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Autore: shilyss    03/07/2018    10 recensioni
I Nove Regni sono rimastati schiacciati sotto il pugno di ferro di un nemico invincibile: Thanos, il Titano Conquistatore. Coloro che non sono morti nel tentativo di combatterlo, cercano di sopravvivere come possono. Mentre il potere del nuovo signore di aumenta a vista d’occhio, si dice che ci sia qualcuno che lavora nell’ombra per fermarlo. Che si tratti di una vana speranza?
Dal cap. 1: “Thanos aveva preteso la sua vendetta comunque (…) Il destino di un traditore doppiogiochista era inevitabilmente tinto di rosso. Loki Laufeyson non era andato da Thanos nelle vesti di capo di stato, ma col ghigno beffardo di uno che non aveva niente da perdere, come un lupo solitario egoista e crudele pronto a recuperare in fretta il tempo perduto e il prestigio svanito.”
La mia personale visione dell’Infinity War (assolutamente NO spoiler). Seguito delle mie fanfic “Tutte le tue bugie” e "Oltre l'inganno." Non è necessario averle lette.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki, Sigyn, Thor
Note: Lemon, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La tela degli inganni'
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Giochi pericolosi 3

3

Distanze

 

La nave che avrebbe riportato Sigyn a Vanheim partì poco dopo l’alba, o in qualunque modo si chiamasse quel fenomeno che rischiarava leggermente il cielo buio del posto desolato dove sorgeva il comando di Thanos. Loki Laufeyson non scese a salutarla. Osservò dalla finestra la sua figurina sottile che si arrampicava sul ponte, la lunga gonna scura gonfiata dal vento, la capigliatura chiara stretta in un raccolto creato in fretta, invariabilmente spettinato. La lasciò andare via senza darle alcun messaggio scritto: si sarebbe occupato lui di offrire una risposta al biglietto che gli aveva fatto avere. Del resto, non aveva chiuso occhio, quella notte, e non perché lei si era addormentata stringendoglisi contro, ma perché doveva elaborare un responso da dare al messaggio cifrato. Trovare una strategia, una soluzione adeguata al disastro che si approssimava ogni ora di più.

 

Il respiro di Sigyn, lento e regolare, non lo aveva aiutato a ragionare in maniera lucida e analitica, come invece era necessario facesse. Gli aveva portato alla mente altri giorni, altre notti, dolci alla stessa maniera e interrotte verso l’alba o subito dopo dallo scalpiccio frettoloso di piedi che correvano verso la loro porta, di mani che facevano girare con infinita lentezza la maniglia, di teste arruffate e occhi già vispi che si affacciavano nella stanza. L’illusione di una normalità che non gli era mai appartenuta, la necessaria prosecuzione di una stirpe che avrebbe, alla fine, regnato sull’impero che lui sarebbe riuscito a costruire, il caos che si era insinuato nella sua vita facendogli concepire dei figli con una donna nonostante le precauzioni prese. Un colpo secco alla porta lo riscosse dal pensiero di ciò che aveva perduto – che aveva avuto l’ardire di pretendere. Che imperdonabile errore. Un attendente entrò, si mise sull’attenti e iniziò a elencare una serie di dati su confini, armate, risorse, fiumi. Loki non lo guardò nemmeno. Si tolse l’elmo dalle lunghe corna ricurve passandosi una mano tra i capelli scuri. Il momento giusto non sarebbe mai arrivato, rifletté. Rispose al sottoposto con voce incolore poi, con il pezzo d’armatura sotto il braccio, lasciò la base e salì su una nave. Un altro inutile massacro lo attendeva.

 

Thanos non lo aveva immediatamente annoverato tra i suoi generali. Lo aveva lasciato a marcire in una cella spoglia e lugubre per un tempo che gli era parso infinito. L’Ase ricordava ancora l’odore del cibo irrancidito che assaggiava appena e ingollava solo per non indebolirsi troppo. Avrebbe potuto liberarsi, allora. Spezzare i ceppi che gli serravano i polsi e le caviglie, sollevarsi dal pavimento disgustoso che, in qualsiasi altra occasione, gli avrebbe fatto storcere il naso e provocato un conato, ma non in quel momento. Com’era stato, cadere dal Bifrost?

