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Autore: Frulli_    24/07/2018    3 recensioni
Inghilterra, 1911. L'Europa sta attraversando un periodo di serenità e ricchezza, la "Belle Epoque". E se Parigi è il fulcro della moda e del divertimento, Londra certo non è da meno! Lo sanno bene i membri della famiglia Norton e dei suoi servitori, che per la Stagione londinese vengono catapultati in un mondo di divertimenti e finzione, dove tutti sono un pò "sottosopra", e rischiano di perdere di vista le cose vere e reali della vita, come i sentimenti e l'amicizia...
Genere: Romantico, Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
Capitoli:
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16. Mr&Mrs


NdA: Chiedo umilmente perdono, non mi è mai capitato di aver ritardato così tanto l'aggiornamento di una storia ç_ç ma tra lo stress da lavoro e l'estate, qui fatico ad andare avanti! Ma eccomi qui, chiedo venia, atterrando verso la fine di questa storia che, come sempre -e nonostante i miei ritardi disastrosi- spero vi continui a piacere :)




 
Belfast, 31 agosto 1911


Il porto era così affollato, quel giorno, che non si riusciva a camminare decentemente. Dovevano fermarsi ogni cinque minuti, per far passare facchini carichi di valigie e pacchi, vetture che strombazzavano, fiumi di gente che cercavano di non dividersi, dirigendosi compatti verso la nave che avrebbero dovuto prendere quel giorno. Probabilmente la stessa che avrebbe preso Ethel. Solo in quel momento si rese conto che lei, in vita sua, non era mai stata su una nave. L'aveva vista già dall'ingresso al porto, maestosa e magnifica, da incutere quasi timore.
«Viaggerai in prima classe?» la voce alta di George cacciò momentaneamente la sua paura.
Si limitò ad annuire, guardandosi intorno: Mallard ancora non era lì, ma il luogo d'incontro era proprio quello. Si sistemò, agitata, prima di osservare George al suo fianco e Charlotte, appena dietro di lei, che li stava raggiungendo. Riconobbe subito i facchini di Mallard, che aveva mandato per prendere i bagagli della sua futura sposa.
«Bene...allora io vado» annunciò George, vago.
Ethel gli prese la mano, stringendola. «No! Aspetta...» esclamò, cercando poi di modulare il tono di voce, da disperato a calmo.
George sorrise divertito, stringendo la mano a sua volta. «Hai paura che ti abbandoni e non si presenti?»
«No. Ma non voglio partire da sola, come un'estranea...» ammise sincera, ricevendo in risposta un abbraccio dal fratello. Si strinsero più che potettero, ricacciando indietro le lacrime.
«Non sei sola, Lulù...tu avrai sempre me. Sei parte di me...» sussurrò il fratello nel suo orecchio, stringendola ancora di più se possibile.
Ethel si lasciò andare in quell'abbraccio forte e deciso. Aveva una paura vergognosa: di partire, di sposare quasi uno sconosciuto, di stare da sola, lontano da tutti...di lasciare George, l'orfanotrofio...e Alfred.
«Grazie...grazie davvero...» mormorò Ethel nell'orecchio del fratello, rimanendo ancora abbracciati.
«Murphy! MURPHY!!» dovettero subito mollare la presa, sentendo quelle grida furiose. Ethel vide Charlotte arrossire e guardarsi intorno, speranzosa. Poi, dopo qualche istante, lo videro: sbucato da dietro un grosso lampione, il pasticcere di Rose Castle correva loro incontro, vestito di tutto punto con un bel cappello di paglia in testa. La pelle abbronzata dell'italiano spiccava tra tutti quegli anglosassoni.
«Mr Conti! Ma...voi che ci fate qui?» il tono di George era sinceramente curioso.
«Sssh, fallo parlare...» lo rimbeccò Ethel, emozionata. Sorrise alla sua cameriera, che rossa in viso gurdava il ragazzo riprendere fiato.
«Mr Herbert...Miss Herbert...scusate il disturbo» il povero Mark annaspava, le mani sulle ginocchia e il busto che si muoveva velocemente, cercando di ritovare un respiro regolare «Io...volevo chiedere una cosa a Miss Herbert»
«A me?» chiese Ethel, confusa «Dimmi pure, se posso aiutarti...»
