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Autore: Yellow Canadair    18/05/2018    5 recensioni
19 maggio 2018, centounesimo Giro D'Italia, Monte Zoncolan.
Due ciclisti in divisa nera e bianca pedalano sotto una pioggia torrenziale, sorpassando gli avversari e mangiandosi i tornanti, con gli applausi del pubblico infiammato dalla loro avventura.
Il capo del loro team è Spandam, figlio di un ricco industriale che non capisce niente di ciclismo, ma cerca gloria e fama: ha ingaggiato sette professionisti ordinando loro di vincere il Giro D'Italia.
Rob Lucci e Kaku stringono i denti e vincono le tappe, ma l'inefficienza del loro capo può costargli molto: la pioggia forte, un tornante difficile, una scivolata, e i due ciclisti rischiano di concludere la loro corsa...
Genere: Avventura, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jabura, Kaku, Kumadori, Rob Lucci, Spandam
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Vorrei restar sempre così

in Maglia Rosa e poi

il vento e le moto sorpassano,

la fatica tocca solo a me,

ma ho voluto la bici e adesso…

 

 

…e adesso pedala!

La conquista dello Zoncolan

 

Pioveva così tanto che pareva che Dio si fosse dimenticato aperti i rubinetti, e fosse uscito a prendere un caffè con Buddha, Meryl Streep e compagnia cantando. Le Dolomiti friulane erano sott’acqua, come nella notte dei tempi.

Sui tornanti in salita c’era una Seat nera, sulle cui portiere anteriori spadroneggiava un grosso logo bianco formato da cinque cerchi disposti a croce greca. Camminava a passo d’uomo sulla tortuosa strada di montagna, assaporando con lentezza i tornanti e mantenendo la destra quanto bastava per non travolgere le persone che urlavano sul ciglio della strada, incuranti della pioggia battente e armati di stivali di gomma e key-way. I cartelloni che alzavano erano impregnati d’acqua e le lettere colavano miseramente sul cartone che diventava sempre più moscio, e presto non sarebbe stato che un’umile pappina nelle loro mani ghiacciate.

Blueno guidava, controllando con lo sguardo tutti i ciclisti che superavano la sua vettura. « Qui Auto 1, passo. Siamo circa a metà del Giro… » muggì nel suo auricolare, aumentando la velocità dei tergicristalli.

Una fiumana di biciclette la oltrepassava, fluendo sull’asfalto grigio e liscio come un torrente, mentre le persone accorse in massa dai paesini salutavano i ciclisti sventolando bandiere e agitando maldestramente gli ombrelli. Il rosa dominava le auto e le moto che scortavano i corridori, e illuminava quella piovosa giornata di maggio sulle Alpi Carniche.

« Siamo davanti al gruppo di coda, e loro non ci sono » aggiunse una donna bionda seduta accanto a lui, che continuava a guardare uno ad uno tutti i ciclisti che passavano spingendo con caparbietà sui pedali, alzandosi in piedi e facendo oscillare le bici su per quella maledetta salita.

Circa dieci chilometri più avanti, sui tornanti che portavano al Monte Zoncolan, ancora lontano, c’era un’altra Seat, nera, con lo stesso logo bianco, che procedeva a rilento, con tre biciclette issate sul tettuccio che grondavano sotto la pioggia torrenziale. Anche quell’auto era attorniata da persone eccitate e ciclisti che si inerpicavano su per la salita, e camminava piano per non fare incidenti né con loro né con le moto delle emittenti che sfrecciavano come diavoli.

« COME HAI FATTO A PERDERLI??? » gridò Jabura alle cuffie che Kumadori, seduto accanto a lui, gli porgeva. « NE ABBIAMO DUE! SOLO DUE! »

Blueno scosse la testa, abituato alle sparate del collega « Erano tutti e due nel gruppo di testa, e voi eravate quelli più vicini. Li tenevate sotto controllo, no? »

I due ciclisti della squadra erano in testa alla gara, praticamente un gruppo in fuga con un vantaggio considerevole di un paio di decine di chilometri dal resto del Giro. Ma questo circa venti minuti prima che il loro team di supporto li perdesse di vista.

« Hai idea di cosa voglia dire tenere sotto controllo due ciclisti in mezzo a un mare di altri ciclisti?? Per di più con tutta quest’acqua! Non si vede nulla, maledetta organizzazione! »

Una motocicletta gialla accostò all’auto. « Ehi! Squadra Coppi-Pantani, fermate! » gridò una ragazza. Faceva parte dell’organizzazione del Giro, e la sua moto era gialla per volontà di chissà che sponsor ufficiale. Sul giallo canarino della moto erano incollati vari adesivi rosa, omaggi della Gazzetta dello Sport che organizzava la celebre corsa, ed era quello il colore che fra tutti più si era visto in quei giorni: colore indossato anche dal vincitore della precedente tappa, in quel momento un omone alto dai capelli neri e ricci; aveva la fama di essere pigro e svogliato, ma sembrava stare perfettamente a suo agio tra i ghiacciai alpini. Aveva dato un gran filo da torcere a Kaku, che aveva divorato la tappa in velocità partita da Ferrara, ma appena si eran scorte le Alpi non c'erano stati santi: come richiamato dal ghiaccio, quel ciclista aveva spiccato il volo come un fagiano nella prateria e si era preso, per pochi centesimi di secondo, la tappa.

« Lascia perdere, è una giornataccia » rispose Jabura. Si conoscevano bene perché dopo le tappe se ne andavano a bere tutti insieme.

« La giornataccia è quella dei tuoi ciclisti! » ruggì in risposta lei sollevandosi di scatto la visiera di vetro del casco mentre tirava le redini alla moto gialla « Che diavolo ci fate qua? I vostri ragazzi sono caduti sui curvoni che scendono dal Passo Duron! Tornate subito al centocinquantesimo chilometro! Le ambulanze sono già là! »

« YOYOI! GRAVE DISATTENZIONE PER LA NOSTRA SQUADRA! » Kumadori prese la cuffia e si mise in contatto con Blueno, nell’altra auto: « EMERGENZA AAAAAAAAAL CENTOCINQUANTESIIIIMOOOO CHILOMETROOOOOOOO!» gridò, in modo che lo sentissero pure oltralpe « COME SAMURAI SUL CAMPO DI BATTAGLIA I NOSTRI VALOROSI ATLETI SONO STATI SCONFITTI DA UN FATO CRUDELE! »

« Smettila di fare casino! Pensa a guidare! » s’arrabbiò Jabura, strappandogli di mano le cuffie « Blueno! » invocò al microfono.

