“Nulla è”.
Un mormorio sommesso usciva dalle sue labbra, mentre camminava a testa bassa, immerso nei suoi pensieri. Pensieri che lo isolavano e, come in una bolla, lo separavano dalla luminosa gaietà di quel paesaggio di primavera inoltrata.
Un pezzetto di verde ritagliato a fatica tra le periferie urbane, ma tutto sommato, o forse proprio per questo, gioioso e solare.
Ma lui non vedeva niente di tutto questo. Non vedeva bambini che giocavano spensierati sulle altalene, ma l’incarnazione di uno stereotipo ipocrita. Pensava che avessero poco da essere allegri, che presto avrebbero scoperto che la vita non era un gioco, che era pianto e stridore di denti, che era farsi il culo, che era prendersi responsabilità senza ricavarne niente, che era lottare, soffrire da cani, inseguire sogni inutili e fallaci speranze per rendersi infine conto che non erano altro che bolle di sapone, destinate ad essere fatte scoppiare da qualcuno, o forse solo dal vento.
Continuava a camminare per il vialetto, incurante del sole che scaldava impietoso i suoi abiti –invariabilmente neri-. Del resto il sole stava in quel momento cominciando ad offuscarsi: alcune nuvole si stavano addensando su di esso.
Ne fu compiaciuto. Detestava vedere tutti pateticamente contenti di “stare all’aria aperta”, di ubriacarsi di luce e di finti sentimenti positivi. Detestava in fondo ogni atmosfera idilliaca, positiva, e dunque ipocrita, mendace sull’effettiva condizione umana. Quei poveri illusi che lo circondavano, come li compativa!
Ridevano. Ride bene chi ride ultimo. Ridete pure ora –pensava-. Ma
verrà un giorno in cui non ci sarà sole per voi, e non ci sarà gioia, solo
lacrime. E dovrete pure inghiottire le lacrime perché il mondo se ne fregherà
del vostro dolore e voi dovrete andare avanti. Sospinti da altri ingranaggi,
dovrete continuare a girare in questa infernale macchina. E a poco a poco ne
sarete macinati, fino a diventare inutili granelli di sabbia. Polvere. Memento pulvis es et in puliviris
reverteris.
E allora riderò
io. In mezzo alle macerie fumanti, in mezzo ai lamenti io riderò, e la mia
risata riecheggerà in eterno nelle menti di coloro che non mi hanno ascoltato.
Concluse questa
breve invettiva mentale con una punta di sadico piacere. Après moi, le dèluge.
Continuò il suo
giro, guardando di sfuggita le persone che passavano. Ora stava uscendo dal
parco, e si avviava verso la zona industriale. L’Ora di Punta vomitava sul
viale che stava percorrendo fiumi mefitici di auto.
Cosa fate?
Perché andate invano avanti e indietro? Qui
prodet? Per guadagnare? Cosa vi serviranno i soldi nella tomba?
Corromperete forse i vermi affinché non vi mangino? Per i vostri figli? E
perché nascono i vostri figli? Per piangere al vostro funerale.
L’anatema
silenzioso si scagliava anche sui pendolari che aspettavano l’autobus annoiati.
Intanto il cielo si oscurava, coperto da nuvole grevi. Un forte vento
imperversava ora. Gli sparuti passanti si stringevano nelle loro magliette per
il freddo. Lui invece li guardava sogghignando, stretto nel suo cappotto nero
che poc’anzi sembrava così ridicolo.
Le ciminiere
delle fabbriche punteggiavano l’orizzonte. Fumo grigio su cielo nero. Le sue
tonalità preferite. Chissà perché… Forse perché ispiravano alla gente
sentimenti autentici, invece delle solite patetiche emozioni sintetiche da
sceneggiato televisivo. Cose come amore,
speranza, felicità. Cazzate.
Non esistevano.
Per quanto ne sapeva, esisteva solo la morte. A dire che lui stesso esisteva ci
aveva rinunciato da tempo. Di fatto viveva come
se lui stesso esistesse, ammettendo un ipotetico concetto di “se
stessi”. Questa cosa gli seccava abbastanza. Come si può credere in qualcosa? Per credere bisogna fidarsi. E di chi? Chi mi da la prova?
Dio? Se non gli
fosse sembrata una cosa inutile, oltre che stupida, prorompere in una fragorosa
risata nel bel mezzo della strada, l’avrebbe senz’altro fatto.
Dio è morto.
Possibile che ci fosse ancora qualcuno che non lo sapeva. Quante volte aveva
immaginato l’uomo folle di Nietzsche che gridava al mercato, che entrava nelle
cattedrali, “tombe di Dio”, per annunziarne la morte. No, Dio non c’era.
Un tuono
riecheggiò nella città. Le cartacce abbandonate lungo i marciapiedi venivano
sollevate in mulinelli dal vento sibilante. Tutti correvano a tapparsi in casa.
Lui no. Proseguiva, fendendo l’aria con passo deciso. Proseguiva verso la
fonderia. Suo padre lavorava lì. Quel posto, stranamente, l’aveva sempre
affascinato. Era una delle poche cose per cui non nutrisse un sentimento di
indifferenza, o di odio.
Amava le alte
ciminiere, gli altiforni, il mare di magma incandescente che ribolliva là
dentro. Più volte aveva sognato che strabordasse da quei forni e invadesse la
città, il paese, il mondo intero, e l’universo. Sogni di annientamento. Erano i
suoi preferiti. Non dover più sopportare la moltitudine vociante, le
sciocchezze supreme spacciate come Verità dal mondo, il tedio che
inesorabilmente lo assaliva.
Sì, perché lui
non era come gli altri. Lui era serio. Portava avanti le cose che pensava, le
portava fino alle estreme conseguenze. Gli altri pensavano che le dicesse per attirare l’attenzione, che fosse una fase, che fosse tipicamente adolescenziale. Può darsi, rispondeva lui. Non
aveva elementi per dire di no, ma nemmeno per dire di sì. Sospendeva il
giudizio. E intanto tutto cadeva in lui, per la resina corrosiva del dubbio. Si
insinuava nelle cose, e le minava dall’interno.
Altro che
Cartesio! Quello non aveva le palle per andare fino in fondo! Lui invece si. E
presto tutti lo avrebbero saputo.
Entrò alla
fonderia, disse che voleva parlare con suo padre. Lo conoscevano, era venuto
spesso. Salì lentamente gli scalini che portavano all’altiforno numero 3.
Ammirò quello spettacolo che tante volte lo aveva colpito. Quel metallo fuso
–pensava- poteva distruggere ogni cosa, annichilirla. Era come il dubbio. Si
infiltrava in ogni interstizio, e nell’attimo di un pensiero, disintegrava ogni
cosa. Lui, ormai, aveva disintegrato ogni cosa. Certezze, convinzioni,
speranze. Una sola cosa gli restava.
Fece un solo
passo.
Sospeso nel
vuoto, nella manciata di millisecondi che lo separava dalla fine ebbe solo il
tempo di pensare
“Eppure…”