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Autore: Cress Morlet    14/08/2018    29 recensioni
Post Civil War
[Wanda/Visione]
Era un disastro di cicatrici aperte da un soffio di vento, di cellule pazze che si ribellavano e si suicidavano. C'era il buio anche dentro le sue ossa.
Di cosa mai doveva avere paura?
Lei era più spaventosa.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Tony Stark/Iron Man, Visione, Wanda Maximoff/Scarlet Witch
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nothing 1 Ciao a tutti. Vi rubo solo pochi secondi prima dell'inizio della storia.
Questa sarà una mini-long di due soli capitoli ed
è ambientata tra Civil War e Infinity War. Verranno quindi
riportati gli avvenimenti di Civil War per chiunque non abbia visto il
film questa storia è Allerta Spoiler e avverto anche che ci
saranno dei riferimenti ad Infinity War. La prima parte della storia
è in corsivo perchè è un flashback
ambientato subito dopo lo scontro tra le due fazioni ma nella mia
storia Visione non è riuscito ancora a scusarsi con Wanda
come nel film, questo incontro sarà il loro primo incontro
dopo la fuga di Scarlet Witch. Penso di aver detto tutto, le note
finali ci saranno solo alla fine del secondo capitolo. Spero tanto la
storia possa piacervi e che possiate amare Wanda come me,
perchè giuro che ho provato a renderla al meglio delle mie
possibilità. 
Buona lettura!


It must be something that we call love
Wherever I go I'm coming back
And time cannot knock me off my track
This resolution is final
It must be something that we call love
It's when you're craving to say her name
And my reality seems to break apart with her arrival
Forever, Alekseev

"Non ho ancora compreso per quale motivo tu sia qui.”
La voce suonò roca alle sue stesse orecchie e lo sforzo di articolare quelle poche parole le graffiò la gola secca. Il palato asciutto e la lingua pesante non la aiutavano a parlare, a sillabare tutta la sua frustrazione e il desiderio di essere lasciata sola per sempre.
Che storia triste, non poteva neanche marcire in pace e nella più completa solitudine. Non le concedevano neppure di star male senza spettatori, di crogiolarsi e arrotolarsi nella sua infelicità totale.
Niente, non meritava niente.
Sai cosa hai fatto, Wanda?
Le mani strinsero il lenzuolo del letto e il materasso, forte, forte, più forte che poté, fino a non sentire altro se non dolore alle nocche e ai palmi.
Quasi potesse arginare, in quel modo, il disastro che di lì a poco si sarebbe consumato.
Ma era una patetica illusione, la speranza di un condannato a morte, perché nulla avrebbe potuto salvarla da se stessa e dalla distruzione che lei portava insieme al suo corpo, quel vuoto insidioso che si creava intorno ai suoi piedi e inghiottiva ogni persona a cui voleva bene.
Hai ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Gocce di sudore freddo scivolarono lungo le sue tempie e giù per il collo fino a tracciare la schiena stretta in un camice bianco. Gli aghi e i tubi erano attorcigliati come dei tentacoli molesti intorno alle braccia, la infastidivano e nauseavano, le procuravano lividi violacei e altri brutti segni da dover nascondere.
"Permettimi di indovinare. Sei qui per farmi notare, con la tua fastidiosa intelligenza, che avevi ragione tu? Che sarei dovuta rimanere segregata in quella casa? Perché così, insomma, non sarei a questo punto. Su questo maledetto letto.”
Aveva sempre odiato gli ospedali.
Non poteva accadere nulla di buono in quei luoghi, non in quelle stanze con l'odore rivoltante di candeggina, in quei corridoi di un bianco innaturale.
Erano altre tombe, altre prigioni, altre bugie e false fedi a cui era inutile aggrapparsi.
Avrebbe voluto fuggire da quell'inferno sceso in terra così simile ad una tortura crudele, ad un castigo divino scelto appositamente per farla soffrire ogni maledetto secondo della sua esistenza, mai un’eccezione.
Non voleva essere lì, ovunque ma non in quella stanza, non su quel pezzo di mondo, sotto quel cielo coperto da mattoni.
"Sei qui per portarmi tu stesso nella mia futura cella?"
Accompagnarla in un ospedale prima di buttarla in una stanza sporca e claustrofobica era la dimostrazione di quanta cattiveria erano capaci di covare quei falsi potenti, quegli stronzi patetici, che credevano di reggere il mondo con le loro ossute spalle coperte da costose camice di seta.
Quanto si saranno compiaciuti, quanto si saranno congratulati con loro stessi perché, ma che bravi, erano stati in grado di mostrare un lato misericordioso e di compiere un atto caritatevole persino nei confronti di una povera criminale.
Lei era proprio una terribile ingrata, non comprendeva la loro bontà, l'onore che gentilmente le avevano concesso.
Che persona crudele era stata.
Non li aveva ringraziati, non si era prostrata a terra per la gratitudine, no.
Aveva scalciato, insultato le guardie e gli ufficiali, aveva augurato loro di morire tra le più atroci sofferenze e di bruciare all'Inferno.
E glielo aveva detto, lo aveva urlato, che se davvero volevano portarla in una clinica per curare i suoi stupidi graffi allora avrebbero dovuto trascinarla, perché lei non avrebbe collaborato mai, neanche con una pistola premuta sulla fronte.
Quindi loro cosa facevano?
Gli idioti le chiedevano di mantenere la calma e poi si stupivano di ottenere come risposta un'intera vetrata distrutta.
Avrebbero dovuto immaginarlo. Stronzi.
Lei era rabbia e ogni pezzo della sua pelle era elettricità pronta ad esplodere, anche a costo di distruggere se stessa.
"Sei qui per rimproverarmi? Per dirmi quanto sei deluso da me? Vuoi anche che ti chieda scusa per quello che ho fatto?"
Hai ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Lo so. Non c'era bisogno che me lo dicessi proprio tu, signor Stark.
Fottiti, Stark.
"Sii felice. Ora mi aspetta una nuova prigione e chissà come sarà il cibo. Ti farò sapere se hanno la paprika tra le spezie.”
Doveva essere nata con un difetto orribile all'interno del cuore e del corpo, tanto da meritare il male, il peggio, ogni crudeltà.
Lo sapeva, aveva convissuto con i mostri da quando aveva compiuto dieci anni e da allora perdere tutto era diventata la norma e sabotare ogni possibile relazione affettiva una semplice questione di sopravvivenza.
Perché tanto muoiono, muoiono tutti.
"Volevo sapere come stessi. Volevo parlarti di una cosa molto importante.”
Sai cosa hai fatto, Wanda?
Ho fatto l'unica cosa che faccio sempre bene. Distruggere.

