Capitolo
51
(WICKED
GAME)
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N.B.: questo capitolo è interamente un flashback. Precedentemente ho
usato il corsivo per i flashback, ma a dirla tutta forse un intero capitolo in
corsivo potrebbe essere un po’ pesuccio, fatto sta
che stavolta vi avverto prima ;) ----
Era un qualche giorno della settimana; era
una certa ora della molto tarda serata di un’estate come un’altra a Tairans; e quello era un bar che prima o poi, di lì a forse
al massimo un paio d’ore, avrebbe finito per chiudere.
Questo era tutto quello che Uther aveva
ben presente al momento. E non perché tutto il resto giacesse annebbiato, come
accartocciato ai margini della consapevolezza, sospinto via quasi come se si
trattasse di un processo fisiologico da alcool. Non aveva affatto bevuto così
tanto, quella sera; francamente, riteneva impossibile per quasi chiunque
potersi sbronzare così tanto con soli tre bicchierini di qualcosa di sì forte
ma non certamente assegnabile alla categoria dei ‘torcibudella’ e ‘torcineuroni’ veri e propri. Tre bicchierini peraltro
dilazionati nel corso di tre ore di starsene seduto lì, e peraltro dopo che
aveva iniziato a stomaco pieno.
No, il fatto era che più propriamente
stava da giorni piuttosto sistematicamente portando avanti questo esercizio di
accantonare le cose che non gli sembravano immediatamente e direttamente
fondamentali, momento per momento. E credeva di aver scoperto che gli riusciva
particolarmente bene, dopotutto.
Per questo al momento le uniche cose di
cui doveva veramente preoccuparsi erano il livello del liquido alcolico
contenuto nel suo terzo bicchierino che si abbassava, il fatto che nessun’altro
tra baristi e avventori gli dedicasse più di una semplice e distratta
attestazione della sua presenza come se fosse stato una qualsiasi comparsa
parte dello sfondo, e se i gestori di quel bar avrebbero deciso di lasciarlo lì
col suo bicchierino mentre iniziavano a pulire e sistemare, come considerandolo
una delle ultime cose da sistemare chiedendogli di uscire solo prima di
chiudere effettivamente l’ingresso, o se fossero piuttosto quel tipo di baristi
che prima si assicurano che tutti gli ultimi clienti siano usciti e solo a quel
punto iniziano a sistemare e ripulire per la chiusura. Lui avrebbe decisamente
preferito la prima opzione tra queste ultime due. Se non altro perché essere
considerato con ancora meno attenzione, come se fosse un semplice oggetto
innocuo che si poteva sistemare per ultimo, piuttosto che un vero e proprio
cliente da trattare con una certa formalità di base, era per lui preferibile al
momento.
O forse l’essere considerato come un
qualcosa di piuttosto immancabilmente, pervicacemente e quasi sfacciatamente
fuori posto era qualcosa che sembrava coincidere meglio con lui, e con la sua
vita in generale. Non lo era sempre stato, in fondo, fuori posto? Fuori-luogo,
sempre e comunque. Non sempre per scelta cosciente e voluta; anzi, la maggior
parte delle volte nella sua vita a determinare il suo essere fuori-posto forse erano
state dopotutto quel tipo di cose della vita che al massimo sembrano solo delle
scelte, quando non sono piuttosto come una sorta di destino o di natura
intrinseca della propria persona. Come se non potesse fare a meno, in quanto
lui, di finire in un qualche modo comunque fuori posto.
Poteva tranquillamente essere stato semplicemente
quello a portarlo a incontrare e finire dentro e di mezzo ai ‘4 di picche’, che per eccellenza erano sempre in qualche modo
fuori-luogo. Con la differenza che, se lui da solo aveva in fondo sempre
percepito quell’essere fuori posto come qualcosa di simile ad una specie di
destino potenzialmente piuttosto malinconicamente deprimente, nei ‘4 di picche’ l’essere fuori-luogo era diventata una
caratteristica non solo sbattuta in faccia al mondo con un qualche tipo di
indefinibile e spensierato orgoglio animato con leggerezza attraverso i più
disparati luoghi e attraverso le più svariate persone, ma anche consapevolmente
accettata senza ombra di vergogna, anzi, vissuta fino in fondo senza
risparmiarsi mai. E goduta fino in fondo, con una
certa briosa auto-ironia perennemente sospesa in sottofondo. Non era dopotutto
il modo migliore di prendere la vita quello? Con briosa e instancabile
auto-ironia? Uther riteneva di sì. E avrebbe intimamente desiderato essere più
continuatamente bravo in quello, ma sapeva in fondo che non lo era mai stato
così tanto e così ininterrottamente come quando era stato parte dei ‘4 di picche’.