« Ti sento » disse l’uomo che stava nell’altra auto del team « Sono caduti? »

La ragazza sulla moto li bacchettò, asciugando l’acqua piovana che le annebbiava il vetro del casco: « È il vostro primo Giro ma non posso farvi da messo viaggiatore, tenetevi accanto ai vostri uomini, o rischiate la squalifica, e loro di farsi male! »

Fece rombare il suo motore e, con attenzione per non ostacolare i ciclisti che le sfrecciavano vicino, s’infilò sulla destra e andò verso la testa della corsa, scomparendo tra striscioni, palloncini, auto e biciclette.

« Merda » sputò fuori Jabura. Che diavolo era successo al centocinquantesimo chilometro? Quello scemo di Lucci era finito fuori strada? E ora come faceva a raggiungerlo?

La voce della ragazza sulla moto gli risuonò in testa: “tenetevi accanto ai vostri uomini!”, e loro non solo li avevano persi di vista, ma doveva essere successo qualcosa di grave, per far uscire fuori dalla corsa un uomo accanito e resistente come Rob Lucci.

Era uno degli “scalatori” più forti in circolazione, l’uomo perfetto per arrampicarsi sulle vette più alte d’Italia in sella a una bicicletta: era l’inaspettato favorito per la Cima Coppi, che si sarebbe corsa l’indomani, perché nell’unica tappa di montagna che c’era stata, quella sull’Etna, aveva fatto fuoco e fiamme più del vulcano; sembrava avesse la foga di vincere la Maglia Azzurra, che veniva data chi guidava la classifica dei Gran Premi della Montagna, per tutte le tappe in cui era prevista!

Era uscito dalle competizioni due anni prima per un sospetto di doping mai confermato, anzi poi escluso dalle analisi, ma per il suo brutto carattere non era riuscito a trovare una squadra che lo ammettesse a correre: troppi rischi, e troppa arroganza. Sfatava del tutto il mito dell’italiano allegro, il solito paradigma pizza-sole-mandolino: era schivo, aggressivo, presuntuoso, e senza una bicicletta sotto al culo era un vero tipaccio.

Ma la loro squadra, la Coppi-Pantani 9, chiamata così in onore di due ciclisti immortali, non poteva permettersi il lusso di scegliere! Era il primo Giro al quale partecipava, per capriccio del suo proprietario, un figlio di papà che non ne sapeva assolutamente niente di ciclismo, e aveva messo insieme sette professionisti ordinando loro di vincere il Giro D’Italia. Perché proprio quella competizione? Perché era la più famosa del mondo, e poi era in un Paese molto piccolo, poco più della loro natìa Nuova Zelanda: cosa ci voleva a percorrerlo tutto?, aveva detto Spandam, il loro mecenate, figlio dell’industriale di armi Spandine.

E certo, pensava Jabura, la fa facile! Comodo rimanere nei salottini televisivi a far scena mentre loro macinavano i chilometri sotto il sole, sotto la neve o sotto la pioggia cercando di aiutare come potevano i due ciclisti! Lui era il miglior meccanico in circolazione, questo era poco ma sicuro, ma gli erano stati dati ben pochi mezzi per curare le cavalcature del team.

“Tanto servono solo due bici” aveva detto il proprietario della squadra e loro sponsor “Non dovrai faticare più di tanto”. Era una frase talmente stupida che lì per lì Jabura aveva riso, convinto che scherzasse.

Ma non scherzava affatto, le bici erano solo due, e dopo giorni di minacce era riuscito a fargliene acquistare altre quattro per eventuali cambi: Lucci e Kaku non potevano rimanere a piedi nel bel mezzo del Giro d’Italia, ne andava della sua reputazione da meccanico! E lui era il migliore, ci teneva a dimostrarlo!!

Spandam aveva risparmiato su tutto, pretendendo il massimo. Nel team c’erano, oltre ai due ciclisti ovviamente, l’allenatore, Blueno: ma aveva così poco polso che Kaku e Lucci si allenavano perfettamente da soli; in auto con lui c’era Fukuro che era il loro tramite con l’organizzazione e con i giornalisti: aveva sempre una mano sul walkie-talkie, sempre in contatto con lo staff della Gazzetta, e poi c’era Khalifa, la bionda e avvenente manager: curava gli appuntamenti e gestiva l’organizzazione della giornata del team. Nella seconda auto, con Jabura, c’era Kumadori, che guidava l’auto durante la gara ed era anche il fisioterapista: i suoi massaggi erano così rilassanti che sembrava usasse non solo le mani, ma anche i capelli per ristorare i muscoli indolenziti!

Non erano abbastanza, non avevano neanche un medico, però erano stati pagati, avevano un contratto, e avrebbero tagliato il traguardo di Roma, in un modo o nell’altro: era una gara? Sì. Perfetto, perché erano spiantati quanto competitivi, e dove non arrivava l’esperienza, sarebbe arrivata la testardaggine.

Jabura espirò, furioso. Poi si rivolse a Kumadori, che guidava la macchina: « Inchioda qui. Fa’ girare questa cazzo di auto. Bisogna tornare indietro a recuperare quei due idioti! »

« YOYOI! » protestò il voluminoso Kumadori « Invero quel che chiedi sfiora l’impossibile! Siamo chiusi in un percorso segnato come il destino che avvolge le vite degli uomini, e un’inversione di marcia è impensabile! »

E in effetti non c’era lo spazio per una manovra, a meno che non ci si buttasse giù dai tornanti o si falciassero i ciclisti avversari, cosa che Jabura non escludeva a priori.

« Porca miseria » imprecò ancora. « Continua a guidare » ordinò.

Si girò verso i sedili posteriori, dove c’era la sua cassetta degli attrezzi, e cominciò a mettersi in tasca brugole, chiavi inglesi, lacci da elettricista, kit per riparare i copertoni e tutto quello che pensava fosse strettamente utile; poi si mise a tracolla quattro camere d’aria e infine guardò fuori, verso il pubblico. Un ragazzino, davanti a loro, stava osservando il Giro con altri mocciosi della sua età, e reggeva per il manubrio una grossa bicicletta da uomo, sulla cui canna verde luccicava -Jabura non arrivava a leggere, ma lo stile era inconfondibile- la scritta “Girardengo”. Il meccanico del team Coppi-Pantani 9 (abbreviato: CP9) ghignò.

« Frena subito! Fammi scendere! » ordinò a Kumadori.

