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Autore: Zero    28/04/2005    6 recensioni
Ho deciso di riprendere in mano questa vecchia raccolta a cui non lavoravo da tempo. Il nuovo capitolo si chiama "Nero". Dal mio punto di vista è una delle cose più nere che mi potessero venire fuori.
Il sottotitolo? "Nulla è"
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Nulla è”

“Nulla è”.

Un mormorio sommesso usciva dalle sue labbra, mentre camminava a testa bassa, immerso nei suoi pensieri. Pensieri che lo isolavano e, come in una bolla, lo separavano dalla luminosa gaietà di quel paesaggio di primavera inoltrata.

Un pezzetto di verde ritagliato a fatica tra le periferie urbane, ma tutto sommato, o forse proprio per questo, gioioso e solare.

Ma lui non vedeva niente di tutto questo. Non vedeva bambini che giocavano spensierati sulle altalene, ma l’incarnazione di uno stereotipo ipocrita. Pensava che avessero poco da essere allegri, che presto avrebbero scoperto che la vita non era un gioco, che era pianto e stridore di denti, che era farsi il culo, che era prendersi responsabilità senza ricavarne niente, che era lottare, soffrire da cani, inseguire sogni inutili e fallaci speranze per rendersi infine conto che non erano altro che bolle di sapone, destinate ad essere fatte scoppiare da qualcuno, o forse solo dal vento.

Continuava a camminare per il vialetto, incurante del sole che scaldava impietoso i suoi abiti –invariabilmente neri-. Del resto il sole stava in quel momento cominciando ad offuscarsi: alcune nuvole si stavano addensando su di esso.

Ne fu compiaciuto. Detestava vedere tutti pateticamente contenti di “stare all’aria aperta”, di ubriacarsi di luce e di finti sentimenti positivi. Detestava in fondo ogni atmosfera idilliaca, positiva, e dunque ipocrita, mendace sull’effettiva condizione umana. Quei poveri illusi che lo circondavano, come li compativa!

Ridevano. Ride bene chi ride ultimo. Ridete pure ora –pensava-. Ma verrà un giorno in cui non ci sarà sole per voi, e non ci sarà gioia, solo lacrime. E dovrete pure inghiottire le lacrime perché il mondo se ne fregherà del vostro dolore e voi dovrete andare avanti. Sospinti da altri ingranaggi, dovrete continuare a girare in questa infernale macchina. E a poco a poco ne sarete macinati, fino a diventare inutili granelli di sabbia. Polvere. Memento pulvis es et in puliviris reverteris.

E allora riderò io. In mezzo alle macerie fumanti, in mezzo ai lamenti io riderò, e la mia risata riecheggerà in eterno nelle menti di coloro che non mi hanno ascoltato.

Concluse questa breve invettiva mentale con una punta di sadico piacere. Après moi, le dèluge.

Continuò il suo giro, guardando di sfuggita le persone che passavano. Ora stava uscendo dal parco, e si avviava verso la zona industriale. L’Ora di Punta vomitava sul viale che stava percorrendo fiumi mefitici di auto.

Cosa fate? Perché andate invano avanti e indietro? Qui prodet? Per guadagnare? Cosa vi serviranno i soldi nella tomba? Corromperete forse i vermi affinché non vi mangino? Per i vostri figli? E perché nascono i vostri figli? Per piangere al vostro funerale.

L’anatema silenzioso si scagliava anche sui pendolari che aspettavano l’autobus annoiati. Intanto il cielo si oscurava, coperto da nuvole grevi. Un forte vento imperversava ora. Gli sparuti passanti si stringevano nelle loro magliette per il freddo. Lui invece li guardava sogghignando, stretto nel suo cappotto nero che poc’anzi sembrava così ridicolo.

Le ciminiere delle fabbriche punteggiavano l’orizzonte. Fumo grigio su cielo nero. Le sue tonalità preferite. Chissà perché… Forse perché ispiravano alla gente sentimenti autentici, invece delle solite patetiche emozioni sintetiche da sceneggiato televisivo. Cose come amore, speranza, felicità. Cazzate.

Non esistevano. Per quanto ne sapeva, esisteva solo la morte. A dire che lui stesso esisteva ci aveva rinunciato da tempo. Di fatto viveva come se lui stesso esistesse, ammettendo un ipotetico concetto di “se stessi”. Questa cosa gli seccava abbastanza. Come si può credere in qualcosa? Per credere bisogna fidarsi. E di chi? Chi mi da la prova?

Dio? Se non gli fosse sembrata una cosa inutile, oltre che stupida, prorompere in una fragorosa risata nel bel mezzo della strada, l’avrebbe senz’altro fatto.

Dio è morto. Possibile che ci fosse ancora qualcuno che non lo sapeva. Quante volte aveva immaginato l’uomo folle di Nietzsche che gridava al mercato, che entrava nelle cattedrali, “tombe di Dio”, per annunziarne la morte. No, Dio non c’era.

Un tuono riecheggiò nella città. Le cartacce abbandonate lungo i marciapiedi venivano sollevate in mulinelli dal vento sibilante. Tutti correvano a tapparsi in casa. Lui no. Proseguiva, fendendo l’aria con passo deciso. Proseguiva verso la fonderia. Suo padre lavorava lì. Quel posto, stranamente, l’aveva sempre affascinato. Era una delle poche cose per cui non nutrisse un sentimento di indifferenza, o di odio.

Amava le alte ciminiere, gli altiforni, il mare di magma incandescente che ribolliva là dentro. Più volte aveva sognato che strabordasse da quei forni e invadesse la città, il paese, il mondo intero, e l’universo. Sogni di annientamento. Erano i suoi preferiti. Non dover più sopportare la moltitudine vociante, le sciocchezze supreme spacciate come Verità dal mondo, il tedio che inesorabilmente lo assaliva.

Sì, perché lui non era come gli altri. Lui era serio. Portava avanti le cose che pensava, le portava fino alle estreme conseguenze. Gli altri pensavano che le dicesse per attirare l’attenzione, che fosse una fase, che fosse tipicamente adolescenziale. Può darsi, rispondeva lui. Non aveva elementi per dire di no, ma nemmeno per dire di sì. Sospendeva il giudizio. E intanto tutto cadeva in lui, per la resina corrosiva del dubbio. Si insinuava nelle cose, e le minava dall’interno.

Altro che Cartesio! Quello non aveva le palle per andare fino in fondo! Lui invece si. E presto tutti lo avrebbero saputo.

Entrò alla fonderia, disse che voleva parlare con suo padre. Lo conoscevano, era venuto spesso. Salì lentamente gli scalini che portavano all’altiforno numero 3. Ammirò quello spettacolo che tante volte lo aveva colpito. Quel metallo fuso –pensava- poteva distruggere ogni cosa, annichilirla. Era come il dubbio. Si infiltrava in ogni interstizio, e nell’attimo di un pensiero, disintegrava ogni cosa. Lui, ormai, aveva disintegrato ogni cosa. Certezze, convinzioni, speranze. Una sola cosa gli restava.

Fece un solo passo.

Sospeso nel vuoto, nella manciata di millisecondi che lo separava dalla fine ebbe solo il tempo di pensare

“Eppure…”

 

 

 

 

  
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