 
Ebbe una improvvisa fitta alla testa e fu costretta ad appoggiare il collo contratto sul cuscino, mordendosi le labbra con i denti a causa dell'emicrania che le stringeva la fronte in una morsa implacabile.
Si aggrappò violentemente ai bordi del materasso e volse il capo verso sinistra, proprio dove si trovava lui.
"Sto benissimo, una favola. Non lo noti? Non mi guardi più, Visione?"
Il suo volto rosso risaltava prepotentemente tra il candore soffocante delle pareti, dei muri lindi e del soffitto basso.
Era il primo colore che finalmente vedeva dopo ore e ore di isolamento forzato, dopo bianco bianco bianco.
Ed era la prima volta che parlavano da quando lei era fuggita, da quando il conflitto si era concluso e tutti avevano perso: in parte loro stessi, in parte altro e in parte qualcosa su cui era meglio tacere e che lei preferiva dimenticare.
Che senso aveva ricordare?
Perché mai parlare ancora?
Meglio continuare quella farsa, come avevano fatto con la pagliacciata a cui entrambi si erano aggrappati in quei mesi.
Meglio rimanere l’uno dinanzi all'altra, chiusi in una camera d’ospedale, a far finta di ignorare ciò che lei aveva fatto senza esitazioni.
Preferiva il niente, come sempre, a qualsiasi costo.
Hai ferito i suoi sentimenti, Wanda.
 
Visione si avvicinò ai piedi del letto e alzò una mano come per aiutarsi a parlare ma aveva uno sguardo confuso, incerto.
Abbassò distrattamente il braccio e sfiorò la sua gamba fasciata, solo per un momento, neanche un secondo.
Eppure lei lo aveva sentito.
Ed era quello il problema, un problema stupido da estirpare sul nascere, da far scomparire con uno schiocco di dita, senza sentimentalismi e dispiacere. Bastava solo sputare su tutto quello che loro erano stati, rovinare i pochi ricordi, buttare nella spazzatura qualche oggetto e pile e pile di fogli.
Qualcosa di semplice, maledettamente semplice, perché tanto loro non erano mai stati niente.
Niente di niente.
"Io ti guardo sempre, Wanda. Lo sai.”
Lo so. Cazzo, lo so ed è colpa tua. Tutta colpa tua.
Lui doveva aver fatto di tutto pur di ottenere il permesso di poter parlare con lei, la ragazzina fuorilegge rinchiusa in una stanza d'ospedale, emarginata come se si trovasse già in prigione.
Era una situazione naturale, altamente prevedibile e quasi noiosa. Nessun effetto speciale o colpo di scena improvviso per Wanda Maximoff.
Aveva imparato bene la lezione, non era una piccola ingenua desiderosa di affetti, una bambina lamentosa e piagnucolante.
Sapeva fin dall'infanzia che ogni luogo in cui lei avrebbe messo piede sarebbe sempre stato un carcere, fosse esso una stanza, un edificio, una città, una nazione.
Non esisteva la libertà per una persona senza nulla, morta dentro, con i sentimenti di carta stropicciata nell'acqua sporca.
Non si dispiaceva per questo, non gliene importava, era una cazzata come un’altra. Aveva smesso di dare valore a certe inezie da anni, aveva capito -cadavere dopo cadavere- che il resto del mondo era una zavorra di cui sbarazzarsi alla prima buona occasione, senza provare il minimo pentimento.
Niente era? Niente fosse allora, per tutta la vita e anche oltre.
Andava bene così, a lei piaceva quel niente.
Nulla poteva toccarla, ferirla, piegarla. Non esisteva potere più grande.
 
"Volevo metterti al corrente di un fatto importante e credo sia giusto che tu lo sappia. Non so in realtà come definirlo ma... proverò ad aggiornare il mio vocabolario per potermi spiegare meglio.”
Lei aprì il palmo della mano destra e vide i segni di mezzelune storte che aveva lasciato con le sue unghie. Le scappò una smorfia di scherno e allora anche Visione li notò, quei cerchietti profondi e netti, e serrò le palpebre come se lei avesse lasciato quegli sfregi sul suo volto.
Come se provasse dolore e dispiacere.
Come se soffrisse alla vista di quei miseri graffi.
Come se gli importasse.
Devi... smetterla subito. Non siamo niente. Niente di niente.
Lui non poteva cambiare ogni cosa, non doveva neanche permettersi di pensarlo, perché non aveva alcun diritto di gettarla di nuovo tra le rogne dell'esistenza.
Ma chi si credeva di essere? Eh?
Le sue emozioni erano morte e sepolte dalla neve sporca di sangue.
Nessuno, nessuno mai, doveva provare a cambiare nulla.
"Parlami allora. Ma facciamo presto perché, certamente saprai, ho talmente tante visite questo pomeriggio. Ho tutta l'agenda occupata.”
Le nocche dell'altra mano erano ormai bianche e le dita le formicolavano fino a tremare. L'ago nel polso si era mosso troppo, un po' più a fondo e poi fuori, di lato e dentro, dall'altro lato e fuori.
Sicuramente le sarebbe rimasta una chiazza rossastra scura per settimane.
Meglio, meglio così, molto meglio così.
Il dolore lo conosceva, lo conosceva benissimo, e sapeva conviverci grazie alla vita che glielo aveva riservato come ordinaria amministrazione insieme a un senso di inadeguatezza misto a bile acida.
Era un caro amico il dolore. Carissimo.
"Il tempo scorre, Visione.”
Non guardarmi in quel modo. Non... farlo.
"Oggi è successa una cosa" le disse, a voce bassa, e con il capo chino verso il basso. Scorse quello che stava facendo con la sua mano sinistra, il modo in cui la stava torturando, e gliela afferrò di scatto, costringendola ad aprire le dita chiuse a pugno, intente quasi a scavare nella loro stessa pelle.
"Oggi è successa una cosa", ripeté, e le tolse delicatamente l'ago, accarezzandole il punto martoriato.
"Stai perdendo colpi, lo sai? Sono capitate tantissime cose oggi. Non certo una sola."
Sono morti i Vendicatori. Perché tutti muoiono, tutti.
Visione guardò il suo viso e a lei sembrò che lui avesse imparato tanti tratti umani e li avesse assimilati senza saperlo. Come il deglutire, impercettibilmente, e l'avvicinarsi piano, quasi fosse vicino ad una bestia feroce e pericolosa, con una spina tra le zanne.
"Sei arrabbiata."
Fece un altro passo e le aggiustò i capelli sudati dietro l'orecchio, con un tocco impalpabile e delicato.
Lei aveva imparato, lei sapeva, il modo in cui lui la toccava: la sfiorava sempre in maniera dolce, neanche fosse fatta di fragile vetro.
Doveva fargli davvero pena.
"No. Sono molto più che arrabbiata."
Ma se lei era vetro allora era una di quelle lastre sporche con angoli taglienti. Un piccolo pezzo di cristallo che non si doveva toccare se non si desiderava avere le mani intrise di liquido nero.
Nessuno poteva rimanerle accanto.
"Non puoi immaginare la mia rabbia, Visione."
 
