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Autore: swimmila    13/07/2018    13 recensioni
Quanto spreco di vite e di Storia per una rivoluzione che il cuore attua da sempre.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Attendenti e padroni

Il dottore ha detto che se superi la notte ci sono speranze.
Sono rimasta in silenzio. Se non superi questa notte non ho speranza.
Ha detto che in quella scellerata corsa ti sei infilzato di rami secchi; lapidato di pietre aguzze. Hai perduto molto sangue. C’è pericolo di infezioni. Sei un’unica, aperta ferita.
Sono un solo, pulsante dolore.
Ho mandato tua nonna a riposare. Si era messa in testa di vegliarti tutta la notte: alla sua veneranda età! Siete folli, voi Grandier. Le ho assicurato che sarei rimasta io con te. Lei lo sa che conosciamo l’intimità del dormire insieme: quante mattine ci ha sorpresi, bambini, stretti di chiacchiere o spavento. Mi ha guardata, dubbiosa: ora non siamo più dei bambini. Ma poi il suo sguardo tremulo di nonna e di senile è diventato miele. Lo sa anche lei che abbiamo una notte da superare insieme, io e te.
 
Un lucore di bambagia esploso in luce abbagliante. Radura dopo bosco.
Coi tuoi cinque anni a porgermi l’enormità di una spada. Con la mia reverenza ad indugiare sull’elsa cesellata. I nostri giochi, di duelli e allenamenti. Le nostre risate, di rigore gaudenti. Le nostre corse, di cavallo e di vento. Un mulino, a vegliare su riposo e silenzio.
Un battito di felicità. La mia malinconia, orfana di tristezza. La mia famiglia, nei tuoi riccioli d’oro. Il mio cuore, leggero d’affetto. I tuoi occhi, inquieti di infanzia frenata. Le nostri mani, strette di solitudini alleviate.
 
Sei pallido di vita in attesa. Ma hai il viso disteso del risposo dei bambini. Io, invece, sono sveglia di guardia. Mi hai già disobbedito una volta, oggi. Sono qui ad imperdirti di farlo ancora.
Prendo la tua mano nelle mie. E’ fredda di dubbio di vita o di morte. La mia, invece, è calda di messaggi di auguri angustiati. Sua Altezza Reale la principessa Maria Antonietta. E il conte di Fersen, che solo davanti alla promessa di un messaggero solerte si è deciso a lasciarmi correre da te.
Il loro pensiero rivolto al mio attendente.
Cosa ne sanno, André, questi ranghi sociali. Delle nostre infanzie al pari assetate d’affetto. Delle nostre solitudini uguagliate di sorte. Delle nostre risate accomunate di segreto.
Cosa ne sanno, questi titoli nobiliari. Di una libertà forgiata di uomo. Di un cuore accucciato di donna. Dei tuoi occhi a piangere le mie lacrime. Della tua voce ad avvolgermi d’affetto.
Cosa ne sanno, queste etichette imbrigliate. Di un impeto rabbioso sfogato d’amicizia. Dell’istinto della tua mano, arresa di lotta, a cercare la mia, angustiata di scelta. Di un impulso al galoppo nella rabbia del vento. Di un’indole composita di spada e di senso.
 
Un fruscio di vento.
Apro gli occhi. Mi sollevo a sedere sul prato fiorito. Tu non ci sei più, sdraiata al mio fianco. Devo essermi appisolato. Dove sei andata? Sei sempre così svelta a nasconderti.
Un lamento di dolore. Uno squarcio nell’incanto. Un tuffo fastidioso di malessere e tormento.
Un brivido senza nome, dietro la schiena. Movimenti impietriti di terrore, nel cercarti tutt’attorno.
Quel gemito, sempre più angoscioso. Il mio respiro, sempre più affannato. La mia paura, sempre più sicura.
Corro nella direzione opposta a questo strazio arrochito. Le gambe pesanti. Il fiato corto. L’angoscia serrata. Il verde del prato, di margherite puntinato, si tinge di rosso. Rovi di rose a sbarrarmi la strada. Vento di petali a velarmi la vista. Un batticuore fuorioso di pericolo imminente. Graffi di spine e di spavento sulla mia pelle indolore. Un buio incipiente. I miei occhi sbarrati. Un rantolo di belva nella gola accerchiata.
Un punto di luce. Un fondo di speranza. Una forza sovrumana da richiamare nelle gambe. Un passo dopo l’altro, nella terra di melma pesante. L’indifferenza delle rose a deridere la mia carne. Un supplizio di spine ad aleggiare il mio passaggio. Crescente, quel grido di dolore. Incalzante, la sua voglia di preda. Madida, la mia corsa verso il bianco.
 
