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Autore: NicoRobs    13/08/2018    1 recensioni
"Il nome che mi hanno dato alla nascita è Nate River. Deriva dal fatto che sono stato concepito l'8 novembre 1997 sotto un albero di ciliegio, in riva ad un fiume.
Ad oggi, sono il detective più bravo al mondo, e non esiste caso che io non abbia risolto. Eppure, c'è sempre stato un mistero che non ho mai avuto interesse di svelare: quello della storia della mia famiglia, delle mie origini. A nessuno studente della Wammy's House di solito interessa. Eppure, tempo fa un pensiero semplicissimo e spaventoso mi ha scosso: per rimanere vivi ci vuole molto coraggio. E la storia della mia famiglia è segnata dal coraggio; per questo la reputo degna di essere scoperta.
Questa è la storia di Angelica, Eraldo, Martha e Thomas. Di Anne e Phil. Di Will e Freda. Di Quillish. Di Roger. Di Bjarne. Di K. E di L."
"Siamo un sistema di stelle e pianeti impazziti che girano vorticosamente a velocità spropositate attraverso un universo infinito e sconosciuto. E l'unica certezza alla quale possiamo ancorarci è la presenza gli uni degli altri. Basta alzare gli occhi al cielo per ritrovarci e capire che, in fondo, non ci siamo persi davvero."
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Near, Nuovo personaggio, Watari
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'About November 8th'
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Before november 8th cap 1


16 settembre 1979


     Dublino, 16 settembre 1979.
Will, ancora a braccia conserte, alzò un sopracciglio, mentre abbracciava con lo sguardo la platea di studenti di fonte a lui, cercando però di incrociare tutti i loro occhi.
-Davvero nessuno che sappia rispondere a questa semplicissima domanda?- li incalzò, tamburellando la penna sul proprio braccio.
-Professore, la scongiuriamo...- piagnucolò una vocina dalla terza fila. Doveva essere quella di Aorghie, anche se non riusciva bene a distinguere il gruppo di ragazze semi addormentate che si nascondevano dietro la loro pila di libri. -È venerdì pomeriggio. Ci dia tregua!-
-E poi,- intervenne una voce maschile dalle ultime file, e questo era sicuramente Sean. -esiste davvero qualcuno che abbia letto Finnegans Wake?-
Tutta la classe scoppiò a ridere. Tranne Will. Will sciolse le braccia e, con un gesto secco, puntò la penna contro i banchi.
-Ha!- esclamò.
-Humphrey Chimpden Earwicker. Male, molto male, ragazzi.- continuò, scuotendo la testa con tono deluso. -Sarete ricordati come la vergogna del Trinity College nei secoli dei secoli. Nemmeno il protagonista di Finnegans Wake sapete.-
Ora stava tentando di arricciare i baffi rossi in quel modo tanto ridicolo che la sua classe adorava e, in effetti, poco dopo ricominciarono le risa.
-Via, via, vili marrani.- fece allora Will, facendo loro gesto di andarsene col dorso della mano. -Ci vediamo lunedì mattina. Lo so, lo so che domenica c'è la partita, ma sappiate che sono disposto ad andare a setacciare tutti i pub di Dublino e a trascinarvi per le orecchie fino in classe, se non vi presentate. E costringerò chiunque faccia tardi a declamare una poesia a tema patriottico di Seamus Heaney, scelta dalla classe, di fronte alle aule di Anglistica. Sean, è inutile che fai il finto tonto, tanto lo sanno tutti che sarai il primo della lista. Per te ho anche pronto un costume da leprecauno.-
Il vociare e le risa si stavano facendo più intense, mentre i ragazzi prendevano le loro borse e si alzavano dai banchi.
Will adorava il proprio lavoro, e anche i suoi ragazzi gli piacevano. Ci pensava ogni volta che concludeva in questo modo bizzarro le sue sfortunate lezioni di Letteratura Irlandese del venerdì pomeriggio.
     -Professor Kenton...- lo riscosse dai propri pensieri la voce della piccola e bionda Daisy, che si era avvicinata alla sua scrivania come faceva ormai quasi ogni giorno.
-Volevo dirle che anche oggi la sua lezione è stata così emozionante!- cinguettò la ragazza, fissandolo coi suoi enormi occhi azzurri. -Siamo davvero fortunati ad avere un professore in gamba come lei.-
-Grazie per avermelo detto anche oggi.- sospirò l'uomo, sistemando i propri libri nella valigetta nera di pelle. -Ma non era necessario. Sai, ho una buona memoria, non serve che mi fai i complimenti tutti i giorni.-
Ma la ragazza continuava a guardarlo sognante, torturando tra le dita bianche la cinghia della propria borsa. I suoi compagni e le sue compagne le passavano di fianco e ridacchiavano, così Will cercò di levarsi in fretta d'impiccio, per porre fine a quell'umiliante teatrino che si ripresentava ogni giorno.
Non era certo l'unico professore al Trinity College con una studentessa o studente che lo spasimava, ma Daisy era la tipica ragazza sognatrice, gentile e delicata che era in grado di chiudersi completamente nelle proprie fantasticherie; questo, purtroppo, voleva dire che da quell'orecchio non ci sentiva proprio. Inutile farle capire che il suo interesse non era ricambiato, era illegale e la stava mettendo in ridicolo di fronte ai propri compagni: ogni giorno lei tentava di fermarsi a parlare con lui, e ogni giorno lui diventava più brusco nel liquidarla.
