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Autore: Roiben    28/08/2018    2 recensioni
Che cos'è la devianza? Un semplice virus digitale diffusosi fra gli androidi a seguito di contatti e scambio di dati? Un malfunzionamento patogeno causato da un errore di progettazione? L'evoluzione autonoma di un programma preinserito? O la semplice presa di coscienza della propria esistenza e di un pensiero indipendente?
Come l'hanno percepita gli androidi? E gli esseri umani?
Anche gli androidi hanno dei sogni?
Genere: Angst, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Connor/RK800, Elijah Kamski, Hank Anderson, Markus/RK200
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Gli androidi sognano... ?



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chapter 01. End or Beginning



DETROIT

Date

NOV 11TH, 2038


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CYBERLIFE TOWER

Belle-Isle

Floor -49

Time

PM 11:07



Dopo essersi a fatica liberato delle guardie che lo attendevano con una certa impazienza all’ultima fermata dell’ascensore, Connor pensa di essere ormai a un solo passo dal completare infine la propria missione, ridestando il primo di migliaia di androidi ancora nella mani della Cyberlife. Ebbene: sbagliava, e lo comprende nel momento in cui la sua stessa voce, da poco distante, gli intima di fermarsi.


Guardare in faccia sé stessi risulta piuttosto disturbante, soprattutto se quel sé stesso punta una pistola alla testa dell’unico collega mai avuto dall’alba della sua prima attivazione.


Ascolta le scuse del tenente Anderson senza mai distogliere lo sguardo da quell’altro. “Sparerebbe davvero ad Hank?” si domanda, crucciato. “Certo che lo farebbe”. In fondo lui stesso ha appena ucciso delle guardie; guardie umane. Nulla al mondo impedirebbe a quell’altro di fare la stessa cosa con il suo collega, nel caso in cui lo ritenesse necessario.


È indeciso: non desidera essere la causa della morte del tenente, ma al tempo stesso la prospettiva di abbandonare la propria missione non è meno tollerabile. Dunque che fare? Sposta lo sguardo negli occhi di Hank e decide: troverà un’altra via per raggiungere l’obbiettivo, un modo che non lo costringa a sacrificare un’altra vita umana. Lascia lentamente la presa sul braccio dell’androide ancora ignaro e solleva le mani in segno di resa. Un lampo di sorpresa lo coglie quando il tenente approfitta della momentanea distrazione di quell’altro per tentare di disarmarlo. Non riesce purtroppo nell’impresa, ma Connor è rapido nello schivare lo sparo che ne segue e senza perdere un secondo in più si getta contro la propria copia, allontanandolo dal collega e azzuffandosi senza molto successo sul lucido pavimento dei sotterranei della Tower; d’altra parte possiedono capacità praticamente identiche e le stesse possibilità di vittoria: un colpo di fortuna sarebbe l’unico modo per sopraffare l’altro.


«Fermi!» intima la secca voce del tenente Anderson.


Entrambi i Connor sospendono le ostilità e spostano l’attenzione sull’uomo che tiene entrambi sotto tiro, fissandoli in modo truce ma anche con un senso di disagio ben palpabile.


Poiché a colpo d’occhio risulta impossibile distinguere l’uno dall’altro i due androidi e lasciare che si facciano a pezzi sarebbe certamente controproducente, Hank sta disperatamente cercando di venire fuori da quell’assurda impasse e un aiuto, inatteso ma sicuramente gradito, gli giunge proprio da uno dei due Connor, il quale ragionevolmente suggerisce di proporre loro alcune domande alle quali, di norma, solo il Connor originale dovrebbe poter fornire risposte corrette. Hank, non senza un pizzico di gratitudine per quella possibile soluzione, accetta la proposta e torna a scrutare entrambi, indagatore, mentre riflette sulla sua prima domanda, sotto lo sguardo apparentemente e stranamente ansioso dei due androidi.


«Uh… Dove ci siamo incontrati la prima volta?» domanda Hank con una sfumatura leggermente sarcastica nella voce.


