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Autore: Lidzard    21/06/2018    4 recensioni
Michifer AU
'' La gente fa caso solamente alle immagini delle cose. Nessuno fa caso alle cose stesse. '' -Kurt Vonnegut Jr.
Lucifer è un soldato, la sua famiglia è radicata nell'esercito da che ha memoria, il suo destino sembra già essere scritto e si arrende ad esso, abbandonando sogni, speranze ed ambizioni in un vecchio cassetto della mente. I colori e le luci svaniscono lentamente, finché non rivede la torre. Nella torre incontrerà un uomo, e la possibilità di un destino diverso, più luminoso, si affaccerà alle porte della sua coscienza. Riuscirà il misteriomo uomo della torre a far tornare Lucifer al suo vecchio splendore?
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Lucifero, Michael
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
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Marchiato


Era insoffribile, inepprimibile.. era come ricevere pugni allo stomaco e coltellate al cuore contemporaneamente. Non parlavo, non ero nemmeno del tutto sicuro di esserne ancora in grado.

Lui mi diceva cosa fare, io obbedivo. Lui mi faceva notare i miei errori ed io mi punivo. Maggiore era la ferocia con cui mi colpivo, maggiore sarebbe stata la sua gratificazione.

Mio padre era un incrocio ambiguo fra dolce e salato, luce ed ombra, bene e male; Galante, bestiale, raffinato, brutale. Egli incuteva timore reverenziale in chiunque incrociasse almeno una volta il suo sguardo, era ghiaccio. A me, che lo conoscevo bene invece, provocava un profondo terrore viscerale. Insoffribile.

Quella stessa mattina mio padre mi diede il buongiorno, accadde ancora, era giusto che accadesse, sapevo che sarebbe accaduto.

Stringevo le labbra fra loro, premendole assurdamente forte, serrando la mascella in un tentativo disperato di frenare ogni rumore gutturale, ogni singolo respiro fuori tempo, tutto il dolore, tutto ciò che mi rendeva umano e vivo. Con amarezza, ci riuscii. Mi ero punito per l'ultima volta.

Ero in piedi per essere giudicato, la corte marziale fu clemente, o forse fu l'impressione che mi diede. Non mi importava, non sentivo niente. Marciai, giurai ciò che dovevo alle istituzioni statali che avrebbero deciso le sorti della mia vita. Marciai ancora. La divisa mi bruciava la pelle.. O forse era la mia pelle a bruciare, e basta.

Stavo per dare prova di ciò che ero, ciò che meritavo di essere, ciò che dovevo essere, per essere considerato un Milton.

Il fuoco liquido della collera ribolliva nel profondo del mio petto, lento. Minacciava di risalirmi in gola. Forse avrei voluto urlare, non lo sapevo con chiarezza. Le divise tutte identiche indosso a ragazzetti tutti differenti, mi resero dolorosamente reo di quanto ero un niente. Non ero un ragazzo come loro, ero solo una divisa ben stirata.

Ma avevo i miei gradi, ero un soldato, avevo il mio onore adesso e non mi sarei più punito.

Ciò che mi fece male, fu lo sguardo d'ammirazione, il luccichío, quel senso di rispetto rivoltomi dai miei coetanei. Quelli erano ragazzi che stavano per fare i soldati, io ero un soldato nato. Tutti loro dovevano aver avuto un'infanzia spensierata, un'adolescenza confusa e caotica. Loro erano ragazzi, io ero sempre stato solamente un soldato.

Nella calca silenziosa e attenta, c'era un generale fra i genitori. Il mio generale mi fissava imperterrito. Tutti erano zitti, ma ero sempre io il più silenzioso.

Mio padre fu messo a tacere dal mio silenzio insistente. Lo vidi vacillare sulla soglia del rimorso, al confine con l'orgoglio. Lo vidi perché era di fronte a me, mentre marciavo. La parata mi costrinse a guardarlo negli occhi. Dopo non lo guardai, neppure per sbaglio.

Non sapevo che le sue punizioni potessero essere la mia forza, ma lo furono. Con amarezza, lo furono. Ed io non dovetti guardarlo mai più.

Quando mio padre morì, ne fui sorpreso, meno che sollevato.