Si scostò dalla sua carezza e lui sbatté le ciglia, rendendosi conto di aver indugiato troppo con le dita nell'angolo tra l'orecchio e il collo.
Trattenne solo la sua mano.
"È naturale. Hai avuto paura."
Toccò i tratti del suo nuovo livido e lì appoggio la sua fronte, in uno scontro tra della pelle rovinata e una gemma calda.
I suoi gesti, dall’inizio, avevano avuto il potere di far diventare il dolore qualcosa di più sopportabile, granelli di zucchero in un bicchiere di acqua amara.
"Io non ho mai paura", sussurrò, a denti stretti.
Era un disastro di cicatrici aperte da un soffio di vento, di cellule pazze che si ribellavano e suicidavano. C'era il buio anche dentro le sue ossa.
Di cosa mai doveva avere paura?
Lei era più spaventosa.
"La paura è una sensazione di forte preoccupazione. Provoca angoscia e può avvertirsi in presenza-"
"Stai leggendo una definizione da un dizionario davvero scadente, lasciatelo dire."
Visione non si scompose, rimase immobile a stringerle le dita, a premere i palmi contro il dorso della sua mano ferita, sulla fronte sempre più calda. Espirò lentamente e il suo respiro le solleticò la pelle del polso, provocandole altro che serpeggiò lungo tutto il suo braccio, in una specie di scarica elettrica.
Fermati.
"È una sensazione... che si avverte in presenza di pericoli reali o immaginari. In questo caso era reale, ci sono le prove tecniche. Avevi paura di una nuova catastrofe, prevedibile da uno stato di divisione conflittuale all'interno di un gruppo instabile. Le catastrofi spaventano perché sono disastri di particolare gravità, difficili da arginare e fuori dal nostro controllo."
Seguì con i polpastrelli le vene del suo avambraccio e si fermò al gomito, accarezzandole la pelle morbida e tenera.
Le dita scivolarono via e deglutì ancora, piano, pianissimo.
Lei si accorse del tremore dei suoi pollici solo quando lui smise di toccarla e provò la sensazione di un pugno forte tra lo stomaco e la pancia nel momento esatto in cui Visione cercò i suoi occhi e ricominciò a parlare.
"Ed è accaduto che io ho avuto paura e mi sono distratto. Io non sono programmato per distrarmi, non potrei farlo."
Fermati.
"Wanda, riuscivo solo a pensare a te."
Fermati, cazzo. Ti ho detto di fermarti.
"Non preoccuparti, faccio questo effetto a tutti. Passerà. Passa sempre."
Non...
Mancava aria ai suoi polmoni, ossigeno nella stanza, un sostegno al suo corpo. Nascose entrambe le mani sotto il lenzuolo, chiuse le palpebre, si abbracciò la pancia come a difendersi da calci, schiaffi, altri calci. Aveva una improvvisa voglia di urlare e strappare le garze, gridare e ferire qualcuno, anche se stessa.
Bastava non sentirlo più parlare.
Per favore, per favore, non lo dire. Non farmi questo.
"Non può passare", le mormorò, a disagio.
"Ti ho scaraventato metri e metri sotto terra. È normale, avrai avuto un desiderio di vendetta.”
"Io mi sono innamorato di te."
 
No.
Ci fu uno strappo.
Al livello del petto sentì uno strappo che rimbombò nella sua testa, le scosse le spalle e rovinò sulle sue labbra aperte.
No.
Una lacerazione profonda sotto le sue costole, qualcosa di reciso con delle cesoie imbrattate di terra. Con le mani strinse forte lo stomaco, la pancia, il petto e aprendo gli occhi vide il suo camice, macchiato dal sangue gocciolante delle ferite non rimarginate, di quei graffi che aveva definito stupidi.
Visione la bloccò, lui che ora si spaventava per qualche innocua goccia di sangue.
Si fottessero le garze che dovevano essere cambiate e il casino che aveva combinato con i suoi palmi, andasse tutto a schifo.
“Wanda, fermati.”
Lei non poteva provare quel genere di dolore, non era possibile, non dopo la morte di Pietro.
Vide tante macchioline bianche dinanzi a sé e così si rese conto che aveva di nuovo chiuso gli occhi e che stava serrando le palpebre con troppa forza.
Quello non era dolore, doveva essere qualcosa altro.
Forse aveva confuso il rumore dello strappo con lo stridente suono di un oggetto rotto, caduto per terra e sparso in mille irriconoscibili pezzi.
C’era un errore, uno sbaglio, era tutto falso, doveva essere qualcosa nella sua testa.
Non era reale.
Se avesse aperto gli occhi lui non sarebbe stato lì e forse neanche lei, forse aprendo gli occhi non ci sarebbe stato nessuno.
Loro erano niente, niente, niente e ancora niente.
Ma andava bene così, a lei piaceva il niente, a lei piaceva tanto.
È tutta una bugia, vero? Mi sveglierò in questa stanza e mi ritroverò di nuovo sola e senza nulla da affrontare, nulla da distruggere. Tutta una bugia, un’innocente bugia. Vero?
Sbatté diverse volte le palpebre e lui, prima sfocato e poi sempre più vivido, le comparve dinanzi, con il volto preoccupato e le dita sulle sue braccia.
“Stai meglio? Vuoi che chiami un dottore?”
Tutti muoiono.
"E quando ti saresti innamorato di me?", gli chiese, con un astio a stento trattenuto.
Lui era lì e lei si sentiva soffocare, in trappola e tradita.
Era la realtà dei fatti, come vero era quella strana cosa che le graffiava i polmoni e le scorticava il cuore.
Coriandoli di ingranaggi e ferri vecchi, tutto ciò che le era rimasto.
 