E poi fu un attimo: scese dall’auto che ancora doveva fermarsi del tutto, fece due passi minacciosi verso il bambino, gli strappò la bici dalle mani, la inforcò e gli gridò: « Te la lascio al centocinquantesimo chilometro! » e, spingendo sui pedali, uscì di strada e cominciò a correre come un diotifulmini in senso contrario al Giro, sotto la pioggia battente, con gli arnesi che tintinnavano nelle tasche, incurante delle persone che lo guardavano come se fosse pazzo.

Meno male che non erano in una città, ma in aperta montagna, e poteva tornare indietro senza perdersi in vie e viuzze impervie e senza uscita! Doveva solo sperare che la strada continuasse così per almeno altri dieci chilometri, però sapeva bene che la tappa, quel giorno, si era tenuta lontana dalle grandi città: Monte Zoncolan, uno dei simboli del Giro, fra montagne aspre che mettevano alla prova i migliori polpacci del mondo.

Pane per i denti affilati di Rob Lucci: un robusto scalatore che mangiava i tornanti e che non aveva paura di niente.

Il suo compagno di squadra invece, Kaku, era un velocista: quando vedeva un liscio nastro d’asfalto che correva tra i campi coltivati diventava più veloce di una freccia e via!, non lo vedevi fino all’arrivo!

Kaku era uno dei più giovani partecipanti al Giro, sconosciuto ma promettente: anche lui era molto riservato, non cercava la gloria, ma solo un modo per andare in bicicletta. Era stato il primo acquisto del team e aveva reso tutti orgogliosi aggiudicandosi la Maglia Bianca, quella riservata ai leader della classifica dei corridori sotto i venticinque anni!

“Potresti battere il record di vincitore più giovane!” gli aveva detto un avversario, che poi Jabura aveva inseguito con una chiave inglese perché dire cose del genere porta malissimo.

“Quel record è di Fausto Coppi, e sta bene dove sta. Non mi interessano queste cose!” aveva ribattuto Kaku, che paradossalmente non era un tipo competitivo, a lui piaceva pedalare e lo faceva con la fame di sentirsi il vento che gli scolpiva i fianchi. I malevoli dicevano che gli aveva scolpito anche il naso, dalla forma alquanto strana, ma lui faceva finta di non sentirle neppure, quelle malelingue: non gli interessavano proprio!

Jabura si prese addosso tutta l’acqua delle Alpi, masticando bestemmie e lanciando parolacce a chiunque gli sbarrasse la strada. Non era un ciclista allenato, ma era un uomo robusto e riuscì ugualmente a percorrere quella decina di chilometri che lo separavano dal punto in cui dovevano essere i ciclisti caduti, nonostante il tempo da lupi e la vecchia bicicletta che sembrava pesare venti chili.

Si fermò in cima a una salita per osservare i tornanti dall’alto, e alla fine li vide: c’erano diverse auto ferme di alcuni team e delle ambulanze con le luci baluginanti nella pioggia, in una curva in discesa che evidentemente aveva mietuto molte vittime. C’erano diverse biciclette abbandonate a terra, appena fuori alla strada, e diverse persone andavano e venivano nei pressi di una malga, una sorta di baita di montagna dove vivevano i pastori con mucche e pecore.

Jabura prese il manubrio alla “Girardengo” e si lanciò giù per la discesa, e in mezzo minuto arrivò dai due ciclisti.

« Alla buon’ora » lo aggredì immediatamente Lucci, seduto sul predellino di un’ambulanza, appena al riparo per non bagnarsi « Che fine avevate fatto? abbiamo dovuto chiedere all’organizzazione di cercarvi! Stavate dormendo? È un quarto d’ora che siamo qui » era lercio e completamente bagnato, la coda di lunghi capelli neri grondava sulle forti spalle, e un paramedico gli stava ricucendo uno squarcio che correva dalla spalla al gomito, e continuava su tutto il fianco destro, fino alle gambe: un’evidente visita di cortesia all’asfalto friulano.

Jabura non si lasciò soverchiare: « Un quarto d’ora, e nessuno di voi ha pensato di chiamare me, Khalifa, o chiunque altro?! Ti faceva schifo chiedere un telefono a uno qualsiasi dei tremila spettatori? »

« Non provare a ribaltare la situazione » si alzò in piedi minaccioso il ciclista, incurante del lavoro del paramedico « Io e Kaku siamo caduti un quarto d’ora fa, e di voi non c’era traccia! Ora muoviti, ripara la mia bicicletta, ho già perso troppo tempo »

« Per favore, stia fermo, se no perde ancora più sangue e non riesco a mettere i punti » disse flebilmente il paramedico.

« Dacci un taglio, maledetto alzato di culo! » disse buttando nel fango gelido le camere d’aria che aveva addosso « Questo team intanto è l’unico che ti ha permesso di gareggiare, ricordatelo! È proprio per il tuo brutto carattere che non ti volevano al Giro! »

« Per favore, basta » invocò Kaku. Lui era steso nel ventre materno dell’ambulanza, assistito da una dottoressa di mezz’età che gli stava ricucendo la gamba sinistra, della quale ormai non si vedeva quasi più la pelle, che doveva essere stata lasciata sull’asfalto del curvone.

« Ripara la bicicletta, muoviti » ordinò Lucci spazientito al meccanico, mentre il paramedico finiva di ricucirgli il braccio « Abbiamo ancora del vantaggio sul resto del gruppo, e posso recuperare la testa facilmente. Non è niente di complicato »

« Dov’è il medico del vostro team? » chiese la dottoressa che stava aiutando Kaku.

« Non abbiamo un medico, abbiamo solo il fisioterapista. Qual è il problema, dottoressa...? » domandò arrogante Rob Lucci, che voleva sapere con chi avesse a che fare.

La dottoressa, una formosa donna sulla quarantina, il rossetto rosso fuoco e l’accento britannico, scalpitò nervosamente: che voleva dire, che quel team non aveva il medico sportivo?? Sapeva che quei neozelandesi spiantati erano in difficoltà, ma non immaginava che lo fossero al punto da non potersi permettere neppure un medico! Neppure il miglior fisioterapista del mondo poteva bastare, era il Giro d’Italia che stavano correndo, non un raduno di quartiere!

« Dottoressa Vegapunk. Caro Vegapunk. » lo corresse « Volevo un consulto, ma visto che non avete il medico, vi dirò le mie sole conclusioni: per voi la tappa è finita. Per fortuna domani è pausa, e forse potrete riprendere dopodomani, ma per oggi è stop.

