3
Distanze
La
nave che avrebbe riportato Sigyn a Vanheim partì poco dopo
l’alba, o in
qualunque modo si chiamasse quel fenomeno che rischiarava leggermente
il cielo
buio del posto desolato dove sorgeva il comando di Thanos. Loki
Laufeyson non
scese a salutarla. Osservò dalla finestra la sua figurina
sottile che si
arrampicava sul ponte, la lunga gonna scura gonfiata dal vento, la
capigliatura
chiara stretta in un raccolto creato in fretta, invariabilmente
spettinato. La
lasciò andare via senza darle alcun messaggio scritto: si
sarebbe occupato lui
di offrire una risposta al biglietto che gli aveva fatto avere. Del
resto, non
aveva chiuso occhio, quella notte, e non perché lei si era
addormentata
stringendoglisi contro, ma perché doveva elaborare un
responso da dare al
messaggio cifrato. Trovare una strategia, una soluzione adeguata al
disastro
che si approssimava ogni ora di più.
Il
respiro di Sigyn, lento e regolare, non lo aveva aiutato a ragionare in
maniera
lucida e analitica, come invece era necessario facesse. Gli aveva
portato alla
mente altri giorni, altre notti, dolci alla stessa maniera e interrotte
verso
l’alba o subito dopo dallo scalpiccio frettoloso di piedi che
correvano verso
la loro porta, di mani che facevano girare con infinita lentezza la
maniglia,
di teste arruffate e occhi già vispi che si affacciavano
nella stanza.
L’illusione di una normalità che non gli era mai
appartenuta, la necessaria
prosecuzione di una stirpe che avrebbe, alla fine, regnato
sull’impero che lui sarebbe
riuscito a costruire, il caos che si era insinuato nella sua vita
facendogli
concepire dei figli con una donna nonostante le precauzioni prese. Un
colpo
secco alla porta lo riscosse dal pensiero di ciò che aveva
perduto – che aveva
avuto l’ardire di pretendere. Che imperdonabile errore.
Un attendente entrò, si
mise sull’attenti e iniziò a elencare una serie di
dati su confini, armate,
risorse, fiumi. Loki non lo guardò nemmeno. Si tolse
l’elmo dalle lunghe corna
ricurve passandosi una mano tra i capelli scuri. Il momento giusto non
sarebbe
mai arrivato, rifletté. Rispose al sottoposto con voce
incolore poi, con il
pezzo d’armatura sotto il braccio, lasciò la base
e salì su una nave. Un altro
inutile massacro lo attendeva.
Thanos
non lo aveva immediatamente annoverato tra i suoi generali. Lo aveva
lasciato a
marcire in una cella spoglia e lugubre per un tempo che gli era parso
infinito.
L’Ase ricordava ancora l’odore del cibo irrancidito
che assaggiava appena e ingollava
solo per non indebolirsi troppo. Avrebbe potuto liberarsi, allora.
Spezzare i
ceppi che gli serravano i polsi e le caviglie, sollevarsi dal pavimento
disgustoso che, in qualsiasi altra occasione, gli avrebbe fatto
storcere il
naso e provocato un conato, ma non in quel momento. Com’era
stato, cadere dal
Bifrost?
Era
precipitato in un’oscurità senza fondo e aveva
perso cognizione del tempo,
dello spazio, di se stesso. Ma cos’era poi, lui? Una reliquia
rubata, il trofeo
ormai inutile di un padre ipocrita, l’ombra malvista e
compatita di un fratello
brillante. No, Thor non era più
questo, per lui.
Il
dio del tuono era il figlio di Odino; l’ingannatore non era
altro che lo scarto
che Laufey si era vergognato di mostrare al suo popolo. Non aveva una
casa né
un nome che sentiva come proprio. Loki Odinson era caduto dal ponte e
la sua
esistenza era un’enorme bugia, Loki Laufeyson era un reietto
che gli Asi non
volevano e gli Jotunn disprezzavano. In un altro contesto, le prigioni
di
Thanos lo avrebbero disgustato, ma cadendo era rimasto ferito: sulla
sua fronte
alta e regale spiccava un taglio ancora visibile, barbaramente ricucito
con dei
punti malmessi. La sua armatura d’oro e di smeraldo era
graffiata, sporca,
ammaccata, uno degli spallacci era stato completamente divelto.
