliaia di anni. Avreste dovuto avere la pietà e la sensibilità di comprenderlo quel giorno, invece non l’avete fatto e adesso mi ritrovo a dover mangiare senza posate, una conquista di Vanheim che certo tu e i tuoi amici non avete mai apprezzato, ma che io riconoscevo e utilizzavo con piacere. Piacere, sì. Una parola che adesso è legata al passato non grazie a me, che cercavo vendetta per essere stato tradito e ingannato, ma per merito di nostro padre, che nasconde sbagli ed errori sotto il tappeto. Esilia, bandisce e imprigiona chiunque lo scontenti senza dare spiegazioni perché niente esiste, se il suo occhio non lo vede. È questa che chiami giustizia, fratello? Crescermi come figlio suo, facendomi allungare le dita verso il trono quel tanto che bastava per desiderarlo, senza poi darmi la possibilità di ottenerlo? Dici che il potere mi ossessiona e che l’Hlidskjalf è maledetto. Forse è vero, te lo concedo, ma per colpa di chi? È stata solo la mia ambizione a condurmi qui? Come potevo lasciare impunito un simile affronto, come avrei potuto guardarmi allo specchio sapendo di non aver tentato nemmeno per un istante di ribellarmi a qualcosa che ritenevo ingiusto? L’orgoglio è un mio difetto, lo so: un aspetto che condivido con gli Asi, un popolo fiero che ama il combattimento sopra ogni cosa e desidera primeggiare, sempre. C’è un fuoco che ci divora dall’interno e ci spinge a superare i nostri limiti e a non abbassare la testa di fronte a niente e a nessuno.

Ora ti vedo, stai scuotendo la testa e pensi al Titano che, da qualche parte, mi aspetta e non pensa ad altro che a un modo per vendicarsi della mia sconfitta. Permettimi di ricordarti che Thanos non è un essere comune. È un mostro, un distruttore, un pazzo. Ho chinato la testa al suo cospetto, lo ammetto, ma l’ho guardato diritto negli occhi, e quello che ho visto non mi è piaciuto. Non scelsi di incontrarlo, fratello. Caddi dal Bifrost – ricordi? – caddi per milioni di chilometri attraversando le ere e il tempo e finii in uno dei suoi regni. Si sorprese accorgendosi che ero ancora vivo e le mie ferite, invece di condurmi nell’oltretomba, guarivano. Disse che avevo una tempra così robusta che sarebbe stato eccitante vedere come e in che modo si sarebbe spezzata. Parlò con una voce strana, carica di una cupidigia che mi terrorizzò, lo ammetto. Mi mostrò il potere vero, quello delle Gemme dell’Infinito che tu stai cercando invano e che lui tenta di recuperare da millenni.

Ho fatto delle cose, per il Titano, il cui ricordo mi opprime e insegue persino in questo sotterraneo squallido e maleodorante. Le vedo danzare nel buio davanti a me e non c’è perdono né assoluzione neanche nella consapevolezza che non avevo scelta. Non mi pento di quello che ho fatto, questo è il punto. Provare rimorso sarebbe consolante, nella mia condizione. Io invece so esattamente che rifarei ognuna delle bassezze compiute per il Titano perché l’alternativa sarebbe stata una morte orrenda e inutile. Un altro avrebbe fatto quello che mi si comandava di fare, e allora perché sacrificarsi? Trovi il pensiero troppo cinico, egoista, vile persino? Mi sta bene, ma lascia che ti dica una cosa: la mia paura non è nascosta dall’ipocrisia, e le mie righe sono state molto più schiette delle mille frasi retoriche di cui Fandral e Volstagg si sono sempre riempiti la bocca. Quel “Per Asgard”, che gridano in continuazione e ripetono mentre si ubriacano nei bordelli e si sciacquano la bocca con l’idromele, significa davvero che il loro spirito indomito sarebbe pronto a dare ogni cosa per la città degli Asi e il loro mondo? O non è, piuttosto, la vanità a spingerli a desiderare una morte gloriosa affinché possano brindare nel Valhalla con i grandi guerrieri?