Visione sembrò perdersi ad osservare un punto imprecisato della federa del suo cuscino, aveva un’espressione corrucciata e tratteneva il respiro mentre le sue labbra erano tese in una linea sottile.
Rifletteva, pensava, e intanto le aggiustava una manica della veste bianca, scesa a scoprirle la spalla sinistra.
Il suo stomaco si attorcigliò su se stesso e lei provò una rabbia tale da sentire a distanza il suo potere crepitare pericolosamente. Rabbia, le serviva solo quella e ne aveva tanta, per una vita intera.
Cercò il suo sguardo e lo sfidò senza tremare, imponendosi di fermare qualsiasi cosa fosse quella sensazione che premeva sul suo sterno.
"Ti ho vista e mi sono innamorato", le rispose, con una voce meno ferma.
Sospirò e provò a prenderle una mano che lei allontanò, veloce.
"Vorresti dire che ti sei innamorato di me, così? Amore a prima vista? Nel bel mezzo di una guerra? No. Questo non è amore."
Non doveva essere amore.
"Non... non mi sono spiegato bene. Ti ho amato appena ti ho vista davvero. Non so quando è successo, non so dirtelo, perché nessun mio programma riesce a rispondere. Mi prospetta solo fotogrammi."
Sorrise lentamente e per lei fu la fine.
Aveva la tentazione di premere forte le mani sulle orecchie, di spegnersi, di annullarsi, di fare ogni cosa folle pur di non ascoltarlo più.
Mi stai facendo male.
"Tutti i momenti, come pezzi di puzzle di te. Ogni tuo più piccolo sorriso, ogni tua lacrima. Io... ti sento.”
Visione abbassò il tono della voce e senza accorgersene iniziò a tormentare il lenzuolo, stringendo un lembo e poi lasciandolo come se scottasse. Guardò le pieghe e le aggiustò in maniera distratta, con un groppo in gola che lei sentiva scorrere nelle sue gambe.
“Io quando sono con te... mi sento", le disse piano, sottile.
Le parlava nello stesso modo in cui la sfiorava. Con una sensibilità che, ora come non mai, odiava.
Che senso aveva dirle ciò? Esisteva un motivo per cui riversarle tutte quelle belle parole e grandi frasi, gettarsi a fare poetiche considerazioni? Perché aveva voluto rovinare ogni cosa?
Lo aveva fatto lui, era sua la colpa.
Andava bene prima, andava bene il niente, andavano bene il silenzio e le omissioni di ogni secondo.
Era stato perfetto ignorare la verità e credere fermamente che nulla di tutto quello esistesse.
Era stato il suo ultimo desiderio dopo una vita di schiaffi tra i denti.
Violenza dopo violenza, morte dopo morte.
Aveva solo sperato di vivere in quel loro strano limbo per l’eternità, perché le cose non potevano essere dette ad alta voce, non dovevano esserci etichette.
Se dici ad alta voce che ami qualcosa quella cosa allora ti verrà strappata via.
Non avrebbe potuto mai rendere reale lo strano sentimento di male e piacere che provava solo quando erano insieme, solo quando erano loro due.
Non aveva senso, non ci si doveva mai affezionare, si rimaneva solo fottuti.
Lui aveva rovinato tutto.
E allora? E allora che si distruggesse ciò che era rimasto, morisse anche il niente, si sporcasse ogni cosa bella e ridiventasse il mondo nero, la stanza vuota, lei sola.
Sola, sola, senza più alcun modo di essere ferita.
Tanto... tanto muoiono tutti. Uno dopo l’altro.
 
“Non è amore. Non lo è.”
Sentì un dolore al petto e lo ignorò, provando una fitta alla bocca dello stomaco che gli strinse la mandibola.
Percepì chiaramente un nodo in gola e respirò con le labbra schiuse, per grattare via la sensazione di star soffocando.
Gli indicò la porta e lui non si mosse di un passo.
Muoiono tutti e tutti prima di lei.
La lasciavano sempre sola.
"Non sono abile a spiegarmi. Se mi concedessi del tempo potrei migliorare."
Sarebbe già dovuto andarsene, prendere la via di uscita e dimenticare i mesi passati, ascoltarla e fuggire, fuggire via prima del disastro, prima che la situazione degenerasse.
Lei si schiarì la voce e di nuovo un eco di rabbia rimbombò nella sua testa, un senso di insoddisfazione tanto grande da offuscarle la vista, gonfiarle i polmoni, scombinarle la pancia.
Se ne andasse, corresse via. Perché odiarla così? Perché non lasciarla sola, in pace, libera?
Lui morirà, come tutti, lui si spegnerà e lei dovrà di nuovo soffrire, con il cuore strappato dal petto, a mani nude.
Non esisteva alcun amore e, Dio, lui doveva uscire via da quella stanza e dalla sua vita.
Non lo sapeva, non lo capiva?
I sentimenti troppo forti sono da spezzare e da schiacciare prima di ritrovarsi bocconi a terra con il desiderio di morire.
Lei ci era già passata e mai, dovevano rompere ogni suo osso, avrebbe permesso a qualcuno di ridurla di nuovo in quello stato.
Era una questione di sopravvivenza, la cosa giusta da fare.
"E come faresti? Scaricheresti nella tua testa più manuali del linguaggio, qualche saggio scientifico o romanzetto rosa? In questo modo hai capito che ti eri innamorato di me? Lasciami immaginare. Avrai diagnosticato qualche sintomo e avrai consultato subito una guida medica ma, mi duole informarti, devi aver navigato sul sito sbagliato, forse uno di quelli per ragazzine, perché hai sbagliato tutto. Hai sbagliato ogni cosa, tu non sei innamorato di niente e nessuno."
Ma se era la cosa giusta da fare perché allora si sentiva tanto male?
"Sei una macchina, un insieme di oggetti sbagliati, un errore.”
Perché soffriva?
“Non sei neanche un essere umano!"
No.
Sì.
Sì, questo era uno strappo.
 