L’asimmetria dei
suoi abiti rispecchiava, in un certo qual modo, il suo spirito
spezzato,
infranto, privo di scopo.
Com’è
precipitare nel buio infinito delle galassie lasciandosi andare a una
morte
terribile, per asfissia o peggio? Ci si augura di schiantarsi. Che lo
strappo
provocato dal precipitare tra i mondi, attraverso le più
oscure fenditure dello
spazio, finisca e prima o poi ci lasci liberi. Loki non sapeva come e
quando
aveva smesso di cadere. A un certo punto il cielo aveva cessato di
vorticare e,
sbattendo le palpebre, si era accorto che qualcosa era finito. Il
dolore no,
quello era rimasto. Così, nonostante avrebbe potuto
liberarsi dai ceppi, se ne
era rimasto in silenzio, ammaccato e dolorante, con la nuca poggiata
contro la
parete, lo sguardo perso, il mantello ridotto a un inutile straccio, le
sue
insegne sbiadite, scolorite, perdute.
Spezzare
le sue catene non sarebbe servito a niente, questo era il punto: non si
può
organizzare una fuga, se non si sa dove scappare. Così
l’Ase era rimasto a
leccarsi le ferite nella disgustosa cella di Thanos, e mentre il suo
nome e il
retaggio che si tirava dietro stingevano perdendo di significato, aveva
iniziato ad ascoltare. Si apprendono più cose nelle peggiori
bettole e nelle
carceri che nelle sale lussuose delle Corti dei Re. Il dio
dell’inganno lo
sapeva, glielo aveva insegnato Odino quando ancora lo illudeva di poter
ambire
all’imponente trono d’oro di Asgard. Accanto a lui
la gente marciva, moriva, urlava,
supplicava. Loki faceva finta di non guardare nemmeno, ma intanto non
si
perdeva una parola, un sussurro, una bestemmia dei suoi compagni di
cella.
Il
Titano affermava di essere un fautore dell’equità,
si proclamava il portatore
di un concetto migliore di giustizia. La sua scure calava impietosa su
chiunque, salvando uno e massacrando l’altro in base a un
mero calcolo
numerico. Non risparmiava donne e bambini, né si inteneriva
di fronte ai
soldati troppo giovani. Nella pietà che muove il cuore del
guerriero a liberare
uno per uccidere un altro, era nascosto il seme della differenza,
dell’ingiustizia,
diceva. Loki ascoltava, registrando informazioni e nozioni. Thanos era
alla
ricerca di un potere antico quanto l’Universo intero:
dedicava ogni secondo
della sua esistenza a delle pietre, artefatti magici di incredibile
forza
nascosti sotto mentite spoglie. Il destino di chi poteva dargli
informazioni su
di esse, oscillava pericolosamente tra una morte orrenda e un glorioso
prestigio. Oppure, in virtù di una spietata ironia,
contemplava entrambe le
soluzioni. Il dio degli inganni, in silenzio, rifletteva.
Non
era il fratello di Thor né il figlio di Odino né
un Ase. Gli Jotnar trovavano
riprovevole che nascondesse il suo aspetto, gli abitanti di Asgard e
lui stesso
rabbrividivano solo al pensiero che la sua pelle potesse mostrare
l’estranea
sfumatura blu dei Giganti di Ghiaccio. Se l’Universo intero
fosse stato messo a
ferro e fuoco da una guerra, Loki avrebbe scelto di osservarne il
disfacimento
immobile, perché con tutta probabilità non
avrebbe semplicemente saputo da che
parte schierarsi. Era il dio del caos e dell’inganno: portava
entrambi nel suo
petto e non aveva idea di come potersene liberarsene.
“L’Asgardiano,
eccolo.” Uno dei secondini aveva rovesciato con un calcio la
ciotola dove era
costretto a ingurgitare la sua brodaglia. Loki aveva osservato il
recipiente
capovolgersi, oscillare e poi cadere a terra vibrando. Gli stivali di
Thanos
erano di ottima fattura, decise.
“La
tua casa è lontana, molto lontana. Che ci fai
qui?”