In silenzio, fino al giorno del mio giuramento, pregai un Dio che non c'era di darmi la grazia. Pregai che morisse in fretta, nel mio silenzio insolente, il respiro profondo e rotto, nel buio della soffitta, l'unica stanza in cui mi sentivo al sicuro in casa mia. Ma lui non moriva. Si rialzava ogni mattina sempre meno docile, sempre meno gentile..

Pregai che morisse e non succedeva mai, fino al giorno in cui, vuoto ed insofferente varcai le soglie di quella casa per l'ultima volta. I muscoli della schiena dolenti ed imploranti pietà, reduci dell'ultima benedetta punizione.

Cosa avrei dato per non doverlo più guardare negli occhi.

Ma accadde, poi morì. Dopo la parata, rintanato nel mio posto sicuro, la stazione ferroviaria, inconsapevole della sua dipartita, pregai che non si facesse mai più vivo.

Che infortunato caso. Era già morto. Sorrisi al realizzare che era accaduto quando ormai non mi tangeva più nulla.

Salii in treno ancora. Di nuovo viaggiavo, ma stavolta senza più pezzi da donare. C'era un ché di familiare, la complicità fra me ed il treno era rassicurante. I treni non parlano ed io non ne ero capace.

Un lampo sfuggente catturato con la coda dell'occhio mi ridestò da pensieri offuscati da macchie di ricordi rossi e azzurri.. o magari dalla semplice contemplazione del nulla, ciò che restava infine di me. Alla fine il generale era morto, non sarei più tornato a casa, più per principio che per dovere.

Forse preso dall'insolito fastidio dell'immobilità voltai il capo verso il corridoio. La coda catarifrangente del pavimento metallico seguí il vagone mezzo vuoto, fino alla curva pieghevole, a fisarmonica, del mezzo rocambolesco e longilineo. Nel vagone mobile sostava una donna reggente un passeggino scoperto. Ivi la creatura dormiente dai morbidi tratti era alla mercé di ogni sguardo.

Vidi entrare una coppia di signori anziani, uno dei due aveva persino un bastone da passeggio. Mi accorsi del cenno rispettoso che mi rivolse.

Ormai ero come mio padre. Persino un dignitoso uomo anziano col bastone si sentiva in soggezione e doveroso di farmi il suo cenno di rispetto. Di nuovo quel timore reverenziale negli occhi. I miei occhi di ghiaccio, i capelli biondo sporco, il vuoto dentro. Lui era morto, ma io ero la sua perfetta copia, realizzai. Non se ne sarebbe andato mai, non prima di avermi fatto questo.  Ero stato marchiato.

Questo mi diede una scossa, simile alla scarica di adrenalina che riverbera nel corpo subito dopo uno schiaffo, inaspettatamente traumatico. Nulla trasparí dal mio viso o dai miei occhi, erano sempre le luci al neon a renderli così rossi e lucidi.

L'uomo distolse poi lo sguardo dal mio, piuttosto velocemente, come c'era da aspettarsi.

Alla fermata successiva salirono altre tre persone, una giovane donna ed il suo fidanzato, un uomo straniero, probabilmente dell'Europa dell'est. Tutti loro poi videro la donna col bambino, non tanto perché era al centro del vagone, ma per l'apprensione con cui assicurava alla creatura nel carrozzino una certa stabilità, nonostante i bruschi movimenti del treno. Le importava della sua stabilità.

La coppietta si mise a sedere due posti avanti rispetto a dov'ero io. Anche i due anziani si sedettero. La donna rimase in piedi, come unico spettatore l'uomo dell'est.

Gli occhi scuri dell'uomo si spostarono dalla donna al bambino, e lì vi rimasero, incantati a seguire ogni minimo particolare dello spettacolo dinnanzi a sé. Il bambino si era appena svegliato, con leggero disappunto della madre, ma non fece un fiato, sbattendo le palpebre sui due grandi occhi ambrati e curiosi, la bocca mollemente schiusa e piccola, simile a un fiore rosso e delicato.

Mi issai dal posto a sedere, scesi in fretta, due secondi dopo il fruscìo delle porte scorrevoli taglió l'aria alle mie spalle.

Ero in un posto mai visto. La stazione era deserta. Alzai lo sguardo in alto a destra, la bella torre era proprio lì, forse ad un paio di chilometri da me. Non seppi perché ero sceso, non sapevo nemmeno di volerlo fare finché il treno alle mie spalle non abbandonò il binario. Cosa stavo facendo?

 

   
 
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