In definitiva, al momento non avrebbe più
saputo dire se ora, proprio in quel momento e in quel bar e in quel qualsiasi giorno
della settimana e ora della tarda serata fosse, quel suo tenerci ad essere
fuori posto fosse più come un rivendicare il suo essere stato parte dei ‘4 di picche’ per un prezioso e rocambolesco periodo della sua
vita, e sicuramente il migliore periodo della sua vita, oppure un semplice
cercare di riadattarsi suo malgrado a quel suo essere fuori posto personale e
individuale, privo di qualche vera e propria connotazione del tutto positiva o
negativa, quanto piuttosto come un lasciarsi andare alla deriva in un
indefinito e inafferrabile sorta di limbo liquido e fin troppo sgradevolmente
denso e melassoso che sembrava appiccicarglisi
addosso rifiutandosi di lasciarlo andare così facilmente.
Ma poteva essere più facilmente la
seconda, delle due. Perché era quella che sembrava adattarsi meglio al suo
stato d’animo di quei giorni. Dopotutto si trovava a Tairans
da giorni. Lì dove aveva incontrato ed era finito di mezzo ai ‘4 di picche’ per la prima volta, anche se allora nessuno di loro
aveva ancora avuto in mente di potersi battezzare in un modo del genere. Ma era
pur sempre lì che si erano formati inizialmente i ‘4 di picche’,
ancora prima che lui arrivasse per caso in quella città. Eppure, nel corso di
quei giorni lui aveva scoperto che le uniche tracce rimaste di quello, del
fatto che Tairans era stata inconsapevolmente – e
probabilmente suo malgrado se qualcuno si fosse mai
sprecato a fare una specie di sondaggio in giro tra gli abitanti, peraltro
inconsapevoli appunto – la città natale dei ‘4 di picche’,
ovvero semplicemente l’appartamento dove avevano abitato lui e Kumals, e a tratti semi-abitato anche Yuta
e Zoal, non erano abbastanza. Non abbastanza a
rendere l’idea di quanta importanza avrebbe potuto dare lui, per esempio,
all’origine di ciò che erano stati, e che sarebbero sempre rimasti per lui, i
‘4 di picche’. Una natura decisamente inafferrabile e
indefinibile, come doveva essere, come era condizione esserlo per tutte le cose
migliori, a suo parere.
Uther sapeva perfettamente che tutto
quello, il giocare nella propria testa e con le proprie emozioni attorno al
passato guardando ad esso come se fosse stato una sottospecie di destino che
doveva pur compiersi in un modo o nell’altro, guardandovi cioè dal presente
voltandosi indietro come se fosse qualcosa di scontato, aveva qualcosa di
intrinsecamente inutile, perso in partenza, pericolosamente ingannevole e
facilmente auto-lesionista. Come uno strumento per auto-tormentarsi. Ne aveva
tutta l’aria, di essere un esercizio eseguito con uno strumento fatto quasi
apposta per farsi del male. Ma pur avendolo saputo fin dall’inizio, aveva
pensato di poterlo invece usare come strumento di ricerca. Di che cosa, non
avrebbe saputo dirlo con esattezza, nemmeno se avesse passato un’altra intera
vita a pensarci, probabilmente. Non doveva forse rimanere qualcosa di
completamente inafferrabile, la natura dei ‘4 di picche’,
per poter rimanere così preziosamente unica ai suoi stessi occhi?
Forse stava solo cercando qualcosa più a
proposito di sé, in effetti. Ma sospettava profondamente che lo stava facendo
in un modo per sua natura completamente inutile, e in qualche modo non ben
definibile del tutto a se stesso. Tornare a cercare di
reincrociare le imperscrutabili strade della pura
casualità che lo avevano portato a imbattersi all’inizio nei ‘4 di picche’ (che all’epoca nemmeno si chiamavano così) aveva
tutta l’aria di essere una di quelle metodologie completamente sbagliate già in
partenza; figurarsi se si poteva pretendere dunque, usando un metodo
completamente sbagliato già dall’inizio, di poter approdare ad un qualche
risultato in qualche modo veritiero o utile o rivelatorio.
Ma forse la verità era che non cercava
nessun significato, spiegazione o rivelazione. Molto probabilmente non ne aveva
bisogno. Molto probabilmente aveva già tutte le risposte già da molto tempo. E
il come lui avesse per forza dovuto essere di suo addirittura così fuori posto
da riuscire ad esserlo persino tra i ‘4 di picche’,
per eccellenza fuori-luogo di loro implicita natura… beh, forse la risposta era
semplicemente proprio nel fatto che era lui, che era nella sua natura.
Forse dopotutto non era finito a Tairans per cercare qualcosa che non c’era e non poteva
esserci, un qualche segno profondo rimasto intaccato da qualche parte lì a
segnare il suo inizio con i ‘4 di picche’ prima che
anche solo si chiamassero a quel modo. Forse era finito lì per una sorta di
implicita convinzione – sommersa da qualche parte diversi piedi al di sotto del
livello della sua coscienza più auto-consapevole – a proposito del fatto di
poter aver bisogno di mettere fine a qualsiasi cosa stesse continuando a
trascinare come zavorra dietro di sé, tracciando un cerchio che poteva
finalmente chiudersi su se stesso. Quindi, lì dove era
iniziata, lì in qualche modo doveva finirla. Come, ancora non ne aveva alcuna
idea, né indizio, né ispirazione.