     Will ogni tanto si stupiva del proprio successo con le donne: era un irlandese ordinario, non molto alto, capelli rossi faticosamente tenuti lisci e in ordine con una riga di lato, buffi baffi rossi, lentiggini e grandi occhi azzurri.
Si scosse un po' di polvere di gesso dal maglioncino verde scuro mentre prendeva impermeabile ed ombrello e si apprestava ad uscire dall'università.
Soprattutto, lo stupiva il fatto che un donna attraente come Freda non solo avesse accettato il suo timido invito ad uscire, ma se lo fosse addirittura sposato. Freda era... stupenda. Una scultura. Di ghiaccio. Certo, Will conosceva anche il suo lato tenero e affettuoso, la sua vena ilare e la sua giocosità, oppure non ci avrebbe messo su famiglia; nessuno dei suoi parenti aveva approvato la sua scelta, credevano che l'avesse scelta solo perché... come dirla in modo gentile... Freda era gnocca. Decisamente gnocca. Era anche mostruosamente intelligente, o non avrebbe vinto borse di studio su borse di studio e non sarebbe diventata il primo primario donna straniero della Repubblica d'Irlanda. Ma nessuno nota quanto sei intelligente quando sembri una modella nordica da prima pagina.
Però, ecco... Freda era fredda. Il suo nome derivava dal norreno Fríða, che significa “bellissimo, amorevole”, ma Will la prendeva sempre in giro dicendo che in realtà la radice era quella del latino frigĭdus, che significa “freddo”, e, tra le lingue romanze, in italiano l'aggettivo femminile suonava proprio come Freda. E ogni volta che lo diceva, lei puntualmente arrotolava il giornale che stava leggendo e cominciava ad agitarglielo contro, sbraitando qualcosa in svedese, in olandese, o addirittura in afrikaans, che, dopo accurate ricerche filologiche, Will aveva ricondotto alla seguente serie di frasi: “Te le faccio vedere io le radici”, “Prenderò a calci il tuo celtico culo da qui fino a Roma a pagare i tuoi tributi”, “Ora ti faccio un'accurata rappresentazione della conquista norrena di Lindisfarne”. Se, tuttavia, Will provava a correggere le sue inesattezze storiche o la confusione tra i celti d'Irlanda e quelli di Britannia, partiva una serie di insulti ai quali il pover'uomo non aveva ancora trovato adeguata traduzione. Era in quei momenti che Will la adorava, perché per un attimo lasciava da parte il suo essere tutto d'un pezzo e si lasciava andare alla goliardia, agli insulti affettuosi, alle risa.
     La sua vita non era stata facile. Sua madre Kristina era svedese, e si era trasferita in Olanda per studiare arte, dove aveva conosciuto Jens Van der Ende, medico di origine ebrea; tuttavia, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale aveva costretto Jens a fuggire con la ragazza da poco sposata, per trasferirsi dal ramo boero della famiglia che da generazioni risiedeva in Sudafrica. Dopo la morte di una prima figlia a causa della malaria, nel 1950 era nata lei, Freda. I Van der Ende erano finiti a vivere in un quartiere di neri assieme ad altri olandesi sfollati che ormai non avevano più nulla. Freda adorava ascoltare le mamme di colore cantare la sera mentre preparavano la cena, o i ragazzi che improvvisavano una danza dalle finestre dei loro piccoli appartamenti, ma nessuno dei bambini voleva fare amicizia con lei: lei era bianca, e i piccoli avevano paura che avrebbe cominciato a bastonarli, a sputagli contro o che avrebbe chiamato la polizia se solo avessero alzato lo sguardo verso di lei. Così era cresciuta da sola e senza amici; il suo unico passatempo era farsi insegnare da suo padre le basi della medicina, perché già da piccola aspirava a diventare un medico che avrebbe potuto salvare bambine come la sorella che non aveva mai conosciuto, o i bambini che vedeva dalla finestra, che camminavano male, tossivano o avevano ferite infette perché nessun medico, a parte suo padre, li avrebbe mai voluti toccare.
Freda assisteva Jens ogni qualvolta riusciva a scuoterlo dal torpore in cui la fuga dall'Olanda, la povertà e la morte della sua primogenita lo avevano gettato, e lo convinceva ad assistere i bambini del quartiere. Era destino che diventasse medico anche lei.
Purtroppo, il ragazzo che frequentava di nascosto l'aveva messa incinta, e poi era sparito. I suoi genitori l'avevano cacciata di casa non perché lui fosse mulatto, bensì perché era un mezzo delinquente. Era arrivata in Inghilterra con una borsa di studio, un muro invalicabile costruito attorto al suo cuore pesante ed un bambino nel ventre.