Rob Lucci ghignò sprezzante « Forse per altri, nelle nostre stesse condizioni, sarebbe finita. Ma non per noi »

Caro Vegapunk lo trafisse con lo sguardo: « Avete più sangue là a terra » disse indicando il curvone, a una decina di metri di distanza « che in corpo » concluse, con gli occhi elegantemente truccati ridotti a due fessure.

« Dammi solo qualche secondo, falle finire la medicazione » disse Kaku, scavalcando del tutto la dottoressa Vegapunk « E continuiamo »

Jabura intanto si era messo a esaminare le biciclette dei due; era stata una brutta caduta, causata dalla pioggia che aveva impregnato le strade. La discesa che Kaku e Lucci, in testa al Giro, stavano percorrendo era ripida e impervia, e con loro scendeva dalla cima del monte anche tutta l’acqua di quel Diluvio Universale; aveva rotto i piccoli argini dei ruscelletti di montagna, tanto il nubifragio, e si era riversata in strada, fra le sottili e lisce ruote dei “girini”.

Era bastato poco: una frenata su quella discesa, i dischi usurati dalla tappa che era stata un impervio saliscendi continuo, una curva a gomito stretta e infame: la ruota posteriore di Rob Lucci era andata per i fatti suoi, lui era scivolato rovinosamente sul fianco destro e aveva travolto anche Kaku nella caduta; la ripida discesa li aveva trascinati con sé per qualche metro, fino a trascinarli fuori pista dove le ambulanze erano accorse per aiutare loro e altri cinque ciclisti che erano stati traditi dal curvone maledetto.

Solo che i team degli avversari erano accorsi subito, portando soccorsi, riparando biciclette e sostituendole all’occorrenza; loro erano rimasti completamente soli a immaginare la vetta dello Zoncolan, coperta dalle nuvole cariche di pioggia, sempre più lontana, sempre più distante, come cantava una vecchia canzone.

Neanche un meccanico come Jabura poteva farci nulla: nella caduta, il telaio della bici di Lucci si era piegato e la bici se ne stava a terra, come morta, sotto la pioggia. Scintillava tra le gocce e, sul nero della vernice, spiccava il colombino bianco che Lucci aveva dipinto personalmente sulla canna del telaio. Chissà che cosa significava.

 

Il telaio di Kaku era messo meglio, ma le raggiere erano a pezzi: non poteva riparare, non senza i ricambi che erano nell’auto. Ma per questioni di tempo, ai due ragazzi sarebbe convenuto piuttosto usare due biciclette di riserva, montate sui tetti delle auto. Che erano lontane.

« Merda » ringhiò Jabura furioso.

« Segno del destino » disse laconica la dottoressa Vegapunk « salite sulle ambulanze, per oggi basta così »

« Nemmeno per sogno » Rob Lucci non si sarebbe mai piegato a qualcuno. Prese per il manubrio la vecchia bicicletta da uomo sulla quale era arrivato Jabura, la “Girardengo”, la inforcò e si trascinò stringendo i denti per i dolori lancinanti fin sul ciglio della squadra,

« Idiota, con quella ti ammazzi! » gli arrivò la voce irritante del meccanico.

Come un tuffatore sul trampolino, si lanciò nella corsa.

 

 

Kumadori e Blueno guidavano le due Seat piano piano, aiutati da generosi passanti e dalla ragazza sulla moto gialla del Giro; procedevano fuori strada, per non ostacolare gli altri corridori, e dovevano andare pianissimo per non scivolare sull’erba bagnata, mentre la pioggia pareva inghiottirli e i burroni dolomitici sembravano pericolosamente vicini.

Kumadori pregava a gran voce mentre calibrava con precisione millimetrica la pressione da esercitare sul pedale dell’acceleratore; aveva sul cruscotto una fotografia della cara madre con la scritta “pensa a me”, e a lei si rivolgeva nei momenti di sconforto. Blueno, imperscrutabile come al solito, conduceva la seconda auto senza dare cenni di vita; mica come Fukuro, accanto a lui, al telefono con qualche emittente televisiva per spiegare cosa fosse successo al team neozelandese che tanto bene si era comportato nelle tappe precedenti nonostante l’inesperienza e la disorganizzazione.

« Chapapa, è proprio così! Sono caduti nella curva del chilometro centocinquanta, e ora stiamo andando loro incontro! Ma ovviamente non si può andare contromano rispetto al Giro, e quindi stiamo andando sull’erba, dove non passa nessuno! Come, dove? Ma chapapa, costeggiando la carreggiata! No, mica abbiamo i fuoristrada. Chapapa, non lo sappiamo se sono vivi! »

Khalifa invece, la manager libanese dai lunghi capelli biondi, era seduta accanto a Blueno e lo aiutava con la guida, indicandogli il percorso meno accidentato e controllando la mappa per assicurarsi che stessero andando nella direzione giusta.

Fu lei, all’improvviso, a gridare: « Ehi! Fermi! Suona il clacson, fa’ fermare anche Kumadori » ordinò concitata a Blueno.

Sulla salita, arrancando come un diavolo e fendendo l’acqua come la prua impazzita di una barca da regata, arrivava Rob Lucci, spingendo come un forsennato per recuperare il gruppo.

« Quella non è una delle nostre bici » riconobbe subito la donna.

Blueno e Kumadori fermarono le auto, Blueno scese e, sotto l’acqua e senza nemmeno indossare un key-way, cominciò di gran lena a smontare dal tetto una delle fiammanti bici da corsa per cambiarla con quella di Rob Lucci, che era troppo pesante, inadatta alla gara, e rischiava di metterlo ancora più in pericolo.

« Fermo, fermo! » si sbracciò Khalifa andandogli incontro. Lucci riconobbe la livrea nera e bianca delle familiari Seat, e mise un piede a terra arrestando la sua corsa. Le fasce che la dottoressa Vegapunk gli aveva messo si erano rapidamente tinte di rosso, ma la sua maglia nera non lo dava a vedere, altrimenti forse il suo team l’avrebbe trattenuto a forza.

« Dammi l’acqua » ordinò l’uomo a Khalifa « Devo vincere questa tappa »

« Ci sono tre borracce sulla bicicletta » disse efficiente la donna « Dammi questa » disse spingendo da parte la gloriosa quanto pesante “Girardengo”.

Improvvisamente si sentì una voce in lontananza: « Ehi! Ehi, fermi! »

Lucci si voltò scocciato verso la coda della gara: era Jabura, il meccanico, comodamente seduto dietro la motocicletta gialla del Giro; eh già, lui che era un meccanico poteva prendersi un passaggio dalla ragazza dell’organizzazione.