Infine, forse stava solo aspettando
qualcosa. Qualsiasi cosa che gli desse un qualche indizio o ispirazione a
proposito di come poter riuscire a chiudere quello che qualcosa in lui aveva
ostinatamente deciso dovesse rivelarsi alla fine della forma di un cerchio.
Ad un certo punto – mentre non proprio
rifletteva su tutto questo, quanto piuttosto lasciava che un miscuglio di
quelle e altre considerazioni scorresse come in sottofondo, mentre lui si
preoccupava diligentemente solo del livello del liquido nel suo bicchierino e
di come calava ad ogni suo sorso distratto, e di sorvegliare vagamente i
movimenti dei baristi cercando di interpretare se e quando si fossero
eventualmente decisi a chiudere il locale e se avrebbero iniziato dal fare
uscire lui o dal sistemare i tavoli e pulire il bancone lasciandolo lì ancora
un poco con una qualche sorta di sensibile concessione – qualcosa attirò il suo
sguardo di colpo.
O meglio: qualcuno. Qualcuno che gli aveva
fatto rivolgere gli occhi in quella direzione semplicemente perché si stava
muovendo in un modo ostentatamente calmo e casuale, ma era evidente alla sua
capacità di osservazione consumata e istintiva che si stava dirigendo
miratamente verso il suo tavolo.
Per un momento si infastidì decisamente.
Se c’era qualcosa che avrebbe volentieri evitato senza dubbio, era che chiunque
decidesse di dedicargli fin troppa attenzione, figurarsi addirittura
avvicinarglisi miratamente o, ancora peggio, pensare di provare a rivolgergli
la parola. Ma poi qualcos’altro iniziò a risvegliare come istintivamente una
certa curiosità, assieme ad una notevole e non meno istintiva attenzione
penetrante e sul chi va là.
Forse era solo per via che quella che gli
si stava avvicinando non era solo una donna relativamente giovane e di una
bellezza affascinante in modo chiaramente conturbante, ma che aveva qualcosa
nello sguardo e in ogni singola movenza che lasciava intendere, specialmente a
lui forse, che c’era qualcos’altro in lei. Qualcosa di non comune, qualcosa che
non si poteva semplicemente piazzare nella categoria delle eventuali
particolarità individuali e caratteriali di una personalità decisa ed
estremamente auto-cosciente; qualcosa che piuttosto sembrava richiedere di
essere attenzionata con molta acutezza e perspicacia, per non rischiare di
ritrovarsi facilmente e rapidamente in balia di qualcosa di pericoloso, e
pericoloso in un modo non immediatamente categorizzabile e definibile
lucidamente, e per questo intrinsecamente ancora più sottilmente inquietante.
La donna continuò ad avvicinarsi finché
non si fermò praticamente di fronte a lui e lo fissò, ferma in piedi dall’altra
parte del tavolo. E lui aveva nel frattempo deciso, ora che ce l’aveva proprio
davanti e decisamente vicino, che quelle impressioni istintive che il vederla
avvicinarsi miratamente a lui gli avevano suscitato,
non potevano che essere confermate ora. Ma guardandola ancora più da vicino – e
ancora molto prima che lei gli rivolgesse un sorriso solo apparentemente
gentile e casuale, quanto piuttosto in qualche modo sottilmente sinistro,
appena tagliente, ed estremamente intelligente, sicuro di sé e perfettamente
auto-cosciente – Uther seppe con certezza che lei sapeva benissimo che lui
aveva avuto quelle sensazioni al solo vederla avvicinarsi. E non sembrava per
niente che la sua sicurezza fosse intaccata da quella consapevolezza, anzi,
sembrava essersene piuttosto divertita.
Uther capì in quell’esatto momento e senza
ombra di dubbio: che quel circuirlo che lei aveva iniziato a fare non appena
aveva iniziato a incamminarsi nella sua direzione sapendo benissimo che lui
l’avrebbe notata, non aveva strettamente a che fare con un approccio come un
altro tra sconosciuti in un bar, ma qualcosa di predatorio in tutt’altro senso,
e qualcosa di molto simile ad un lanciare una sfida che si è convinti di poter
vincere facilmente.
Perciò, Uther sorrise un poco di rimando,
lasciandole intendere tranquillamente, con solo una piccola sfumatura
chiaramente tagliente e sottilmente ricambiante l’eventuale minaccia all’angolo
delle labbra, che non aveva intenzione di tirarsi indietro. E forse era solo
perché essendo lui non poteva tirarsi indietro; o forse era solo perché al
momento non aveva in effetti di meglio da fare. Forse era solo perché era stato
parte dei ‘4 di picche’ dopotutto, che diavolo, e
aldilà del particolare che il gruppo esistesse ancora o meno, lui non poteva
che riconoscere istintivamente ormai, e quasi immancabilmente, quando qualcosa
di interessante e incuriosente, per quanto potenzialmente inquietantemente
pericoloso, si presentava. Specialmente se si presentava così apertamente e
direttamente e miratamente.