 

Era precipitato in un’oscurità senza fondo e aveva perso cognizione del tempo, dello spazio, di se stesso. Ma cos’era poi, lui? Una reliquia rubata, il trofeo ormai inutile di un padre ipocrita, l’ombra malvista e compatita di un fratello brillante. No, Thor non era più questo, per lui.

Il dio del tuono era il figlio di Odino; l’ingannatore non era altro che lo scarto che Laufey si era vergognato di mostrare al suo popolo. Non aveva una casa né un nome che sentiva come proprio. Loki Odinson era caduto dal ponte e la sua esistenza era un’enorme bugia, Loki Laufeyson era un reietto che gli Asi non volevano e gli Jotunn disprezzavano. In un altro contesto, le prigioni di Thanos lo avrebbero disgustato, ma cadendo era rimasto ferito: sulla sua fronte alta e regale spiccava un taglio ancora visibile, barbaramente ricucito con dei punti malmessi. La sua armatura d’oro e di smeraldo era graffiata, sporca, ammaccata, uno degli spallacci era stato completamente divelto. L’asimmetria dei suoi abiti rispecchiava, in un certo qual modo, il suo spirito spezzato, infranto, privo di scopo.

Com’è precipitare nel buio infinito delle galassie lasciandosi andare a una morte terribile, per asfissia o peggio? Ci si augura di schiantarsi. Che lo strappo provocato dal precipitare tra i mondi, attraverso le più oscure fenditure dello spazio, finisca e prima o poi ci lasci liberi. Loki non sapeva come e quando aveva smesso di cadere. A un certo punto il cielo aveva cessato di vorticare e, sbattendo le palpebre, si era accorto che qualcosa era finito. Il dolore no, quello era rimasto. Così, nonostante avrebbe potuto liberarsi dai ceppi, se ne era rimasto in silenzio, ammaccato e dolorante, con la nuca poggiata contro la parete, lo sguardo perso, il mantello ridotto a un inutile straccio, le sue insegne sbiadite, scolorite, perdute.

Spezzare le sue catene non sarebbe servito a niente, questo era il punto: non si può organizzare una fuga, se non si sa dove scappare. Così l’Ase era rimasto a leccarsi le ferite nella disgustosa cella di Thanos, e mentre il suo nome e il retaggio che si tirava dietro stingevano perdendo di significato, aveva iniziato ad ascoltare. Si apprendono più cose nelle peggiori bettole e nelle carceri che nelle sale lussuose delle Corti dei Re. Il dio dell’inganno lo sapeva, glielo aveva insegnato Odino quando ancora lo illudeva di poter ambire all’imponente trono d’oro di Asgard. Accanto a lui la gente marciva, moriva, urlava, supplicava. Loki faceva finta di non guardare nemmeno, ma intanto non si perdeva una parola, un sussurro, una bestemmia dei suoi compagni di cella.

Il Titano affermava di essere un fautore dell’equità, si proclamava il portatore di un concetto migliore di giustizia. La sua scure calava impietosa su chiunque, salvando uno e massacrando l’altro in base a un mero calcolo numerico. Non risparmiava donne e bambini, né si inteneriva di fronte ai soldati troppo giovani. Nella pietà che muove il cuore del guerriero a liberare uno per uccidere un altro, era nascosto il seme della differenza, dell’ingiustizia, diceva. Loki ascoltava, registrando informazioni e nozioni. Thanos era alla ricerca di un potere antico quanto l’Universo intero: dedicava ogni secondo della sua esistenza a delle pietre, artefatti magici di incredibile forza nascosti sotto mentite spoglie. Il destino di chi poteva dargli informazioni su di esse, oscillava pericolosamente tra una morte orrenda e un glorioso prestigio. Oppure, in virtù di una spietata ironia, contemplava entrambe le soluzioni. Il dio degli inganni, in silenzio, rifletteva.