«Sì, a voi miss. Volevo chiedervi...se la qui presente Miss Murphy vi fosse proprio necessaria, a New York. Sapete, c'è una mia cugina di secondo grado che abita proprio lì e che fa proprio la domestica! Non è che prendereste lei, già che si trova in città? E lascereste qui Miss Murphy?»
«E perchè dovrebbe?» chiese curioso George.
Ethel sollevò gli occhi al cielo: suo fratello aveva la sensibilità e il tatto di un toro.
«Perchè io me la vorrei sposare, a Miss Murphy, signore. Quindi se Miss Herbert mi fa la gentilezza di non portarmela via...»
«Conti!» brontolò imbarazzata Charlotte «non essere presuntuoso»
George ed Ethel si guardarono divertiti. «Sai, George...penso proprio che Mr Conti abbia ragione, le cameriere americane hanno un...tocco in più. E poi conoscono meglio la città, sapranno aiutarmi. Che dici?»
«Credo che sia un'ottima idea, si. Miss Murphy...potete andare» annunciò George, sorridendo appena, divertito.
«Ma...Miss io davvero non voglio crearvi disagio...» ammise Charlotte guardando Ethel.
«Charlotte...tu che puoi, sposati per amore. Vai» rispose la ragazza, prima di abbracciare la sua amica.
«Grazie...Ethel» rispose la cameriera, sorridendole.
«Ah, prima che me ne dimentichi! Non potrò esserci al vostro matrimonio, quindi vi do ora il regalo di nozze»
«Cosa? No, Miss davvero, voi avete fatto amche troppo, non serve...»
«Lasciala fare, Charlotte, di solito non cambia idea» commentò divertito George.
Ethel aprì una delle due borse da viaggio e ne cacciò fuori un cofanetto di mogano, che porse a Charlotte.
«Queste te le regalo, dopo tutte le volte che me le hai fatte indossare. Le perle mi piacerebbe che le indossassi il giorno delle tue nozze, ma gli altri gioielli puoi venderli se vuoi...ne ricaverai abbastanza per un nuovo inizio»
«Miss, io non posso accettare, davvero...» ammise Chalotte, arrossendo.
«Mi sembra il minimo per averti fatto perdere il lavoro» disse George intromettendosi nella disputa.
«Esatto. E perchè sei mia amica, l'unica che ho. Scriverò il mio indirizzo a George, una volta arrivata, e lui te lo manderà così potrai scrivermi, ogni tanto»
«Lo farò, certo...Grazie mille ancora allora, e buona fortuna per tutto» annunciò Charlotte, osservandola. Ethel sapeva che cosa le stava chiedendo, con lo sguardo: se era sicura che partire fosse la scelta giusta.
Le sorrise in tutta risposta. «Vai...non ti preoccupare, vai»
Charlotte sorrise e strinse la mano a Mark, entrambi emozionati e sorridenti.
«Pronta?» chiese Mark.
«Pronta...» mormorò Charlotte, felice.


«Tutto bene?» chiese George alla sorella, una volta che Charlotte e Mark sparirono tra la baraonda di gente.
«Sì...tutto bene...» annunciò Ethel sorridendo appena. «Riesci a vedere Mr Mallard? Ormai dovrebbe essere qui» qualcosa, nel petto, cominciò a crescere. Speranza. Speranza che Mallard non si sarebbe presentato, o magari fosse già partito, o...
«Eccolo là» annunciò George senza enfasi, indicando un punto davanti a lei. «Allora...io vado, mh?»
«Cosa? Non aspetti che salgo?» chiese Ethel, con l'angoscia nel cuore. L'ultima speranza si era sciolta davanti a lei, come burro al sole.
George scosse la testa. «No, Lulù, è meglio che non mi veda...magari si offende. Allora...arrivederci, Lulù, e scrivimi presto»
L'abbraccio fra i due gemelli fu lungo e forte, come se non volessero lasciarsi più. Gli occhi di Ethel si riempirono di lacrime mentre George la salutava e andava via, sparendo tra la folla.
«Miss Ethel! Perdonate il mio ritardo, sono imperdonabile, davvero. E' tanto che aspettate?»
Mr Mallard aveva un'aria agitata e preoccupata, ma cercava di sorridere verso la sua futura sposa.
«Sì, cioè no! No non è tanto che aspetto»
«Meno male. E la vostra cameriera?»
«Ci ha ripensato, ed ho preferita lasciarla qui...»