     Era questo ciò che Freda gli aveva raccontato la mattina dopo aver fatto l'amore. Lo aveva guardato negli occhi, seria, avvolgendosi tremante nel lenzuolo del minuscolo appartamento dove Will viveva quando studiava ad Oxford, e gli aveva detto: -Will, tu hai detto che la vera sfida con me non era portarmi a letto, quanto farmi passare un'intera giornata sorridendo felice e serena.-
Poi aveva distrattamente accarezzato il pancione di sei mesi, e aveva ripreso: -Mi stai simpatico, Will. Si vede che hai un cuore grande. Ora ti spiegherò perché secondo me la tua sfida è impossibile.-
-Ti ascolterò solo dopo che avrai mangiato un'abbondante colazione.- aveva detto Will, rivestendosi. -Vado in cucina. Tu non scappare.-
E, non appena fu uscito dalla camera da letto, domandò, ad alta voce. -Se però dovessi riuscire a sciogliere il tuo cuore di ghiaccio... Mi sposeresti, Freda?-
Lei aveva riso. Ma era una risata di scherno, quindi, non sarebbe valsa.

     -Sono a casa!- urlò Will, scuotendosi la pioggia dall'impermeabile e strusciando le scarpe sullo zerbino.
Ed ecco che, dal fondo del corridoio, gli strilli della creatura più meravigliosa che l'intero universo avesse mai avuto l'onore di vedere lo raggiunsero come un raggio di sole che spunta tra le nuvole in una giornata luminosa, e ti scalda le ossa. La triste ironia del suo pensiero smorzò un poco il suo sorriso sotto i baffi rossi, mentre la creatura più meravigliosa del creato gli correva incontro con le sue piccole gambette grassocce sotto un logoro vestito marrone su cui erano attaccate finte foglie d'edera.
-Mio signore, mio signore Oberon!- strillò la piccola Stephanie, reggendo in mano un fiore di plastica viola.
-Ah, Puck!- rispose Will, protendendosi in avanti con ancora l'impermeabile addosso. Poi si schiarì la voce.
-Ben arrivato, vagabondo! Hai il fiore con te?- recitò, porgendo la mano alla propria pargola.
Stephanie adorava giocare ad interpretare Sogno di una notte di mezz'estate. Si era fatta cucire l'abito di Puck apposta, e conosceva molte parti dell'opera a memoria. Nonostante avesse appena tre anni, era già un'allieva migliore rispetto ai suoi studenti universitari.
-A me il vagabondo sembra tuo padre, Stephanie.- disse Freda, materializzandosi sullo stipite della porta del salotto con le braccia incrociate. -Su, vieni qui, folletto dispettoso, lascialo entrare.-
     Si sedettero poi tutti insieme davanti ad una tazza di tè e a biscotti appena sfornati.
-Non mi dirai che hai cucinato tu, Freda.- la prese in giro Will.
La donna lo fulminò con lo sguardo mentre sorseggiava elegantemente il proprio tè, reggendo il piattino sotto la tazza. Aveva grandi occhi azzurri da cerbiatta, zigomi alti, naso all'insù e finissimi capelli biondo platino, praticamente bianchi come quelli della loro bambina albina.
-Non posso sempre lasciare che sia tu la donna di casa.- lo canzonò, nascondendosi dietro la tazza. -Sennò va a finire che ti sentirai trascurato e finirai per cedere alle attenzioni di qualche aitante giovane, come quell'adorabile Daisy dell'università.-
Will scoppiò a ridere di cuore, e Stephanie, che era in braccio a lui, rimase ipnotizzata a guardare i suoi baffi rossi andare su e giù, mentre ancora stringeva tra le mani grassocce il fiore di plastica.
-Questa Daisy è innamorata di papà?- domandò candidamente, accoccolandosi sul suo petto.
-Vedi, piccola mia.- le disse dolcemente Will, appoggiando la tazzina sul tavolo mentre la reggeva col braccio libero. -A volte succede che certe persone, in periodi molto delicati della loro crescita, si innamorino di una persona più grande perché, in realtà, sentono la mancanza di una figura di riferimento come una mamma o un papà, e quindi identificano inconsciamente quella persona come, appunto, la loro mamma o il loro papà.-
-Dio mio, Will, ha tre anni la bambina.- protestò Freda. -Non usare parole difficili come “inconsciamente”. Spiegale le cose in modo semplice.-
Stephanie gonfiò le guance in un plateale gesto di dissenso che fece sorridere Will.
-Freda, dai... la piccola sa leggere, scrivere e fare calcoli. Mentre gli altri bambini alla sua età stentano a colorare i libri illustrati senza uscire dai margini, lei si sforza di leggere Shakespeare, e non quello semplificato, ma proprio quello scritto in inglese dell'età elisabettiana. E parla gaelico, inglese e afrikaans. Non penso che “inconsciamente” sia un termine difficile per lei.-
     Che fosse una bambina prodigio, era fuori discussione. Stephanie era stata precoce già ad imparare a gattonare, a camminare, a parlare e tutto il resto. Sua madre aveva provato a farla crescere bilingue, insegnandole l'afrikaans, la più utile, a suo parere, tra le proprie lingue madri oltre all'inglese, ma la piccola Stephanie aveva stupito tutti quando, di ritorno da uno degli spettacoli folklorici irlandesi che si tenevano ogni settimana in un paesello vicino Dublino, spettacoli che lei tanto adorava, si era messa improvvisamente a parlare gaelico.
Quegli spettacoli teatrali erano l'unica occasione per lei di uscire e vedere il mondo. Era nata albina, perciò non poteva giocare con gli altri bambini all'aria aperta, nei giorni in cui spuntava il sole. Perciò, la piccola Stephanie attendeva con ansia che giungesse il sabato per vedere un nuovo spettacolo, e nel frattempo si faceva raccontare opere teatrali e fiabe folkloriche da Will.