« Ti ho già detto che non mi fermo » ringhiò Lucci « E non ho intenzione di discuterne con uno come te »

Jabura smontò dalla moto con tale impeto che la motociclista ebbe qualche difficoltà a reggerla in piedi; si avvicinò a Rob Lucci e gli gridò in faccia: « SE NON LA SMETTI TI SMONTO, A TE E ALLA BICICLETTA » l’avrebbe buttato a terra con un cazzotto, ma decise di rimandare « Ti sta raggiungendo anche Kaku » disse furioso, come se avesse risposto a insulti « Il padrone della malga dov’era gli ha prestato una bicicletta per proseguire e sta arrivando. Ti vuole fare da gregario fino allo Zoncolan »

Lucci scosse la testa « Fallo fermare qua » disse rimontando in sella « le sue condizioni sono ben peggiori delle mie »

« Ma la testa la tenete ugualmente dura » ribatté Jabura.

Kumadori accese l’auto e proseguì: quei due erano testardi, ma erano anche feriti e Kaku si trovava a qualche chilometro da loro senza una bicicletta degna del suo talento! Ma lui, yoyoi, gliel’avrebbe consegnata!

La Seat nera di Kumadori e Jabura sparì sotto la pioggia alla ricerca di Kaku, mentre quella con Blueno, Khalifa e Fukuro si tenne vicina a Rob Lucci che, sotto la pioggia, cercava di recuperare lo spaventoso vantaggio che aveva accumulato la testa del Giro.

 

 

Il vecchio Sengoku, giornalista anglo-giapponese, nel salottino dell’ente britannico radiofonico che trasmetteva il Giro in diretta, commentò con fare ammirato: « Era da diversi anni che non assistevamo a una rincorsa così disperata: i due ciclisti del team neozelandese Coppi-Pantani 9, caduti sui tornanti di Sutrio, al centocinquantesimo chilometro della tappa, sono tornati miracolosamente a pedalare e ora lottano per la vittoria. Garp, cosa possiamo dire? »

Monkey D. Garp, vetusta gloria del ciclismo britannico, si spaparanzò sulla poltroncina dello studio radiofonico e mise in bocca una manciata di biscottini da tè. « È un’impresa degna di quella di Fiorenzo Magni, che tagliò il traguardo reggendo il manubrio con i denti »

« Fiorenzo aveva clavicola e omero fratturati » rispose Sengoku « Questi sono solo caduti. Però hanno una tenacia degna di nota, per di più sotto tutta quest’acqua! » ammise infine.

« Una delle peggiori bufere che abbia mai visto sul Giro, mi chiedo sempre perché gli organizzatori non sospendano la corsa, in questi casi! »

« Sono partiti dalla Nuova Zelanda con pochi mezzi e poche biciclette, vincono le tappe quasi alternandosi tra quelle in piano e quelle di montagna » osservò Sengoku, appassionato sportivo e con una lunga carriera di radiocronista sulle spalle.

« Un gran bel team, peccato per il proprietario della squadra »

« Shhhh, Garp, la direzione potrebbe prendersela » lo ammonì Sengoku « Spieghiamo ai radioascoltatori quali sono i fatti, poi loro trarranno le conclusioni del caso. »

« Non c’è niente da spiegare » Garp si piazzò un dito nel naso e cominciò a spostare mobilia « Un rampollo figlio di industriale ha avuto la bella idea di investire i risparmi superstiti in una squadra ciclistica, ma i risparmi erano tali per ingaggiare solo sette persone e comprare qualche bicicletta: una follia. Ha avuto la fortuna pazzesca di assumere i Magnifici Sette, però, che gli frutteranno sicuramente parecchio. »

« Grazie per l’analisi » disse l’altro radiocronista « Il team CP9 in effetti entra forse nella storia per numero di membri, credo che neanche nelle prime edizioni le squadre si fermassero a sette persone compresi i ciclisti »

« Penso anche io » disse Garp « E sarà proprio questo a procurare loro notorietà e sponsor, te lo dico io »

« Staremo a vedere » concluse Sengoku « Dopo questa chiacchierata, torniamo con la diretta sul Giro: il traguardo in salita è ormai vicino, mancano solo quindici chilometri all’arrivo! »

 

 

Quando Lucci, in sella alla sua bici da corsa, con la coda nell’occhio si vide arrivare Kaku che arrancava dietro di lui per raggiungerlo, poco ci mancò che sorridesse. Così, per non smentirsi, soffiò trafelato: « Ti avevo ordinato di rimanere col team »

« O tutti o nessuno » ribatté il ragazzo « Fammi passare »

Lucci soppresse un fremito per il freddo e la pioggia che gli impregnava le ossa, e si fece millimetricamente da parte per far passare il suo gregario: sarebbe stato Kaku ad aprirgli la strada mentre sorpassavano il gruppo di testa.

« FORZA RAGAZZI, SONO DIETRO LA CURVA! CE L’AVETE FATTA!!! » sembrava gridassero gli spettatori che li guardavano passare sotto la pioggia scrosciante. I ciclisti che arrivavano a salire lassù erano quasi degli eroi, dei superumani di resistenza: le salite della Carnia non perdonavano.

Kaku e Lucci strinsero i denti: solo una curva, e poi il sorpasso. E poi, ancora, cinque chilometri all’arrivo con una pendenza che avrebbe ucciso un mulo.

Il più giovane strinse gli occhi per non pensare ai muscoli che gridavano dal dolore, e si concentrò di più sul manubrio che stringeva; si portò con uno scatto davanti alla bicicletta del compagno di squadra, facendola oscillare paurosamente per sopportare meglio la salita, e testardo come mai niente e nessuno prese a scalare lo Zoncolan, l’ultimo monte della tappa.

Lucci, dietro di lui, si rilassò nel tentativo di riservare le energie: davanti a lui, Kaku avrebbe fatto da “traino”, aiutandolo a non sforzarsi per arrivare fino al sorpasso, ma dopo quel punto stava a lui fare lo sprint finale e combattere contro gli altri ciclisti, che avevano il grande vantaggio di non essere caduti e non essere stati rammendati in fretta e furia.

Le due biciclette, a un paio di metri di distanza, sfidarono quegli ultimi chilometri macinando l’asfalto e il sudore, la pioggia e il sangue, incoraggiati dalla folla di spettatori emozionati da quella prova di coraggio, quel coraggio che solo le situazioni più disperate ed estreme mettono a nudo, scaldando gli animi molto più dei camini le malghe.

Arrivarono al gruppo di testa a soli cinque chilometri dall’arrivo.

