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Autore: Le VAMP    20/06/2018    1 recensioni
[Angels of Death, Pocket Mirror, Mogeko Castle]
Per qualche ragione, quello strano gatto nero volle risponder ai dubbi della giovane Goldia lasciandole lì vari fogli, sui quali vi eran trascritti i racconti diversi di due assassini: l’una comandava strane creature, l’altro invece conviveva sol con bende e cicatrici; ma per quanto poi spettasse reggia ad ella e squallore al falciatore, entrambi si credevano giudici di falsi innocenti. Dov’è allor la differenza tra un terrorista o un dittatore, mi direte, se ciascuno vuole spegnere sia il cervello, che la pulsazion del cuore?
Fu questo che la ragazzina scoprì, di volta in volta, nella sua lettura.
–Dagli studi di Goldia, impegnativi questi per comprendere la ragazza dalle temibili forbici, ecco Moge-ko & Isaac Foster a confronto: poiché terrorismo e dittatura, anarchia ed imposizione, in fondo appartengono alla stessa medaglia–
[“Per strada tante facce non hanno un bel colore,
qui chi non terrorizza si ammala di terrore,
c'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo,
io sono d'un altro avviso,
son bombarolo!”
– Il bombarolo, Fabrizio De André, 1972]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il peccato d’uguaglianza (dalla “Storia della Dittatrice”)

Il mio Pinocchio fragile parente artigianale 
di ordigni costruiti su scala industriale 
di me non farà mai un cavaliere del lavoro, 
io sono d'un'altra razza, 
son bombarolo!

Dopo che Yonaka la base ebbe rivelata al termine della sua lunga avventura, e lei, assieme agli altri, dal castello venne sfrattata e spolverata in un nulla dalle forze dell’ordine locali, Moge-ko s’era ridotta ad essere una comune fuggitiva, in una comune e noiosa società d’umani, come in quel momento scappava dalle divise della polizia che la stava cercando, e lei s’era vista costretta a vestir altri costumi, chinar la testa, e guardare i piedi delle persone.
Doveva confondersi assieme a loro, e quella situazione la fece star ad occhi sgranati e mascella contratta per tutta la mezz’ora –o forse più– che vi si trovò.
Quel pomeriggio era cocente, e picchiava in maniera uguale e conforme, analogo e imparziale, sulle teste di ciascun vivente.
Quelle scarpe, quelle schiene...quelle teste...
Si assomigliavano tutti.
Com’era terribile la società! Come le faceva tirar via due ciocche di capelli, in continuazione, essendo l’unica possibilità del suo sfogo, nel veder tanta conformità e omogeneità: non solo nulla era diverso dal castello dei mogeko, ma non aveva neppure alcun potere di trattar le cose a modo suo, e punire quella vomitevole uguaglianza!
Quelle nuove emozioni si imposero allora su di lei, il terrore derideva la cupa dittatrice che fu, buttando i suoi gloriosi ricordi nel fango, e la costrinsero a cercar un vicolo per sedersi in pace e prender fiato: non le fu difficile trovar un posto a sedere, un gradino di pietra, e non poté far a meno di non ricordare il momento in cui cominciò la sua ascesa alla gloria.
Loro erano tante ragazze, tanti esperimenti prodotti da quegli esserini disgustosi, su ognuna delle quali si sperimentava un ingrediente diverso perché apparissero carine e amabili ai loro occhi; ma con lei fu fatto un errore terribile: quando per errore del cemento le penetrò nel cuore nulla fu come avrebbero sperato.
Anzitutto ella guardava con diffidenza ciascun di loro, sia quando vedeva i loro rotondi capi gialli, e gli occhi sempre chiusi, che parlavan meglio delle loro bocche quando accennavano a strani giochi che avrebbero fatto assieme; e continuava a guardar sempre più perplessa i comportamenti delle altre coetanee, che le assomigliavano tutte, soprattutto dal punto di vista delle carinerie: tutte volevano essere come lei e amar dolci e giocattoli, colore rosa e strambi peluche; eppure ciò per cui la bionda giovane sapeva che non si sarebbe mai abbassata erano quei toni dolciastri e terribilmente acuti e striduli delle fanciulle quando quegli strani cosi –si dicevano chiamarsi tutti “mogeko”, ed erano tutti orribilmente uguali– si rinchiudevano nelle camere con loro, e lei era l’unica a non venir scelta: ma di questo in fondo era felice.
Coi giorni che passavano e ancora non riusciva a comprendere quale fosse il suo nome –veniva ignorata di continuo–, cominciava a divertirsi nel far ricerche e comprendere come risvegliare determinati poteri; e mancava poco per terminar tutti i libri a tali propositi –visto che quasi tutti gli scaffali tenevan tutte riviste poco caste e poco interessanti– e comprese la bellezza di tutte quelle abilità, così diverse, così speciali!
La sua gioia non durò a lungo, poiché un giorno di quelli, mentre consultava forse l’ultimo di quei manuali, venne dichiarata difettosa: avevano intenzione di gettarla via.
Dapprima la paura, poi una nuova collera s’impossessò della gola sua e la spinse a rider mentre indietreggiava: si fermò, e si prese il tempo necessario per goder di quella risata che veniva dal profondo delle sue viscere, e ciascun mogeko che si avvicinasse in quell’istante veniva spazzato via dalla sua scarpa violenta, o da un pugno, finché non la lasciarono fuggire, interdetti, gli odiosi esseri gialli.
Ella era scappata in cucina, pronta per derubarne un bel coltello, affilato e pericoloso, ch’avrebbe affettato qualunque tipo di carne –come quel prosciutto che dicevano d’amare–, ma soprattutto la loro carne.
Intanto uscì, e armata di coltello e di pura libertà cominciò a fare stragi: strappò delle orecchie, e ci preparò una fascia da indossare in testa, e poi ancora andò a cercar ognuna di quelle ridicole concubine nate dalla sua stessa argilla per poterle rispedir laddove erano nate: ridurre la carne a concime per la terra.
Ciascuno di quegli esseri tornava al loro sangue, e soltanto quando quegli sciocchi ne ebbero visto abbastanza disperso per tutto il castello –tra cui quello del loro re, profondamente ferito– decisero di rimaner fitti e in silenzio, accerchiandosi attorno ad ella disperati.
«Chiamatemi Moge-ko, attenzione a dirlo diversamente da voi! Acclamate la vostra regina!» e detto ciò ebbe sollevato la mano incriminata, calpestando cadaveri dei loro compagni.
Notando del silenzio, fu lesta ad ucciderne un altro di quelli; e allora ricevette feste e applausi quando lo richiedeva, agitando da gladiatrice la sua mano assassina.
Quel lato dolce e amabile, fatto di finzione, si sa, l’avrebbe mostrato solo per tentar di tenerli contenti; ma chi si sarebbe voluto battere, sarebbe stato severamente punito.
Oh, come l’amavano tutti! Unica, sola regina; spietata e crudele tiranna! E com’era caduta, ora! No, non si sarebbe divenuta una comunissima “umana”.
   
 
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