A me non spetterà il Valhalla, fratello, e non solo perché creperò dentro questa cella. Brindare con voi priverebbe la grande sala degli dèi della sua piacevolezza. Io non sarei ben accetto e voi vi trovereste a disagio in mia compagnia, e l’Aldilà degli Eroi non deve essere una festa malriuscita, ti pare? No, a me non spetterà il Valhalla e credo non mi importi più, ma avrei fatto ogni cosa per rendere Asgard grande. Il Titano l’aveva guardata, la nostra città che si stende oltre il ponte color arcobaleno, e io ho distolto il suo sguardo dalle guglie d’oro del palazzo reale dicendogli che non era nulla, un insignificante puntino scuro nella vastità dell’Universo. La mia voce avrebbe dovuto tremare come le mie mani mentre parlavo e spiegavo, invece risuonò sicura nella sala privata di Thanos e lui mi guardò e alla fine acconsentì a dimenticarsi del mondo retto dall’Yggdrasill, il frassino sacro. Eccolo, il mio tributo per Asgard. Non ho avuto bisogno di gridarlo, anche se avrei voluto farlo. È stato decisamente meno teatrale di quanto avrei voluto, ma senz’altro efficace. Invece Asgard mi ha rinchiuso e condannato a una vita che è una farsa, la recita triste che offro al mio popolo di derelitti e disgraziati: lo spettacolo di un Re ingabbiato, privato dei suoi poteri, dimenticato. Racconto storie, alla mia gente. Spiego i miti e le leggende che ci hanno resi grandi, e descrivo le battaglie che Odino e Bor prima di lui hanno fatto affrescare sui soffitti a volta del palazzo reale. Loro mi ascoltano, non riescono a resistere, e non importa che siano secondini spaventati e compiacenti o delinquenti e nemici degli Asi. Per un momento il vetro della prigione sembra sparire quando racconto, ma alla fine della storia l’incanto svanisce e io non sono più nei campi di battaglia o perso in mille esplorazioni, ma torno qui, in questa cella maledettamente piccola di nemmeno venti passi per lato. E allora perché mi biasimi per aver cercato soltanto di migliorare la mia condizione? E tanto per la cronaca, come faccio a mantenere il contatto fottuto con la maledetta realtà dentro una gabbia dove nemmeno posso vedere il sole?
 

 
Lettera 14

 
Non me ne può fregare un cazzo di meno di Asgard. Ora che te l’ho scritto mi lascerai in pace? Gli sguardi ansiosi dei secondini che mi riveriscono come fossi ancora il loro principe non scalfiscono il mio disinteresse. Vorrebbero parlare, dirmi che nella città di Odino è successo qualcosa di grave: li fisso, li sfido a dirmi cosa è successo e a chi. Le loro labbra tremano, gli occhi si puntano in basso, la mia Corte di straccioni e condannati a morte ghigna soddisfatta e io dico solo una cosa: “Chiamate Thor, chiedete aiuto al primo figlio. Lui ha il Mjollnir.”

Mi rispondono che sei lontano e non puoi tornare e allora rido. “Balder il Buono non è in grado di risolvere i vostri problemi? Il giovane Hoder forse non ha un’ottima mira ed è poco più di un bambino, ma nelle sue vene non scorre il sangue di Odino? ****** Perché mi fissate come se io avessi la risposta?”

C’è fermento nei sotterranei fratello, ma a me non interessa. Leggo e traduco i poemi antichi dei nostri antenati e degli Elfi e vivo in un altro luogo, in un altro tempo. Qualsiasi ombra abbia offuscato l’Hlidskjalf non mi riguarda più da mesi, anni, però non ti nascondo che sono rimasto sorpreso quando è scesa Sif, in compagnia dei tre deficienti, ovviamente. Sei davvero lontano, se non hai impedito loro di venire qui. Lei in particolare si aspettava che le parlassi, e questo è davvero ironico perché c’è stato un tempo in cui io l’ho pregata di fare la stessa cosa e Sif mi ha rifiutato persino uno sguardo. Adesso avrai aggrottato le sopracciglia e colto senz’altro il riferimento o forse è troppo poco e devo aggiungere altro alla mia spiegazione. Lascia che ti dica com’era il suo viso quando mi ha visto: pallido, teso, sgomento, tanto da darmi una misura precisa di quanto debba apparire tetra e oscura la mia figura qui sotto. Saranno stati i capelli scarmigliati o i segni scuri sotto gli occhi, a spaventare la nostra fiera amica? Non le ho parlato, ma mi sono avvicinato tanto da sfiorare quasi il vetro della mia gabbia e l’ho guardata nei suoi occhi scuri per capire se le piacesse lo spettacolo.