 

« La loro corsa finisce qui » commentò Sengoku dallo studio radiofonico. « Cinquemila metri per recuperarli e mantenere il vantaggio: pochi, nelle loro condizioni » disse pessimista.

Ma Monkey D. Garp non era dello stesso parere « Cinquemila metri sono pochissimi, ma per gli avversari: non ce la faranno a recuperare il sorpasso »

 

E come se, a distanza di chilometri, Kaku li avesse ascoltati, si voltò per scambiarsi uno sguardo con il compagno di squadra: ormai le gomme avversarie erano davanti a loro, a pochi metri. Oltre, la vetta.

Il giovane tirò fuori tutte le energie che gli rimanevano, serrò i denti e si calò il casco sugli occhi per ripararsi dalla pioggia, e la sua bicicletta aumentò i giri delle ruote, le marce scalarono tra grasso e acqua, e mangiò la distanza in meno di due minuti.

I ciclisti avversari, sentendosi il sale sulla coda, serrarono i ranghi per impedire loro di passare ma, al primo tornante, Kaku studiò i loro movimenti e con una virata azzardata quanto improvvisa si portò dall’altro lato della strada, mise ancora più carbone nel suo motore, e preparò il sorpasso a Rob Lucci.

E quando ormai gli avversari si sentivano al sicuro, Kaku abbandonò il colpo e si rilassò sul suo telaio: aveva esaurito il suo compito. Ma dietro di lui, silenzioso e letale come un leopardo, Rob Lucci presentò il conto a tutti coloro che lo avevano creduto sconfitto: sorpassò il compagno in un muto ringraziamento, e li superò con gli occhi serrati dallo sforzo. Con una forza e una disperazione sovrumana sorpassò il gruppo in fuga e mise tra lui e loro non meno di sessanta metri, rasentando il miracolo. Tagliò il traguardo piegato sul manubrio nel tentativo di reggere la bicicletta e, durante l’ultima frenata, si vide arrivare addosso un fiume rosa di persone in festa. Poi, il buio.

 

 

Sentiva odore di disinfettante e di tè aromatizzato.

Fu quello a svegliarlo, quella strana chiacchierata che facevano nella sua testa confusa quei due aromi così diversi, freddo e micidiale l’uno, caldo e rinfrancante l’altro. Poi arrivarono, uno alla volta, tanti altri dettagli: la sensazione morbida del letto sotto di lui, le coperte che lo proteggevano, le ferite al fianco destro che bruciavano sotto i punti di sutura, le costole spezzate che reclamavano attenzioni a ogni maledetto respiro.

La voce della manager, Khalifa, che parlava a bassa voce accanto a lui. Forse era lei ad avere in mano la tazza di tè, perché l’odore era forte e Rob Lucci lo sentiva incredibilmente vicino. La voce di Kaku era un poco più lontana, stanca. Ogni tanto salivano le preghiere di Kumadori, e i rimbrotti di Jabura che gli ordinava di stare zitto, o li avrebbero cacciati dall’ospedale. Un mormorio dall’altra parte della stanza indicava la presenza di Blueno e di Fukuro, che parlavano tra loro.

Lucci ebbe una strana sensazione di deja-vu, ma non riuscì a spiegarsela.

Non aveva difficoltà a spiegarsi il perché fosse in un ospedale, ricordava abbastanza lucidamente la caduta dopo la discesa, ma quello che lo sorprese fu la presenza del team al completo: perché erano lì? Non l’avevano abbandonato quando era caduto? Ricordava i soccorsi, ricordava che nessuno era venuto ad aiutarlo…

Poi arrivarono altri ricordi…

Quello scemo di Jabura che tentava di aggiustargli la bicicletta fracassata.

Lui sotto la pioggia che raggiungeva il resto del team, che a sua volta stava tornando indietro, fuori strada, per andargli incontro.

Kaku, il fedele Kaku, che aveva scalato lo Zoncolan assieme a lui per portarlo in testa alla corsa.

Maglia Azzurra! aveva urlato qualcuno.

Aprì gli occhi di una fessura impercettibile, fino a mettere a fuoco il profilo di Khalifa, seduta su una sedia al suo capezzale e, poco più in là, quello inconfondibile di Kaku, che doveva essere seduto su un letto parallelo al suo.

Mosse una mano, che rispose immediatamente all’impulso dei nervi (e fu un sollievo), fino a toccare il braccio della donna.

Khalifa si voltò subito, e si aggiustò le lenti sul naso. « Questa è molestia sessuale » disse severa.

« Si è svegliato?! » saltò subito su la voce di Jabura.

« YOOOYOOOI!!! LA PREOCCUPAZIONE ALBERGAAAAVA NEI NOSTRI CUOOORI!!!! » pianse Kumadori.

Lucci li ignorò deliberatamente e si rivolse alla libanese: « …ho vinto? »

« Chapapa, sei il conquistatore delle Dolomiti! » festeggiò Fukuro saltellando per la stanza e brandendo un trofeo ambito: una maglietta del colore del mare.

La maglia che Lucci aveva vestito per la prima volta sull’Etna e, adesso, anche sullo Zoncolan.

« Hai vinto la tappa, la federazione ha confermato il risultato nonostante tutta l’avventura » gli disse Khalifa, senza permettere che nessuno andasse a far caciara nelle vicinanze del letto. « Non sei stato aiutato da nessuno e hai rispettato tutte le regole, la tappa è tua. »

Lucci si lasciò sfuggire qualcosa che somigliava vagamente a un sorriso, ma chiuse gli occhi e tornò subito serio. Poi chiese ancora: « Kaku dov’è? »

« Sono qui! » rispose il diretto interessato dal suo letto.

Era arrivato quinto, ma era comunque una mezza vittoria aver tagliato il traguardo perché, si era scoperto dopo l’arrivo, le fasciature avevano ceduto e poco ci era mancato che morisse dissanguato sul traguardo, come una macabra versione della corsa di Fidippide. L’avevano messo sull’ambulanza raccogliendolo con paletta e scopino, gli avevano cucito di nuovo tutte le ferite, che per lo sforzo si erano riaperte in barba ai punti, e gli avevano fatto una trasfusione. Adesso stava grosso modo bene, divideva la stanza con il suo compagno di ventura, e l’avrebbero dimesso in capo a due giorni al massimo.

Per Lucci forse la faccenda sarebbe stata più complicata: non solo il sangue perso e la caduta, ma c’erano delle costole incrinate che avevano avuto la brillante idea, durante l’ultima caduta, dopo il traguardo, di conficcarsi in un paio di organi per pepare un po’ il quadro clinico del loro proprietario.