Da grande avrebbe fatto l'attrice di teatro, diceva.
-Potresti farla passare da Shakespeare al teatro greco, allora.- disse allora Freda in tono canzonatorio. -Falle leggere l'Edipo Re, l'Elettra di Sofocle, quelle cose lì. Così magari capisce meglio cos'è il complesso edipico e non rischia di svilupparlo nei tuoi confronti, visto che ti è sempre appiccicata.-
-Lo so cos'è il complesso edipico, mamma.- borbottò Stephanie, con la sua adorabile vocina da bambina. -Ma non voglio sposare papà. È vecchio e ha i baffi.-
Will e Freda scoppiarono a ridere di cuore.



     San Francisco, 16 settembre 1979.
    Alla radio la voce acuta di Kate Bush cantava a squarciagola “Bad dreams in the night/ They told me I was going to lose the fight/ Leave behind my wuthering, wuthering/ Wuthering Heights”, accompagnata dalla voce un po' roca di Anne Hartford, che, nonostante la minore estensione vocale, cercava di dare il meglio di sé in quel piccolo concerto privato che si ripeteva in macchina ogni mattina. Forse non ci stava esattamente mettendo tutto l'abituale impegno, ma era la prima volta che percorreva le strade di San Francisco come conducente, per cui stava prestando particolarmente attenzione alla strada di fronte a sé. Finalmente lei e Bjarne avevano potuto raggiungere il padre, nuovamente trasferitosi per lavoro. Quella volta, per lo meno erano riusciti a far finire l'anno a Bjarne e a fargli trascorrere l'estate in compagnia dei pochi amici che era riuscito a farsi nei precedenti due anni, periodo in cui avevano vissuto a Santa Monica.
A Bjarne non dispiaceva troppo dover cambiare casa e città così di frequente: ogni occasione era buona per conoscere nuove persone e fare esperienze diverse. Era anche un po' come quando andava alla sala giochi a giocare a Flipper, Pac-Man o Donkey Kong: se commetteva qualche errore in un posto, non era la fine, perché poteva ricominciare la partita da un'altra parte ed evitare di commettere gli stessi sbagli. Così aveva imparato che: non ci si dichiara alla bambina più carina della classe se hai i denti sporchi dei broccoli del tuo cestino del pranzo; che se hai i broccoli nel cestino del pranzo è improbabile che qualcuno voglia sedersi vicino a te a mensa; che però è meglio evitare di mangiare solo merendine e schifezze per farsi accettare dagli altri, perché poi diventi cicciottello e nessuno vuole stare con te in nessun caso; che, per quanto possa sembrarti ingiusto, piangere per la sorte delle rane dissezionate durante l'ora di scienze ti fa guadagnare solo un sacco di prese in giro.
Ma, soprattutto, Bjarne aveva imparato che la questione delle adozioni veniva sempre affrontata da tutti con estremo imbarazzo, quasi come fosse qualcosa di indicibile e scandaloso.
Too long I roam in the night/ I'm coming back to his side, to put it right/ I'm coming home to wuthering, wuthering/ Wuthering Heights
     Bjarne non avrebbe voluto interrompere il mattutino concerto privato in cui sua madre si esibiva sempre quand'era in macchina e di buon umore, e alla radio passava una canzone che adorava. Però aveva immaginato non mancasse molto alla scuola dov'erano diretti, per cui tentò di farle la stessa domanda che gli usciva spontanea ogni volta che si trasferivano in una casa più grande, in una città più grande.
-Se papà avrà una promozione e potremo fermarci a vivere qui, possiamo adottare un fratellino o una sorellina?-
In passato, a quella domanda i suoi avevano sempre risposto con un sorriso entusiasta, convinti del fatto che un futuro più stabile in cui costruire una famiglia più numerosa non fosse poi così lontano. Eppure, quel giorno Anne interruppe la canzone a metà, e a Bjarne apparve tutto d'un tratto strana, più stanca del solito, e senza la solite luce che le illuminava lo sguardo.
-Non lo so, tesoro.- rispose infine, semplicemente. -Non vorrei darti false speranze. E non vorrei illudermi nemmeno io che questo possa accadere. Vedi, io e tuo padre ci stiamo sperando da così tanto...-
Bjarne rimase in silenzio, osservando sua madre che ora aveva preso a guidare ancora più cauta per le larghe strade di San Francisco.
Ooh, let me have it/ Let me grab your soul away/ Ooh, let me have it/ Let me grab your soul away/ You know it's me, Cathy” cantava la radio, nel silenzio dell'abitacolo.
Il bambino non voleva che sua madre fosse triste, per cui disse: -Non importa, mamma. Non dovete farlo per forza. Meglio pochi ma buoni, no?-
La mamma si era voltata verso di lui appena un istante, per non perdere d'occhio la strada, e aveva sorriso in quel modo così caldo e rassicurante che sembrava lo stesse abbracciando.
     Il bambino si girò, soddisfatto, e prese a sfogliare il quadernetto sulla cui copertina era scritto “Cose da non fare quando ti sei appena trasferito”.
-Potresti lasciarmi a poca distanza dall'entrata della scuola?- domandò, quindi. -Così mi puoi dare un bacio prima che scenda, ma nessuno ci vedrà e mi prenderà in giro.-
La donna rise.