Aveva
una voce possente, cavernosa, grave. Rifletté sulla risposta
da dare, vagliando
con attenzione ogni possibilità. Si accorse di avere le
labbra screpolate,
secche, riarse. Forse era malato. Si sforzò di deglutire, e
gli vennero in
mente tutte le volte in cui si era presentato di fonte a futuri alleati
e
avversari con lo spirito gonfio di tutta la tracotanza degli Asi cui
credeva di
appartenere. Di quella baldanza, ormai, non gli restava più
nulla – solo
briciole, anzi vaghe ceneri che il vento avrebbe finito per spazzare
via.
“Sono
stato bandito. Dovevo essere re,” aveva spiegato aggrottando
la fronte ferita.
Alzò gli occhi su Thanos, soffermandosi sul colore violaceo
della sua pelle,
sullo sguardo nero e cattivo che intravedeva sotto le palpebre gonfie.
Non
aveva ancora delineato il piano giusto da seguire, e sentiva il cuore
martellargli nel petto, l’adrenalina pompargli nelle vene. Il
Titano avrebbe
potuto ucciderlo lì, seduta stante, oppure condannarlo a una
lenta e infinita
agonia: occorreva solamente scegliere come era più opportuno
morire, rifletté,
e il pensiero riuscì a strappargli un moto di bieca
soddisfazione; sarebbe
stata la sua ultima sfida e, qualsiasi cosa fosse successa, avrebbe
venduto
cara la pelle. Non gli restava che quello, del resto: riuscire a morire
con un
onore che solo lui avrebbe conosciuto, da guerriero.
“Ma
che onore. Nelle mie carceri ospito persino un mancato Re,
adesso!” Il Titano
rise. Aveva i denti di un bianco innaturale, scintillante, spaventoso.
“E
dimmi, qual è una buona morte, per un asgardiano?”
“Asi,”
soffiò il dio dell’inganno.
“Asi è il nostro
nome.” Spiegare a Thanos cos’era lui, davvero, non
aveva alcun senso, era una
perdita di tempo, una storia che Loki non voleva nemmeno raccontare. Le
parole
erano sempre fluite dalla sua bocca in maniera spontanea e allo stesso
tempo
potente: dicevano che le sue frasi fossero capaci di incantare che le
ascoltasse, confondendo e convincendo, ma qualcosa gli
suggerì che quell’arma
affilata stavolta non lo avrebbe aiutato.
“Dicono
che ad Asgard ci sia una delle Gemme che cerco,”
proseguì l’altro. Gli occhi
verdi del dio dell’inganno si dilatarono appena. Percorse
mentalmente la Sala
delle Reliquie, domandandosi con terrore dove potesse essere stata
nascosta la
preziosa quanto maledetta gemma, odiandosi per il tremore sottile che
lo
avvolse al pensiero che la terra che aveva chiamato casa per una vita
intera
fosse sull’orlo del collasso. Eppure così era.
Deglutì e ammise di non sapere
nulla sperando di risultare credibile, sincero. Aggettivo che non gli
si addiceva,
su cui aveva sempre ironizzato quasi tetramente, sostenendo fiero come
non
esistesse una sola realtà univoca e inequivocabile, ma
molte, infinite. Se la
verità non esisteva, allora tutto era finzione e menzogna
– e lui di ogni cosa
era il signore.
***
Ci
sono storie che non posso essere raccontate, spiegazioni che non vale
la pena
di dare, ammissioni che solo il nostro cuore deve conoscere e
custodire. Sigyn
stringeva tra le dita sottili il trattato firmato da Loki, e le
sembrava che il
solo contatto con la pergamena spessa e robusta potesse, in qualche
modo,
restituirle il marito. Sentiva ancora il tocco delle sue labbra
beffarde sulla
pelle. Una nostalgia feroce avrebbe dovuto agguantarla alla bocca dello
stomaco
impedendole di respirare, invece era lì, seduta sul trono,
sorridente e
attenta, almeno all’apparenza. Si era preparata ogni parola
del discorso che
avrebbe dovuto fare di fronte al Consiglio dei Nobili (1). Era riuscita
a
riportare nella sua terra se non la pace, almeno la speranza di vivere
in condizioni
migliori. L’acciaio dei Nani era indispensabile per la
ripresa dell’economia di
Vanheim. La sua voce risuonò chiara e limpida, ma la giovane
regina lasciò
quasi immediatamente lo scranno di legno intarsiato su cui si era
seduto per decine
di anni suo nonno Njord per camminare avanti e indietro spiegando e
illustrando,
come era solito fare Loki.