Non era il fratello di Thor né il figlio di Odino né un Ase. Gli Jotnar trovavano riprovevole che nascondesse il suo aspetto, gli abitanti di Asgard e lui stesso rabbrividivano solo al pensiero che la sua pelle potesse mostrare l’estranea sfumatura blu dei Giganti di Ghiaccio. Se l’Universo intero fosse stato messo a ferro e fuoco da una guerra, Loki avrebbe scelto di osservarne il disfacimento immobile, perché con tutta probabilità non avrebbe semplicemente saputo da che parte schierarsi. Era il dio del caos e dell’inganno: portava entrambi nel suo petto e non aveva idea di come potersene liberarsene.

 

“L’Asgardiano, eccolo.” Uno dei secondini aveva rovesciato con un calcio la ciotola dove era costretto a ingurgitare la sua brodaglia. Loki aveva osservato il recipiente capovolgersi, oscillare e poi cadere a terra vibrando. Gli stivali di Thanos erano di ottima fattura, decise.

“La tua casa è lontana, molto lontana. Che ci fai qui?”

Aveva una voce possente, cavernosa, grave. Rifletté sulla risposta da dare, vagliando con attenzione ogni possibilità. Si accorse di avere le labbra screpolate, secche, riarse. Forse era malato. Si sforzò di deglutire, e gli vennero in mente tutte le volte in cui si era presentato di fonte a futuri alleati e avversari con lo spirito gonfio di tutta la tracotanza degli Asi cui credeva di appartenere. Di quella baldanza, ormai, non gli restava più nulla – solo briciole, anzi vaghe ceneri che il vento avrebbe finito per spazzare via.

“Sono stato bandito. Dovevo essere re,” aveva spiegato aggrottando la fronte ferita. Alzò gli occhi su Thanos, soffermandosi sul colore violaceo della sua pelle, sullo sguardo nero e cattivo che intravedeva sotto le palpebre gonfie. Non aveva ancora delineato il piano giusto da seguire, e sentiva il cuore martellargli nel petto, l’adrenalina pompargli nelle vene. Il Titano avrebbe potuto ucciderlo lì, seduta stante, oppure condannarlo a una lenta e infinita agonia: occorreva solamente scegliere come era più opportuno morire, rifletté, e il pensiero riuscì a strappargli un moto di bieca soddisfazione; sarebbe stata la sua ultima sfida e, qualsiasi cosa fosse successa, avrebbe venduto cara la pelle. Non gli restava che quello, del resto: riuscire a morire con un onore che solo lui avrebbe conosciuto, da guerriero.

“Ma che onore. Nelle mie carceri ospito persino un mancato Re, adesso!” Il Titano rise. Aveva i denti di un bianco innaturale, scintillante, spaventoso. “E dimmi, qual è una buona morte, per un asgardiano?”

“Asi,” soffiò il dio dell’inganno.  “Asi è il nostro nome.” Spiegare a Thanos cos’era lui, davvero, non aveva alcun senso, era una perdita di tempo, una storia che Loki non voleva nemmeno raccontare. Le parole erano sempre fluite dalla sua bocca in maniera spontanea e allo stesso tempo potente: dicevano che le sue frasi fossero capaci di incantare che le ascoltasse, confondendo e convincendo, ma qualcosa gli suggerì che quell’arma affilata stavolta non lo avrebbe aiutato.

“Dicono che ad Asgard ci sia una delle Gemme che cerco,” proseguì l’altro. Gli occhi verdi del dio dell’inganno si dilatarono appena. Percorse mentalmente la Sala delle Reliquie, domandandosi con terrore dove potesse essere stata nascosta la preziosa quanto maledetta gemma, odiandosi per il tremore sottile che lo avvolse al pensiero che la terra che aveva chiamato casa per una vita intera fosse sull’orlo del collasso. Eppure così era. Deglutì e ammise di non sapere nulla sperando di risultare credibile, sincero. Aggettivo che non gli si addiceva, su cui aveva sempre ironizzato quasi tetramente, sostenendo fiero come non esistesse una sola realtà univoca e inequivocabile, ma molte, infinite. Se la verità non esisteva, allora tutto era finzione e menzogna – e lui di ogni cosa era il signore.