Perciò quando la donna gli chiese
semplicemente «Heylà. Posso sedermi?», con quel tono
trasudante una casualità solo apparente e di facciata che non si preoccupava
affatto di essere del tutto credibile, e che molto più realmente aveva un che
di supponentemente superiore e sicuro di sé e divertito di un divertimento
tutto suo, e che sembrava accompagnarsi in qualche modo perfettamente
all’aspetto di lei e alla natura taglientemente
penetrante e attenta del suo sguardo in qualche modo predatorio, Uther si
limitò ad alzare le spalle e a fare un sommario cenno verso la sedia libera di
fronte a lui, scegliendo attentamente quella più lontana dalla sua e dall’altra
parte del tavolo con pienamente consapevole strategia, e rispose solo «Fai
pure.», come se per lui non facesse tutta quella differenza.
La giovane donna si sedette, sempre senza
staccargli quello sguardo di dosso. Non era uno sguardo del tipo che si
preoccupasse minimamente di poter fare provare un istintivo disagio a chi ne
veniva fatto oggetto, e che allo stesso tempo sembrava perfettamente
consapevole di questo e trovarlo parte integrante di una qualche specie di
gioco.
Il fatto era che Uther iniziava ad avere
anche un’altra singolare sensazione a proposito di lei: era come se avesse
qualcosa di appena familiare; nonostante fosse assolutamente certo di non
averla mai vista prima.
«Ci siamo forse già visti da qualche parte
prima?» gli domandò lei proprio a quel punto, distendendo un poco l’appuntita
meticolosità analitica del suo sguardo e optando per un tono ancora più da
conversazione casuale e assolutamente comune, di quel tipo che si potrebbe
svolgere con qualcuno che si è deciso di approcciare in un bar per pura
sportività.
Uther si stupì suo malgrado solo per un
momento, preso in contropiede da come lei sembrasse quasi avergli letto nel
pensiero. Ma subito dopo si sforzò con impegno doveroso di scartare
quell’assurda ipotesi, e di concentrarsi sul ben più realistico fatto che lei
stava semplicemente portando avanti quella che sembrava voler intendere essere
come un gioco a doppia lama, mostrando solo il lato tagliente più piacevole,
quello che voleva apparire come un approccio casuale e flirtante in un bar.
«Non credo…» iniziò, prima di sorridere
appena di nuovo, ma senza guardarla e con fare distratto. Molto bene, se quella
donna voleva giocare, lui non si sarebbe certo tirato indietro. E se anche non
aveva ancora idea esattamente di che gioco fosse, o meglio non riusciva ancora
a vedere l’altro lato della lama, quello probabilmente tagliente in modo
spiacevole, aveva tutta la curiosità e l’intenzione di partecipare alla sfida
finché non l’avesse scoperto. «Ma forse è un peccato.»
Con sua sorpresa vide un fugace ma
appuntito luccichio freddo e soddisfatto fiammeggiare nello sguardo della
donna. «Oh, sì. Sicuramente lo è, un vero peccato. Ma possiamo rimediare ora,
no? Che ne dici?»
Uther la guardò per un momento in un breve
silenzio. Durante il quale si chiese quanto veramente potesse rivelarsi
pericoloso quel lato della lama a doppio taglio che ancora non era scoperto,
perché qualcosa iniziava a dirgli che poteva superare le sue peggiori aspettative
a riguardo. Ma ricacciò indietro quella sensazione preoccupante e rispose con
calma «Perché no?», alzando di nuovo appena le spalle e sorridendole
nuovamente, in modo totalmente sogghignante e di sfida apparentemente complice.
«Mara.» disse lei a quel punto senza
preamboli, facendo appena un gesto con la mano a mezz’aria per fingere un accenno
di sarcastico inchino.
Lui esitò un momento, considerando
l’ipotesi di dare un nome finto. Ma non riuscì a capire perfettamente il perché
di quell’istintiva tentazione, perciò si limitò a dire, di nuovo con apparente
calma disponibilmente compartecipe «Uther.»
Lei sorrise appena, con felina
intelligenza. «Piacere allora, Uther.» rispose semplicemente tuttavia, con un
accenno di a malapena presunta casualità colloquiante «Che cosa ti porta da
queste parti?»
Uther alzò appena un sopracciglio. «Cosa
ti fa pensare che io non ci viva, da queste parti?» ritorse.
Lei sogghignò di nuovo appena, divertita,
ma Uther aveva la netta sensazione che un tipo del genere potesse divertirsi
solo con giochi che tesseva lei stessa, mai in condivisione di divertimento con
qualsiasi altra persona. «Non saprei. Un’intuizione. Forse due persone
straniere rispetto ad uno stesso luogo possono riconoscersi come entrambe estranee
al luogo in cui si trovano in quel momento. Non pensi?»
«Non ne sono sicuro.» rispose con
attenzione Uther. «Potrebbe essere. Dunque, anche tu non sei di qui.»
Mara rise sinceramente divertita, anche se
non pareva esserci nessuna vera e propria nota che Uther avrebbe accostato alla
gioia in quel suono. Tutt’altro. Aveva un che di implicitamente sinistro e
tagliente, come praticamente il resto di lei.