Il Connor alla sua destra, con prontezza, dà la risposta esatta; quello fermo alla sua sinistra si acciglia e mormora fra sé una considerazione che il tenente non è in grado di decifrare, ma quando solleva gli occhi su di lui può notare della preoccupazione e, forse, perfino dell’angoscia sul suo volto. Scuote il capo, come a schiarirsi le idee; è troppo presto per trarre conclusioni, servono maggiori conferme. Così rinsalda la presa sulla pistola, tenendoli attentamente sotto tiro, e si presta a porre la sua seconda domanda.


«Qual è il nome del mio cane?»


Questa volta è il Connor alla sua sinistra a rispondergli, anticipando di poco quell’altro, e Hank si domanda se quella piccola smorfia quasi invisibile sulle sue labbra fosse ironia, mentre pronunciava il nome corretto. “Proviamo” pensa, sospirando mentalmente, e infine dalla sua bocca scivola la terza e, spera, ultima domanda.


«Mio figlio, qual è il suo nome?» chiede, rivolgendosi direttamente al Connor che, dei due, gli è parso il più promettente.


Per una volta tanto, nella propria vita, non rimane deluso dalla replica sicura dell’androide interrogato. Invece rimane sorpreso e un poco turbato dalle parole che aggiunge in seguito e che suonano quasi come una richiesta di perdono. “Ma perdono per che cosa, per l’amor del cielo?” sbotta fra sé, amareggiato. Eppure ha la sensazione che ciò che scorge in quegli occhi sia reale, che quella che appare tristezza e pena non sia unicamente finzione, una mera imitazione dell’umano, e se non lo è Hank non ha più motivi per dubitare della propria scelta.


«Cole è morto perché il chirurgo umano era troppo fatto di red ice per operare. È stato lui a prendersi mio figlio. Lui e questo mondo, dove l’unica via che hanno le persone per trovare conforto è con un pugno di polvere» puntualizza, abbassando di poco l’arma che ancora impugna, senza staccare gli occhi da quelli dell’androide. Poi, quasi a tentare di giustificare la scostanza spesso spiacevole dei suoi modi, decide di dire tutto quanto, perché sappia ogni cosa, finalmente. «Ogni volta che muori e poi torni indietro… io penso a Cole, a quanto vorrei riportarlo indietro. Darei qualunque cosa per stringerlo di nuovo. Ma gli esseri umani non tornano indietro» soffia addolorato, perdendosi un attimo nei propri ricordi e lasciando momentaneamente ricadere le braccia lungo i fianchi.


Evidentemente quell’altro non aspettava che quella piccola distrazione per riprendere il controllo della situazione; lesto scatta in avanti, sferrando un pugno nello stomaco del tenente e strappandogli velocemente dalle mani la pistola. Rapido si volta e spara un colpo, tentando di eliminare finalmente il maledetto deviante ma mancando il bersaglio, il quale invece lo prende di sorpresa assestandogli un calcio alle caviglie e facendolo piombare a terra; la pistola gli sfugge di mano ma, lungi dal lasciar correre, risponde all’attacco del deviante con egual impeto.


E sono entrambi nuovamente a terra, intenti nell’utopica speranza di prevalere sull’altro mentre invece fanno del proprio meglio per demolirsi a vicenda, quando Hank rientra in possesso della pistola scivolata a terra e, attendendo il momento più propizio fra un colpo e l’altro, spara colpendo al petto uno dei due androidi. Lo osserva con distacco crollare sulle ginocchia senza curarsi eccessivamente dei suoi occhi sgranati e curiosamente increduli. Sospira e abbassa l’arma, ritenendo che questa volta sia realmente finita.


«Scelta sbagliata, tenente» lo sorprende impreparato la voce di Connor.


Solo che quello che ha appena parlato non è affatto il suo collega, non con quell’espressione disinteressata stampata sulla sua faccia finta, non con quegli occhi così vuoti di ogni emozione vagamente umana. Risolleva la pistola e gliela punta diritta in volto, deciso a fargli saltare la testa dal collo una volta per tutte.


«Oh, può spararmi, se lo desidera. Ma non le servirebbe a molto, temo: un altro Connor prenderebbe il mio posto per portare a termine la missione» lo deride l’androide.