Mise una mano davanti alle sue labbra e le sentì tremare contro il suo palmo sporco.
Non... non volevo.
Visione fece due passi indietro e ingoiò aria, con un’espressione afflitta capace di dissipare l’odio provato prima.
M-mi... mi dispiace.
"Confermo. È tutto esatto e perfettamente esaminato", sussurrò, atono.
“Sono un androide fatto di materiale sintetico e vibranio. Sono nato perché il signor Tony Stark ha compiuto un errore di valutazione e questo errore ha portato a me. Per proprietà transitiva sono un errore.”
Guardò il suo corpo rosso coperto da vestiti umani e lei si coprì gli occhi, soffocando con i polsi i singhiozzi leggeri che abbandonavano la sua bocca.
“E no. Non sono umano", lo mormorò come se lo stesse ricordando a se stesso.
Si diresse verso l’altro lato della stanza ma ad un passo dall’uscita si fermò e la osservò un’ultima volta, parlando lentamente.
"Io ti amo davvero."
Impossibile.
"L'amore è una cazzata. Meglio la libertà", gli disse, con l'ultimo filo di voce rimanente.
Visione annuì e aprì la porta, non guardandola più negli occhi ma concentrandosi sulla maniglia a cui sembrò appoggiarsi, a fatica.
"Non ti preoccupare. Sono sicuro che presto sarai libera di nuovo. Andrà tutto bene, Wanda."
No.
Non poteva andare bene, nulla più poteva andare bene.
Aveva appena distrutto l'unica cosa bella a cui teneva.
 
 
Quindi ora sì.
Ora sì che conosceva il niente.
 
                                                                                                                          *******
 
Maledetti ricordi.
Click.
Maledette gocce di tubature arrugginite.
Click click.
Odiava quel suono, odiava quell’astronave rubata.
Click click click.
Maledetti rumori che non la facevano dormire la notte, maledetto viaggio e maledetta missione.
Fanculo tutti.
 
Wanda fece scontrare la matita contro il tavolo e il ticchettio la innervosì ancora di più, esasperandola. Si prese la testa fra le mani, digrignò i denti e scalciò sotto il tavolo, e così facendo riuscì solamente a colpire un’altra sedia e a farla cadere rovinosamente a terra.
Andasse a quel paese anche la stanza e ogni oggetto lì dentro.
Borbottò e aprì le dita a ventaglio, massaggiandosi lenta la cute e poi più giù fino alle tempie.
Un’altra terribile emicrania le schiacciava il cranio, pressando come mattoni di cemento proprio al centro del suo capo.
Abbassò lo sguardo e ammirò la sua opera interrotta.
Click.
Il disegno posato sul tavolo mostrava il profilo appena accennato di un giovane uomo, un ragazzo, il quale aveva da poco perduto i tratti tipici della prima giovinezza per acquisire invece dei lineamenti duri, degli zigomi alti ed una leggerissima barba bionda sulle guance.
Gli occhi parevano luccicare, quasi vivi, anche se la matita aveva solo iniziato, a poco a poco, a tracciarne il taglio.
Click click.
Passò un polpastrello sopra la carta e fu come accarezzargli il mento, la linea del naso, i dettagli di un viso che aveva sempre ritratto.
Il suo amato fratello, il suo gemello.
Pietro.
Click click click.
E ora poteva farlo soltanto quando richiamava alla memoria, alla stregua di fotogrammi in bianco e nero, i momenti passati insieme: spezzoni della loro infanzia, ogni secondo delle loro mani intrecciate sotto il cielo plumbeo di Sokovia, i passi lungo le strade polverose dei vicoli poveri e malfamati, le sue braccia sempre pronte a proteggerla, -soprattutto da se stessa.
Cercò di afferrare il suo volto e tra le dita non gli rimase nulla, perché il destino dei sopravvissuti era la solitudine e il rimpianto perenne di non essere sotto terra insieme a tutti gli altri morti.
E lei, purtroppo, era una stupida sopravvissuta.

“Rogers mi ha pregato di parlare con te. Noi due, secondo la sua assurda mentalità e visione della vita, dovremmo confidarci perché entrambe appartenenti al genere femminile. È così antico.”
Natasha prese posto dinanzi a lei e incrociò le braccia sotto il seno, spostando lo sguardo, con una espressione insofferente, da una parte all’altra della stanza e squadrando i diversi fogli appallottolati e gettati sul pavimento, a dimostrazione che avrebbe voluto essere ovunque ma non lì, non a consolare l’altra piccola fuggitiva del loro gruppo di ribelli, ovunque ma proprio non lì, non a interrogare lei.
“Steve ha delle idee tutte sue, un retaggio della sua epoca. Non preoccuparti, gli dirò che mi hai parlato. Anche se, ancora, non capisco il perché di tutta questa premura. Sto bene, faccio solo fatica ad addormentarmi.”
Wanda riprese la matita e ci giocherellò, acciuffandola tra l’indice e il medio, mentre si sistemava dietro l’orecchio alcune ciocche rossicce dei suoi lunghi capelli fuggiti dall’alto chignon.
Un costante fastidio.
Avrebbe dovuto tagliarli, un netto colpo di forbici e nessun fastidio. Avrebbe dovuto farlo e smetterla di tergiversare, scegliere un tipico taglio maschile e agire.
Sì, lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto presto.
Nessuno poteva fermarla, no?
Mi piacciono i tuoi capelli. Mi ricordano il fuoco, la luce di qualcosa di bello. Stregano le persone.
“Ti prego di non dire certe cazzate davanti a me, potrei perdere la pazienza una volta per tutte. Ed è meglio, per entrambe, rimanere calme.”
Osservò Natasha all’altro capo del tavolo e posò la matita vicino al foglio, fingendo di star cercando di allineare perfettamente i due oggetti.
Una rossa scarica elettrica le avvolse la mano, come se fosse un guanto, e crepitò sulle nocche e sul polso, stringendole le vene fino ad annacquarle la vista.
“Io sono calma. Non ho bisogno di nessuno.”
Come risposta ottenne una risata squillante, non una tipica reazione di Nat a dire il vero, almeno non con gli altri. Ma a quanto pareva le piaceva riservarla a lei sola, anche più volte al giorno, e poteva dirlo a causa della frequenza di tutte le risate in faccia che le aveva regalato in quegli ultimi mesi.
Che ennesimo adorabile privilegio, che detestabile personale tortura.
 