Lei si è ripresa dal momentaneo smarrimento e si è messa a controllare se la mia prigione fosse davvero sicura come sembrava. Asgard trema per colpa di qualcosa che non sono io, ma a me non interessa, non frega niente di meno. Io e lei abbiamo avuto una breve relazione, lo sapevi? Provava vergogna allora come ne prova adesso, e pare quasi che il cedere qualche notte alla solitudine abbia macchiato per sempre il suo animo nobile e intrepido*******.

Mi ha riempito di domande, ma io non ho risposto. L’ho guardata dall’alto in basso perché se lei ancora non è venuta a patti con se stessa e con le sue azioni passate, per me non è più niente e questa è una mia vittoria. Mi interroga e io non rispondo e allora non siamo più un prigioniero e la fiera guerriera di Odino, ma un Re e la sua suddita che chiede senza ottenere. La poltrona su cui siedo qui sotto è il mio trono e queste mura umide sono la mia Corte, anche se ammetto che non è sontuosa e salubre come la Sala dove ci nascondevamo da bambini. Di questo regno sotterraneo io sono il signore e il padrone e lei non può far niente. Mi tempesta di domande e io le concedo nient’altro che l’ombra di un sorriso canzonatorio che la irrita ancora di più, perché le ricorda quello che entrambi sappiamo e che lei non ci tiene a far sapere – che abbiamo scopato, e dimostra come lei e la sua spada non abbiano alcun potere qui dentro. Sollecita i secondini e le guardie impettite, ma loro fanno finta di non ascoltarla nemmeno.

Posso non risponderle. Il giorno dopo no, sono stato tirato fuori dalla mia cella e portato in un’ala dei sotterranei che certo non conosci, e lì mi hanno ficcato la testa in un secchio d’acqua chiedendomi come avessi fatto e se c’entravo qualcosa. Mentre riprendevo fiato, con le mani legate dietro la schiena, una guardia mi ha bisbigliato all’orecchio che la sorella di Sigyn è scomparsa all’improvviso, e neanche Heimdall riesce a trovarla. Poi mi ha chiesto perdono, ha detto “Vostra Altezza solo pochi secondi stavolta, mi spiace” e di nuovo mi sono ritrovato con la testa nell’acqua.


Continua...

*Volutamente è un discorso indiretto.
**Come nel prologo del primo film Thor.
***Loki qui descrive un drakkar, le vere navi vichinghe.
****Così è descritto Odino nell’Edda quando si manifesta sulla Terra.
*****Come forse sai, o forse no, questa fanfiction è la sorella maggiore della mia breve storia “Sposami, Sigyn”, già postata su questo sito qualche mese fa.
******Hoder è un Ase cieco, nel mito. 
*******Hai presente quello sguardo che si lanciano Sif e Loki in Thor: The dark world? Appena li ho visti ho pensato “questi due se la sono spassata”. Ad assecondare il tutto ci pensa, come sempre, la mitologia: nella Lokasenna il nostro eroe dichiara di essere andato a letto, tra le altre, proprio con lei.
 Giuro, la prossima volta metto i numeri alle note!

Deliri dell'Autrice
Caro Lettore presente o silente, grazie mille per il tempo che hai voluto dedicarmi leggendo queste mie righe. La fatina dell’ispirazione ringrazia. Posso rubarti qualche altro istante? Come vedi/intuisci, la piega della storia inizia ad assumere contorni foschi e decisamente thriller, come nell’avviso. Le tematiche delicate saranno presenti, ma solo accennate (del resto Loki sceglie i suoi argomenti o risponde a delle domande e certe cose, semplicemente, non ha bisogno di spiegarle). Ricorda sempre che Loki è il dio dell’inganno. Ingannerà anche te che leggi. Potrebbe scrivere una lettera assolutamente falsa, completamente vera, o parzialmente vera/falsa J
Come sempre, mi farebbe piacere ricevere un tuo pensiero su queste righe e i motivi sono principalmente 2:
  • Le recensioni sono un po’ la mia personale “indagine di mercato” nei tuoi confronti. Non la vedere come un’ingerenza. Si scrive partendo sempre da una necessità interiore, ma quando si posta e si condivide, la storia appartiene in un certo senso anche a chi legge e la immagina. Tu leggi, ma ti piace?
  • “L’indagine di mercato” è un indice utile per capire quale storia postare, a quale dare la precedenza, se nel cassetto ho già pronto qualcosa che potrebbe far felice te, che mi leggi. Magari vorresti una fanfiction dove succede X e Y e forse io l’ho già scritta, ma se non ci parliamo non lo sapremo mai.
Cosa posterò prossima settimana? Una shot che mi hanno richiesto due malandrine…
Tua, S.
   
 
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