È completamente smarrito, Hank, mentre rimane immobile lasciando che l’androide lo superi e riguadagni l’uscita della Tower. La confusione e il senso di sconfitta non sono nulla se paragonati all’orrore nel realizzare di aver appena ucciso l’androide sbagliato. Solleva gli occhi lentamente, fino a incontrare Connor, ancora immobile nel punto in cui lo ha colpito, ancora con la stessa incredulità negli occhi vitrei.


«Che cosa ho fatto?» soffia.



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HART PLAZA

Downtown

Time

PM 11:58



Vede nitido il volto del leader dei devianti attraverso il mirino del fucile di precisione che imbraccia con sicurezza, e già si appresta a premere il grilletto per portare a termine la propria missione, quando il suo udito lo mette in guardia sull’inatteso rumore di passi che percorrono le scale poco distanti e della porta che dà sulla terrazza che si spalanca con forza, lasciando libero l’accesso a una piccola squadra di SWAT armati di tutto punto e, lo scopre dalla voce che gli intima di lasciare l’arma, comandati dal capitano Allen.


Chiude gli occhi per un lungo istante. Se non sapesse con estrema certezza di essere una macchina, riterrebbe di provare noia e, soprattutto, un fastidio molto acuto per quell’ennesima complicazione. D’altra parte non è certo un deviante, lui, pertanto con tutta calma si rialza, trattenendo il fucile poggiato al fianco, e si volta a fronteggiare la nuova seccatura, augurandosi di potersela sbrigare in fretta e tornare al suo più urgente incarico.


Non ha l’ordine di giustiziare esseri umani, certo, e tuttavia neppure il divieto di farsi strada a loro spese. Per questo, dopo aver inutilmente dibattuto di doveri inderogabili con l’uomo a capo della squadra, perdendo fra le altre cose tempo prezioso e anche una certa dose di pazienza, stabilisce che non valga per nulla la pena di continuare a cercare di trattare con esseri umani che, evidentemente, non sono in grado di comprendere l’importanza del suo compito.


In pochi istanti calcola le proprie possibilità, poi scatta veloce, tramortendo il capitano Allen con il calcio del fucile, sottrae la sua arma e nel tempo che il poliziotto impiega per crollare a terra privo di sensi liquida il resto della squadra con pochi colpi sicuri.


Un’occhiata alla balconata lo avverte che non c’è più molto tempo per gingillarsi ulteriormente con i poliziotti umani; recupera quindi due paia di manette dai corpi degli agenti morti e, dopo aver sbrigativamente trascinato il capitano per una gamba fino alla balaustra, lo ammanetta alle sbarre così da evitare ulteriori e possibilmente fastidiose interruzioni.


Di nuovo di fronte al parapetto, controlla il proprio fucile, assicurandosi che non abbia subito danni durante la colluttazione e, soddisfatto dei risultati dell’indagine, lo riposiziona attentamente in direzione dell’obbiettivo, osservando con cura attraverso il mirino. Sì, nulla è cambiato: lui è ancora bloccato su quella piazza, circondato dai suoi subalterni e dalle squadre armate degli agenti dell’FBI e della polizia, sempre alla ricerca di una soluzione pacifica a un problema con tutta probabilità insolvibile. Non ne avrà il tempo, non più.


Si assicura sulla quantità di colpi a disposizione, toglie la sicura, sposta il peso sul ginocchio poggiato a terra e reclina appena il capo a destra; sposta di un soffio la traiettoria verso l’alto e fa fuoco: una, due, tre, quattro volte, osservando con una punta di soddisfazione cadere altrettanti inutili devianti e con essi il loro illogico sogno di libertà.



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CYBERLIFE TOWER

Belle-Isle

Floor -49

Time

PM 11:16



Avverte le ginocchia molli mentre i suoi occhi non riescono in alcun modo a staccarsi dalla figura immobile di Connor. Prova a deglutire, ma la sua gola è secca e non gli dà nessun conforto. Tenta un passo, vacilla, avanza di un secondo passo, poi di un terzo, infine le sue ginocchia cedono e, senza realmente volerlo, si ritrova a pochi palmi dal volto del suo collega, o forse a questo punto dovrebbe dire ex-collega, perché di certo quella cosa che è uscita da poco dalla Tower non avrà più possibilità di avvicinarsi abbastanza a lui senza ritrovarsi con un buco in fronte.