-Posso anche non darti il bacio della buona giornata, se preferisci.-
-Perché no?- domandò il piccolo, dondolando i piedi. -A te fa piacere. I bambini sono stupidi, prendono in giro gli altri per cose stupide. Non voglio farti un dispiacere solo perché ci sono dei bambini stupidi.-
Bjarne era un esperto di bambini stupidi, ormai. Aveva capito che il mondo va avanti se c'è qualcuno di più debole da calpestare, qualcuno che rimane fuori dal branco. Lui era sempre l'ultimo arrivato in ogni posto, perciò era sempre isolato e facile da colpire. E poi aveva un nome straniero.
I suoi genitori lo avevano chiamato David di secondo nome, e lo avevano invitato ad usare quello per evitare domande imbarazzanti o prese in giro. Ma Bjarne non aveva voluto. Era pieno di David, là fuori, così come era pieno di James, di John, di Mattew, di Andrew, di Edward eccetera. Eppure, non c'era nessun Bjarne. Nessun bambino coi capelli quasi bianchi e la pelle che si scuriva subito al sole. Lui era unico, e pensava che doveva esserci un motivo; forse era destinato a fare qualcosa di grande. Pensava che gli sarebbe piaciuto fare sì che i bulli smettessero di prendersela coi più deboli, difatti era sempre il primo a mettersi in mezzo quando i bambini se la prendevano con qualcuno che non era lui.
-Mossa poco intelligente.- lo aveva scherzosamente rimproverato suo padre. -Se lasci che si trovino un nuovo capro espiatorio, ti lasceranno in pace. D'altro canto... questo non ti renderebbe migliore di loro. Perciò vorrei dirti che sono fiero di te, ma sono anche stanco di vederti arrivare a casa con la divisa sgualcita e pieno di lividi e graffi.-
Bjarne aveva promesso che avrebbe evitato di farsi pestare. Voleva prendere lezioni di autodifesa, e, tra le varie discipline, aveva scelto il Jeet Kune Do; adorava i film di Bruce Lee, e poi ora si era trasferito a San Francisco, la città natale di Lee. Era il momento giusto. Bjarne era certo che le cose quella volta sarebbero andate diversamente.

     -Questo è il vostro nuovo compagno.- disse l'insegnante, tenendo Bjarne per le spalle. -Si chiama David Hartford. Spero che sarete gentili con lui.-
-Il mio nome è Bjarne.- puntualizzò il bambino, guardando i suoi nuovi compagni di classe coi grandi occhi castani.
Tutti parvero confusi. Succedeva sempre così.
-È un nome scandinavo. Sono stato adottato.- disse candidamente. Nel suo quadernetto aveva anche appuntato che cercare di nascondere la cosa avrebbe fatto pensare agli altri che se ne vergognasse, e a quel punto lo avrebbero utilizzato come argomento principe per prenderlo in giro.
-Quindi vuol dire che i tuoi genitori non ti volevano?- ridacchiò immediatamente un ragazzino con diversi buchi tra i denti in crescita, seduto al fondo della classe.
Bjarne attese di vedere quali tra i suoi compagni di classe si sarebbero platealmente uniti alla risata, chi avrebbe tentato di nasconderla e chi si sarebbe voltato con uno sguardo di disapprovazione. Sul suo quadernetto aveva appuntato: “Mostra subito le tue carte e scopri chi possono essere i tuoi amici e chi potrebbero essere i tuoi bulli”.
Si impresse velocemente i volti delle tre categorie sopra citate e poi riprese a parlare, mentre l'insegnante alle sue spalle osservava la scena basita, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso.
-No, vuol dire che i miei genitori mi volevano così tanto che si sono fatti migliaia di chilometri per trovarmi.- rispose allora, esibendo il miglior sorriso che la sua dentatura perfetta gli consentiva.
Valutò se fosse anche il caso di passarsi una mano tra i fini capelli biondo platino, ma decise di non esagerare: c'era tempo per sondare il terreno con le bambine della prima fila che non avevano riso assieme al tizio al fondo dell'aula, e, soprattutto, ora sapeva quando doveva evitare di farsi preparare i broccoli per pranzo.




     Boston, 16 settembre 1979.

Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are!
Up above the world so high,
Like a diamond in the sky.

When the blazing sun is gone,
When he nothing shines upon,
Then you show your little light,
Twinkle, twinkle, all the night.

     Martha recitava la poesia al proprio pancione, passandosi una mano tra gli spessi e folti capelli castani, mentre guardava l'ultima ecografia fatta. “Miss. Marta Venturi, w. 28” era scritto in piccolo sotto l'immagine in bianco e nero del suo bambino o della sua bambina. Martha sospirò; odiava il suo nome italiano, così come odiava le sue origini straniere: poco importava che Boston fosse sempre stata una città di immigrati, e che fosse sempre cresciuta insieme a bambini provenienti da ogni dove; non sopportava le risatine o gli sguardi d'allarme che le venivano lanciati ogni volta che veniva fuori il fatto che fosse italo-russa. Aveva dovuto vivere un'infanzia in piena Guerra Fredda con una madre dall'aspetto così sovietico che l'appellativo più gentile che si era guadagnata dai suoi compagni di classe era stato “spia rossa”.