Una
volta gli aveva chiesto perché misurasse con ampie falcate
la sala, muovendosi
tra i banchi dove erano seduti i nobili. L’ingannatore
l’aveva fissata un
momento. Era immerso nella vasca e lei lo stava aiutando a lavarsi
perché il
suo braccio era ancora steccato e fasciato dopo lo scontro con Thor(2).
Erano
sposati da pochissimi giorni, e le strade di Vanheim ancora mostravano
appesi i
festoni floreali con cui i Vanir avevano celebrato la loro unione.
Sigyn era
seduta sul bordo dell’ampia vasca e gli stava insaponando i
capelli scuri, la
spalla sana e ben scolpita.
“Per
guardarli negli occhi, da vicino,” aveva risposto Loki con
lentezza. “Per
capire le loro reazioni e coinvolgerli nel mio ragionamento.”
Poi, un ghigno
storto gli aveva attraversato le labbra e l’aveva trascinata
nella vasca, con
lui, tra le sue grida di protesta e gli spruzzi d’acqua
insaponata. Il dio
dell’inganno era solito dire che l’amore non
migliorava le persone ma, semmai,
le peggiorava, eppure Sigyn era convinta che l’Ase, durante
il loro matrimonio,
fosse riuscito a darle più di quanto non avrebbe ammesso.
Rispondendo alle sue
domande, svelando le ragioni di certe sue azioni, l’aveva
inconsapevolmente
preparata al ruolo che sarebbe andata a ricoprire.
Qualcuno,
nella Sala del Consiglio, applaudì fragorosamente quando la
regina smise di
parlare, molti le sorrisero soddisfatti. Altri, forse, si chiesero il
prezzo di
quella concessione lasciando scivolare gli occhi sulla figura snella
della
donna. Era opinione di una fetta sempre più ampia della
nobiltà Vanir che Sigyn
dovesse convolare a nuove nozze.
Lei
lo sapeva. Percepiva gli sguardi indagatori come era al corrente delle
chiacchiere che giravano nel palazzo. Rientrando nelle sue stanze
accompagnata
dalle sue ancelle, lasciò che una mano le scivolasse sul
seno in cerca della
collana su cui aveva appeso il suo anello; un talismano in cui Loki,
bugiardo e
astuto com’era, aveva racchiuso chissà che rune
potenti.
Freyr
le si accostò e subito le ancelle si scostarono. Aveva
un’aria sfatta,
disordinata, stanca, e i segni della malattia che gli rodeva il fegato
erano
ogni giorno più evidenti. “Stringi una nuova
alleanza con un buon matrimonio. È
quello che il Consiglio vuole,” suggerì.
L’ampio corridoio era fiocamente
illuminato dalle torce e Sigyn lo aveva percorso troppe volte in
compagnia di
Loki. In alcune occasioni erano rimasti in silenzio, ognuno
sdegnosamente
chiuso con i suoi pensieri, in altre lei gli aveva cercato la mano e
aveva
incrociato le dita con le sue.
“Ho
dato a Vanheim degli eredi, mi occupo della sua prosperità.
Non ho bisogno di
una nuova unione,” replicò asciutta, offesa.
Freyr
scosse il capo. “Non tornerà. Possibile che tu non
capisca? Le Norne hanno
deciso per lui una morte da guerriero, sul campo di battaglia. La tua
fedeltà
nei suoi confronti è sciocca e inutile, Sigyn. Il vincolo
matrimoniale è
spezzato e tu sei la regina di Vanheim. Ogni tua azione dovrebbe essere
tesa a
questo, non nel vagheggiare un traditore che morirà
soffocato dal suo sangue.”
Sigyn
si fermò. L’immagine evocata da suo zio le si
stampò nella mente con tutta la
sua forza, e la cosa peggiore, la più ingiusta e inevitabile
di tutte, era che
dietro la sua battuta crudele si nascondeva una probabilità
per nulla
ventilata. E lei non poteva fingere d’ignorare che esistesse
una simile
eventualità, per quanto orribile fosse. Strinse le labbra,
non cercò il suo
sguardo. Se lo avesse fatto, suo zio Freyr avrebbe visto che aveva gli
occhi
lucidi e si stava contenendo appena.