 

***

 

Ci sono storie che non posso essere raccontate, spiegazioni che non vale la pena di dare, ammissioni che solo il nostro cuore deve conoscere e custodire. Sigyn stringeva tra le dita sottili il trattato firmato da Loki, e le sembrava che il solo contatto con la pergamena spessa e robusta potesse, in qualche modo, restituirle il marito. Sentiva ancora il tocco delle sue labbra beffarde sulla pelle. Una nostalgia feroce avrebbe dovuto agguantarla alla bocca dello stomaco impedendole di respirare, invece era lì, seduta sul trono, sorridente e attenta, almeno all’apparenza. Si era preparata ogni parola del discorso che avrebbe dovuto fare di fronte al Consiglio dei Nobili (1). Era riuscita a riportare nella sua terra se non la pace, almeno la speranza di vivere in condizioni migliori. L’acciaio dei Nani era indispensabile per la ripresa dell’economia di Vanheim. La sua voce risuonò chiara e limpida, ma la giovane regina lasciò quasi immediatamente lo scranno di legno intarsiato su cui si era seduto per decine di anni suo nonno Njord per camminare avanti e indietro spiegando e illustrando, come era solito fare Loki.

Una volta gli aveva chiesto perché misurasse con ampie falcate la sala, muovendosi tra i banchi dove erano seduti i nobili. L’ingannatore l’aveva fissata un momento. Era immerso nella vasca e lei lo stava aiutando a lavarsi perché il suo braccio era ancora steccato e fasciato dopo lo scontro con Thor(2). Erano sposati da pochissimi giorni, e le strade di Vanheim ancora mostravano appesi i festoni floreali con cui i Vanir avevano celebrato la loro unione. Sigyn era seduta sul bordo dell’ampia vasca e gli stava insaponando i capelli scuri, la spalla sana e ben scolpita.

“Per guardarli negli occhi, da vicino,” aveva risposto Loki con lentezza. “Per capire le loro reazioni e coinvolgerli nel mio ragionamento.” Poi, un ghigno storto gli aveva attraversato le labbra e l’aveva trascinata nella vasca, con lui, tra le sue grida di protesta e gli spruzzi d’acqua insaponata. Il dio dell’inganno era solito dire che l’amore non migliorava le persone ma, semmai, le peggiorava, eppure Sigyn era convinta che l’Ase, durante il loro matrimonio, fosse riuscito a darle più di quanto non avrebbe ammesso. Rispondendo alle sue domande, svelando le ragioni di certe sue azioni, l’aveva inconsapevolmente preparata al ruolo che sarebbe andata a ricoprire.

 

Qualcuno, nella Sala del Consiglio, applaudì fragorosamente quando la regina smise di parlare, molti le sorrisero soddisfatti. Altri, forse, si chiesero il prezzo di quella concessione lasciando scivolare gli occhi sulla figura snella della donna. Era opinione di una fetta sempre più ampia della nobiltà Vanir che Sigyn dovesse convolare a nuove nozze.

Lei lo sapeva. Percepiva gli sguardi indagatori come era al corrente delle chiacchiere che giravano nel palazzo. Rientrando nelle sue stanze accompagnata dalle sue ancelle, lasciò che una mano le scivolasse sul seno in cerca della collana su cui aveva appeso il suo anello; un talismano in cui Loki, bugiardo e astuto com’era, aveva racchiuso chissà che rune potenti.

Freyr le si accostò e subito le ancelle si scostarono. Aveva un’aria sfatta, disordinata, stanca, e i segni della malattia che gli rodeva il fegato erano ogni giorno più evidenti. “Stringi una nuova alleanza con un buon matrimonio. È quello che il Consiglio vuole,” suggerì. L’ampio corridoio era fiocamente illuminato dalle torce e Sigyn lo aveva percorso troppe volte in compagnia di Loki. In alcune occasioni erano rimasti in silenzio, ognuno sdegnosamente chiuso con i suoi pensieri, in altre lei gli aveva cercato la mano e aveva incrociato le dita con le sue.

“Ho dato a Vanheim degli eredi, mi occupo della sua prosperità. Non ho bisogno di una nuova unione,” replicò asciutta, offesa.

Freyr scosse il capo. “Non tornerà. Possibile che tu non capisca? Le Norne hanno deciso per lui una morte da guerriero, sul campo di battaglia. La tua fedeltà nei suoi confronti è sciocca e inutile, Sigyn. Il vincolo matrimoniale è spezzato e tu sei la regina di Vanheim. Ogni tua azione dovrebbe essere tesa a questo, non nel vagheggiare un traditore che morirà soffocato dal suo sangue.”