«Avete fatto bene, le cose contro voglia non sono mai le migliori...»
Sono pienamente d'accordo, pensò amareggiata Ethel, limitandosi a sorridere.
«Andiamo?» annunciò Mallard, porgendole il braccio. Sorrideva, ma fingeva solamente.
Ethel sorrise appena di rimando, stringendogli il braccio. Ogni passo verso la passerella della nave, ogni singolo passo era pesante, come se avesse delle pietre incollate ai piedi. Ogni respiro sembrava stringergli il cuore, soffocarla. Perchè? Perchè doveva fare una scelta obbligata, costretta solo dall'idea di doversi per forza sposare? Non poteva semplicemente...non sposarsi? Essere solo Ethel? E quei suoi parenti irlandesi? L'avrebbero accolta?
«Biglietti per favore» annunciò serio lo stuart in fondo alla passerella, bloccando il passaggio ed attendendo i biglietti.
«Oh si certo, aspetta un attimo cara» annunciò nervoso Mallard. Gli tremavano le mani e gli cadde il cappello, nella ricerca dei biglietti. «Dove diavolo sono...» brontolò agitato.
«Mallard» Ethel lo richiamò, istintivamente, senza nemmeno accorgersene «Posso parlarti?»
«Cosa? Si, si certo...un attimo» annunciò serio Mallard, raccogliendo le sue cose e spostandosi dalla fila.
«Ascolta Mallard, noi...io non...non ce la faccio...» ammise Ethel, il tono mortificato.
Il giovane la guardò qualche istante, serio, prima di sorridere. «Stiamo facendo una stupidaggine, vero?»
Ethel sorrise, sollevata, riprendendo quasi a respirare. «Credo proprio di sì, amico mio...»
«Lo so, hai ragione cara. Non sapevo come dirtelo, avevo paura di...abbandonarti, ecco. Ma ti saresti stufata di me velocemente, credimi»
«E tu di me, ne sono sicura»
«Che farai, ora?» le chiese, preoccupato.
«Andrò a trovare dei miei lontani parenti, non dovrebbe essere tanto lontano da qui. Andrò alla stazione e prenderò il primo treno. Non voglio tornare a Rose Castle, non...non voglio rivedere Alfred. Voglio fare quel che voglio, voglio solo essere me stessa»
«Ed io me stesso, mia cara Ethel. Quando tornerò a casa lascerò l'agenzia di mio padre, odio quel lavoro. Voglio aprirmi dei grandi magazzini d'abbigliamento! Che ne dici?»
«Credo che sia una splendida idea» commentò Ethel sorridendo. Lo abbracciò, sinceramente. «Grazie, davvero, per tutto quello che hai fatto per me. E scusami, se puoi»
«Scusami tu, Ethel. E grazie...scrivimi, quando sarai dai tuoi parenti, te ne prego» annunciò il ragazzo, prima di baciarle la mano e sorriderle. Poi girò i tacchi, mostrò il suo biglietto allo stuart e salì sulla passerella. Salutò Ethel, che ricambiò, prima di entrare nella nave e sparire.
Ethel deglutì, sollevata ma spaventata. Era libera. Era libera da ogni decisione, da ogni scelta, da ogni obbligo. Era solo lei e la sua borsa, non aveva nemmeno degli abiti da potersi cambiare. Sorrise divertita, affatto preoccupata o ansiosa: avrebbe ricomprato qualcosa una volta arrivata da suoi parenti, aveva ancora qualche gioiello da poter vendere. Poi avrebbe scritto a George, sperando sarebbe venuto a trovarla, e avrebbe trovato lì in Irlanda qualcosa da fare. Non avrebbe più fatto scelte stupide o avventate, solo per far piacere a qualcun altro, o solo per dovere. Sarebbe stata libera.
Prese a camminare verso l'uscita del porto, chiedendo scusa e avanzando a fatica, tenendo ben stretta la borsa a sé. Tutta quella gente le faceva venire l'ansia: non riusciva a reggere il troppo caos, come quando erano a Londra. Vivere in un paesino sarebbe stato perfetto. Lontano dal rumore cittadino, ma con l'essenzialità a portata di mano. Forse suo cugino aveva una fattoria, o una piccola serra. Si sarebbe presa cura dei fiori e delle piante...almeno loro non l'avrebbero delusa.