“Non
tutte le regine hanno bisogno di un re, per governare. E il destino
dell’ingannatore è quello che lui si è
scelto, ma la sua sorte non potrà mai
essermi indifferente e, se riavremo l’acciaio, è
perché lui me lo ha concesso.”
Era stata brusca. Si maledisse mentalmente per aver lasciato vibrare la
voce
mentre si riferiva a Loki, per averlo difeso sebbene lui non ne avesse
alcun
bisogno, anzi. Se qualcuno, nei Nove Regni e oltre, avesse sospettato
che l’Ase
stesse intessendo un pericoloso doppiogioco nei confronti del Titano in
persona, la sua fine sarebbe stata orribile, orrenda oltre ogni dire. A
questo
Sigyn pensava le notti in cui non riusciva a dormire, e a quello che
avrebbe
dovuto dire ai suoi figli il giorno in cui l’intrigo sarebbe
stato svelato. Quando
finalmente entrò nelle sue stanze, sorrise per la prima
volta da quando aveva
lasciato il dio degli inganni. Il suo letto era occupato.
“Dovresti
già dormire, signorina,” disse con un tono
fintamente serio.
Sonje
alzò gli occhi grigi dal libro che stava leggendo.
“L’impiastro non voleva
addormentarsi,” spiegò gettando
un’occhiata laterale e breve alla testolina
bionda e arruffata che spuntava da sotto le coperte. Sigyn si sedette
sul
letto, accarezzò i capelli chiari del figlio più
piccolo e diede un bacio sulla
fronte alla maggiore.
“Non
è un impiastro, non mi piace che usi quella parola, lo
sai,” la redarguì.
Sonje
per tutta risposta arricciò le labbra in un broncio che le
ricordò
dolorosamente Loki. “Si è fatto male durante la
lezione di equitazione e ha
frignato, mamma, ha frignato come mai nessun Ase avrebbe fatto. Se
papà e zio
lo avessero visto, loro…” Si
interruppe,
aggrottò la fronte. “L’hai
visto,” mormorò.
Non
era una domanda, ma un’affermazione. Una di quelle analisi
precise e pungenti
cui non si può mentire. Sigyn annuì e
iniziò a spogliarsi con lentezza,
raccontandole come il dio dell’inganno stesse bene e si
preoccupasse per lei,
per tutti loro.
Sonje
annuì e quando sua madre si stese accanto a lei e al
fratellino, si sporse per
giocare con la bella collana che portava sempre indosso, infilando il
dito
sottile nell’anello magnifico che una volta,
quand’erano felici, vedeva
scintillare all’anulare di Sigyn. Perché con il
suo intuito di bambina non
poteva non accorgersi che l’assenza di suo padre faceva male,
a sua madre,
quanto le rare e sporadiche occasioni in cui lei riusciva a vederlo o
ad avere
sue notizie. Si sforzava disperatamente di non piangere ed essere
sempre
allegra, sicura e presente per lei e suo fratello, ma qualcosa dentro
sua madre
si era spezzato, infranto, rotto. E Sonje quella tristezza mascherata
da altro
la trovava terribile, insopportabile. Era il velo che oscurava tutto il
resto,
anche le occasioni più liete: quando c’era il
Solstizio, ad esempio, sua madre
preparava ancora i biscotti al miele della tradizione con lei e Vali,
ma le
mancava l’impazienza con cui sostava davanti al forno in
attesa che si
cuocessero e non le brillavano più gli occhi come quando li
porgeva a suo
padre, sobbarcato di scartoffie, intento a leggere o ad allenarsi. (3)
“Tornerà.
Qui ci siamo noi. Te lo ha detto, vero?”
S’imbronciò infilandosi finalmente del
tutto sotto le coperte, ansiosa di ottenere una risposta impossibile
che
avrebbe reso di nuovo la sua famiglia felice, serena. Un desiderio
legittimo
che Sigyn colse e che fece nascere nel suo petto un senso di colpa
enorme,
grandissimo. I suoi bambini non erano felici; sentivano la mancanza di
Loki, e
lei non poteva parlargli di trame complesse e doppi giochi,
perché una frase
sbagliata uscita per errore dalle loro bocche avrebbe potuto
pregiudicare per
sempre la libertà dei Nove Regni e la vita di Loki e Thor
stessi.