Si distrasse e Natasha le afferrò velocemente il foglio cominciando a osservarlo da ogni angolatura e sorridendo non appena comprese.
“Continua a ripetertelo e forse, non ne sono sicura, tra molti anni potresti anche iniziare a crederci. Ma se pensi di prendere in giro me...”
“Ti ho già detto che puoi andartene”, le ricordò, alzando il tono della voce che rimbombò in quella piccola stanza sgangherata.
Ma l’altra non si scompose e continuò a guardare il disegno interrotto, la linea delle dita talmente chiara da poter apparire una sbavatura della matita.
Maneggiava con poca cura quel foglio, non era attenta alle possibili pieghe e toccava i tratti grigi con tutti i polpastrelli senza immaginare così di star rovinando e sbiadendo i contorni del viso di Pietro.
Odiava quando qualcuno le sfilava via i suoi disegni e li rovinava con una tale noncuranza da farle provare biasimo verso se stessa, perché non era capace di difendere neppure degli oggetti tanto stupidi.
Odiava dover rimanere seduta su una sedia, reprimendo l’istinto di strappare il foglio a Nat per poi nasconderlo e metterlo in salvo, insieme a tanti e tanti altri ritratti, sotto il materasso del suo letto rattoppato.
Detestava dover fingere di non provare nulla alla vista della superficialità con cui gli altri si appropriavano di qualcosa di suo, di così intimo e chiuso, segreto.
Rimpiangeva il modo in cui si vergognava costantemente di se stessa.
Wanda, tu... puoi fare tutto. Tutto.
Sbatté le palpebre e la pelle della mano cominciò a essere tesa, tesa fino a darle degli spasimi e tremori lungo il braccio e lungo la vena blu che raggiungeva il suo gomito.
Sbatté di nuovo le palpebre e il dolore rimase comunque lì, dove era sempre stato.
“Cosa stavi facendo qui? Da sola, di nuovo. Oltre che disegnare.”
Gli occhi le caddero sull’altro foglio nascosto sotto il primo, sull’altro volto che lei disegnava ogni giorno insieme a quello di suo fratello.
L’unico altro viso che amava.
“È ancora più grave di quanto pensassi. Davvero. Molto più grave.”
Il tono strascicato della voce, la supponenza con la quale la scherniva e il sorriso di biasimo e finta comprensione la irritarono talmente tanto da farle bruciare il palmo dell’altra mano, anche essa ora avvolta da scariche rosse poco controllabili.
Come si permetteva di giudicare, proprio lei, come osava?
"Stavo solo pensando."
"E lo sai, vero? Sai che il tuo pensiero sta diventando un'ossessione. Devi saperlo."
Wanda prese l’altro foglio tra le dita, lo sollevò piegando leggermente gli angoli e squadrò, grazie alla fioca luce presente nella stanza, i lineamenti perfetti che aveva riprodotto e lo sguardo spento che la tormentava ogni notte, -no, ogni secondo di ogni giorno-, da ormai più di sei mesi.
Sei mesi da quel giorno maledetto, sei mesi dall’ultima volta che aveva incrociato i suoi occhi, sei terribili e interminabili mesi trascorsi lenti e vuoti, perché aveva scelto il niente al posto della certa e assoluta sofferenza.
Sei mesi di Inferno in cui lei era diventata la carceriera di se stessa e in cui, pur di sopravvivere, riviveva tutti i loro momenti passati insieme.
Sentiva ancora il suo tocco, forse perché stava impazzendo, e a volte le sembrava che la pelle ricordasse le leggere carezze delle sue mani nei momenti in cui l’aveva sfiorata, per caso o per sbaglio, durante le passeggiate tra i viali alberati della residenza dei Vendicatori.
Si era sempre mantenuto ad una rispettosa distanza, sempre, tranne le rare volte in cui le aveva spostato i capelli dietro le orecchie dicendole di essere stregato da quel colore strano che non era né rosso né castano.
Guardo le tue ciocche, a volte chiare e a volte scure, e mi sembra di rivedere la tua magia in ogni parte di te. Ti vedo sempre, ti vedo ovunque. Vorrei che ogni persona al mondo vedesse quello che vedo io.
La riverenza delle sue dita, la sensazione stupenda della sua pelle contro la sua, per quei momenti brevi ma eterni.
Le pochissime volte in cui le aveva accarezzato una guancia.
Wanda, io ti vedo.
"So gestirlo."
Si aggrappava a qualsiasi qualcosa, si aggrappava alla sensazione della sua voce limpida che le cullava i pensieri e le graffiava il cuore fino a farlo uscire dal petto.
"Racconta frottole a lui ma non a me."
Si accorse di star stringendo troppo forte il disegno e che lo stava rovinando.
“Cosa sai?”
Che ipocrita.
Si adirava tanto con gli altri, si arrabbiava perché tutti le rovinavano i suoi pochi averi e poi, come da tutta una vita, era lei la prima a distruggere ciò a cui teneva tanto.
“Quello che sanno tutti”, le venne risposto, con un finto sorriso e le braccia di nuovo contro il petto a coronare il momento. La sua lenta mossa prima di attaccare, la sua finta dolcezza per ingannare l’ignara vittima. Romanoff nel corso della sua carriera aveva usato la sua abilità innumerevoli volte eppure la sua tecnica non poteva funzionare con ogni bersaglio, no, perché il passato di ognuno è diverso e il futuro designato non può essere lo stesso per chiunque e le vittime lo sanno, lo sanno bene, infatti alcune neppure sperano di averlo quell’altro giorno in più da vivere e decidono quindi di consumarsi in un breve presente di vittoria e risentimento.
Nat non poteva vincere sempre, semplicemente perché esistevano pedine disperate, sconfitte già in partenza, sopravvissute a mali inimmaginabili. Quello che era lei.
Lei era una sopravvissuta.
“Ovvero?”
Ed era sopravvissuta alla carneficina di Sokovia ma non a quella perpetuata da se stessa.
“Che sei una patetica codarda.”
L’astio nella sua voce le fece sollevare le ciglia e i suoi occhi si scontrarono contro il suo viso adirato, stretto in una smorfia di disappunto e rassegnazione.
Continuava a osservarla con disprezzo, dall’altro lato del tavolo, il foglio ora posato, e rimaneva immobile ad aspettare una sua mossa come il suo antico addestramento le aveva insegnato e come i suoi più vecchi maestri le avevano inculcato.
Loro due potevano anche rimanere ferme lì, così, per anni e anni. Tanto lei non avrebbe reagito alle sue mirate e attente provocazioni.
Perché sprecare tante energie?
Nel silenzio assoluto di quella stanza piccola e spoglia, con gli interni freddi e asettici, entrambe si stavano scontrando senza alcun motivo apparente in una gara di sguardi, di sopportazione della tensione, di frasi taglienti.
Perché? Perché prendersi tanto disturbo?
“Nulla di nuovo, quindi”, le rispose, e tornò ad osservare il ritratto che ancora aveva tra le mani: le palpebre socchiuse e la bocca imbronciata gli facevano assumere un’aria più triste, desolata, quasi fosse sul punto di piangere e non sapesse come fare a fermarsi.
Il mondo era davvero brutto, cattivo e avido, perché le aveva portato via tutto senza lasciarle niente.
Niente di niente.
Wanda, te lo giuro. Tu non sei sola.
“Se qui fosse presente anche Clint avresti già preso diversi calci in culo da parte sua.”
Le scariche rosse sui dorsi e i palmi erano talmente scure da poter apparire sangue marcio, strisciavano sul volto catturato e schiacciato sulla carta e giù sul tavolo, per poi risalire tra i suoi anelli e i suoi bracciali.
Era una magia che le prendeva la pancia e arrotolava lo stomaco, calpestando polmoni e costole pur di raggiungerle il cervello e martoriarle la testa con un controllo alla nuca.
Pretendeva tutto, il suo potere, pretendeva ogni lembo di carne del suo corpo e le dava altrettanto, secondo la millenaria legge del taglione.
Tutto per tutto.
Niente per niente.
Le strappava ogni resistenza per donarle la possibilità di poter fare la stessa cosa ai suoi nemici.
E poi di lei cosa rimaneva?
La più sorda solitudine, la più cieca rabbia, il più muto dolore.
Un fagotto di ragazza di venticinque anni con uno straccio di esistenza, uno sputo di coscienza e uno straordinario potere che non era in grado di controllare.
Ecco, ecco cosa rimaneva di lei, ed era così perché nessuno scambio è mai equo e perché da quando era nata le erano toccate le ossa senza carne, i nervi senza grasso.
Niente per niente.
 