«Ma insomma, signorina, vogliamo muoverci?!» esclamò un grosso signore dietro di lei, che evidentemente andava di fretta.
Ethel arrossì, facendosi da parte e brontolando scuse generiche. Riprese a camminare, più veloce di prima, uscendo finalmente dal porto. Fuori, un marasma di taxi, macchine e omnibus che si fermavano, facevano scendere fiume di persone, e ripartivano alla velocità della luce.
Deglutì, ricordando solo in quel momento di non aver mai preso un omnibus in vita sua. Forse avrebbe potuto prendere un taxi, almeno fino alla stazione dei treni. Aprì appena la borsa, controllò di aver denaro sufficiente per la tratta, quindi prese a fare pazientemente la fila per uno di essi. Davanti a lei c'erano almeno altre quindici persone, che attendevano in piedi. Continuava a guardarsi intorno, preoccupata: non aveva mai viaggiato da sola, e la preoccupava avere tutta quella gente attorno. E se l'avessero derubata?
Non essere sciocca, fai la fila come tutti gli altri e non fare la faccia da turista, pensò tra sé facendo un bel respiro e continuando pazientemente ad aspettare. I taxi venivano riempiti velocemente ma impiegavano un'eternità a tornare. Osservò l'orologio all'ingresso del porto: era già mezz'ora che aspettava, e nessun taxi all'orizzonte. Sbuffò, spazientita, prima di sentirsi afferrare per un braccio ed essere trascinata via dalla fila.
Fece per gridare, ma si girò verso il suo aguzzino.
«George!» esclamò sconvolta, liberandosi dalla sua presa «ma ti ha dato di volta il cervello?! Mi hai spaventata»
«Era proprio quello che volevo fare, Lulù. Sei impazzita a prendere il taxi da sola?»
«Beh, io ero da sola, dove volevi che andassi? Piuttosto...che ci fai tu qui?» chiese Ethel accigliata, capendo solo in quel momento che, un'ora prima, George l'aveva salutata.
«Lulù...ti ricordo che sono tuo fratello. Avevo capito che non avresti preso quella nave da circa un mese. Ho solo aspettato che uscissi dal porto, e che capissi che senza di me non vai da nessuna parte»
«Ah beh, grazie. Sono grande abbastanza da...»
«Ma per favore, che non sai nemmeno come si paga un taxi» brontolò il fratello, facendole cenno di seguirla.
Ethel tuttavia non si mosse da lì, fissandolo offesa.
«Se mi avete rinchiuso in una teca di vetro per ventotto anni non è colpa mia, sai?» precisò lei, seccata.
George sospirò, tornando indietro da lei. «Hai ragione...scusa, ma non mi piace che vai in giro da sola. Almeno prima devi imparare a fare da sola. Dove vuoi andare?»
«Alla stazione. Voglio prendere un treno per Bushmills»
«Ti accompagno con la macchina, allora. E ti faccio salire sul primo treno»
«Come? Non...non vieni con me?» chiese Ethel, seguendolo solo in quel momento verso la sua vettura.
«Hai detto che volevi andare da sola, no? Allora andrai da sola...»
«Ma...sto andando a trovare i nostri ultimi parenti rimasti vivi, Georgie. Perchè non vieni anche tu?»
«No, non posso. Ho da fare»
«E cosa, di preciso?»
«Devo andare a sposarmi...» precisò George ironico, facendole un occhiolino mentre la faceva salire sulla vettura.
Ethel sorrise raggiante, sistemando la borsa nei sedili dietro di lei. Si rilassò, diretti verso la stazione degli autobus. Le cose, pian piano, si sarebbero sistemate. «»




Non poteva immaginare che, per arrivare a Bushmills, il treno avrebbe impiegato quasi cinque ore. Seduta comodamente nel suo vagone di prima classe, dopo un lauto pranzo, vedeva la campagna che velocemente veniva sostituita da case e strade.
Era agitata, non sapeva che cosa avrebbe trovato una volta arrivata in paese. Non sapeva se Bushmills fosse un villaggio per bene o un porto di mare. E i suoi parenti? Forse erano dei criminali, o magari non l'avrebbero accolta e sarebbe dovuta tornare indietro, fino al Norfolk. Sarebbe stata capace di viaggiare da sola per così tanto tempo?