“Vorrebbe
tornare, ma non può. Lo sai. Thanos ha bisogno di
lui,” mentì. Il Titano
consentiva a suo marito di vivere perché ancora necessitava
dei suoi servigi,
ma nessuno è davvero indispensabile, l’ingannatore
glielo aveva detto mille
volte con quel suo sorriso sbieco e laterale, beffardo e triste allo
stesso
tempo.
“Non
vuole.” Vali si era svegliato a causa delle loro voci. Si
alzò a sedere
strofinandosi i begli occhi verdi, assonnato e con
quell’irritazione propria
dei bambini quando sono stanchi, esausti. Con aria tragica e in
perfetto
silenzio, tirò fuori dalle coltri la caviglia fasciata,
osservandola con aria
critica. Loki era un’ombra alta e severa che lo fissava con
troppa attenzione e
che non giocava con lui né lo abbracciava. Un fantasma che
non ricordava, un
sogno destinato a sbiadire non appena aveva l’ardire di
toccarlo. Un’assenza,
un vuoto che, dall’alto dei suoi sei anni, non sapeva
esprimere a parole ma che,
pure, sentiva. Al contrario di sua sorella, Vali non ricordava i
solstizi
passati con il genitore, né aveva una traccia di quello che
era stata la sua
famiglia prima che Thanos guardasse con avidità ai Nove
Regni. Loki era la
ragione per cui Sonje a volte si scocciava della sua presenza, il
motivo per
cui il sorriso di sua madre era venato da una nota di tristezza, forse
era
persino la causa principale delle lunghe assenze dello zio Thor.
Incapace
di comprendere appieno la complessità dello scacchiere
politico in cui era
immerso assieme a tutti gli altri, Vali provava, nei confronti di suo
padre,
un’attrazione mista a repulsione. Non c’era la
prima volta che era salito a
cavallo, mesi prima, come non era presente durante il suo primo
allenamento o
quando si era tuffato stringendo le ginocchia al petto dal molo del
lago. Non
c’era e avrebbe dovuto esserci, così come, allo
stesso tempo, era una fortuna e
un dolore che non avesse assistito alla rovinosa caduta di quel
pomeriggio e al
pianto disperato che ne era seguito. Nelle rarissime occasioni in cui
la sua
figura fiera compariva all’improvviso dentro le mura del
palazzo, Vali fuggiva
i suo occhi indagatori e rispondeva alle sue brevi domande con dei
monosillabi,
fissando il pavimento. Gli faceva paura, lo terrorizzava. Gli abiti
scuri, la
corazza di pelle intrecciata e le insegne scarlatte che gli decoravano
il
mantello, lo facevano apparire come il personaggio malvagio di qualche
fiaba,
anziché l’eroe (4).
Vali
sentiva che avrebbe dovuto vergognarsi del suo timore e di quei
pensieri, ma
gli era capitato più di una volta di ascoltare ancelle e
domestiche parlare di
suo padre. In silenzio, nascosto sotto a un tavolo o dentro a un
armadio, le
aveva sentite discorrere di come ora che era un Generale del Titano
Loki fosse,
in definitiva, quello che era sempre stato: un condottiero sagace e
astuto
bravissimo a salire sul carro del vincitore, a cui interessava solo ed
esclusivamente la salvaguardia della propria pellaccia. Parole, di
nuovo, che
non poteva comprendere appieno perché conosceva solo
vagamente le storie che
riguardavano suo padre, e persino il nome che si tirava appresso,
quello di dio
dell’inganno, aveva un’eco pomposa e difficilmente
comprensibile. Che
significava, esattamente quella parola, inganno?
Che suo padre mentiva per ottenere un
vantaggio. Questa era stata la spiegazione imbarazzata dello
zio Thor.