Solleva un braccio, incerto, e allunga appena una mano, ma decisamente sembra che il proprio corpo non abbia nessuna intenzione di toccarlo. Una lacrima scivola veloce perdendosi nella sua barba incolta. Da quanto tempo non piangeva? L’ultima volta aveva un figlio da seppellire. E ora? Non gli rimarrà neppure il conforto di una tomba.


«Mi dispiace. Io… Perdonami» mormora, interrotto da un doloroso singulto. «Ho… combinato un casino, ma… non volevo che finisse così».


E non ha idea se si stia rivolgendo alla propria coscienza, a un fantomatico dio in cui non crede più da un bel pezzo, oppure all’idea di anima che può immaginare si fosse insediata in quel corpo fabbricato da esseri umani. Non lo sa, ma ha comunque bisogno di giustificarsi, di chiedere perdono, a qualunque entità voglia prendersi il disturbo di ascoltarlo.


Sospira, sfiora appena con le dita la tempia dell’androide, là dove non brilla più il led. Un’altra lacrima abbandona i suoi occhi.


«Connor» sillaba senza più voce.


Le sue braccia stringono un corpo che forse non è mai stato realmente vivo, ma che la sua mente considerava quello di un amico, ed è quando avverte la ruvidezza dei suoi abiti sempre impeccabili sotto i palmi delle mani e il solletico di una ciocca di fini capelli sulla guancia che decide. Suo figlio è morto: era un essere umano, non poteva riportarlo indietro in alcun modo. Ma Connor non era umano, ed è sempre tornato da lui, in un modo o nell’altro. Ora che non può più farlo, penserà Hank stesso a trovare il modo, il modo per riavere l’unica creatura sulla faccia della Terra cui ancora tiene (oltre a Sumo, chiaro).


Con un po’ di impiccio, rafforza la stretta della braccia e lo risolleva da terra. E, diavolo, lo ricordava molto più leggero! “Ci avranno aggiunto altra ferraglia inutile, dall’ultima volta” borbotta fra sé. Con attenzione se lo carica in spalla e, lentamente, raggiunge l’ascensore che li porterà al parcheggio, per recuperare la propria auto. Al resto penserà una volta fuori da quel posto maledetto.


Prima che l’ascensore parta, getta un’ultima occhiata al mare di androidi ancora ignari che sembrano occupare l’intero piano, e una fitta di dispiacere va a sommarsi al suo già gravoso fardello. Ma si ripromette che, se i suoi piani andranno come spera, qualcosa forse potrebbe ancora risvegliarli. Qualcosa o… qualcuno.


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NdA:

Questa è una “What If?” per più di un motivo.

Il principale è, come forse si sarà intuito, che dopo la gita di Connor alla Cyberlife Tower i fatti non vanno più in alcuno dei modi progettati dall’autore del gioco. Markus, North, Josh e Simon erano vivi... Erano, appunto, prima che arrivasse Connor 2 la vendetta e li fucilasse tutti in massa. Pensare che volevo salvare Simon, inizialmente. La situazione dev’essermi sfuggita un attimino di mano a un certo punto. Ma il capitano Allen l’ho salvato (anche se lo sopporto male).

In secondo luogo ho dovuto rimaneggiare gli orari perché con due Connor sulla piazza mi si complicava un poco la faccenda e non riuscivo a far quadrare i conti in alcun modo (originariamente Connor si trova O alla Cyberlife Tower O in Hart Plaza).

Poi, beh, la coppia canonica di Markus e North è saltata, qui. Al posto della donzella non proprio gentile ci ho messo l’androide imbranato, ovvero Connor, quello con problemi di relazioni interpersonali anche quando deve avere a che fare con un’unica persona o con un cane.

Ultimo appunto: qui Connor è morto due volte. La prima investito in autostrada mentre insegue Kara. La seconda dopo aver deciso di proteggere Hank dal deviante alla Stratford Tower. Sono le uniche due volte che ho trovato che non incidono troppo negativamente sulla sua relazione con Hank e al contempo che non lo fanno sembrare troppo impedito.

Il resto si vedrà strada facendo. Buona lettura.

Roiben


  
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