II. Esame
Sono tutti lì. Tutti contenti,
intenti a festeggiare. C’è un padre che solleva il figlio tra le
braccia e lo fa girare in aria, lo lancia, sembra che spicchi il volo. Ino si
sta facendo coccolare da sua madre, la donna le accarezza i capelli e sorride
come al bambino non ha mai sorriso nessuno. Lui è di nuovo sull’altalena,
è di nuovo solo, è di nuovo a testa bassa e nei suoi occhi danza
il bisogno di lacrime. Gli voltano tutti le spalle, ridono tutti, si
congratulano gli uni con gli altri e lanciano urla di gioia, ma lui non ha
diritto di far parte di quella musica.
Lui è l’unico che
non è diventato genin. E rimane sull’altalena come una presenza invisibile,
come se nemmeno esistesse. E dire che non chiede altro se non avere qualcuno
che si accorga di lui, qualcuno che scopra che di lui ci si può fidare.
Ogni tanto getta lo sguardo
sul capannello di concittadini che festeggiano, osservandoli quasi aspettasse,
forse nemmeno lui sa cosa esattamente. Poi dalla massa festante si stacca una
sagoma solitaria – il bambino dell’altalena per un istante ha l’impressione
di sapere che sarebbe successo. Si muove spedita, in maniera quasi brusca e non
scevra di una certa alterigia, e si allontana. È ben strano vedere un
vincitore così indifferente, con quel disinteresse e quella fredda
noncuranza nel nero delle iridi, sembra quasi astio. Per un istante, i suoi
occhi scivolano sull’altalena. Forse hanno un barlume di sprezzo, forse
di privata desolazione. Il bambino bruno è stato il migliore all’esame
– il migliore di tutta l’accademia,
come sempre – ma c’è da pensare che se avessero bocciato
anche lui reagirebbe con lo stesso entusiasmo.
C’è chi ha tutto
e c’è chi non ha nulla, ma tutto e nulla assomigliano allo stesso
vuoto quando non si ha nessuno a cui regalarli.
Il bambino sull’altalena
sposta lo sguardo con un’ostilità che maschera la vergogna e lo
affigge verso la montagna degli Hokage, abbandonando il vincitore a se stesso,
e il bambino bruno lo abbassa truce, con sterile e distratto compiacimento, ad
osservare il terreno su cui cammina.
E’ così che
continua: un vincitore, un perdente e occhi che puntano in direzioni opposte.