Quando
giocava con gli altri bambini, al primo problema o disputa spesso
veniva
isolato perché, probabilmente, era un voltafaccia
traditore come suo padre. Sebbene il senso del termine
voltafaccia gli
sfuggisse, l’altro gli era tristemente noto. Ogni volta che
lo sentiva,
scattava e perdeva il controllo buttandosi a capofitto in risse che lo
avrebbero visto inevitabilmente uscire come perdente. C’era
qualcosa di tragico
e commovente, nella disperazione con cui Vali si lanciava in difesa
dell’oscuro
e ambiguo Loki che, di fatto, lo aveva abbandonato. Era forse
l’unico elemento
che lo accomunava alla sorella, ma mentre quella parola, traditore,
aveva su di lui l’effetto di uno schiaffo in pieno viso
e pesava come un’onta terribile, Sonje se ne faceva un vanto.
Alzava il mento
fiera, se qualche ragazzino le ricordava il gesto del loro genitore,
ammettendo
a viso aperto quel comportamento e, anzi, beandosene.
“Io
sono la figlia del dio dell’inganno. Un principe, un re che
non ha paura di
nessuno e ti convincerebbe a fare qualsiasi cosa solo fissandoti. Lo
sai che ha
combattuto contro gli Asi e ha vinto? Lo sai che è evaso da
ogni prigione? Se
ha tradito è per permettere a insulsi bambini col moccio
come te di vivere,”
concludeva incrociando le braccia, severa e regale.
Vali
non sapeva dire dove Sonje trovasse quell’incrollabile
fiducia in Loki perché
lei stessa non glielo diceva, preferendo chiudersi in camera con i
libri di
magia che capiva a malapena, sforzandosi di apprendere una materia
oscura che
forse non le apparteneva come sperava. Voleva diventare brava con il
seiðr
almeno quanto Loki, ma per il momento non era riuscita a creare un solo
incantesimo. Così, dato che Sonje non voleva parlare con lui
del loro padre, la
sua mamma era spesso costretta a lunghe assenze a causa degli impegni
di regina
e Thor era una presenza effimera quasi quanto il genitore stesso, Vali
cercava
nella solitudine le risposte alle sue domande. Silenzioso
com’era, ascoltava e
spiava e pensava. Così aveva trovato la chiave dello studio.
Una
stanza proibita, chiusa da anni, dove nemmeno sua madre metteva mai
piede. Non
davanti a lui, almeno. Il fascino esercitato dallo stipite serrato era
stato
troppo forte perché vi potesse resistere e, del resto, Sonje
ripeteva sempre
che loro due erano mezzi Asi e gli Asi non avevano paura di nulla.
Vincendo il
terrore che invece lo avvolgeva, deglutendo aveva infilato la chiave
nella
toppa e poi girato. Eccolo, lo studio di mago di suo padre, il posto
proibito.
Vali non lo ricordava, ma in quella stanza ampia e buia lui e sua
sorella
avevano giocato ed erano entrati correndo e sgambettando in cerca di
quella
figura ormai assente, sfumata eppure indimenticabile.
Con
il cuore che batteva all’impazzata, il bambino si era messo a
osservare e
sfiorare con le sue dita piccole e infantili le pergamene vergate
fittamente,
la poltrona di pelle dove Loki studiava e rispondeva alla
corrispondenza, il
dorso di alcuni libri di magia. Oggetti misteriosi di cui non capiva il
significato e a cui non diede particolare importanza, finché
non la vide. Vali non sapeva come
si
chiamasse quella fascia di cuoio e pelle, ma capì
immediatamente che doveva
trattarsi di un pezzo dell’armatura di suo padre. La
sollevò circospetto,
accorgendosi del suo peso, soffermandosi sulla placca dorata su cui era
inciso
un serpente marino. Decise di tenerla per sé. La
portò via dalla stanza e la
nascose dentro a una scatola che conteneva tutti i suoi tesori
più preziosi,
senza immaginare che quella era la bandoliera che Loki indossava ad
armacollo.
(5)
Fu
Thor a spiegargli cosa fosse e a mettergliela addosso con un sorriso un
po’
mesto, svelandogli l’esistenza di una tasca nascosta in cui
era rimasto
custodito un sottile coltello. Nelle sue brevi visite, non mancava mai
di
portare a lui e a Sonje un dono e svelare qualche trucco per tenere per
più
tempo il respiro sott’acqua o colpire meglio un avversario.
Sì, zio Thor era
divertente ed era bello trascorrere i pomeriggi in sua compagnia, ma
quando
aveva chiesto a sua madre se assomigliasse a suo padre, Sigyn aveva
scosso il
capo in fretta dicendo che no, le somiglianze erano ben poche.