Nulla di mortale, soprattutto nelle mani della dottoressa Caro Vegapunk che si era occupata di loro nell’ospedale più vicino, però…

« Mi dispiace molto » ammise la formosa donna, entrando nella grande camera dov’erano ricoverati Rob e Kaku, alla presenza dell’intero team « ma non posso permettervi di correre ancora il Giro. »

La notizia, che si aspettavano tutti, fu accolta con il silenzio. Kumadori si soffiò rumorosamente il naso, Kaku chinò la testa.

Ma la notizia peggiore non era quella: nella stanza, con la dottoressa, era entrato anche il padrone del team, il signor Spandam. Era furibondo.

Si voltò verso la dottoressa Vegapunk e domandò, incredulo e arrabbiato: « Come sarebbe, per loro il Giro è finito!? E i miei soldi? »

Caro Vegapunk lo fulminò con lo sguardo: « I suoi ciclisti sono quasi morti e lei sta pensando agli introiti? »

« Eh no! Loro si sono fatti male, e loro devono rimediare! Non esiste che io ci rimetta per la loro incompetenza! »

Rob Lucci e Kaku, chiamati direttamente in causa, quasi ringhiarono, ma fu Jabura a essere più veloce: saltò dal suo cantuccio e afferrò Spandam per il bavero, sbattendolo contro al muro accanto alla porta.

« Se sono in questo stato è perché gli hai fatto affrontare il Giro d’Italia in condizioni pietose. Siamo l’unico team senza medico, lavoriamo con materiali scadenti, le bici di scorta sono quattro in tutto e quando finisco i ricambi me li devo andare a procurare dai ferramenta lungo la strada! Tu forse credi di giocare, ma qui stiamo rischiando la vita! »

Caro Vegapunk guardava quell’uomo grande e grosso, con i capelli lunghi e le fauci sguainate come un lupo, senza batter ciglio: avrebbe detto lei quelle cose a Spandam, ma non erano affari suoi e le si sarebbe scomposta la piega. Non fece un plissé, per salvare il padrone della squadra.

Spandam, però, ebbe l’ardire di scoccare un’ultima freccia: « Siete licenziati. Tutti. La dottoressa ha detto che per voi il Giro è finito, giusto, dottoressa? »

« Licenziati? » Jabura lo lasciò cadere, e l’omuncolo si accasciò lungo la parete fino a sedersi sul pavimento col cuore a mille per la paura.

 Caro Vegapunk inorridì per essere chiamata in causa in modo così subdolo, ma mantenne il suo aplomb: « È vero, ma la prego di riflettere bene su una decisione così importante. »

« CREDI DI INSEGNARMI IL MIO MESTIERE? » sbraitò Spandam.

« Dottoressa Vegapunk » tuonò all’improvviso Rob Lucci dal proprio letto. « Ci lasci da soli. Il team ha bisogno di una riunione in privato. »

Si alzò lentamente dal letto e zoppicando, solo col pantalone di tuta addosso e i capelli sciolti sulle spalle, arrivò accanto al meccanico.

Caro Vegapunk uscì dalla stanza sbattendo la porta, stizzita.

« Eheheh, che vorreste farmi? » rise nervosamente Spandam, davanti a quei due uomini palesemente assetati del suo scalpo. Si riparò la testa tra le mani e cominciò a piagnucolare: « Vi denuncio se osate toccarmi! Non potete farlo! Io ho il diritto di licenziarvi, mio padre mi ha det-

Rob Lucci aprì la porta della stanza. « Vattene » disse solamente, secco.

Spandam abbassò le braccia e lo guardò incredulo.

« Vattene subito » ripetè il ciclista « Ci hai appena licenziati, quindi non sei più il capo. Esci da questa stanza. E non ti azzardare a tornare. »

Quando la porta si chiuse, tutti tirarono un sospiro di sollievo: il Giro era finito, per loro, ma anche la collaborazione con quel capo incapace e irriconoscente per tutti gli sforzi che loro avevano fatto per arrivare fino in cima al tetto d’Italia.

 

 

Khalifa aveva ordinato acqua calda per tutti, per mettere in infusione i suoi tè e rinfrancare lo spirito del team. Ex team, ma ormai nessuno sapeva più bene cosa fare, e si erano riuniti nella stanza di Rob Lucci e di Kaku per fare il punto della situazione e decidere cosa fare nelle prossime ore. I due ciclisti miglioravano, Kaku sarebbe stato dimesso in giornata, Lucci forse avrebbe rallegrato la vita alle infermiere col suo fisico possente e l’aria da bel tenebroso per ancora qualche giorno, ma in generale dava segnali positivi.

Era sera tardi, si era conclusa anche la quindicesima tappa, la prima a cui il loro team non partecipava.

Jabura aveva una radiolina, e loro pendevano dalle notizie date dall’emittente britannica, commentate dalle voci simpatiche del radiocronista Sengoku e dal gagliardo ciclista in pensione Monkey D. Garp. Oltre alla radiocronaca del Giro, sulla bocca dei giornalisti c’era sempre lui, il team CP9 (ormai, specialmente le emittenti non italiane, non pronunciavano mai il nome per intero, ritenendolo troppo lungo e complicato), così promettente e così sfortunato.

« La nostra storia ha emozionato molto il pubblico, sembra » commentò Kaku sfogliando gli articoli non solo di Gazzetta e Corriere dello Sport, ma anche i quotidiani nazionali che non si occupavano prettamente di agonismo.

Gli occhi di Kumadori si velarono di lacrime e declamò: « Sono le imprese eroiche a infiammare i cuori dei popoli… vedere uomini così coraggiosi, e così abbandonati dalla buona sorte… è questo che commuove gli animi che da oltre un secolo ammirano sognanti le curve del Giro d’Italia »

« Chi se ne importa » sbottò Rob « Tanto siamo fuori, non si può fare più nulla »

« E per fortuna i medici hanno impedito l’accesso ai giornalisti » commentò Kaku. « Quello che abbiamo fatto è ordinaria amministrazione, e non ho proprio voglia di rispondere a domande invadenti »

Lucci annuì, mostrando la propria completa adesione in merito.

L’unica estranea ammessa, quella sera, era stata la ragazza della moto gialla, tornata in auto da loro dopo aver saputo del licenziamento in tronco.