Non fare la bambina frignona, la voce della sua razionalità le fece mantenere il controllo e la calma. Il treno cigolò, le rotaie fischiarono metallicamente. Si stavano fermando.
Cominciò ad alzarsi lentamente, quindi recuperò il suo unico bagaglio e, una volta fermi, scese quasi per prima dal treno. Si guardò intorno, osservando i pochi viaggiatori che erano scesi a quella stazione, e gli altrettanti pochi presenti fermi sulla banchina. Quel villaggio doveva essere veramente piccolo.
Uscì dalla stazione, ritrovandosi su quella che doveva essere la strada principale, nonché la più trafficata. Un pomeriggio soleggiato e fresco l'aveva accolta, e subito sentì una strana sensazione. Come un sentimento di appartenenza. Le case, lì, era state costruite una dietro l'altra, basse e grigie, con tetti e porte variopinte per bilanciare i colori scuri del materiale di costruzione. Vedeva un piccolo parco pubblico, in lontananza, e una sfilza di piccoli negozi locali, scritti in inglesi e in quello che suppose fosse gaelico.
Si guardò intorno, sospirando. Dove avrebbe trovato i suoi parenti? Entrò nel primo negozio che si ritrovò vicina, per cercare informazioni. Era un locale piccolo ma accogliente, con ampi scaffali in legno che esponevano stoffe di ogni tipo.
«E' permesso?» chiese, alzando appena la voce.
Dalla porta dietro il bancone uscì una donna in carne, capelli neri come la pece ed occhi scuri, tanto da sembrare più di origine italiana che irlandese.
«Mi dica pure, signorina» annunciò la donna, sorridendole.
Ethel si fece coraggio, avvicinandosi. «S-salve, vorrei un'informazione se possibile...sa dirmi per caso dove posso trovare John Herbert?»
La donna si accigliò, perplessa. «John Herbert...Ce ne sono tanti che si chiamano così, può essere più specifica?»
Il cuore di Ethel perse qualche colpo, ma non la speranza. «Dovrebbe essere il Reverendo del paese...»
Gli occhi della donna s'illuminarono. «Oh il Reverendo dici, certo! Sei una sua parente?»
Ethel sorrise sentendosi dare del “tu”: quella donna le era già simpatica. Annuì e dalla borsa prese l'indirizzo lasciatole da Lord Norton. La donna annuì, soddisfatta.
«Una cugina di secondo grado...credo. In verità sono venuta a conoscenza della sua esistenza da poco. Può dirmi per caso come posso arrivare a casa sua? Magari con un taxi o...»
La donna rise divertita, osservandola. «Sei una ragazza di città, vero? Altrimenti sapresti che qui non esistono i taxi! Ma c'è comunque un modo per arrivarci...SAAAAAM!» gridò, muovendo appena la testa verso la porta da cui era entrata in negozio. Da lì, dopo qualche secondo, ne uscì un ragazzino alto e magro, con folti capelli rossi e una spruzzata di lentiggini sul viso.
«Che c'è?» chiese il ragazzo, assonnato.
«Prepara il carretto, e porta questa signorina a casa del Reverendo. E non correre troppo! E non darle noia!» precisò l'apprensiva donna verso il ragazzino, che annuì sbuffando.
«La ringrazio, Mrs» rispose Ethel, sinceramente.
«Murphy, Mrs Murphy cara. Ma chiamatemi pure Elizabeth. Andate ora...e benvenuta a Bushmills!» esclamò la donna mentre Ethel usciva dal negozio. Le sorrise, da oltre vetrina, prima di salire sul carretto insieme al giovane figlio della commerciante, diretta verso la casa del Reverendo.


Il viaggio non fu lungo, ma alquanto avventuroso. Il Reverendo viveva in campagna, ed il tragitto tra il piccolo paese e l'enorme campagna irlandese consisteva nell'attraversare una mulattiera, piena di buche e massi, con greggi di mucche e pecore che attraversavano in folti gruppi, facendoli attendere.
Tuttavia Ethel non si lamentò: adorava la campagna e potè godersi il clima mite di quell'estate, con il sole che brillava nel cielo illuminando il verde intenso delle colline intorno a loro. In quel momento capì perchè l'Irlanda veniva chiamata dai poeti “L'isola smeraldo”. Qualunque cosa fosse intorno a loro, dal prato ai fiori fino agli alberi, aveva colori intensi e brillanti grazie alle innumerevoli piogge che si abbattevano sull'isola. Piogge che, in quel giorno, avevano deciso di risparmiarla dall'inzupparsi dalla testa ai piedi.