«Ottima deduzione.» si complimentò lei,
ironica e falsamente complice, fissandolo con intenzione attenta. Il suo
sguardo aveva una singolare capacità, nella sua intensità magnetica, di fare
sentire qualcuno come se lei potesse tranquillamente tenerlo inchiodato sul
posto semplicemente guardandolo in tal modo. E dava tutta l’impressione di
esserne perfettamente consapevole, di esserci quanto mai abituata, al punto da
ritenerla una cosa scontata e facile come un gioco di un gatto con una fragile
farfalla. «In effetti, sto ancora cercando di capire che cos’abbia di così
potenzialmente interessante questa città, dopotutto.»
Uther alzò appena le spalle, e bevve un
altro sorso dal suo bicchierino, senza comunque perderla d’occhio. «Dubito che
ne abbia affatto, a tutti gli effetti.»
«Tuttavia…» disse lei lentamente «Non
sembri qualcuno che è capitato qui per caso.»
Uther la guardò con un po’ più di durezza
nello sguardo. «Cosa te lo fa pensare?»
«Oh…» rispose con calma lei, come se
ritenesse di avere tutto il tempo del mondo a sua disposizione per continuare
quella sorta di gioco che lui ancora non riusciva del tutto a inquadrare
chiaramente «Era solo una speranza, per così dire. Speravo che potessi
mostrarmi qualcosa di interessante da vedere da queste parti.»
Uther alzò appena le spalle di nuovo. «Mi
dispiace… Sono abbastanza sicuro che non ci sia assolutamente niente da queste
parti degno di una gita turistica.»
Mara inclinò appena la testa da un lato,
studiandolo con rinnovata attenzione. Per un istante il suo sguardo e la sua
espressione divennero di botto completamente e assolutamente seri. Uther si
irrigidì istintivamente di concerto, e cercò di non darlo a vedere, sospettando
che di lì a poco avrebbe potuto iniziare a scoprire fin troppo chiaramente che
cosa quella donna voleva esattamente da lui. Da diversi minuti aveva la vivida
ma ancora puramente istintiva sensazione che lei volesse attaccarlo, in un modo
quanto mai fisico e diretto e pericolosamente ferente. E con una fredda
meticolosità micidialmente efficace.
L’istante successivo tuttavia lei stava di
nuovo riprendendo la sua maschera di falsa cordialità casuale e scherzosamente
complice, non per questo meno fredda a percepirsi, e sogghignando appena gli
disse, con un tono però più basso e profondo, come se avesse deciso di fargli
una confidenza «Chissà… Magari allora potrei conoscerlo io, un luogo
interessante da queste parti da mostrarti.»
Uther lo trovò, con un certo stupore, un
tentativo fin troppo banalmente scoperto ed evidente per appartenere ad una
trappola, specialmente a giudicare da una certa raffinatezza sottile e
intelligenza penetrante che sembrava emanare da quella donna. «Dici davvero?»
domandò, senza nascondere un’ironia venata di sarcasmo cinico.
‘Che cosa sei? Che cosa diavolo sei?’
stava pensando tra sé e sé, con crescente irritazione e un certo nervosismo. Ed
era qualcosa che gli risultava nuovo. Ogni altra volta che i ‘4 di picche’ si erano ritrovati per ore o giorni a non riuscire
a capire esattamente che cosa o chi avevano di fronte, riguardo a qualcuno dei
loro casi, era più che altro l’urgenza e la curiosità e l’impegno a farla da
padroni. Ma ora si sentiva improvvisamente insufficiente, da solo, per cercare
di capire questo. Se ne sentiva sgradevolmente in balia, come se avesse la
fastidiosa sensazione che effettivamente non sarebbe mai riuscito a capire le
intenzioni di quella donna o quali capacità non si premurasse troppo di
nascondere, non fino a quando lei stessa non avrebbe deciso di passare ad una
fase successiva del suo gioco in cui glielo avrebbe mostrato apertamente e
senza ombra di dubbio alcuno. Per esperienza, sapeva bene che quel momento
poteva essere un istante troppo tardi per lui per cavarsela decentemente.
La donna ridacchiò appena, con falsa
giovialità, alla sua risposta. Dopodiché si chinò in avanti sul tavolo verso di
lui e abbassò il tono della voce, lo sguardo magnetico incollato su di lui, e a
Uther ancora non sfuggì nemmeno per un momento la natura sinistramente
predatoria d’esso.
«Stavo solo pensando…» disse lei, con
accorta lentezza «Visto che siamo così bravi a chiacchierare tra noi, perché
non ci schiodiamo da questo inutile bar e andiamo a fare una passeggiata,
Uther?»