Per questo non vedeva l'ora che nascesse il bambino o la bambina, così avrebbe potuto raggiungere Thomas in Inghilterra, si sarebbero sposati e lei avrebbe cominciato una nuova vita. Martha Lawliet. Non sarebbe stato difficile aggiungere una “h” al suo nome di battesimo.
Martha pensava a Thomas, mentre guardava le luci del porto di Boston dalla finestra della minuscola e ammuffita soffitta dove sua zia Angelica l'aveva sistemata dopo che se n'era andata di casa a diciassette anni. Anche il suo uomo aveva in un certo senso ripudiato la propria famiglia: lei lo aveva fatto non perché non volesse bene ai propri genitori, ma perché non riusciva a sopportare il peso della discriminazione e del sospetto; non voleva che i vicini sentissero l'odore del ragù che sua zia e sua madre preparavano la domenica, e si vergognava quando suo padre alzava il volume della radio perché stava passando una canzone italiana. Thomas, invece, odiava suo padre, senza se e senza ma. Si era ribellato alla sua rigida disciplina, intransigente ai limiti della crudeltà, e aveva deciso di vivere libero dal peso del suo cognome paterno e da tutto ciò che questo significava. Per questo ora era in Inghilterra, la sua patria, che cercava di costruirsi il proprio futuro con le sue sole forze, un futuro da condividere con lei e con la loro creatura.
     Il padre di Thomas era un distinto Lord inglese di nome Charles Lewis, arricchitosi durante il secondo dopoguerra grazie ad alcune sue geniali intuizioni che lo avevano portato ad acquistare una piccola industria automobilistica e ad espanderne il mercato in India e in Giappone. Fin da piccolo, Thomas era stato cresciuto per succedergli, ma il padre non gli aveva mai mostrato un minimo segno d'affetto; gli impediva di avere amici, gli impediva un qualunque tipo di svago o passatempo, lo obbligava a lavorare per lui, lucidando ogni macchina prodotta dalla sezione inglese di York prima che venisse venduta: un lavoro assolutamente superfluo, ovviamente, ma il padre di Charles aveva deciso di punirlo per la sua sola esistenza. Già, perché Thomas non era suo figlio. Sua madre era rimasta incinta durante uno dei viaggi d'affari in Giappone a cui entrambi i coniugi avevano dovuto presenziare. Il suo sangue giapponese era evidente, dal taglio a mandorla dei suoi occhi al nero corvino dei suoi capelli, che formavano un contrasto stridente con quelli di entrambi i genitori legali. Eppure, Charles non aveva avuto altri figli, per cui il suo impero sarebbe dovuto andare senza dubbio a Thomas. Ma era stato proprio lui, una volta laureatosi, a rifiutare quell'onere: diceva di avere il voltastomaco solo all'idea di vedere quelle macchine e a sentire l'odore di quella fabbrica. Così aveva cominciato a lavorare come contabile in un'azienda del sud dell'Inghilterra, rinunciando, oltre all'eredità, anche al proprio cognome; aveva, infatti, deciso di prendere il cognome da nubile della madre, Lawliet, e aveva ridotto l'esistenza del proprio padre ad una misera L puntata tra nome e cognome: Thomas L. Lawliet e Martha Lawliet, una coppia di giovani senza nome e senza origini.
     Martha guardava le luci del porto e ora pensava a suo padre Eraldo, che probabilmente non aveva ancora finito di lavorare; sebbene non si parlassero da quando, a diciassette anni, aveva giurato che non avrebbe mai più messo piede in casa sua, lui non aveva smesso coi doppi turni, e ogni mese lei si era ritrovata qualche centinaio di dollari sul conto che i suoi genitori le avevano aperto quando lei era ancora piccola. Probabilmente, ora cercava di lavorare ancora di più, per mettere da parte qualcos'altro per il nipotino o la nipotina. Non voleva che Thomas facesse tutto da solo.
Loro due si erano conosciuti un anno e mezzo prima, quando Thomas era venuto a Boston con un carico di merce destinata agli Stati Uniti ed era entrato nel diner dove lei lavorava come cameriera per ripararsi dalla pioggia battente.
-Uno se ne va dall'Inghilterra sperando di trovare il sole, e invece sembra le nuvole mi abbiano seguito.- le aveva detto sorridendo, quando lei gli si era fatta incontro per condurlo ad un tavolo libero. Martha era rimasta incantata da quegli occhi grigi e dal gesto sbarazzino col quale si era tirato indietro gli spessi capelli neri e bagnati. Il tipico colpo di fulmine, per entrambi. Tanto che lui aveva più volte rimandato la sua partenza dagli Stati Uniti e, una volta giunto in Inghilterra, aveva fatto di tutto per tornarci; questa volta, assieme ad un anello di fidanzamento e l'inamovibile decisione di parlare con suo padre per chiedergli la sua mano.
Martha aveva insistito perché non lo facesse: aveva voluto bene ai suoi genitori, ma sentiva di non avere più nulla a che vedere con loro da tanto, troppo tempo. I loro cuori parlavano lingue diverse.
Ma Thomas aveva fatto di testa sua, ed il vecchio Eraldo l'aveva accolto a braccia aperte. -Mi auguro che tu riesca a far sentire a casa Marta.-, questo gli aveva detto.