 

Sigyn si fermò. L’immagine evocata da suo zio le si stampò nella mente con tutta la sua forza, e la cosa peggiore, la più ingiusta e inevitabile di tutte, era che dietro la sua battuta crudele si nascondeva una probabilità per nulla ventilata. E lei non poteva fingere d’ignorare che esistesse una simile eventualità, per quanto orribile fosse. Strinse le labbra, non cercò il suo sguardo. Se lo avesse fatto, suo zio Freyr avrebbe visto che aveva gli occhi lucidi e si stava contenendo appena.

“Non tutte le regine hanno bisogno di un re, per governare. E il destino dell’ingannatore è quello che lui si è scelto, ma la sua sorte non potrà mai essermi indifferente e, se riavremo l’acciaio, è perché lui me lo ha concesso.” Era stata brusca. Si maledisse mentalmente per aver lasciato vibrare la voce mentre si riferiva a Loki, per averlo difeso sebbene lui non ne avesse alcun bisogno, anzi. Se qualcuno, nei Nove Regni e oltre, avesse sospettato che l’Ase stesse intessendo un pericoloso doppiogioco nei confronti del Titano in persona, la sua fine sarebbe stata orribile, orrenda oltre ogni dire. A questo Sigyn pensava le notti in cui non riusciva a dormire, e a quello che avrebbe dovuto dire ai suoi figli il giorno in cui l’intrigo sarebbe stato svelato. Quando finalmente entrò nelle sue stanze, sorrise per la prima volta da quando aveva lasciato il dio degli inganni. Il suo letto era occupato.

 

“Dovresti già dormire, signorina,” disse con un tono fintamente serio.

Sonje alzò gli occhi grigi dal libro che stava leggendo. “L’impiastro non voleva addormentarsi,” spiegò gettando un’occhiata laterale e breve alla testolina bionda e arruffata che spuntava da sotto le coperte. Sigyn si sedette sul letto, accarezzò i capelli chiari del figlio più piccolo e diede un bacio sulla fronte alla maggiore.

“Non è un impiastro, non mi piace che usi quella parola, lo sai,” la redarguì.

Sonje per tutta risposta arricciò le labbra in un broncio che le ricordò dolorosamente Loki. “Si è fatto male durante la lezione di equitazione e ha frignato, mamma, ha frignato come mai nessun Ase avrebbe fatto. Se papà e zio lo avessero visto, loro…”  Si interruppe, aggrottò la fronte. “L’hai visto,” mormorò.

Non era una domanda, ma un’affermazione. Una di quelle analisi precise e pungenti cui non si può mentire. Sigyn annuì e iniziò a spogliarsi con lentezza, raccontandole come il dio dell’inganno stesse bene e si preoccupasse per lei, per tutti loro.

Sonje annuì e quando sua madre si stese accanto a lei e al fratellino, si sporse per giocare con la bella collana che portava sempre indosso, infilando il dito sottile nell’anello magnifico che una volta, quand’erano felici, vedeva scintillare all’anulare di Sigyn. Perché con il suo intuito di bambina non poteva non accorgersi che l’assenza di suo padre faceva male, a sua madre, quanto le rare e sporadiche occasioni in cui lei riusciva a vederlo o ad avere sue notizie. Si sforzava disperatamente di non piangere ed essere sempre allegra, sicura e presente per lei e suo fratello, ma qualcosa dentro sua madre si era spezzato, infranto, rotto. E Sonje quella tristezza mascherata da altro la trovava terribile, insopportabile. Era il velo che oscurava tutto il resto, anche le occasioni più liete: quando c’era il Solstizio, ad esempio, sua madre preparava ancora i biscotti al miele della tradizione con lei e Vali, ma le mancava l’impazienza con cui sostava davanti al forno in attesa che si cuocessero e non le brillavano più gli occhi come quando li porgeva a suo padre, sobbarcato di scartoffie, intento a leggere o ad allenarsi. (3)

“Tornerà. Qui ci siamo noi. Te lo ha detto, vero?” S’imbronciò infilandosi finalmente del tutto sotto le coperte, ansiosa di ottenere una risposta impossibile che avrebbe reso di nuovo la sua famiglia felice, serena. Un desiderio legittimo che Sigyn colse e che fece nascere nel suo petto un senso di colpa enorme, grandissimo. I suoi bambini non erano felici; sentivano la mancanza di Loki, e lei non poteva parlargli di trame complesse e doppi giochi, perché una frase sbagliata uscita per errore dalle loro bocche avrebbe potuto pregiudicare per sempre la libertà dei Nove Regni e la vita di Loki e Thor stessi.