“Non hai una vita, Natasha?”
Strisciò indietro la sedia e si alzò per raggiungere la sua borsa buttata in un angolo della stanza, la aprì con uno scatto rabbioso e lì gettò il foglio, il viso rovesciato all’in giù che le rivolgeva un’accusa negli angoli delle labbra abbassate in una smorfia di tristezza infinita.
Richiuse veloce la cerniera e si riprese la testa tra le mani, pressando forte contro la fronte. Il dolore aumentava e la magia si rivoltava contro di lei, strapazzandola come un calzino sporco e spaiato in una lavatrice troppo grande.
Esasperata, ancora di più e sempre di più, diede un calcio contro il muro e avvertì la sua energia sfrigolare contro il pavimento e gli oggetti vicini. Tentò di massaggiarsi le tempie ma dovette stringersi il cranio perché le sembrava di avere milioni di milioni di spilli negli occhi e alla nuca, tra le sopracciglia e il mento.
Wanda.
Quasi non respirava.
Wanda, tu sei più forte. Non devi avere paura.
Inspirare.
Non te lo ricordi?
Espirare.
Sei sempre tu.
Inspirare.
Sei tu.
Espirare.
E non devi temere te stessa.
L’aria tornò da lei e la stretta alla testa sembrò diminuire, alleggerirla di un peso e consentirle di prendere un altro respiro e un altro più profondo.
Non avere paura.
“Non meriti la presenza delle altre persone. All’inizio tutta questa tua paura fa tenerezza ma poi risulta solo disturbante.”
Natasha era ancora seduta e le labbra erano tirate mentre scuoteva il volto da destra a sinistra da sinistra a destra e sospirava spazientita, per lo più annoiata.
Lei raggiunse il tavolo e provò a risponderle decisa ma fu fermata nuovamente da un’altra fitta al collo che le raggiunse subito la testa e le contrasse i muscoli del viso.
Respirò, lentamente, e raccolse con meticolosità gli ultimi fogli, formando un magro plico, non molto consistente.
I pezzi perduti durante la sua vita, il buono che le era stato rubato senza la possibilità di una vendetta, il bello che lei aveva calpestato in completa autonomia.
Mamma, papà, Pietro.
Tutto l’amore che lei aveva disprezzato nel peggiore dei modi.
Visione.
 
“È Steve che ti ha chiesto di insistere così tanto? Oppure è una tua nuova forma di tortura e io sono la tua cavia personale? Cosa vuoi da me, perché sei qui?”
Riaprì la borsa e gettò anche quei disegni, confondendoli tra loro, e si voltò verso di lei, consumando il pavimento con i suoi passi pesanti mentre stringeva i denti e sopportava quella violenta emicrania.
“Partecipo ad ogni missione, completo ogni comando, non compio errori e nessuna distrazione mi ha mai impedito di portare a termini gli impegni presi. Sono qui con voi e sono perfetta, ogni lavoro è pulito e ogni combattimento è compiuto secondo le regole. Quindi cosa c’è? Perché tutto questo, perché adesso?”
Lui mi manca tantissimo, mi manca troppo, mi manca oltre i limiti del possibile, mi manca nello stesso modo in cui mi manca Pietro.
Ma sono qui, sono ancora qui, a combattere. Perché farmi anche questo? Perché?
“Hai così tanta paura da essere pietrificata nelle tue sciocche convinzioni. Ci credi davvero.”
Passò uno stupore genuino nel suo sguardo e per un momento la sua espressione cambiò, per un solo momento sembrò compatirla sul serio, senza alcuna finzione. Fu forse un secondo, un millesimo di secondo, ma fu in grado di spezzarle qualcosa dentro, di trovare il punto esatto di pressione, fu abbastanza perché il labbro inferiore cominciò a tremare e lei dovette fermarlo con i denti, fu troppo perché sentiva gli occhi bruciare e la tensione al petto scalciare per uscire.
“In che cosa? Di non avere un futuro? Ma è vero. Ogni cosa che tocco muore e tutti... sono morti tutti. Ho pagato e continuo a pagare ogni singolo secondo bello che ho vissuto o che potrei vivere e lo faccio con gli interessi. Sono stanca. Io non sono un’eroina, sono solo una povera e patetica sopravvissuta che cerca di andare avanti limitando i danni, eliminando i possibili mali, i sicuri dolori, gli ennesimi lutti. Perché sono stanca, sono tanto stanca. Sono esausta della rabbia del mondo contro di me.”
Tutti muoiono.
“Io sono nata per essere sola.”
Muoiono tutti.
 