«Siamo quasi arrivati Miss!» esclamò Sam vicino a lei, e con una mano libera dalle redini del carretto indicò una piccola villa a due piani, avvolta da un bel giardino curato e circondata da un recinto di legno.
Era un'abitazione di campagna a pianta quadrata, con le persiane di legno, l'edera che si arrampicava su parte della parete frontale, coprendo quasi del tutto il secondo piano ad eccezione delle ampie finestre che si affacciavano sull'ingresso.
Sam fermò il carro davanti al cancello, quindi l'aiutò a scendere e le prese l'unica borsa che aveva. Aprì il piccolo cancello e attraversarono il vialetto. Ethel si guardò attorno: il giardino circondava tutta la piccola villa, con una cura maniacale che poteva solo far intendere l'amore e la dedizione dei padroni di casa. Un'altalena appesa ad un grosso faggio, delle panchine di pietra vicino ad una fontana, aiuole di rose e gelsomino, una piccola serra che sbucava da dietro la tenuta...sembrava un piccolo paradiso in terra.
La porta si aprì, mostrando una donna sulla quarantina, i capelli grigio-neri raccolti in uno chignon. Si pulì le mani sul grembiule stretto in vita mentre fissava Ethel, curiosa.
«Si?»
«Buongiorno signora, lei non mi conosce...ed anzi mi scuso per il disturbo arrecato. Mi chiamo Ethel, Ethel Herbert e...»
«Herbert hai detto?» la interruppe la donna, sorridendo radiosa «devi essere la cugina di John allora! Vostro zio ci ha inviato una lettera, anni fa»
Ethel sorrise incerta. «Ho saputo di voi solo pochi giorni fa, Mrs...»
«Cathleen, chiamami pure Cathleen. Siamo cugine acquisite no? Vieni, entra pure. Sam, ringrazia tua madre per aver accompagnato Miss Ethel da noi»
Ethel salutò Sam quindi varcò la soglia della porta, ritrovandosi nel piccolo ingresso.
«Prego, poggia pure le tue cose qui, le sistemeremo dopo» annunciò Cathleen.
Ethel si sfilò il cappello e la giacca di dosso, appendendole insieme alla sua borsa.
«Hai viaggiato molto leggera, hai fatto bene»
«In verità ho...beh, a quest'ora avrei dovuto prendere una nave per le Americhe ma ho cambiato idea. I bagagli erano già in stiva, quindi fra qualche mese torneranno nel Norfolk, immagino. Ho comunque del denaro con me per comprarmi le cose necessarie»
«Oh non volevo insinuare questo cara, non preoccuparti» precisò Cathleen sorridendo «Siediti pure, vado a chiamare John. Sarà così felice...» annunciò, indicandole un divano, l'unico presente nel salotto.
Ethel si accomodò e attese qualche minuto, il ticchettìo dell'orologio a pendolo come unica compagnia. Agitata, non faceva che guardare la porta da cui era sparita la moglie di suo cugino. E se non l'avesse voluta conoscere o, peggio, ospitarla? D'altronde lei non sapeva fare nulla, non poteva aiutarli in nulla, era solo un peso. Avrebbe chiesto denaro a George, ma fra qualche tempo, aveva anche lui le sue spese. E avrebbe cercato di tenersi occupata e di meno peso possibile.
Ma forse John non voleva affatto conoscerla, o forse si sarebbe rivelato una cattiva persona. O forse...
La porta si aprì e lei scattò in piedi, il cuore in gola. Vide entrare prima Cathleen, sorridente, e poi un uomo alto e dall'aria curiosa e serena. Aveva lo stesso colore di occhi e capelli di George, e somigliava scandalosamente a suo padre. Sentì subito gli occhi velarsi di lacrime ma cercò di trattenersi, seppur anche John avesse gli occhi lucidi.
«Ethel, vero...?» mormorò l'uomo, avvicinandosi.
«S-sì, e tu sei John...» non era una domanda, ovviamente.
John sorrise, emozionato, prima di abbracciarla in un caldo abbraccio.
«Benvenuta a casa, cara Ethel» mormorò il cugino.
«Io...mi dispiace aver disturbato, ma non sapevo dove andare e non volevo tornare a Norfolk, allora ho pensato che sarei potuta venire qui ma se arreco disturbo io...»