Una ruga sul tuo viso ventenne. Un’agitazione, nel tuo riposo incosciente. Una scintilla di consapevolezza ad incresparti le labbra. La mia stanchezza, spazzata di allerta. I miei sensi, protesi di speranza.
Per un attimo ti rivedo bambino impaurito di Generale e di lusso. Sorrido, al ricordo. Un sorriso pesante di questa incertezza. Poi, qualcosa nel tuo oblio si fa panico. Il tuo agitarti è muto di angoscia. La mia mano, stretta di aiuto.
Mi chino su di te.
“Sono qui, André. Non avere paura” Un sussurro sfiorato sulla tua fronte imperlata. Un bacio di parole delicate di tenacia.
Un ricordo improvviso. Di stesse parole. Di altra paura.
Un cuore di bimba. Tuoni furiosi. Fretta, scalza di buio. Tu, pronto di abbraccio. Riccioli biondi di carezze pacati. Sussurri di calma su singulti di orgoglio. Il mio sonno tranquillo della tua veglia ostinata.
La tua pelle è rovente di febbre e delirio. Nella tua stanza c’è sempre un catino pronto di acqua. Con l’unico braccio sano vi immergo il mio fazzoletto pulito. Te lo metto sulla fronte. Sembra sfrigolare. Ripeto questo gesto fino a che l’acqua del catino non diventa calda. Fino a che la tua pelle non torna fresca.
A poco a poco ti calmi. Il tuo dolore si placa di tregua. Le tue ferite riprendono fiato. Il mio cullarti, incurante di sosta.
Meno di un’ora, e riprendi a smaniare.
Nella spalla destra, a sopportare il mio dolore. Con la mano sinistra, a carezzare il tuo sudore. Con la voce, ad ordinarti il coraggio. Nel silenzio, a sperarti ligio.
 
Mi sento agguantare da una presa ferma ma morbida. Urlo di paura insensata. Scalcio, istintivo, verso quella luce che immagino glabra di spine e di pericoli. Non voglio tornare indietro. Oscar! Aiutami. Chiudo gli occhi, arreso a questa forza non invincibile ma che sento più accanita della mia lotta logora. Piango di lacrime anonime, senza definizioni. Tutto, in me, è privo di senso: panico, speranza, corsa, desiderio, pianto.
Apro gli occhi. Davanti a me, il mare rosso di rose e di spine. Sotto i miei passi, il prato verde di pace e margherite.
La forza invisibile che mi trascina a ritroso sembra aprire un varco di amenità nel paesaggio mostruoso. A poco a poco la mia ansia si placa, diviene sospetto sospeso nel limbo.
Il lamento struggente è ora una voce calda e invitante. Ne sono attratto, come lo ero prima da quel misterioso richiamo fulgente.
I miei graffi, zitti di sangue rappreso. Queste rose, ardenti di bellezza contesa. Nel mio respiro, l’affanno in declino. Nelle gambe, una convinzione bambina.
Su di te, affollati i miei pensieri. Del tuo nome, risuona il mio richiamo.
Oscar…Oscar….
 
“André. André!”
Le tue palpebre nello sforzo di alzarsi. L’alba, a bussarmi alle spalle. La mia voce, a strapparti all’oblio. La tua mano, una notte nella mia. I tuoi occhi, finalmente smeraldi. In questa notte deforme di mostri ho temuto che non li avrei più rivisti.
Mi guardi di sguardo stordito.
“Oscar”.
Il tuo è un sussurro che intuisco. Il nostro è un richiamo di mani. La tua, ha un guizzo nella mia. Le tue forze, già rivolte a me.
“Oscar, che cosa hai fatto alla spalla?”
Il dottore ha detto che ne avrò per due settimane. Ha assorbito gran parte della caduta. Ha sopportato il doppio del peso. Ti rispondo, morbida di paura scansata. Ti racconto, per colmare l’oblio che ci ha separato.
“Vuoi dire che sei rimasta qui tutta la notte, Oscar?”
Hai nutrito la mia infanzia di giochi e biscotti rubati. Hai soccorso le mie braccia, inesperte di nuoto ma spavalde di lago. Mi hai prestato i tuoi lividi per allenare i miei pugni. Hai compensato di dolcezza l’amore grande, ma severo, di mio padre. Sei l’equilibrio di questa mia vita in bilico fra doveri e concessioni.
Hai disatteso un mio ordine, stamattina.
“André, la prossima volta che non fai quello che ti dico giuro che ti passo a fil di spada.”
Un tono severo di amore sgraziato.
Il tuo sorriso, di gioia estenuata.
 
“Vi trovo in ottima forma, André”
Il conte di Fersen, puntuale di promessa mantenuta. Tua nonna, gongolante di amore tornato burbero. Mio padre, che prima di essere Generale è l’uomo che ti ha accolto nella sua casa. Siamo tutti al tuo capezzale fresco di mattina.
Ti ho lasciato un paio d’ore, poco dopo il tuo risveglio. Ho chiamato tua nonna, il viso gonfio di pianto e sonno interrotto, e sono corsa in camera mia. Non un turno di notte a pretendere il riposo. Ma lo sforzo di un rischio sconfitto a chiudermi gli occhi di sopore intontito.
Il conte di Fersen è impeccabile di ristoro ed eleganza. Dopo averti fatto visita andrà a Versailles a rendere omaggio alla principessa Maria Antonietta, già frizzante di nuovo entusiasmo. Ultimamente si reca a corte quasi tutti i giorni.
“André, voi forse ancora non lo sapete, ma siete diventato l’attendente più famoso di Versailles”. La sua voce è limpida di guanciale asciutto. Ferma di amicizia fedele.
“Sua Altezza la principessa in persona vi ha difeso davanti a Sua Maestà, nonostante abbiate messo a repentaglio la sua vita.”
La sua risata esplode di umorismo leggero. Sa di incubi dissolti nella luce del giorno.
Ti guardo. Il mio turchese nei tuoi occhi smeraldo.
Mi leggi i pensieri. Mi guardi nel cuore. Capisci di anima.
Sorridi di risposta.
Cosa ne sanno, attendenti e padroni. Di infanzie abbracciate di tenebre e tuoni.
Cosa ne sanno, cancellieri e ministri. Di principesse elevate ad Empirei tristi.
Cosa ne sa, il bel conte svedese. Di uguaglianza d’amore, smeraldo e turchese.
   
 
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