Già. Casa. In Inghilterra la aspettava una casa in un quartiere piccolo-borghese dove per tutti lei sarebbe stata un'americana che ha sposato un inglese, e non la “figlia di immigrati venuti a rubare il lavoro agli onesti cittadini del Massachussets”.
     Si allontanò dalla finestra, scossa da un brivido di freddo. Era ora di prepararsi qualcosa da mangiare, prima che la stanchezza dovuta alla gravidanza prendesse il sopravvento e la facesse di nuovo abbandonare sul divano, ad aspettare che passassero le ore. Così andò verso il piccolo frigo, lo aprì e guardò con un po' di disappunto il suo poco contenuto. Decise che si sarebbe preparata la versione povera e veloce di un Hamburger helper, dal momento che aveva solo macaroni e carne macinata. Suo padre sarebbe probabilmente inorridito al solo pensiero, e questo era uno dei motivi per cui se n'era voluta andare di casa. Eraldo era un uomo gentile e soprattutto un gran lavoratore, coi suoi colleghi del porto parlava inglese, partecipava alle riunioni di condominio e di quartiere, aiutava i vicini coi traslochi e cercava di farsi ben volere da tutti, ma se si parlava di cucina o di vino era in grado di far scoppiare una guerra: nessuno doveva mettere in dubbio la superiorità italiana in questi due campi, a suo parere. Però, gli ripeteva Martha di continuo, non è che essere italiani in quel periodo e in quella zona fosse esattamente un vanto.
Invece sua zia Angelica le piaceva molto di più. Prima dello scoppio della guerra, prima che suo fratello Eraldo venisse mandato in Russia, Angelica faceva la maestra, e i suoi alunni la adoravano; era sveglia, coinvolgente, e soprattutto era decisa ad imparare sempre di più. Poi era arrivata la strage di Marzabotto. E nessuno, pensava Martha, va in giro a provocare apertamente gente di un'altra nazionalità, dopo essere per miracolo sopravvissuta alla “marcia della morte” nazista.
Non aveva mai visto sua zia Angelica sorridere in ventuno anni di vita. Se suo padre nominava qualsiasi cosa avesse a che fare con l'Italia, o peggio ancora con la zona dell'Emilia-Romagna da cui provenivano, a lei prendeva un attacco di panico. Aveva vissuto insieme al fratello minore e alla cognata (la spericolata donna che aveva fatto fuggire Eraldo dalla Russia) per circa sette anni, dopo che furono emigrati negli Stati Uniti, ma poi non ce l'aveva più fatta, e aveva trovato lavoro come donna delle pulizie in un vecchio palazzo abitato solo da americani di nascita. Un giorno aveva detto a Martha che lo aveva fatto perché non poteva più sopportare di vedere negli occhi degli altri esuli dalla guerra, loro vicini, lo stesso orrore che lei stava tentando di dimenticare.
Così era riuscita a trasferirsi in quella soffitta ammuffita, l'aveva arredata coi mobili rotti che gli inquilini del palazzo lasciavano in strada e, quattro anni prima, l'aveva accolta senza dire una parola.
     L'acqua per i macaroni stava bollendo, così Martha buttò la pasta, mentre si accarezzava distrattamente il pancione. Si rimise a recitare “Twinkle Twinkle little star”, mentre col dito disegnava ripetutamente una stella con al centro il proprio ombelico.
Pochi minuti dopo sentì il passo affrettato della zia salire le scale, perciò la ragazza le andò incontro, mentre questa tentava di aprire la porta di casa. Martha si rese subito conto del fatto che qualcosa non andava: sentiva il tintinnio del mazzo di chiavi da dietro la porta di legno sottile, e il respiro della zia farsi sempre più affannoso, angosciato.
-Zia!- esclamò, aprendo lei la porta al suo posto. -Non ti senti bene? Sto preparando la cena, vieni a sederti.-
Ma la vista dei suoi occhi azzurri, spalancati per il terrore, come in quelle occasioni in cui rivedeva davanti a sé le immagini dei rastrellamenti da parte dei nazisti, e delle sue esili e vecchie spalle che tremavano per lo sforzo, la gettò nel panico.
-Cos'è successo?! Cosa c'è che non va?!-
La zia distolse lo sguardo, e le appoggiò sulla spalla una mano rugosa e rovinata dal duro lavoro.
-Mi dispiace, ma non posso girarci intorno: ho brutte notizie. Vai a sederti, respira profondamente; ti porto subito un bicchiere d'acqua.-
-Che è successo?!- ripeté spaventata lei, portandosi le mani davanti alla bocca. -Papà si è fatto male a lavoro? Hanno di nuovo aggredito la mamma?-
-Qui stiamo tutti bene.- tagliò corto la donna, accompagnandola, decisa, verso il divano senza uno dei piedi, tenuto su da una pila di vecchi giornali.
Con una velocità inaudita per una donna della sua età e con la sua usuale apatia, la zia Angelica riempì un bicchiere d'acqua, per poi sedersi di fianco alla nipote, stringendole forte la mano.
-Respira ora. Profondamente. E stringimi forte la mano. Devi pensare che la creatura nella tua pancia non deve patire.-
-È successo qualcosa a Thomas.- disse allora Martha, spalancando gli occhi. Poi si alzò in piedi di scatto, rischiando di cadere sotto il proprio stesso peso.-
-È successo qualcosa a Thomas!- urlò con tutto il fiato dei suoi polmoni, cominciando a tremare anche nel profondo della propria anima.