Uther trattenne a stento una smorfia per
l’utilizzo studiatamente e sgradevolmente confidenziale del suo nome, e le
rivolse invece un sorriso volutamente falso e attento. Dopotutto, quella tizia
non doveva essere così acuta come poteva sembrare, se riteneva che lui potesse
cadere in un tranello talmente palese come quello di accettare un invito a
seguirla in chissà quale strada poco trafficata della città in cui sarebbe
stato facilmente esposto ad un agguato. Ancora, tuttavia, lo irritava non
riuscire a capire che cosa fosse esattamente lei, o perché ci tenesse a
considerarlo una sorta di vittima, per ottenere che cosa esattamente? Quella
era la parte difficile di quando i ‘4 di picche’
avevano a che fare con… qualcosa… Fintanto che si trattava di semplici esseri
umani, era relativamente facile e quasi scontato scegliere tra i possibili
scopi che li spingevano a fare o dire qualcosa: i soldi, l’attrazione sessuale,
il potere, i sentimenti, oggetti da ottenere, il successo, la vendetta, persone
da trovare, la fama… e poco altro. Ma quando, come Uther aveva la sensazione in
quel momento, non si trattava di qualcosa di del tutto e puramente umano… gli
scopi potevano essere dedotti solo allorquando si fosse capito esattamente che
cosa si aveva di fronte.
Uther alzò appena le spalle e prese un
altro sorso del suo amaro, assumendo volutamente un’aria apparentemente
tranquilla e svagata. Aveva deciso che avrebbe semplicemente atteso di vedere
che cosa succedeva, perché in genere, se ci si limitava con la massima calma a
non assecondare minimamente chi si aveva di fronte, c’era almeno qualche
probabilità che le cose venissero in qualche modo esplicitate proprio dalla
persona in questione.
«Non credo sia una buona idea, ma grazie.
D’altra parte, credo che qui si stia molto comodi, in effetti.» rispose con
calma.
La donna che si era presentata come Mara
non sembrò tuttavia affatto delusa o irritata o sorpresa. Al contrario, si
rifece di nuovo indietro sulla sedia con tranquillità, ma il suo sorrisetto
astutamente divertito si accentuò, e mantenne il tono confidenzialmente
abbassato. «Non sei affatto uno stupido…» iniziò ad osservare con placida
calma.
Uther sollevò appena un sopracciglio,
rivolgendole un attento ma comunque moderatamente significativo sguardo
interrogativo.
«Tutt’altro, vero…?» proseguì
impassibilmente lei, osservandolo ancora con quella sorta di sinistro
divertimento. «Lo hai già capito. Non è così?»
Uther si limitò ad alzare ancora di più il
sopracciglio, fingendosi un po’ più sorpreso e confuso, anche se tra sé e sé
stava invece pensando semplicemente con soddisfazione affatto stupita ‘Ci
siamo. Puntualmente…’. Perché la sua semplice strategia sembrava stare dando i
soliti buoni frutti, dopotutto.
«E che cosa, dovrei aver capito?» chiese
semplicemente.
Mara sogghignò ancora un poco di più, come
se avesse perfettamente afferrato la finzione del suo comportamento. «Che non
sono come tutte le altre, no?» ribatté tuttavia, scherzando calcolatmente.
Uther rifletté rapidamente. D’accordo,
forse non sarebbe stato così semplice, dopotutto, ma si sentiva ancora
abbastanza fiducioso. Era comunque un inizio. E lui non aveva alcuna intenzione
di cedere. «Nessuno di noi è come tutti gli altri.» osservò, prendendola alla
larga e genericamente «Ma nel tuo caso… immagino che riguardo a quello che ti
riferisci, ce ne saranno altre come te.»
Era logico, dopotutto. Se quella donna non
era semplicemente un’umana, dovevano esserci altri individui che condividevano
la sua natura, qualsiasi essa fosse.
Un freddo baluginio sinistro e soddisfatto
passò come un fugace lampo negli occhi di lei, che sogghignò di nuovo, con un
significativo apprezzamento, dando a Uther la sgradevole sensazione di aver
appena detto qualcosa che aveva involontariamente e del tutto erroneamente
tirato acqua al mulino di lei più che al suo.
«Oh, sì, indubbiamente.» rispose Mara,
sempre tenendolo inchiodato con quello sguardo intento «D’altro canto, avrei
dovuto aspettarmelo… che tu fossi in grado di riconoscerci. Dopotutto, conosci
uno di noi molto bene…»
Uther si irrigidì appena, istintivamente.
Ora non aveva la più pallida idea di che cosa lei stesse parlando. E questo non
gli piaceva per niente. Si limitò perciò a sostenere lo sguardo di lei, il suo
un poco più indurito, senza rispondere nulla. Stava iniziando ad avere una
brutta sensazione, ma così sottile che non riusciva ad afferrarla. E ancora non
capiva, non capiva troppe cose. Ma aveva anche la sensazione che la sua
capacità di gestire la situazione con preciso calcolo e per quanto possibile a
suo vantaggio gli stesse rapidamente scivolando via tra le dita, come se
improvvisamente ciò che fino ad un attimo prima pensava di stare impugnando abbastanza
decentemente si fosse tramutato in acqua.
«E si dà il caso…» proseguì Mara, il suo
sguardo attento che sembrava incresciosamente capace di cogliere esattamente
quelle sue sensazioni, o almeno capace di darne tutta l’impressione «Oh, che combinazione,
no? Si dà il caso che costui sia proprio una nostra comune conoscenza.»