«Non essere sciocca, perchè dovresti arrecare disturbo?» intervenne Cathleen, sorridente «sei parte della famiglia, ed anche John pensava di essere l'ultimo della sua famiglia, no?»
John annuì, sorridendo felice «Infatti. Se non sai dove andare, cara Ethel, sei la benvenuta qui tra noi»
Ethel sorrise e, per la prima volta forse da quando ne aveva memoria, si sentì veramente a casa.


 
Arundel Castle, West Sussex, 3 Ottobre 1911


Fermò la vettura davanti all'ingresso principale del castello, sospirando. Come diavolo avrebbe fatto a convincere Lord Howard? Senza contare che probabilmente zia Adel era lì, da qualche parte, in attesa della sua piccola grande vendetta per essere stata cacciata da Little Hall qualche mese prima.
Avanzò lentamente e si fece annunciare dal maggiordomo che, in tutta risposta, lo guidò verso corridoi e scale, in un labirinto di stanze, salotti, tappeti persiani e vecchie armature medievali. Quella famiglia era chiaramente molto antica: alle pareti erano appesi quadri anche di cinquecento anni prima.
Il maggiordomo si fermò davanti ad una porta, prima di bussare ed entrare.
«Lord Howard, il Barone Herbert è qui in visita ufficiale e fomale»
«Oh, certo...fatelo entrare»
«Prego, signore» annunciò il maggiordomo verso George, che lo lasciandolo entrare. Si ritrovò così in un salotto intimo e raccolto, con un camino acceso, alte e ampie librerie e comodi divani. Su uno di essi erano seduti Lord Howard e Cassie, che lo fissava confusa, rossa in viso. Su una poltrona invece, posizionata in un angolo come un avvoltoio, era ben comoda zia Adel, poggiata al suo bastone con le mani, che sorrideva divertita.
«Barone Herbert...» ripetè la vecchia megera, come se le suonasse strano quel titolo accostato al cognome del ragazzo.
«Buongiorno, Lord Herbert...Lady Howard...Miss...» George salutò formalmente tutti quanti, seppur gli occhi si fermarono qualche istante di più su Cassie, che sembrava come colpita da un fulmine.
«Sir Herbert, prego, accomodatevi. Immagino ricordiate mia figlia Cassandra» annunciò il Lord, facendo cenno al maggiordomo che prontamente servì del brandy ai due uomini.
«Si, signore. Miss Cassandra, state bene?» chiese George sedendosi e sbottonandosi il bottone della giacca.
Cassie arrossì e si limitò ad annuire prima di uscire velocemente dalla stanza, facendo calare il silenzio nella stanza.
Lord Howard sorseggiò il suo brandy prima di osservare con attenzione George. «Fa così da settimane, sapete? Mangia molto poco e spesso la sento piangere la notte. Temo che siate voi la causa del suo male, Sir»
George fu piacevolmente colpito dalla schiettezza del Lord, che lo fissava con estrema calma. «Me ne rammarico molto, Lord Herbert. E' mia intenzione rimediare, comunque sia»
«E come, di grazia?» intervenne Zia Adel, ridacchiando divertita «col vostro titolo nuovo fiammante»
«Il mio titolo non è nuovo, milady. La mia è una famiglia di antichi baroni, antica come la vostra. Ma se proprio non vuole bastarvi...ho questo per voi» annunciò George, estraendo dalla tasca interna della giacca un foglio ripiegato, che porse a Lord Howard.
«E' una lettera, scritta e firmata dal notaio di Lord Norton -ed anche mio- che mostra su carta la mie rendite annuali»
«Le 5.000 sterline derivate dal vostro titolo e dalla vostra presenza in Parlamento? Volete far vivere mia nipote con 5.000 sterline l'anno?» interruppe ancora zia Adel, sconvolta.
«No di certo, milady. Vedete, questa lettera elenca solo la mia rendita annuale delle mie fattorie in Cornovaglia, ereditate dai Norton, che Dio li abbia in gloria. Sono di mia esclusiva proprietà e gestione, ho quasi cento fattori e dipendente con me, e la mia rendita annuale, per esempio del prossimo anno, è stata calcolata di-»
«10.000 sterline...» mormorò Lord Howard, facendo quasi strozzare zia Adel col brandy. George, in cuor suo, sperò tanto che ciò potesse accadere.