La zia si alzò di scatto e la bloccò per i polsi.
-Per l'amor di Dio, Marta!- le disse, strattonandola. -Devi calmarti! Calmati per il tuo bambino!-
La costrinse a sedersi e, continuando a stringerle le mani, avvicinò il proprio viso al suo, come se stesse cercando negli occhi spaventati della nipote una scintilla di ragione, una parte che l'avrebbe ascoltata e avrebbe deciso di fare ciò che era meglio per chi portava in grembo.
-È arrivato un telegramma. Thomas ha avuto un incidente stradale, un tizio ubriaco l'ha buttato fuori strada.-
Le affondò le unghie nella carne.
-È morto sul colpo. Mi dispiace, Marta.-

Note

     Avevo decisamente bisogno di cominciare a scrivere questa storia, e credo che la fine della seconda parte di November 8th 1997 sia il momento migliore per cominciare a leggerla. In particolare, credo che il Prologo alla Terza Parte di November sia anche un ottimo prologo per Before, in parte perché viene introdotto il tema della musica, delle stelle e dei fiori, e in parte perché si accenna allo strano rapporto simbiotico che K sviluppa con L, ma che poi sviluppa anche con Bjarne, e che è alla causa della gelosia di L (e che in Before verrà trattato esaustivamente). Spero che vi possa piacere questo percorso a ritroso, alle radici dei miei personaggi originali e alla radice dell'L che è venuto fuori in November. Ho elaborato moltissimi di questi episodi prima ancora della stesura di November, perché li ritenevo essenziali per la formazione del carattere dei miei personaggi; tuttavia, i genitori di K, L e Bjarne sono “nati” solo in seguito, e, soprattutto, tutto ciò che ho scritto in questo capitolo mi è venuto così, di getto, appena qualche giorno fa. Avevo ovviamente fatto i miei schemi sui genitori di K, quelli di Bjarne erano già addirittura apparsi in November, e per quelli di L avevo fatto diverse ricerche già mesi fa, ma non li avevo mai visti “all'opera”.
     Volevo condividere con voi un dettaglio che mi ha fatto molto ridere e che non riesco a togliermi dalla testa: mentre scrivevo, ho immaginato William Kenton come Escanor di Seven Deadly Sins, senza poteri e vestito come Ned Flanders. Non chiedetemi perché, ma ormai sono assolutamente convinta che questo sia esattamente l'aspetto del padre di K. Cioè, beninteso, Will per me è un figo: potrebbe essere effettivamente un professore per il quale mi sarei presa una cotta. Vive di letteratura, ama la natura, traduce tutto in poesia e adora ridere e far ridere.
     E a proposito di letteratura: questa one-shot si apre con molta letteratura, in particolare con molta Irishness e molto Joyce. Vi avverto in partenza che Joyce ritornerà altre volte nel corso di questa storia, ma, a parte il palese riferimento a Finnegans Wake, questo capitolo è stato inconsciamente concepito come una sorta di mock-Ulysses: ho cominciato volendo descrivere una giornata nella vita del padre di K per introdurre il tema, ricorrente in Before come anche in November, del complesso edipico, e ho scelto, completamente a caso, il giorno 16 come data. Poi ho pensato che sarebbe stato meglio dare spazio anche alle famiglie degli altri due protagonisti, Bjarne e L, e ho pensato fosse una buona idea descrivere lo stesso identico giorno nelle loro tre diverse vite. Ebbene, a quel punto ho riguardato la data che avevo scelto a caso, e il giorno 16 è lo stesso in cui si svolge Ulysses (16 giugno 1904). Perciò, ecco, non era mia intenzione parodiare Joyce, ma una volta resami conto della cosa non ho voluto cambiare nulla.
     Ultimo appunto: nella mia fanfiction ho dato un passato e delle origini a L; ovviamente è tutto frutto della mia immaginazione. Ho cercato di costruire una storia partendo dagli unici dati disponibili, ossia quelli sulla sua etnia. Ho scelto il “quarto” italiano rispetto a quello francese non solo perché sono italiana e porto acqua al mio mulino (?), ma soprattutto per il suo rapporto col caffè e perché per me si è rivelato così più semplice costruire la storia della sua famiglia: pensavo potesse avere senso che suo nonno materno fosse italiano, fosse andato in Russia, fosse fuggito grazie all'aiuto di una contadina russa, fosse emigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra eccetera. Con un nonno o una nonna francese mi sarebbe sembrato più “innaturale” il percorso che avrebbe portato la famiglia a Boston. Inoltre, considerando tutti i francesi che ho conosciuto, non riesco ad immaginare una francese che ripudia le proprie origini, mentre questo era un elemento che giudicavo importante nella caratterizzazione di Marta/Martha e il passato di L. Immagino abbiate notato che i nomi dei genitori di L non sono casuali: Martha e Thomas sono i genitori di Bruce Wayne, e L è un piccolo orfano miliardario che si nasconde nell'ombra e usa metodi violenti per portare giustizia, e Watari è palesemente Alfred il maggiordomo (l'abbiamo pensato almeno una volta tutti nella vita). Non ho scelto consciamente questi nomi, è il mio cervello che mi gioca brutti scherzi, però ho pensato che ci stessero bene.
   
 
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