Uther alzò anche l’altro sopracciglio, e
il tono gli uscì ora apertamente duro come il suo sguardo. «Ovvero…?» domandò
semplicemente. Quella sottile brutta sensazione si stava acuendo, come se lui non
riuscisse a fare niente per impedirlo.
Mara stava di punto in bianco scoppiando
in una breve risata, priva di gioia e volutamente esagerata. «Vuoi forse dire
che Danny non ti ha mai parlato di me? Che maleducato…»
E Uther raggelò.
Gli occorsero diversi secondi, ma sapendo
perfettamente quanto fosse strategicamente pessimo mostrarsi in qualche modo in
balia di qualcuno che stesse usando una precisa strategia, si sforzò di
replicare in tono ancora forzatamente neutro «Danny, dici? Perché questo nome
dovrebbe dirmi qualcosa?»
Mara emise un piccolo sbuffo sarcastico e
scosse appena la testa, un angolo delle labbra ancora piegato in quel sogghigno
freddamente divertito. «D’accordo, cambiamo gioco Uther…» disse, il tono ora un
po’ più cupo e ancora più sinistro. Si chinò nuovamente un poco in avanti sul
tavolo. «Giochiamo a carte scoperte. So benissimo che conosci Danny molto bene.
Anche se il vostro rapporto di colleghi non è lontanamente paragonabile a
quello che ho avuto io con lui… Sì, sicuramente conosco Danny decisamente
meglio di quanto possa conoscerlo tu. Molto meglio. Perché io conosco quello
che Danny è veramente, molto più di questa sua facciata da brava caricatura di
cane. Io conosco il lupo che Danny è… o, forse, almeno che è stato. Ma non è
qualcosa che si può lasciare del tutto da parte, essere un lupo, come se fosse
una scelta. Io conosco la vera natura di Danny, Uther. Potresti dire
altrettanto?»
Uther ancora non riusciva a capire, ma si
stava decisamente alterando. «Bene.» annunciò, in tono duro e compatto.
«Poniamo per un momento che io stia capendo di che diavolo tu stia parlando… Ma
prendi questa affermazione per le pinze… Che cosa vuoi da me?»
Mara sbatté appena le palpebre, fingendosi
innocentemente stupita, e tornando ad appoggiarsi all’indietro alla sedia.
«Come, non te l’ho forse appena detto? Mi piacerebbe semplicemente che venissi
a fare una passeggiata con me. Vorrei mostrarti un luogo davvero molto
interessante…»
Uther continuò a guardarla duramente, ma
aprì uno spiraglio in quell’occhiata per dedicarle uno sguardo assai scettico e
affatto amichevolmente sarcastico, inviandole chiaramente il messaggio
implicito che se davvero sperava di fregarlo con così poco, poteva anche
lasciare perdere.
Tra sé e sé, tuttavia, nella sua testa si
stava scatenando una tempesta di pensieri che si scontravano burrascosamente e
tragicamente in catastrofici incidenti multipli. Perché suo malgrado ora aveva
un corposo sospetto… quello di aver capito che aveva per la prima volta in vita
sua davanti un altro mezzo lupo che non fosse Danny… e che quel mezzo lupo non
solo sembrava effettivamente conoscere Danny, ammesso che non stesse
spudoratamente mentendo… ma a quanto pare ne sapeva fin troppo, non solo su
Danny, ma anche su di lui e sui ‘4 di picche’. La
prospettiva si scaravoltava: Uther realizzò che non
era una semplice vittima scelta casualmente, ma che quella donna – o mezza lupa
– aveva puntato miratamente su di lui, e conosceva il suo aspetto anche se lui
non l’aveva mai vista prima. Uther si stava ancora chiedendo magistralmente:
che diavolo sta succedendo? Ma non poteva concedersi abbastanza tempo per
tentare di capirlo, o di prendere una decisione opportuna, o che almeno lo
sembrasse; perché lì era da solo, non c’era nessun’altro dei ‘4 di picche’, e se quella che aveva di fronte era davvero una
mezza lupa, lui sapeva perfettamente – conoscendo le capacità di Danny – che
avrebbe potuto, se solo lo voleva, staccargli la testa in un attimo e senza
troppo sforzo.
Come se gli avesse letto nel pensiero, o
come se avesse una particolare – ma forse non troppo per un mezzo lupo –
capacità di fiutare il timore, Mara sorrise di nuovo in quel suo modo
pungentemente acuto e freddamente sinistro.
«Oh, non devi preoccuparti… Non ho intenzione
di farti alcun male. In caso contrario, ti garantisco che non saremmo stati qui
seduti a dialogare amabilmente tutto questo tempo… Non è mia abitudine perdere
tanto tempo in queste sciocchezze quando ho intenzione di liberarmi di
qualcuno. Ma nel tuo caso, Uther… sebbene tu sia solo un essere umano, devo
confessare che sono molto incuriosita. Vedi, ho sentito circolare delle voci.