Calò un nuovo silenzio nella stanza, un silenzio tombale, e allora lei credette che Natasha si sarebbe semplicemente alzata e si sarebbe allontanata, chiudendosi la porta alle spalle senza rimpianti e lasciandola lì da sola, per poi dimenticarsi di quella assurda conversazione.
Forse lo sperò, forse lo temette.
Non lo sapeva neppure lei.
"Non gira tutto intorno a te, Wanda. Il mondo se ne frega e l’universo non sa neanche che esisti."
Una sedia cadde e una mano si abbatté forte contro il tavolo e Wanda fu sorpresa di quello scatto veloce e del suo atteggiamento diverso, della rabbia che le veniva riversata all’improvviso con tanta veemenza. Sembrava disgustata, non triste né compassionevole né derisoria, solo autenticamente schifata.
“Sei... non so come definirti perché una persona tanto stupida e ingrata non l’avevo mai incontrata in tutta la mia vita. Il tuo compiangerti è rivoltante quanto la tua strascicante apatia. Hai fatto del male a lui, hai fatto del male a te, perché credi di essere maledetta? Ti credi così importante, ti immagini così potente, che il mondo, no, perdonami, l’intero universo complotta contro di te per portarti via tutto ciò che ami? Io non credevo potesse esistere un ego tanto smisurato quanto quello di Tony Stark e tu sei riuscita addirittura a superarlo.”
Essere paragonata all’uomo che più odiava al mondo le arrossò le guance di rabbia e arrotolò la lingua in scuse affrettate e bugiarde.
“È lui che ha rovinato tutto. Andava meglio prima, andava tutto bene. Perché...”
Era inutile continuare, tanto Nat lo sapeva, lo sapevano tutti cosa fosse successo e che cosa loro due si erano detti.
Lei lo sognava ogni notte e spesso lo urlava nel sonno, sperando al risveglio di aver avuto un vivido incubo e che nulla fosse reale.
Invece poi apriva gli occhi, sbatteva le palpebre al buio e il suo dolore era lì, sempre lì, perché lei si era costruita il suo personale Inferno e ora non sapeva più come uscirne.
“Lascia solo che ti dica questo. Per certe cose ci vuole maturità e dire certe cose vuol dire fidarsi. Almeno potresti avere più rispetto, soprattutto perché tu non hai mostrato lo stesso coraggio. Sei una codarda spaventata. Risulti addirittura patetica nella tua ostinata volontà di negare anche l’evidenza. Quindi...”
Sembrò fermarsi, ricordare altro e allontanarlo via chiudendo gli occhi.
“Alza il culo e cerca di fare qualcosa. Smettila di autocommiserarti e, prima che sia troppo tardi, dimostra di non essere una bambina. Sii una donna.”
È già tardi. Lui non mi perdonerà mai.
E come potrebbe? Io non mi perdono per quello che gli ho detto, per quello che gli ho fatto. Mi odio, mi dispero, piango di nascosto e mi pizzico le braccia per intimarmi di smetterla, di finirla e di non pensare a quello che ho perso e distrutto con le mie mani.
Perché io ho sempre avuto paura della felicità. Come se fosse qualcosa di troppo grande e impossibile da vivere, qualcosa capace di aprirmi il petto per ricrearsi più spazio, qualcosa di incontenibile in un corpo umano, troppo piccolo e ricco di ostacoli e sbarre.
Ho il terrore della felicità, la temo talmente tanto da far del male agli altri, da aver fatto del male a lui.
Lui che era tutto, lui che è tutto, lui che è il mio unico pensiero che mi porta sul ciglio della follia e poi mi riprende e mi salva, trovando per me un nascondiglio da ogni male marcio che infetta il mondo.
Lui che mi ha salvata, sempre, e che mi ha amata quando io non potevo neppure avere rispetto per me stessa e per il mio dolore. Lui, con i suoi sorrisi storti e le frasi bellissime, lui che mi ha conquistato giorno dopo giorno.
Come si può non innamorarsi di qualcuno che si prende tra i palmi tutte le tue ferite e le protegge con la propria vita?
Lui ha fatto questo, dal primo momento, lui mi ha amata a costo di farsi male e di sanguinare per me.
Lui è tutto il mio mondo.
Ed io non potrò più viverlo, non più, non ora che non c’è più tempo.
Il nostro tempo è finito.
 
“Torna da lui.”
Durante qualche notte, qualche notte più buia e spaventosa delle altre, aveva formulato quel pensiero in silenzio e lo aveva contemplato, pentendosene tutti i giorni seguenti.
Non poteva presentarsi da lui, no.
Non poteva e basta.
“Non posso.”
Di nuovo la mano di Nat si abbatté contro il tavolo e lei sentì le dita pizzicarle e la magia correre a riscaldarle le vene.
“Muovi il culo e dà una svolta alla tua vita.”
Risalire dal dirupo in cui si era buttata e cambiare il suo futuro, un’idea così lontana da poter essere formulata soltanto durante i deliri della febbre e mai da coscienti.
Si portò le braccia intorno al petto e ignorò il fastidio delle scariche rossicce, inclinò il capo di lato e si morse il labbro inferiore, mortalmente stanca.
“E come potrei?”
Combattere contro se stessa, contro la propria squadra e contro il mondo intero era qualcosa che avrebbe stancato e sconfitto chiunque.
La sua pace era lontana, lui era a una distanza incalcolabile di chilometri e ferite.
Come l’avrebbe guardata ora? Con risentimento?
Lui che non era mai stato capace di provare odio, forse adesso lo avrà imparato a causa sua?
Forse sarebbe stato indifferente o forse in realtà l’aveva già dimenticata, forse aveva superato quel qualcosa che non era mai del tutto esistito.
E lei? Che cosa aveva lei tra i propri palmi? Come poteva pensare di riaggiustare qualcosa di così rotto e disintegrato in miliardi di pezzi?
Lui cosa avrebbe provato a rivederla?
Tutto o niente?
"Devi lasciarti andare. Ma se lui... allora devi lasciarlo andare."
Lasciarsi andare era come cadere nel vuoto e sapere di non poter essere mai salvati. Era un suicidio crudele, un volontario farsi del male, una morte triste e consapevole.
Lasciarsi andare era contro l’animo umano.
Tutto o niente?
"Come Bruce ha fatto con te?”
"Come Vis ha fatto con te."
Nat girò su se stessa e si diresse verso la porta, camminò lenta e strinse un pugno contro la gamba per una frazione di secondo poi riaprì subito la mano e fu come non fosse mai accaduto.
Wanda la fermò non appena la vide abbassare la maniglia.
“Non vorrà neanche parlarmi né vedermi. Mi odierà, gli farò schifo.”
Natasha le rispose rivolgendole le spalle e non si curò neppure di assistere alla sua espressione dopo l’ultima stoccata che le rivolse precisa, come una freccia piantata al centro del suo petto, dentro il suo cuore, a mani nude.
“In fondo che cosa hai da perdere?”
La porta si chiuse e lei si ritrovò di nuovo da sola.
 
Niente. Lei non aveva niente.
 
 
 
   
 
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