«Esattamente. E' stato calcolato che Miss Cassandra potrebbe vivere in completa agiatezza come mia moglie, con questa rendita totale, per circa...settant'anni. E' bastevole?»
«Direi di si, Sir Herbert. E la vostra dimora in Cornovaglia, com'è? Adeguata per una Duchessa?»
«E' una villa vittoriana assai incantevole, Lord, ed una servitù composta per ora da dieci soggetti, che riescono tranquillamente a coprire la gestione di dieci stanze da letto. Oltre ovviamente a due giardinieri ed un pasticcere, appena arrivato da Parigi. Ovviamente vostra figlia avrà una sua cameriera personale, nuova o di vecchia amicizia, a sua discrezione»
Lord Howard fissò con attenzione George, scrutandolo attentamente. «Avete lavorato molto in soli due mesi, come avete fatto? Non mi starete ingannando?»
«Se la firma di un bravo notaio non vi basta, Lord, potete sempre venire in Cornovaglia e guardare voi stesso, sfogliare i miei registri e calcolare voi stesso i miei guadagni. Le terre erano già avviate e i fattori esperti, quel che ho aggiunto io è stata un'ottima gestione del personale...e un tocco di fortuna e di colpi di testa, che ogni tanto fanno solo che bene»
Lord Howard sorrise, finalmente «State pur certo che controllerò di persona, prima di affidarvi la mia unica figlia. Ovviamente i titoli nobiliari verranno separati, così che mia figlia possa rimanere una Duchessa»
«Ovviamente»
«...e ovviamente prima devo capire se mia figlia è d'accordo su questo matrimonio»
«SONO D'ACCORDO!» gridò Cassie da oltre la porta chiusa, facendo sorridere George e Lord Howard.
«Bene...non devo fare altro, allora, che venire a trovarvi nella vostra tenuta, Sir Herbert» annunciò Lord Howard alzandosi dalla poltrona.
«Vi aspetto, milord» rispose George facendo altrettanto. Uscì dalla stanza per ultimo, incrociando Cassie nel corridoio. Lord Howard lanciò loro un'occhiata, poi sospirò e porse il braccio a zia Adel, che borbottando si allontanò dai due.
«Ciao...» mormorò George, cercando la mano di Cassie, che dolcimente se la lasciò stringere.
«Ciao...io...» mormorò Cassie, gli occhi colmi di imbarazzo.
«Volevo solo essere un buon partito per tuo padre...»
«Lo vedo» ammise la giovane, gli occhi fissi su quel nodo legnoso del pavimento proprio davanti ai suoi piedi «e Miss Norton?»
«Miss Norton...» ripetè George, sbuffando. Prese anche l'altra mano di Cassie, stringendole tra le sue «Non c'è mai stata nessuna Miss Norton, Cassie. Daisy ha solo cercato di ottenere un capriccio, qualcosa che lei avrebbe voluto...ma che non ha mai ottenuto. Ora è lontana, a Londra, a rovinarsi la vita in qualche maniera, passando da letto a letto»
«E tu? Non eri fatto in una sola maniera?» chiese la ragazza, con aria saccente.
George sorrise appena. «Sono cambiato, per te. Ho preferito rimboccarmi le maniche anziché farmi campare da Alfred. E comunque sia, lo avrei fatto comunque. Avevo solo bisogno della giusta...spinta» precisò, osservandola intensamente.
«Dunque...» mormorò Cassie.
«Dunque sono cambiato per te, sei tu la mia spinta. E se tu vuoi davvero, io vorrei diventare tuo marito, Cassie»
«Facciamo fra una settimana?» commentò ironica Cassie.
George sorrise divertito, si guardò intorno prima di stringerla a sé con entrambe le braccia, con passione. «Pazienza, pazienza...in primavera faremo una bella festa»
«George, sei impazzito? Ci possono vedere» mormorò la ragazza, arrossendo.
«E che ci vedano! Sai che m'importa...» brontolò George prima di baciarle una guancia e sciogliere poi l'abbraccio.
«Fino a prova contraria, sono ancora una giovane rispettata» precisò Cassie, sistemandosi l'abito.
«Oh beh, in tal caso...prego Miss Howard, meglio non far arrabbiare vostro padre» annunciò George, porgendole il braccio e sorridendo divertito.
  
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