Voci singolari. Si dice che tu abbia in qualche modo “ammaestrato” un lupo,
tempo fa. Ora, vedi, io so che i lupi non sono ammaestrabili. Mai. In nessun
caso. È proprio questo ciò che li distingue sostanzialmente dai cani. Quindi…
questo che cosa fa esattamente di te, Uther? Colui che ha rivelato la natura di
cane di Danny, o colui che si è illuso che un lupo possa diventare un cane,
invece di fingere solamente di esserlo, o forse persino di auto-illudersi di
poter essere un cane? Ammetterai che è un caso davvero interessante!».
E di nuovo rise, portando appena indietro
la testa, con una risata priva di ogni gioia e volutamente calcata, chiaramente
pregna di un deliziato divertimento di cui era certa essere l’unica a
beneficiare in quel frangente.
Ora Uther non tacque perché lo scelse
strategicamente, ma perché non aveva più nulla da dire. I suoi stessi pensieri
si erano come spenti di colpo, e si sentiva la testa stranamente vuota, e come
se le forze lo stessero abbandonando lasciandogli il corpo come quello di una
bambola di pezza o poco più. Ora sapeva davvero che aveva perso, e che era
inutile tentare di illudersi di poter gestire quella situazione: ora sapeva
perfettamente che era inutile fare finta di non essere effettivamente e
completamente in balia di quella che aveva di fronte. O forse lo era stato fin
dall’inizio, fin da ancora prima di poterlo anche solo immaginare, fin da
quando lei era venuta a cercarlo.
Mara lo stava fissando di nuovo. «Penso di
poterti mostrare molto più sulla nostra natura… sulla natura che condivido con
Danny… di quanto tu possa aver mai capito o immaginato da che hai conosciuto
per la prima volta un mezzo lupo, Uther.» gli disse, la voce ridotta a poco più
che un mormorio basso e cupo, ma invitante e convinto, certo come la notte.
Uther rimase ancora in silenzio.
E dopo qualche momento, la vide
sogghignare un poco di più, con evidente completa soddisfazione. E seppe così,
prima ancora di averlo capito lui, che lei per prima gli aveva letto in qualche
modo addosso la resa.
Soundtrack (e credits) :
Closing time (Semisonic)
Wicked
Game (versione originale di Chris Isaak / o la cover di Emika)
– da cui ho preso il titolo del capitolo
Note
dello scribacchiatore:
Lo
stile di questo capitolo è… volutamente un po’ convoluto e fumosamente
addensato su se stesso. Come dichiarato dallo stesso
capitolo, ci sono qui una serie di “giochi potenzialmente malsani”, da quello
di Uther con se stesso e i suoi pensieri, a quello tra Uther e Mara (che forse
finisce per racchiudersi esattamente sulle stesse linee di quello di Uther con
se stesso: ad un certo punto mi è sorta l’immagine, rileggendolo per
correggerlo, di Mara che nella sua natura predatrice sa esattamente su quale
preciso punto della sua preda andare a chiudere le fauci per averla
definitivamente vinta alla fine, ovvero quando si è stancata di giocare e
basta). Spero, a parte le mie intenzioni sullo stile, che sia leggibile senza
farsi venire il mal di testa o giù di lì :p Anche questo
capitolo mi è venuto un po’ più lunghetto della media che cerco di tenere… ma
ogni volta che l’ho riletto, mi dispiaceva tagliare qualcosa. Ad ogni modo,
come sempre sono interessato alle vostre osservazioni in merito, se vi va di
farmela sapere!
D’accordo…
è definitivo: le ambientazioni da bar (o pub) in questa storia hanno un che di
decisamente ricorrente, nevvero? E, no, la serie non è ancora finita, sappiatelo! ;p Ma in realtà questa
tradizione per i ‘4 di picche’ è cominciata molto
prima in senso cronologico di trama…come scoprirete un giorno o l’altro ;)
Ebbene,
ho finito per scegliere questo capitolo per rendervi partecipi di una cosa. Il
nome ‘Mara’ è inteso come una delle versioni del nome ‘Marzanna’
(ci sono anche altre versioni di questo nome), ovvero il nome di una dea
appartenente alla cultura dell’Europa dell’est, dalla Polonia fino a Russia e
Bielorussia (almeno, da quel che ho capito), che rappresenta la morte e la
rinascita nel ciclo della vita della natura in senso pagano (la morte in
autunno e inverno, la rinascita in primavera). O almeno, così ho letto in giro
(e non ne so molto di più di così, almeno per ora). Nel caso potesse
incuriosirvi, prima ho scelto il nome Mara, poi ho scoperto la sua origine,
quindi ho scoperto l’esistenza di una certa serie tv di cui mi sono innamorato
(fino al punto di scrivere pure una fanfiction su di
essa) in cui c’è un personaggio che alcuni chiamano proprio ‘Marzanna’. Coincidenze (i personaggi della serie su cui ho
scritto una fanfiction dissentirebbero
;p). Non preoccupatevi, non vi serve assolutamente sapere nulla della fanfiction che sto scrivendo o della serie da cui prende
spunto per continuare a leggere questa storia ;)