“Vorrebbe tornare, ma non può. Lo sai. Thanos ha bisogno di lui,” mentì. Il Titano consentiva a suo marito di vivere perché ancora necessitava dei suoi servigi, ma nessuno è davvero indispensabile, l’ingannatore glielo aveva detto mille volte con quel suo sorriso sbieco e laterale, beffardo e triste allo stesso tempo.

 

“Non vuole.” Vali si era svegliato a causa delle loro voci. Si alzò a sedere strofinandosi i begli occhi verdi, assonnato e con quell’irritazione propria dei bambini quando sono stanchi, esausti. Con aria tragica e in perfetto silenzio, tirò fuori dalle coltri la caviglia fasciata, osservandola con aria critica. Loki era un’ombra alta e severa che lo fissava con troppa attenzione e che non giocava con lui né lo abbracciava. Un fantasma che non ricordava, un sogno destinato a sbiadire non appena aveva l’ardire di toccarlo. Un’assenza, un vuoto che, dall’alto dei suoi sei anni, non sapeva esprimere a parole ma che, pure, sentiva. Al contrario di sua sorella, Vali non ricordava i solstizi passati con il genitore, né aveva una traccia di quello che era stata la sua famiglia prima che Thanos guardasse con avidità ai Nove Regni. Loki era la ragione per cui Sonje a volte si scocciava della sua presenza, il motivo per cui il sorriso di sua madre era venato da una nota di tristezza, forse era persino la causa principale delle lunghe assenze dello zio Thor.

Incapace di comprendere appieno la complessità dello scacchiere politico in cui era immerso assieme a tutti gli altri, Vali provava, nei confronti di suo padre, un’attrazione mista a repulsione. Non c’era la prima volta che era salito a cavallo, mesi prima, come non era presente durante il suo primo allenamento o quando si era tuffato stringendo le ginocchia al petto dal molo del lago. Non c’era e avrebbe dovuto esserci, così come, allo stesso tempo, era una fortuna e un dolore che non avesse assistito alla rovinosa caduta di quel pomeriggio e al pianto disperato che ne era seguito. Nelle rarissime occasioni in cui la sua figura fiera compariva all’improvviso dentro le mura del palazzo, Vali fuggiva i suo occhi indagatori e rispondeva alle sue brevi domande con dei monosillabi, fissando il pavimento. Gli faceva paura, lo terrorizzava. Gli abiti scuri, la corazza di pelle intrecciata e le insegne scarlatte che gli decoravano il mantello, lo facevano apparire come il personaggio malvagio di qualche fiaba, anziché l’eroe (4).

Vali sentiva che avrebbe dovuto vergognarsi del suo timore e di quei pensieri, ma gli era capitato più di una volta di ascoltare ancelle e domestiche parlare di suo padre. In silenzio, nascosto sotto a un tavolo o dentro a un armadio, le aveva sentite discorrere di come ora che era un Generale del Titano Loki fosse, in definitiva, quello che era sempre stato: un condottiero sagace e astuto bravissimo a salire sul carro del vincitore, a cui interessava solo ed esclusivamente la salvaguardia della propria pellaccia. Parole, di nuovo, che non poteva comprendere appieno perché conosceva solo vagamente le storie che riguardavano suo padre, e persino il nome che si tirava appresso, quello di dio dell’inganno, aveva un’eco pomposa e difficilmente comprensibile. Che significava, esattamente quella parola, inganno? Che suo padre mentiva per ottenere un vantaggio. Questa era stata la spiegazione imbarazzata dello zio Thor.