« A proposito » le disse Blueno « Tu non dovresti seguire il Giro? Che ci fai ancora qui? »

La ragazza continuò a mescolare il miele nel tè alla vaniglia e cioccolato, e poi rispose: « La tappa di oggi era ancora in Friuli » spiegò « È finita a Sappada, che è a pochi chilometri da qui. Per questo sono venuta a salutarvi, domani si riparte… c’è la Trento-Rovereto a cronometro »

« Perché non li molli, e rimani qui con noi? » la stuzzicò Jabura inzuppando un biscotto al cocco nel tè della ragazza.

Lei sorrise « Perché adoro seguire il Giro, è quello che volevo fare fin da bambina. » disse orgogliosa « E poi perché è l’unico lavoro che ho trovato. Ma purtroppo finirà con il Giro »

Kaku sospirò amaro: « Quella sarebbe stata la tappa perfetta per me » quasi completamente in piano, fatta apposta per le schegge impazzite come lui che sembravano volare in sella.

Lucci e Khalifa stavano per ribattere, quando all’improvviso si sentì bussare alla porta bianca della stanza. I presenti si guardarono tra loro: non aspettavano nessuno, e medici e infermieri non bussavano mai, entravano direttamente.

« Avanti » fece Rob Lucci.

« È permesso? » nella stanza entrò una donna alta, molto elegante e distinta, dai lunghi capelli neri, il naso sottile e gli occhi azzurri. « Buonasera. Il team Coppi-Pantani 9? Mi chiamo Nico Robin, mi manda questo signore qui… » si presentò, mostrando un bigliettino da visita lucido e sontuoso, sul quale c’era un nome molto importante.

« Che cosa vuole? » chiese Rob Lucci, schivo e diffidente.

Nico Robin, fasciata in un’elegante tailleur grigio e riparata da un lungo cappotto di lana con la cintura in vita, sorrise gentile e si guardò attorno. « Chi è il leader del team, adesso che l’amministrazione precedente si è ritirata? »

Istintivamente, tutti si voltarono verso Khalifa, che era la loro manager, ma lei a sua volta guardò verso Rob Lucci, e gli sguardi di tutti conversero sull'uomo nel letto. Nico Robin incrociò lo sguardo ferreo dell’uomo e gli rivolse una proposta: « Siamo rimasti molto impressionati dalla vostra impresa: il mio boss vi propone una sponsorizzazione per il Tour de France. »

Parlarono a lungo. Discussero persino in presenza dei medici che volevano cambiare le fasciature ai pazienti.

Negoziarono mille clausole e ne aggiunsero altrettante, per due giorni a seguire, persino mentre Kaku firmava le carte delle dimissioni. Khalifa offrì molto altro tè, Kumadori si commosse, quei giorni piovosi furono densi di emozioni.

 

 

Monkey D. Garp scoppiò a ridere.

« Non è divertente, Garp » lo rimbeccò Sengoku « Un uomo è finito all’ospedale con diverse ossa rotte, si chiama “aggressione per futili motivi”! »

« Non sono “futili motivi” » tuonò Garp « Il proprietario del team è tornato sui propri passi dopo aver saputo della sponsorizzazione milionaria, ed è stato giustamente pestato da Lucci e dal suo meccanico. Ha avuto quello che si meritava, il vero reato era stato farli gareggiare in quelle condizioni! »

« Comunque sia » cambiò argomento Sengoku, parlando al microfono « Sembra che sentiremo ancora parlare del team CP9: sì, perché non si chiama più Coppi-Pantani. Hanno deciso di togliere i nomi dei due ciclisti italiani. La spiegazione è che sembrava un nome pretenzioso, per dei novellini come loro, ed era stato scelto dal vecchio proprietario della squadra. Un modo per tagliare i ponti »

« Sicuramente » ammise Garp « Adesso possiamo dirlo con precisione… il team CP9 non è caduto allo Zoncolan: è nato sullo Zoncolan! E il prossimo imperdibile appuntamento per vedere in azione questa squadra sarà a luglio: il Tour de France li aspetta, il team ha appena confermato la sua presenza a Parigi! Per oggi, da Garp e Sengoku è tutto! Grazie per essere stati con noi, e buonanotte! »

 

 

 

Dietro le quinte...

Grazie per aver letto questa storia! Spero vi sia piaciuta! 

La tappa descritta nella storia, San Vito al Tagliamento - Monte Zoncolan, esiste davvero, anzi... esisterà! È la tappa del Giro che si corre domani, 19 maggio 2018! Se vi va, seguitela... magari riuscirete a vedere Lucci e Kaku tra i ciclisti, o a sentire la voce di Jabura che li insulta!

Anche tutti i nomi citati sono realmente esistenti... come la storia di Fiorenzo Magni che taglia il traguardo nonostante varie fratture e quella di Fausto Coppi, il più giovane ciclista a vincere una tappa. La Maglia Azzurra, vinta da Lucci, viene data ai ciclisti che vincono le tappe di montagna, mentre Kaku vince spesso la Maglia Bianca, assegnata al miglior ciclista più giovane.

Qualcuno ha riconosciuto il ciclista vincitore della precedente tappa? "un omone alto dai capelli neri e ricci; aveva la fama di essere pigro e svogliato, ma sembrava stare perfettamente a suo agio tra i ghiacciai alpini"? È Aokiji! Come potevo non mettere in una storia ambientata in sella alle bici, l'unico effettivo ciclista di One Piece?

I versi iniziali che introducono il titolo, invece, vengono dalla sigla del Giro del 1996, quella cantata da Marco Pantani, che quell'anno ebbe un infortunio e non potè correre.

Anche la vecchia bici verde che usa Jabura è di una marca, "Girardengo", che esiste davvero, e che prende il nome da un altro campione, Costante Girardengo.

Caro Vegapunk è un personaggio che appare spesso nelle mie storie, ed è la figlia di Vegapunk. Qualcuno forse avrà riconosciuto anche la ragazza che guidava la moto gialla.

Hattori purtroppo era difficilmente inseribile, ma sono certa che tutti abbiate notato che Lucci ha dipinto un colombino bianco sulla propria bici! 

Credo di aver svelato tutti i "dietro le quinte" della storia... spero vi sia piaciuta, godetevi il Giro e fate il tifo per questo piccolo team di Magnifici Sette ♥ 

Ah, per chi sta seguendo la raccolta "Sette bambini decisamente cattivi"... tranquilli, non mi sono dimenticata! Pubblicherò presto il prossimo capitolo! ♥ Grazie per la pazienza ♥ 

Se vi è piaciuta, per favore, lasciate una recensione! Non leggo spesso di GiroD'Italia!Au, quindi vorrei sapere se l'esperimento funziona o no! 

Un bacione e ancora grazie,

Yellow Canadair

 

  
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