***
Controllò
due volte le indicazioni nel biglietto stropicciato che stringeva tra
le dita,
prima di entrare. Con una smorfia schifata, si domandò come
potesse aver scelto
un posto tanto fetido per il loro appuntamento. Non era da lui,
rifletté
osservando con aria critica la bettola sporca e maleodorante. La
maggior parte
degli avventori era ubriaca fradicia, quelli che ancora erano svegli,
invece,
con tutta probabilità erano tagliagole e ladri decisi a
derubare i loro vicini addormentati.
Derubare di cosa era una bella
domanda. Individuò il tavolo giusto, vi si sedette. Il legno
era unticcio. Una
cameriera sfatta e con il viso butterato gli chiese cosa volesse e lui
ordinò
due birre senza togliersi il cappuccio. Quell’idiota non era
ancora arrivato,
ma nulla vietava che potesse materializzarsi all’improvviso
davanti a lui
grazie al seiðr. Gli fu portato da bere: la birra era calda, e
il sapore
pessimo non ricordava nemmeno lontanamente l’idromele che
veniva servito ad
Asgard.
Con
una smorfia, posò il boccale e, alzando gli occhi, lo vide.
“Hai
avuto il coraggio di ordinare da bere in questa cloaca? Sai che, con
tutta
probabilità, hanno allungato la birra con il
piscio?” Anche Loki indossava un
mantello. Si sedette di fronte a lui non prima di aver gettato
un’occhiata
rapida ai beoni e ai delinquenti che affollavano ancora i tavoli e i
banconi.
“È
un piacere vederti anche per me, fratello,”
borbottò Thor allontanando da sé la
birra incriminata e inumidendosi le labbra per scacciare il sapore
amarognolo.
L’ingannatore gli regalò un sorriso furbo,
divertito, e il dio del tuono
proseguì. “Non credevo che mi avresti fatto davvero
l’onore di palesarti di persona,” aggiunse
tirandogli i rimasugli di un guscio
di noce che era rimasto sul tavolo.
“Volevo
un luogo il più possibile neutrale,”
spiegò Loki asciutto, “e tra i tuoi uomini
ci sono delle spie.”
Continua...
L’angolo
di Shilyss
Ciao Lettori!
Credevate che
avessi abbandonato questa storia, vero?
E invece NO. Grazie a quelli che la seguono e la preferiscono
pubblicamente o
meno per aver atteso con infinita pazienza l’aggiornamento.
È solo che, come
molti di voi, avevo bisogno di fare il punto sulla situazione dopo
Infinity War
e integrare nel mio canon il
personaggio di Thanos (quindi aspettatevi sorprese).
Grazie a tutti
coloro che hanno recensito e
recensiranno o vorranno testimoniare in qualche modo il loro
apprezzamento. La Fatina
dell’Ispirazione mi tormenta, ma
si intristisce se non vede i vostri feedback! Come sempre, il prossimo
appuntamento con le mie storie è per domenica. Mi raccomando!
Vanheim
e il suo ordinamento sociale, politico e culturale sono una mia idea:
vi
pregherei di non utilizzarla o, se proprio vi sentite ispirati, di
inserire un disclaimer
apposito in cui dichiarate i credits. Io non mi
offenderò,
anzi vi stimerò di più ♥. Anche il
personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione. Sonje
è un personaggio originale,
mentre Vali, nel mito, è
realmente
il figlio di Loki e Sigyn, ma il suo carattere è una mia
invenzione.
Come sempre, ci
sono ottomila citazioni nel capitolo. Vi
segnalo Il testamento di Tito di De
André.
1. Nel mio
canone Vanheim funziona così.
2. Lo scontro
con Thor di cui ho scritto nella mia fic
Tutte le tue bugie. Non
l’hai ancora
letta/recensita? Male! La Fatina
è
triste!
3. I famosi
biscotti visti in Tutte le tue bugie
e Altro
che il Ragnarok.
4. Come nel cap.
1 di questa fanfiction. Ho immaginato
che Loki, al servizio di Thanos, indossi delle insegne con i suoi
colori (in
questo caso, rosse).
5. La fascia che
Loki indossa in Avengers.
Un caro saluto,
Shilyss