Quando giocava con gli altri bambini, al primo problema o disputa spesso veniva isolato perché, probabilmente, era un voltafaccia traditore come suo padre. Sebbene il senso del termine voltafaccia gli sfuggisse, l’altro gli era tristemente noto. Ogni volta che lo sentiva, scattava e perdeva il controllo buttandosi a capofitto in risse che lo avrebbero visto inevitabilmente uscire come perdente. C’era qualcosa di tragico e commovente, nella disperazione con cui Vali si lanciava in difesa dell’oscuro e ambiguo Loki che, di fatto, lo aveva abbandonato. Era forse l’unico elemento che lo accomunava alla sorella, ma mentre quella parola, traditore, aveva su di lui l’effetto di uno schiaffo in pieno viso e pesava come un’onta terribile, Sonje se ne faceva un vanto. Alzava il mento fiera, se qualche ragazzino le ricordava il gesto del loro genitore, ammettendo a viso aperto quel comportamento e, anzi, beandosene.

“Io sono la figlia del dio dell’inganno. Un principe, un re che non ha paura di nessuno e ti convincerebbe a fare qualsiasi cosa solo fissandoti. Lo sai che ha combattuto contro gli Asi e ha vinto? Lo sai che è evaso da ogni prigione? Se ha tradito è per permettere a insulsi bambini col moccio come te di vivere,” concludeva incrociando le braccia, severa e regale.

Vali non sapeva dire dove Sonje trovasse quell’incrollabile fiducia in Loki perché lei stessa non glielo diceva, preferendo chiudersi in camera con i libri di magia che capiva a malapena, sforzandosi di apprendere una materia oscura che forse non le apparteneva come sperava. Voleva diventare brava con il seiðr almeno quanto Loki, ma per il momento non era riuscita a creare un solo incantesimo. Così, dato che Sonje non voleva parlare con lui del loro padre, la sua mamma era spesso costretta a lunghe assenze a causa degli impegni di regina e Thor era una presenza effimera quasi quanto il genitore stesso, Vali cercava nella solitudine le risposte alle sue domande. Silenzioso com’era, ascoltava e spiava e pensava. Così aveva trovato la chiave dello studio.

 

Una stanza proibita, chiusa da anni, dove nemmeno sua madre metteva mai piede. Non davanti a lui, almeno. Il fascino esercitato dallo stipite serrato era stato troppo forte perché vi potesse resistere e, del resto, Sonje ripeteva sempre che loro due erano mezzi Asi e gli Asi non avevano paura di nulla. Vincendo il terrore che invece lo avvolgeva, deglutendo aveva infilato la chiave nella toppa e poi girato. Eccolo, lo studio di mago di suo padre, il posto proibito. Vali non lo ricordava, ma in quella stanza ampia e buia lui e sua sorella avevano giocato ed erano entrati correndo e sgambettando in cerca di quella figura ormai assente, sfumata eppure indimenticabile.

Con il cuore che batteva all’impazzata, il bambino si era messo a osservare e sfiorare con le sue dita piccole e infantili le pergamene vergate fittamente, la poltrona di pelle dove Loki studiava e rispondeva alla corrispondenza, il dorso di alcuni libri di magia. Oggetti misteriosi di cui non capiva il significato e a cui non diede particolare importanza, finché non la vide. Vali non sapeva come si chiamasse quella fascia di cuoio e pelle, ma capì immediatamente che doveva trattarsi di un pezzo dell’armatura di suo padre. La sollevò circospetto, accorgendosi del suo peso, soffermandosi sulla placca dorata su cui era inciso un serpente marino. Decise di tenerla per sé. La portò via dalla stanza e la nascose dentro a una scatola che conteneva tutti i suoi tesori più preziosi, senza immaginare che quella era la bandoliera che Loki indossava ad armacollo. (5)

 

Fu Thor a spiegargli cosa fosse e a mettergliela addosso con un sorriso un po’ mesto, svelandogli l’esistenza di una tasca nascosta in cui era rimasto custodito un sottile coltello. Nelle sue brevi visite, non mancava mai di portare a lui e a Sonje un dono e svelare qualche trucco per tenere per più tempo il respiro sott’acqua o colpire meglio un avversario. Sì, zio Thor era divertente ed era bello trascorrere i pomeriggi in sua compagnia, ma quando aveva chiesto a sua madre se assomigliasse a suo padre, Sigyn aveva scosso il capo in fretta dicendo che no, le somiglianze erano ben poche.

 

 

***

 

Controllò due volte le indicazioni nel biglietto stropicciato che stringeva tra le dita, prima di entrare. Con una smorfia schifata, si domandò come potesse aver scelto un posto tanto fetido per il loro appuntamento. Non era da lui, rifletté osservando con aria critica la bettola sporca e maleodorante. La maggior parte degli avventori era ubriaca fradicia, quelli che ancora erano svegli, invece, con tutta probabilità erano tagliagole e ladri decisi a derubare i loro vicini addormentati. Derubare di cosa era una bella domanda. Individuò il tavolo giusto, vi si sedette. Il legno era unticcio. Una cameriera sfatta e con il viso butterato gli chiese cosa volesse e lui ordinò due birre senza togliersi il cappuccio. Quell’idiota non era ancora arrivato, ma nulla vietava che potesse materializzarsi all’improvviso davanti a lui grazie al seiðr. Gli fu portato da bere: la birra era calda, e il sapore pessimo non ricordava nemmeno lontanamente l’idromele che veniva servito ad Asgard.

Con una smorfia, posò il boccale e, alzando gli occhi, lo vide.

“Hai avuto il coraggio di ordinare da bere in questa cloaca? Sai che, con tutta probabilità, hanno allungato la birra con il piscio?” Anche Loki indossava un mantello. Si sedette di fronte a lui non prima di aver gettato un’occhiata rapida ai beoni e ai delinquenti che affollavano ancora i tavoli e i banconi.

“È un piacere vederti anche per me, fratello,” borbottò Thor allontanando da sé la birra incriminata e inumidendosi le labbra per scacciare il sapore amarognolo. L’ingannatore gli regalò un sorriso furbo, divertito, e il dio del tuono proseguì. “Non credevo che mi avresti fatto davvero l’onore di palesarti di persona,” aggiunse tirandogli i rimasugli di un guscio di noce che era rimasto sul tavolo.

“Volevo un luogo il più possibile neutrale,” spiegò Loki asciutto, “e tra i tuoi uomini ci sono delle spie.”

Continua...

 

L’angolo di Shilyss

Ciao Lettori!

Credevate che avessi abbandonato questa storia, vero? E invece NO. Grazie a quelli che la seguono e la preferiscono pubblicamente o meno per aver atteso con infinita pazienza l’aggiornamento. È solo che, come molti di voi, avevo bisogno di fare il punto sulla situazione dopo Infinity War e integrare nel mio canon il personaggio di Thanos (quindi aspettatevi sorprese).

Grazie a tutti coloro che hanno recensito e recensiranno o vorranno testimoniare in qualche modo il loro apprezzamento. La Fatina dell’Ispirazione mi tormenta, ma si intristisce se non vede i vostri feedback! Come sempre, il prossimo appuntamento con le mie storie è per domenica. Mi raccomando!

Vanheim e il suo ordinamento sociale, politico e culturale sono una mia idea: vi pregherei di non utilizzarla o, se proprio vi sentite ispirati, di inserire un disclaimer apposito in cui dichiarate i credits. Io non mi offenderò, anzi vi stimerò di più ♥. Anche il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione. Sonje è un personaggio originale, mentre Vali, nel mito, è realmente il figlio di Loki e Sigyn, ma il suo carattere è una mia invenzione.

Come sempre, ci sono ottomila citazioni nel capitolo. Vi segnalo Il testamento di Tito di De André.

1. Nel mio canone Vanheim funziona così.

2. Lo scontro con Thor di cui ho scritto nella mia fic Tutte le tue bugie. Non l’hai ancora letta/recensita? Male! La Fatina è triste!

3. I famosi biscotti visti in Tutte le tue bugie e Altro che il Ragnarok.

4. Come nel cap. 1 di questa fanfiction. Ho immaginato che Loki, al servizio di Thanos, indossi delle insegne con i suoi colori (in questo caso, rosse).

5. La fascia che Loki indossa in Avengers.

 

Un caro saluto,

Shilyss

   
 
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